1. Ai fini ed agli effetti delle disposizioni di cui al presente decreto legislativo si intende per:
a) «lavoratore»: persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un'arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari. Al lavoratore cosi definito è equiparato: il socio lavoratore di cooperativa o di società, anche di fatto, che presta la sua attività per conto delle società e dell'ente stesso; l'associato in partecipazione di cui all'articolo 2549, e seguenti del codice civile; il soggetto beneficiario delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24 giugno 1997, n. 196, e di cui a specifiche disposizioni delle leggi regionali promosse al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro o di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro; l'allievo degli istituti di istruzione ed universitari e il partecipante ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ivi comprese le apparecchiature fornite di videoterminali limitatamente ai periodi in cui l'allievo sia effettivamente applicato alla strumentazioni o ai laboratori in questione; i volontari del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e della protezione civile; il lavoratore di cui al decreto legislativo 1° dicembre 1997, n. 468, e successive modificazioni;1
b) «datore di lavoro»: il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo;
c) «azienda»: il complesso della struttura organizzata dal datore di lavoro pubblico o privato;
d) «dirigente»: persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa;
e) «preposto»: persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa;
f) «responsabile del servizio di prevenzione e protezione»: persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all'articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi;
g) «addetto al servizio di prevenzione e protezione»: persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all'articolo 32, facente parte del servizio di cui alla lettera l);
h) «medico competente»: medico in possesso di uno dei titoli e dei requisiti formativi e professionali di cui all'articolo 38, che collabora, secondo quanto previsto all'articolo 29, comma 1, con il datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi ed è nominato dallo stesso per effettuare la sorveglianza sanitaria e per tutti gli altri compiti di cui al presente decreto;
i) «rappresentante dei lavoratori per la sicurezza»: persona eletta o designata per rappresentare i lavoratori per quanto concerne gli aspetti della salute e della sicurezza durante il lavoro;
l) «servizio di prevenzione e protezione dai rischi»: insieme delle persone, sistemi e mezzi esterni o interni all'azienda finalizzati all'attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori;
m) «sorveglianza sanitaria»: insieme degli atti medici, finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all'ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa;
n) «prevenzione»: il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell'integrità dell'ambiente esterno;
o) «salute»: stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un'assenza di malattia o d'infermità;
p) «sistema di promozione della salute e sicurezza»: complesso dei soggetti istituzionali che concorrono, con la partecipazione delle parti sociali, alla realizzazione dei programmi di intervento finalizzati a migliorare le condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori;
q) «valutazione dei rischi»: valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell'ambito dell'organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza;
r) «pericolo»: proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni;
s) «rischio»: probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione;
t) «unità produttiva»: stabilimento o struttura finalizzati alla produzione di beni o all'erogazione di servizi, dotati di autonomia finanziaria e tecnico funzionale;
u) «norma tecnica»: specifica tecnica, approvata e pubblicata da un'organizzazione internazionale, da un organismo europeo o da un organismo nazionale di normalizzazione, la cui osservanza non sia obbligatoria;
v) «buone prassi»: soluzioni organizzative o procedurali coerenti con la normativa vigente e con le norme di buona tecnica, adottate volontariamente e finalizzate a promuovere la salute e sicurezza sui luoghi di lavoro attraverso la riduzione dei rischi e il miglioramento delle condizioni di lavoro, elaborate e raccolte dalle regioni, dall'Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (ISPESL), dall'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) e dagli organismi paritetici di cui all'articolo 51, validate dalla Commissione consultiva permanente di cui all'articolo 6, previa istruttoria tecnica dell'ISPESL, che provvede a assicurarne la più ampia diffusione;
z) «linee guida»: atti di indirizzo e coordinamento per l'applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza predisposti dai Ministeri, dalle Regioni, dall'ISPESL e dall'INAIL e approvati in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano;
aa) «formazione»: processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi;
bb) «informazione»: complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro;
cc) «addestramento»: complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l'uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro;
dd) «modello di organizzazione e di gestione»: modello organizzativo e gestionale per la definizione e l'attuazione di una politica aziendale per la salute e sicurezza, ai sensi dell'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, idoneo a prevenire i reati di cui agli articoli 589 e 590, terzo comma, del codice penale, commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela della salute sul lavoro;
ee) «organismi paritetici»: organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, quali sedi privilegiate per: la programmazione di attività formative e l'elaborazione e la raccolta di buone prassi a fini prevenzionistici; lo sviluppo di azioni inerenti alla salute e alla sicurezza sul lavoro; l'assistenza alle imprese finalizzata all'attuazione degli adempimenti in materia; ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla legge o dai contratti collettivi di riferimento;
ff) «Responsabilità sociale delle imprese»: integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle aziende e organizzazioni nelle loro attività commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate.
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
Sommario: Premessa: il modello collaborativo - 1. Il catalogo normativo dei debitori di sicurezza - 2. Modello di agente e abbandono della funzione - 3. Fonte della posizione di garanzia e poteri impeditivi - 4. Pluralità dei garanti della sicurezza - 5. Garante da poco tempo o assente al momento dell'infortunio - 6. Cooperazione colposa e concorso di condotte colpose - 7. Cooperazione nel delitto colposo di soggetto non titolare di posizione di garanzia - 8. Il concetto di datore di lavoro - 9. Dirigenti - 10. Direttore di stabilimento, direttore dell'area tecnica, direttore generale - 11. Il dirigente pubblico - 12. Preposti - 13. I rapporti tra dirigente e preposto e la figura del dirigente-preposto - 14. I ``quadri'' - 15. Il presidente della cooperativa e il socio lavoratore - 16. Il proprietario o possessore di immobile - 17. L'amministratore di condominio - 18. Il curatore del fallimento e il possessore a seguito di vendita in sede fallimentare - 19. Manifestazione fieristica - 20. La locazione - 21. Il concetto di lavoratore: dal lavoratore subordinato al lavoratore agile e al crowdworker - 22. Il socio dipendente - 23. Lavoratori occasionali o a titolo di cortesia o per amicizia - 24. Lavoratori tuttofare in nero o sprovvisti di permesso di soggiorno - 25. Lavoratori all'estero - 26. Lavoratori socialmente utili, apprendisti, adolescenti, domestici - 27. I garanti della sicurezza sismica: professionisti, costruttori, pubblici amministratori e dirigenti, datori di lavoro, responsabili della protezione civile, datori di lavoro - 28. Progettisti, installatori, manutentori di impianti termici - 29. Il responsabile autocontrollo HACCP - 30. Soggetti responsabili per incendio accidentale o appiccato da terzi - 31. Obbligo di vigilanza di dirigenti scolastici ed insegnanti - 32. Stato di necessità e interessi economici - 33. La buona fede del datore di lavoro - 34. Dolo eventuale e colpa cosciente - 35. Caso fortuito e forza maggiore - 36. Responsabilità per colpa e principio di affidamento - 37. Il concetto di ``prevenzione'' e l'art. 2087 c.c. - 38. Le norme tecniche e le linee guida - 39. Piste da sci - 40. Il mondo dello spettacolo - 41. Velivoli - 42. La sicurezza nello studio professionale - 43. RSA, empori commerciali, alberghi, ristoranti, bar, circoli privati, tiro a segno - 44. Porto, navigazione, pesca - 45. I lavoratori sportivi - 46. Piscine e bagni - 47. Giurisdizione dello Stato italiano e procedimento a carico di militare Nato - 48. La pianificazione idrogeologica - 49. Enduro e volontaria esposizione a pericolo della persona offesa - 50. Caporalato e violazioni antinfortunistiche - 51. Scuola-lavoro .
``In materia di prevenzione antinfortunistica, si è passati da un modello `iperprotettivo', interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facciano un corretto uso, imponendosi contro la loro volontà), a un modello `collaborativo', in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori, in tal senso valorizzando il testo normativo di riferimento (art. 20 D.Lgs. n. 81/2008), il quale impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e agire con diligenza, prudenza e perizia''.
``La vigente tutela penale dell'integrità psicofisica dei lavoratori risente della scelta di fondo del legislatore di attribuire rilievo dirimente al concetto di prevenzione dei rischi connessi all'attività lavorativa e dj ritenere che la prevenzione si debba basare sulla programmazione globale del sistema di sicurezza aziendale, nonché su un modello collaborativo e informativo di gestione del rischio da attività lavorativa, dovendosi così ricomprendere nell'ambito delle omissioni penalmente rilevanti tutti quei comportamenti dai quali sia derivata una carente programmazione dei rischi''.
``Si è passati da un modello `iperprotettivo', interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori ad un modello `collaborativo' in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori''. (Conformi Cass. 8 novembre 2022, n. 42035; Cass. 2 aprile 2021, n. 13209; Cass. 31 marzo 2021, n. 12149).
``L'organizzazione dell'impresa ha prodotto una nomenclatura non coincidente con quella del D.Lgs. n. 81/2008; ma è a questa che occorre fare riferimento e ciò importa che te varie qualifiche devono essere considerate nella loro sostanza e quindi tradotte nelle posizioni prevenzionistiche''. (V. anche sub art. 3, par. 17, Cass. n. 37763 del 12 settembre 2019).
``La giurisprudenza di legittimità, sin dagli anni novanta del secolo scorso, ha elaborato la `teoria del garante', muovendo dall'osservazione - e dalla valorizzazione - del significato profondo che deve riconoscersi agli `obblighi di garanzia', discendenti dallo speciale vincolo di tutela che lega il soggetto garante, rispetto ad un determinato bene giuridico, per il caso in cui il titolare dello stesso bene sia incapace di proteggerlo autonomamente (Sez. IV, n. 4793/1991, est. Battisti). È compito dell'interprete procedere alla selezione delle posizioni di garanzia, per tutti i casi della vita -non tipizzati dal legislatore- corrispondenti ad una situazione di passività, in cui versi il titolare del bene protetto, ma non meno complesso si presenta il compito dell'interprete chiamato a definire il contenuto della condotta protettiva anche in relazione a garanti già individuati dalla legge. Occorre guardarsi dall'idea ingenua, e foriera di fraintendimenti, in base alla quale la sfera di responsabilità penale di ciascuno possa essere sempre definita e separata con una rigida linea di confine e che questa stessa linea crei la sfera di competenza e responsabilità di alcuno escludendo automaticamente quella di altri; che particolarmente complessa risulta la selezione dei garanti e l'individuazione di aree di competenza pienamente autonome, che giustifichino la compartimentazione della responsabilità penale, specialmente nell'ambito della figura della cooperazione colposa; che l'interprete deve avere sempre presente lo scopo del diritto penale, che è proprio quello di tentare di governare tali intricati scenari, nella prospettiva di ricercare responsabilità e non capri espiatori''.
Condannata per un infortunio sul lavoro, la legale rappresentante di una s.r.l. eccepisce che ``la presenza di un `responsabile della sicurezza e delle misure di prevenzione e protezione' valesse ad escludere la propria responsabilità siccome quello titolare iure proprio di obblighi in materia di sicurezza del lavoro, permanendo in capo al datore di lavoro solo un dovere di alta vigilanza''. La Sez. IV replica: ``La prima puntualizzazione che si impone, a fronte della estrema valorizzazione che si pretende di fare della qualità di `responsabile della sicurezza' (peraltro talvolta con opaca sovrapposizione con quella di `responsabile del servizio di prevenzione e protezione'), è che l'emersione dal mondo del lavoro di qualifiche, denominazioni e in generale di una nomenclatura ben più ampia di quella utilizzata dal legislatore prevenzionistico non è in grado di innovare il catalogo normativo dei debitori di sicurezza. Quelle qualifiche e le relative posizioni devono in ogni caso essere ricondotte ad una delle figure tipizzate: datore di lavoro, dirigente, preposto e così seguitando. Ne deriva che solo la coincidenza della situazione fattuale a quella positivizzata - e quindi il compendio dei poteri attribuiti ad un soggetto - è in grado di svelare l'esatta collocazione della posizione analizzata rispetto agli obblighi prevenzionistici. Solo ove si tratti del `soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, del soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa' potrà essere ritenuta la posizione datoriale, come definita dall'art. 2, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008, in continuità normativa con la previgente legislazione (in questa sede non interessa la peculiare disciplina prevista per le pubbliche amministrazioni). Allo stesso modo, solo ove venga accertato trattarsi di `persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa', si potrà concludere per la qualità di dirigente [art. 2, lett. d), D.Lgs. n. 81/2008]; e, quando si sia in presenza di persona che `in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa' si profilerà la figura del preposto (e si omette qui di considerare le ulteriori figure contemplate dalla legislazione prevenzionistica, stante la non pertinenza al caso in esame). La definizione dell'organigramma (la formale investitura) assume quindi valore solo se alla denominazione si accompagni l'attribuzione dei correlati poteri; in presenza di tali condizioni si determina una titolarità a titolo originario degli obblighi prevenzionistici connessi alla peculiare posizione (dovendosi tener conto, altresì, che in forza del principio di effettività, oggi espresso dall'art. 299, D.Lgs. n. 81/2008, va considerato anche l'esercizio in concreto dei poteri caratteristici delle diverse figure). Vi è poi la titolarità derivata di poteri/funzioni attinenti la materia della sicurezza e della salute dei lavoratori, fondata su un atto di delega, i cui connotati sono stati scolpiti prima dalla giurisprudenza e poi, con l'art. 16 del D.Lgs. n. 81/2008, dal legislatore (peraltro in termini sostanzialmente consonanti alla elaborazione giurisprudenziale). In tal caso, il dato essenziale è il perimetro di intervento definito dalla delega, che può avere un contenuto più o meno ampio, potendo tradursi nel conferimento di un singolo compito prevenzionistico gravante sul datore di lavoro (ad esempio, gestitone delle attività di formazione ed informazione dei lavoratori) o addirittura di tutti i doveri prevenzionistici delegabili (e pertanto non l'elaborazione della valutazione dei rischi né la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione: art. 17, D.Lgs. n. 81/2008). Se di ciò si tiene debito conto, risulta di scarso significato che ad altri fosse stata assegnata la qualifica di `responsabile della sicurezza', dovendosi accertare quali poteri gli fossero stati conferiti prima di attribuirgli una determinata posizione di garanzia. È tuttavia indubitabile che solo ove egli avesse assunto la qualità di datore di lavoro potrebbe ipotizzarsi l'esclusione di responsabilità dell'imputata per l'infortunio, giacché l'assunzione delle attribuzioni dirigenziali esiterebbe al più in una imputazione del fatto tanto al soggetto designato che alla imputata. In questo senso è pertinente anche l'evocazione dell'istituto della delega di funzioni prevenzionistiche, poiché l'indagine doveva verificare le effettive attribuzioni del soggetto indicato, che potevano in astratto farne un garante iure proprio o un garante derivato''.
``In tema di colpa, la valutazione in ordine alla prevedibilità dell'evento va compiuta avendo riguardo anche alla concreta capacità dell'agente di uniformarsi alla regola cautelare in ragione delle sue specifiche qualità personali, in relazione alle quali va individuata la specifica classe di agente modello di riferimento''.
``In tema di colpa le regole precauzionali vanno stabilite ed individuate in base alla migliore scienza ed esperienza esistente in un determinato contesto ed in un determinato momento se e in quanto ritenuta conoscibile da parte del c.d. agente modello. Tale ultimo concetto non è un concetto di tipo statistico (ovvero, come si comporta in una determinata situazione la media degli agenti di quel tipo, ovvero che conoscenza della regola precauzionale secondo la migliore scienza ed esperienza ha la media degli agenti di quel tipo), quanto piuttosto un concetto di tipo qualitativo, ovvero fa riferimento, avuto riguardo al tipo specifico di regola precauzionale, all'astratta conoscibilità che di tale regola può avere un agente modello, ovvero un agente che responsabilmente cerchi di prevedere e prevenire il rischio connesso all'espletamento di determinate attività, con le conoscenze esistenti secondo la migliore scienza ed esperienza se ed in quanto accessibili al singolo agente, avuto riguardo alle caratteristiche e al tipo di contesto sociale in cui opera l'agente concreto''.
``In tema di reati colposi (nella specie, lesioni colpose commesse con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro), la `prevedibilità' altro non significa che porsi il problema delle conseguenze di una certa condotta commissiva od omissiva avendo presente il cosiddetto `modello d'agente' (quello dell'homo eiusdem condicionís et professionis), ossia il modello dell'uomo che svolge paradigmaticamente una determinata attività, che importa l'assunzione di certe responsabilità, nella comunità, la quale esige che l'operatore concreto si ispiri a quel modello e faccia tutto ciò che da questo ci si aspetta. In relazione a un'ipotesi di incendio colposo, nel giudizio di `prevedibilità', richiesto per la configurazione della colpa, va considerata anche la sola possibilità per il soggetto di rappresentarsi una categoria di danni sia pure indistinta potenzialmente derivante dalla sua condotta, tale che avrebbe dovuto convincerlo ad adottare più sicure regole di prevenzione: in altri termini, ai fini del giudizio di prevedibilità, deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell'evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione. In definitiva, quindi, l'agente-modello, nell'accingersi a eseguire un'attività caratterizzata da rischi, deve considerarne in termini generali i possibili sviluppi dannosi e usare tutti gli accorgimenti necessari per eliminare o quanto meno ridurre, nei limiti del possibile, il rischio''.
L'amministratrice unica di una s.r.l. viene condannata per il reato di lesione personale colposa in danno di un dipendente infortunatosi a un impianto di trattamento dei rifiuti installato sul luogo di lavoro e non munito delle prescritte protezioni. A sua discolpa, sostiene che ``all'epoca dei fatti l'esercizio di fatto delle funzioni di amministratore della s.r.l. era demandato al padre, nelle more deceduto''. La Sez. IV ribatte che l'imputata ``ricopriva la carica di direttore generale'', e, in quanto tale, costituiva ``figura apicale nella quale confluisce il carico di responsabilità anche in materia di sicurezza, senza che occorra delega di sorta, essendo destinatario iure proprio dei precetti antinfortunistici''. E le rimprovera di non essersi resa ``conto dell'intollerabile ed elettivo rischio derivante dall'adozione di procedura operativa inadeguata e dalla mancanza d'adozione dei necessari presidi''. In ogni caso, aggiunge, ``il modello dell'`homo eiusdem condicionis et professionis', ossia il modello dell'uomo che svolge paradigmaticamente una determinata attività, importa l'assunzione di certe responsabilità, nella comunità, la quale esige che l'operatore si ispiri a quel modello e faccia tutto ciò che da questo ci si aspetta'', e ``un tale modello impone, nel caso estremo in cui il garante si renda conto di non essere in grado d'incidere sul rischio, l'abbandono della funzione, previa adeguata segnalazione al datore di lavoro''.
Peraltro, per un'analisi critica del modello dell'homo eiusdem condicionis et professionis':
La figura dell'agente modello dell'homo eiusdem condicionis et professionis che si comporta secondo quanto idealmente previsto in relazione ad una specifica (e lecita) attività umana ``è stata sottoposta a critica dalla giurisprudenza più recente e accorta in tema di colpa, la quale ha sottolineato che valutare la condotta diligente di una persona, comparandola con quella di un agente ideale, in quanto tale virtuoso, onnisciente e onnipotente, equivale a pretendere da quella stessa persona un comportamento doveroso basato su parametri essenzialmente soggettivi e, spesso, irrealistici. In tale prospettiva, l'agente concreto è chiamato a misurare il suo agire con quello ottimale dell'agente modello, e la divergenza fra i due comportamenti identifica la colpa, quale scostamento dal comportamento diligente, ritenuto esigibile perché (teoricamente) possibile all'agente modello. Ciò implica che la individuazione della pretesa (e quindi del comportamento doveroso) costituisca vera e propria opera creatrice del giudice, come tale foriera di un esercizio di discrezionalità giudiziale confliggente con la necessità di determinatezza della norma incriminatrice e di affermazione di responsabilità solo in presenza di colpevolezza (così, in motivazione, Cass. 6 settembre 2021 n. 32899)''. Dove, dunque, si richiama la sentenza sul caso Viareggio.
Di fondamentale rilievo, anche nella materia di sicurezza del lavoro, è il tema della posizione di garanzia. Il punto di partenza è l'art. 40, comma 2, c.p.: ``non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo''. Anche a questo riguardo sono basilari gli insegnamenti della Corte di Cassazione, in particolare, sotto i profili inerenti alla fonte della posizione di garanzia, e ai poteri impeditivi:
``Sussiste una posizione di garanzia a condizione che: un bene giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo; una fonte giuridica anche negoziale abbia la finalità di tutelarlo; tale obbligo gravi su una o più persone specificamente individuate; queste ultime siano dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che l'evento dannoso sia cagionato''.
``La causalità della colposa omissione dell'obbligo di impedire un evento non deriva esclusivamente dalla titolarità in capo al garante di poteri direttamente impeditivi dello specifico rischio concretizzatosi, potendosi anche affermare sulla base dell'omissione di meri poteri sollecitatori dell'agire altrui''.
``Sussiste una posizione di garanzia a condizione che: un bene giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo; una fonte giuridica - anche negoziale - abbia la finalità di tutelarlo; tale obbligo gravi su una o più persone specificamente individuate sulla base di un'investitura formale o l'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante; queste ultime siano dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che l'evento dannoso sia cagionato''. (Conforme Cass. 5 ottobre 2020 n. 27540).
``Ai fini dell'operatività della così detta `clausola di equivalenza' di cui all'art. 40, comma 2, c.p., non è necessario che il titolare della posizione di garanzia sia direttamente dotato dei poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, essendo sufficiente che egli disponga dei mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad impedire l'evento dannoso''.
``Si distingue tra posizioni di controllo e posizioni di protezione. Le posizioni di controllo sono quelle riferite al controllo di una fonte di pericolo e presuppongono in capo al garante l'esistenza di una posizione di dominio sull'oggetto del controllo. Le posizioni di protezione presuppongono l'affidamento al garante del compito di tutelare determinati beni da pericoli esterni. Nel caso che occupa, si versa, in tema di posizione di garanzia di controllo. Il principio di precisione e determinatezza impone, poi, che l'obbligo di garanzia sia previsto in termini puntuali, cioè attraverso una norma chiara che consenta al soggetto di prevedere le conseguenze delle proprie omissioni; lo stesso principio, combinandosi con quello di inviolabilità della libertà personale, impone altresì che sia chiaramente individuata la persona del garante, titolare di poteri giuridici impeditivi: in assenza . di poteri giuridici impeditivi l'obbligo di vigilanza rilevante ai fini della responsabilità penale omissiva si tramuterebbe in un obbligo di mera sorveglianza''.
``Non è condivisibile l'affermazione che il garante, perché risponda dell'evento, debba essere dotato di tutti i poteri impeditivi dell'evento, essendo richiesto all'agente che ponga in essere solo quelli da lui esigibili; la posizione di garanzia richiede l'esistenza dei poteri impeditivi che, peraltro, possono anche concretizzarsi in obblighi diversi (per es. di natura sollecitatoria), e di minore efficacia, rispetto a quelli direttamente e specificamente diretti ad impedire il verificarsi dell'evento. Del resto, nella gran parte dei casi i garanti non dispongono sempre e in ogni situazione di tutti i poteri impeditivi che invece, di volta in volta, si modulano sulle situazioni concrete. Saranno proprio le situazioni concrete a determinare l'ambito dei poteri impeditivi esigibili da parte del garante e questi poteri impeditivi possono essere limitati ad un mero obbligo di attivarsi. Insomma, all'obbligo giuridico di impedire l'evento deve accompagnarsi l'esistenza di poteri fattuali che consentano all'agente di porre in essere, almeno in parte, meccanismi idonei ad evitare il verificarsi dell'evento. In conclusione: l'agente non può rispondere del verificarsi dell'evento se, pur titolare di una posizione di garanzia, non disponga della possibilità di influenzare il corso degli eventi. Per converso, chi ha questa possibilità non risponde se non ha un obbligo giuridico di intervenire per operare la modifica del decorso degli avvenimenti''. (V. pure Cass. 12 aprile 2019, n. 16029).
Utile l'analisi della posizione di garanzia per contatto sociale in:
``Le obbligazioni possono sorgere da rapporti contrattuali di fatto, in quei casi in cui taluni soggetti entrano tra loro in contatto. Benché questo `contatto' non riproduca le note ipotesi negoziali, pur tuttavia ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. Altra fonte dell'obbligo di garanzia è quella dell'assunzione volontaria ed unilaterale dei compiti di tutela, al di fuori di un preesistente obbligo giuridico, fondato sul presupposto dell'assunzione di fatto dell'onere, della presa in carico del bene che ne accresce le possibilità di salvezza. Tale ambito ricorre in presenza di un'iniziativa spontanea nell'assunzione dei compiti di tutela, come nei casi dei vicini di casa che, in assenza dei genitori, si prendono cura del bambino; dei volontari di pronto soccorso che, avvertiti, soccorrono il ferito in stato d'incoscienza; si tratta di obbligazione giuridica connessa all'assunzione unilaterale del ruolo di garante. Ampia è la giurisprudenza di questa Corte di legittimità su tali posizioni di garanzia che nascono dal contatto sociale e quindi dalla presa in carico volontaria del bene giuridico protetto. Alla luce di questo consolidato orientamento giurisprudenziale, appare comunque evidente che, al di là di un'assunzione formale della posizione di garanzia, la fonte dell'obbligo giuridico può radicarsi in molte situazioni della vita quotidiana in cui di fatto si realizza un contatto fra consociati in cui uno dei due assume per impegni contrattuali pregressi, di fatto ed anche spontaneamente un ruolo di garanzia rispetto all'altro''.
``Se sono più i titolari della posizione di garanzia, ciascun garante risulta per intero destinatario dell'obbligo di impedire l'evento fino a che non si esaurisca il rapporto che ha originato la singola posizione di garanzia, e quando l'obbligo di impedire un evento ricade su più persone che debbano intervenire o intervengano in momenti diversi, il nesso di causalità tra la condotta omissiva o commissiva del titolare di una posizione di garanzia non viene meno per effetto del successivo mancato intervento da parte di altro soggetto, parimenti destinatario dell'obbligo di impedire l'evento, configurandosi un concorso di cause ex art. 41, comma 1, c.p.''.
``Quand'anche vi fosse la presenza di garanti di livello inferiore a quello datoriale, dovrebbe pure considerarsi che, qualora vi siano più garanti, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge; e che la responsabilità del datore di lavoro non è esclusa dal comportamento di altri destinatari degli obblighi di prevenzione che abbiano a loro volta dato occasione all'evento, quando quest'ultimo risulti comunque riconducibile alla mancanza od insufficienza delle predette misure e si accerti che le stesse, se adottate, avrebbero neutralizzato il rischio del verificarsi di quell'evento''. (Conforme Cass. 13 dicembre 2022 n. 47015).
``Posto che la disciplina in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro dettata dal D.Lgs. n. 81/2008 individua specificamente gli obblighi penalmente sanzionati con riguardo alle diverse posizioni di garanzia che vengono in rilievo, non v'è dubbio che ciascuno risponde delle violazioni a sé imputabili e che, rispetto a talune, vi è il concorso di responsabilità in capo a diversi garanti. Per quanto riguarda le misure dettate a tutela della salute e sicurezza dei lavoratori nei cantieri temporanei o mobili, il Titolo IV del citato decreto prevede, tra l'altro e per quanto qui interessa, gli obblighi e le sanzioni per i datori di lavoro, i coordinatori (per la progettazione o l'esecuzione dei lavori), i preposti. Non rileva, pertanto, che il coordinatore e il preposto - sanzionati per le violazioni da ciascuno commesse - abbiano estinto le contravvenzioni loro contestate, pagando l'oblazione in via amministrativa. Non si tratta, difatti, di responsabilità conseguente ad una (asserita) delega di funzioni del datore di lavoro, ma di responsabilità, per fatto proprio, connessa alla diversa qualifica da ciascuno rivestita, che si aggiunge, e non si sostituisce, a quella gravante invece sul datore di lavoro ed eventualmente delegabile, rispettando le rigorose condizioni di legge, a (altri) soggetti tecnicamente competenti e dotati dei poteri decisionali e di intervento propri del delegante''.
``Quando fra i diversi garanti intercorre un rapporto gerarchico, il titolare della posizione di garanzia gerarchicamente sovraordinato non deve fare quanto è tenuto a fare il garante subordinato, ma deve scrupolosamente accertare se il subordinato è stato effettivamente garante, ossia se ha effettivamente posto in essere la condotta di protezione a lui richiesta in quel momento''.
``In tema di infortuni sul lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia, per cui l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione. Pertanto, nel caso di specie sia al datore di lavoro, sia al R.S.P.P. - incombeva l'obbligo di individuare non solo i rischi connessi all'operazione di pulitura della macchina, ma altresì le procedure più corrette per eseguire in sicurezza tale operazione''.
In questo quadro, può collocarsi il fenomeno della codatorialità nelle reti d'impresa, e, cioè, dell'imputazione del rapporto di lavoro non ad un unico soggetto ma a più soggetti distinti (circa questo fenomeno v. Cass., Sez. Lav., 8 settembre 2016 n. 17775, ove si rileva che ben può ``esistere un rapporto di lavoro che vede nella posizione del lavoratore un'unica persona e nella posizione di datore di lavoro più persone rendendo così solidale l'obbligazione del datore di lavoro''). Non senza notare che la fonte della posizione di garanzia di datore di lavoro può essere originata vuoi dall'investitura formale, vuoi dall'esercizio di lato delle funzioni (v. al riguardo sub art. 299, paragrafo 1). Circa i rapporti di lavoro effettuati in distacco o in codatorialità nell'ambito dei contratti di rete v. la circolare n. 7 del 2018 dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro.
Un'interessante notazione è formulata da:
Per il duplice infortunio, uno mortale, accaduto in una cava nel corso di un'attività di movimentazione di massi al fine di creare un terrapieno funzionale alla successiva estrazione di roccia, la Sez. IV conferma la condanna di uno dei due datori di lavoro di una s.r.l., ma non dell'altro datore di lavoro, assolto per non aver commesso il fatto: ``La sconsiderata condotta di uno dei datori di lavoro che ha, peraltro in maniera del tutto estemporanea, impartito l'ordine di lavorare sul fondo della cava mentre il medesimo movimentava pesantissimi massi in posizione sopraelevata rispetto ai due sciagurati operai è, in realtà, talmente grave ed imprudente da avere interrotto ogni nesso di causalità rispetto alla posizione dell'altro datore di lavoro: con la descritta condotta, il primo datore di lavoro ha assunto in proprio la posizione di garanzia, così provocando l'affievolimento e non già il rafforzamento, della posizione di garanzia dell'altro datore di lavoro astrattamente equiordinato''.
Contro la pluralità di fonti della posizione di garanzia in capo al medesimo soggetto mette in guardia:
Annulla con rinvio la sentenza di condanna per un infortunio occorso a un meccanico in pensione: ``da un verso, conferma che all'imputato deve essere attribuita la qualità di `datore di lavoro di fatto' in relazione all'obbligo di garantire la sicurezza dell'area in cui si è svolto l'infortunio; poi collega l'esercizio dei tipici poteri di fatto previsti dall'art. 299 D.Lgs. n. 81/2008 all'autorizzazione concessa al lavoratore a entrare nell'area di sua proprietà e a operarvi con strumenti inadeguati; quindi, richiamando l'art. 2051 c.c., fonda la posizione di garanzia dell'imputato su norma del tutto estranea alla materia antinfortunistica, affermando che egli aveva l'obbligo di garantire la sicurezza del luogo di cui è proprietario; pervenendo, infine, ad ascrivergli la violazione della specifica norma cautelare violata nell'art. 71 D.Lgs. n. 81/2008, che non attiene alla conformazione del luogo di lavoro ma all'utilizzo di attrezzatura inidonea''.
Condannata per l'infortunio a un lavoratore addetto a un macchinario per la produzione della pasta lunga privo di adeguato sistema di protezione atto a evitare il contatto accidentale con le mani dell'operatore, l'amministratrice di una s.r.l. deduce che ``non ricopriva più, al momento dell'infortunio, la posizione di vertice dell'azienda'' e che ``il ruolo datoriale ricoperto era cessato qualche giorno prima dell'infortunio''. La Sez. IV sottolinea ``la natura della violazione riscontrata, inerente cioè alla mancata previsione di un presidio idoneo a scongiurare un rischio governabile'', e rileva che ``trattasi di omissione che neppure la difesa ha preteso di ricollegare a un'iniziativa adottata pochi giorni prima dell'infortunio e che va certamente ricondotta alla organizzazione della procedura lavorativa di cui si discute, predisposta allorquando l'imputata ricopriva il ruolo gestionale al quale è collegata la sua responsabilità''.
Per l'infortunio mortale occorso al dipendente di un'impresa appaltatrice investito da una pala meccanica in un reparto interdetto al traffico pedonale, furono condannati due direttori generali della s.p.a. committente, l'uno subentrato all'altro circa un mese prima dell'infortunio. Il primo direttore generale lamenta ``la posizione di garanzia riconosciutagli per fatti occorsi successivamente alla cessazione del proprio incarico'', in quanto ``non sarebbe possibile ritenere la sussistenza di una responsabilità omissiva sine die nei suoi confronti anche per fatti avvenuti dopo l'intervenuta cessazione del suo incarico''. La Sez. IV conferma, invece, la condanna, oltre che -si badi- del secondo direttore generale, anche del primo (così come naturalmente del datore di lavoro dell'infortunato). Sottolinea ``la sua penale responsabilità facendo riferimento ai principi dettati a disciplina della materia degli infortuni sul lavoro, in particolar modo riguardanti la rilevanza della c.d. causalità additiva o cumulativa, inerente alle concorrenti posizioni di altri garanti rispetto allo specifico rischio considerato''. Ritiene ``la ricorrenza di condotte colpose omissive poste in essere dall'imputato, nel periodo di espletamento delle sue funzioni di direttore generale, eziologicamente collegate alla verificazione del decesso al lavoratore, in particolar modo consistite in mancate previsioni all'interno del DUVRI e nell'omessa adozione di adeguate misure di sicurezza''. Evoca il ``principio, reiteratamente espresso dalla giurisprudenza di legittimità, per cui, in materia di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge per cui l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione''. Precisa che, ``allorquando l'evento sia determinato dalla sommatoria delle condotte omissive ascrivibili a diversi garanti (in termini di gestori del rischio), intervenuti in tempi diversi, è configurabile il nesso causale tra l'evento e ciascuna delle riscontrate omissioni, essendo ognuna di esse essenziale alla sua produzione''. Spiega che ``la causalità additiva o cumulativa costituisce applicazione della teoria condizionalistica di cui all'art. 41 c.p., giacché, essendo ciascuna omissione essenziale alla produzione dell'evento, l'eliminazione mentale di ognuna di esse fa venir meno l'esito letale, tenuto conto dell'insufficienza di ciascuna delle altre omissioni a determinarlo''. Aggiunge che, ``a considerare tutti i documenti riferibili all'imputato, non vi era stata un'adeguata valutazione dei vari rischi presenti nel reparto, con conseguente imposizione di specifiche regole e di indicazioni riguardanti la suddetta area'', poiché nel DUVRI redatto l'imputato ``non aveva considerato aspetti di assoluto rilievo ai fini della sicurezza nel reparto, non considerandone alcuni specifici rischi e predisponendo prescrizioni inadeguate a prevenire il pericolo di investimenti, senza, peraltro, provvedere alla collocazione di una cartellonistica adeguata''.
Per l'infortunio occorso a un verniciatore-collaudatore furono condannati due amministratori delegati quali datori di lavoro susseguitisi nel tempo di una s.p.a. Colpa degli amministratori delegati ``non aver adeguatamente valutato il rischio connesso all'attività specifica, nonché aver omesso di formare in modo adeguato il lavoratore''. Uno degli amministratori delegati deduce ``di aver assunto la posizione di garanzia datoriale solo 34 giorni prima dell'infortunio'', e che ``non poteva quindi in un lasso di tempo così breve prevedere ed essere messo a conoscenza della situazione pericolosa, trattandosi di un'operazione di esecuzione di un reparto (collaudo) di un'azienda di grandi dimensioni che non può essere ricondotta alla diretta gestione del rischio da parte del datore di lavoro''. L'altro amministratore delegato sostiene, in particolare, che, all'epoca dell'infortunio, ``aveva cessato tutti gli incarichi e non rivestiva la qualifica di datore di lavoro''. La Sez. IV conferma invece le condanne. Quanto all'amministratore delegato all'epoca dell'infortunio, osserva che, ``nel momento in cui aveva assunto la carica, aveva istituito il registro delle non conformità proprio nel reparto collaudo e tale monitoraggio aveva evidenziato in appena 15 giorni il verificarsi di dodici inconvenienti, e ciò doveva rendere evidente anche al nuovo amministratore delegato che quello specifico segmento della produzione meritava un'attenzione immediata e un intervento specifico; mentre a nessuno degli addetti al reparto collaudo erano state date né direttive verbali né tantomeno scritte sulla procedura da osservare''. Con riguardo all'amministratore delegato cessato al momento dell'infortunio, la Sez. IV sottolinea ``l'esistenza, in quella specifica fase della lavorazione, di una prassi risalente nel tempo, da tutti tollerata ed evidentemente nota in azienda, che non doveva sfuggire a chi ricopriva l'incarico di datore di lavoro mantenendo in capo a sé tutte le attribuzioni in materia di sicurezza, come tale, ricoprente posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti in servizio nello stabilimento''.
La Sez. IV ritiene ``del tutto ininfluente la circostanza che l'imputata abbia rivestito la funzione di legale rappresentante per un breve periodo, dal momento che ciò non la esimeva dagli obblighi di vigilanza e dalle responsabilità connesse al suo ruolo''.
``Il datore di lavoro, seppure subentrato nella posizione di garanzia circa quattro mesi prima dell'infortunio, aveva comunque avuto la materiale possibilità di verificare la sicurezza del macchinario in questione e di rimuovere le fonti di pericolo per i lavoratori addetti al suo utilizzo, così come imposto dall'art. 71 del D.Lgs. n. 81/2008, ed avrebbe dovuto immediatamente attivarsi in tal senso, considerato peraltro che modifica apportata al tornio era agevolmente riscontrabile al semplice raffronto con le altre macchine dello stesso tipo presenti in azienda e conformi alle caratteristiche costruttive originarie. Si è escluso che potesse attribuirsi alcun rilievo, ai fini della esclusione della responsabilità dell'imputato, al fatto che la modifica al sistema di blocco del portellone del macchinario fosse stata apportata da altro soggetto ed in epoca antecedente al suo subentro nella posizione di garanzia, posto che la disciplina antinfortunistica configura a carico del datore di lavoro e degli altri soggetti obbligati all'osservanza delle misure di prevenzione l'obbligo di attuare le prescritte misure di sicurezza e di disporre ed esigere che esse siano rispettate, e ciò automaticamente, in relazione all'acquisto delle mansioni esercitate e della posizione di preminenza rispetto ai lavoratori, sin dall'inizio dell'impiego di macchinari ed impianti. Conseguentemente, deve ribadirsi che il subentro di un soggetto nel ruolo di garante della sicurezza, a fronte di una situazione di rischio per i lavoratori riconducibile alla condotta attiva del predecessore, non può valere di per sé ad esonerare da responsabilità il nuovo garante per non aver assolto all'obbligo di fornire misure di prevenzione utili ed efficaci, e a vanificare il collegamento causale tra tale omissione e il fatto lesivo eventualmente derivatone''.
``L'individuazione della responsabilità penale dell'imputato, all'interno della società della quale è organo apicale, non è stata attribuita in via automatica, bensì tenendo conto dell'effettivo contesto organizzativo e delle condizioni in cui egli ha operato (avendo preso parte alle riunioni periodiche presso l'azienda), il che toglie pregio al rilievo che egli era in carica da meno di due mesi allorché si verificò l'infortunio, tenuto conto della natura della norma prevenzionale violata, direttamente riferibile alla pericolosità del macchinario presso il quale la neo assunta si procurò le lesioni subite''.
``Quanto alla circostanza che al momento del fatto il dirigente fosse in ferie, l'obbligo di attuare le prescritte misure di sicurezza e di disporre ed esigere che esse siano rispettate si assume automaticamente in relazione all'acquisto delle mansioni esercitate e della posizione di preminenza rispetto ai lavoratori sin dall'inizio dell'impiego di macchinari ed impianti senza che rilevi la legittima assenza per ferie dell'obbligato. Nel caso in esame, l'addebito che viene mosso al dirigente prescinde dalla sua presenza sul posto al momento del fatto, ma si ancora alla circostanza che le modifiche dei luoghi di lavoro erano un fatto prevedibile, con la conseguente necessità di riperimetrare i passaggi pedonali e le zone di inibizione. A fronte di ciò e nonostante la sua posizione di garanzia e di concreta gestione del rischio, il dirigente nulla aveva disposto, né aveva lasciato specifiche deleghe a suoi collaboratori''.
Per un incendio di vaste proporzioni divampato durante le operazioni di travaso di preparati pericolosi e altamente infiammabili effettuate nel reparto laccatura di uno stabilimento, un lavoratore muore e tre restano feriti a causa delle ustioni. Vengono condannati il direttore generale della divisione della s.p.a. e il direttore dello stabilimento. Il direttore di stabilimento aveva assunto l'incarico due mesi prima dell'evento. Al riguardo, la Sez. IV prende atto che ``gli era stata conferita la delega in materia di sicurezza e, in particolare, il potere di assumere tutte le misure necessarie per il rispetto della normativa sulla sicurezza'', e che ``non era emerso alcun problema di effettività della delega, disponendo il delegato di un budget che poteva utilizzare autonomamente''. Ne desume che ``rientrava tra i suoi poteri quello di mettere a disposizione dei lavoratori muletti antideflagranti in misura sufficiente per la tutela della loro salute, con la conseguenza che era a lui addebitabile la relativa violazione della normativa antinfortunistica, per l'errore di valutazione circa la sufficienza di soli due carrelli antideflagranti per sopperire alla esigenza di tre reparti''. Aggiunge che ``egli era pienamente consapevole dei pericoli insiti nelle lavorazioni, per essere stato preavvertito dai rappresentanti sindacali dei lavoratori che sovente si verificavano incidenti fonte di pericolo per gli operai, in particolare precedenti incendi, tanto che era stato più volte sollecitato a prestare attenzione alle tematiche della sicurezza sul lavoro''.
``La circostanza dell'assunzione della carica di legale rappresentane della s.p.a. da parte dell'imputato appena 28 giorni prima dell'infortunio, non escludeva che egli prendesse conoscenza della situazione sia pur in quel ristretto arco temporale ed assumesse opportune iniziative''.
Diversa l'ispirazione di:
Infortunio a un operaio intento ad effettuare la sostituzione di un rotolo di tessuto esaurito con uno nuovo su una linea di estrusione in zona calandra, e che, nell'atto di inserire il capo della bobina di tessuto, rimaneva colpito a una mano tra i cilindri della calandra per le carenze nei ripari destinati a prevenire i contatti con i rulli in movimento. Condannato, in particolare, l'amministratore delegato della s.p.a. datrice di lavoro dell'infortunato (separatamente fu giudicato il presidente del consiglio di amministrazione). Ma la Sez. IV annulla la condanna senza rinvio perché il fatto non sussiste. Sostiene, infatti, che ``l'assunzione di una determinata carica, che comporti l'acquisizione di una posizione di garanzia, implica l'accertamento della sussistenza della concreta possibilità dell'agente di uniformarsi alla regola violata, valutando la situazione di fatto in cui ha operato'', e che, ``in particolare, occorre stabilire tempi e modi di apprensione delle informazioni connesse al ruolo svolto in ordine al giudizio sull'esigibilità del comportamento dovuto, circostanza indispensabile per fondare uno specifico rimprovero per un atteggiamento antidoveroso della volontà''. Rileva che, ``diversamente opinando, si porrebbe in capo al datore di lavoro un'inaccettabile responsabilità penale `di posizione', tale da sconfinare in responsabilità oggettiva, in luogo di una invece fondata sull'esigibilità del comportamento dovuto''. Precisa che, ``nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia''. Prende atto che, a propria discolpa, l'imputato deduce che, assunta ``la carica di amministratore delegato e la qualifica di datore di lavoro, si era immediatamente attivato per farsi carico della gestione delle complesse tematiche riguardanti lo stabilimento produttivo di rilevanti dimensioni, per acquisire le conoscenze della situazione attuale e per valutare i necessari miglioramenti'', ma che ``nei sei mesi intercorsi tra l'assunzione della carica e l'infortunio per cui si procede egli non aveva potuto esplorare l'adeguatezza dell'organizzazione della sicurezza e dell'analisi del rischio di cui al DVR ereditato dal predecessori'', e ``attendeva gli esiti di una generale ed approfondita attività di revisione e implementazione della valutazione del rischio affidata alle conoscenze e all'esperienza di una impresa terza specializzata''. Rileva che, stando ai magistrati di merito, l'imputato, ``alla data di assunzione dell'incarico, avrebbe dovuto acquisire preventivamente notizie circa la situazione aziendale in materia di sicurezza e così porsi in condizione di adempiere immediatamente ai propri doveri''. Subito obietta ai magistrati di merito di ``non aver svolto un adeguato accertamento in ordine all'elemento soggettivo e, in particolare, alla possibilità di pretendere il rispetto della regola cautelare violata'', e, più nello specifico, di non aver verificato ``le ragioni del mancato avvio di iniziative in tema di sicurezza del lavoro e se, nel lasso temporale intercorrente tra la data di investitura quale legale rappresentante e quella del sinistro, alla luce delle dimensioni della società e della tipologia di attività espletata, egli poteva ragionevolmente mettersi in condizione di conoscere ogni eventuale problema connesso al lavoro dei dipendenti, operare gli approfondimenti tecnici necessari, anche attraverso deleghe a persone esperte ed effettuare una corretta valutazione dei rischi''. Considera ``generalmente auspicabile, in un ambito di normali rapporti tra amministratori che si succedono tra loro, che prima della designazione il subentrante venga preventivamente informato della situazione della società in relazione a tutti i risvolti, tra cui quello della sicurezza sul lavoro''. Ma nota che ``non è detto che ciò sia realmente avvenuto'', e che ``occorre anche stabilire i tempi per provvedere alle verifiche dello stato dei luoghi, per comunicare coi precedenti addetti, per predisporre gli appositi interventi tecnici qualora necessari, ecc.''. Conclusione: ``è mancata un'analisi complessiva circa la possibilità del titolare della posizione di garanzia di incidere concretamente ai fini dell'eliminazione degli inconvenienti riscontrati, che avevano provocato l'evento lesivo''.
A proposito del concorso di persone nel reato colposo (quali l'omicidio o la lesione personale consistente in un infortunio sul lavoro o una malattia professionale, ovvero il disastro colposo), v., oltre a Cass. 3 novembre 2022 n. 41340 (sub art. 90, paragrafo 7) e a Cass. 2 maggio 2022 n. 16801:
Nell'occuparsi di un caso d'incendio colposo in un complesso edilizio ospitante anche uffici dell'amministrazione comunale, la Sez. IV osserva: ``Per aversi concorso colposo, occorrono: a) la non volontà di concorrere alla realizzazione del fatto criminoso; b) la volontà di concorrere alla realizzazione della condotta (comune o altrui); c) la previsione o prevedibilità ed evitabilità dell'evento. Il secondo elemento differenzia la cooperazione colposa dal mero concorso di azioni colpose indipendenti, in cui più individui contribuiscono a causare l'evento colposo senza che abbiano la coscienza e volontà di concorrere nella altrui o con l'altrui azione colposa''. ``Per aversi cooperazione nel delitto colposo, non è necessaria la consapevolezza della natura colposa dell'altrui condotta, né la conoscenza dell'identità delle persone che cooperano, essendo sufficiente la coscienza dell'altrui partecipazione nello stesso reato, intesa come consapevolezza, da parte dell'agente, del fatto che altri soggetti - in virtù di un obbligo di legge, di esigenze organizzative correlate alla gestione del rischio, o anche solo in virtù di una contingenza oggettiva e pienamente condivisa - sono investiti di una determinata attività''. ``Nel caso di specie, in cui ad essere interessato dall'incendio è stato un edificio di 28 piani, la gestione del rischio incendio è necessariamente attività complessa alla quale partecipano figure differenti, con competenze sì autonome, ma pur sempre collegate dalle esigenze organizzative della gestione del rischio. Quel che rileva, dunque, è che la condotta dell'amministratore di condominio, in violazione delle regole cautelari, sia stata causa del ritardo nell'avvio delle procedure di attivazione dei soccorsi nello spegnere le fiamme; che a tale ritardo si siano sommati altri autonomi ritardi, determinati a loro volta dalla violazione di altre regole cautelari, da parte di altri soggetti tutti investiti della gestione del rischio incendio; che tutti tali ritardi abbiano concorso alla evoluzione delle fiamme nell'evento incendio''.
``Sussiste la cooperazione nel delitto colposo quando il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge ovvero da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio o, quantomeno, sia contingenza oggettivamente definita della quale gli stessi soggetti risultino pienamente consapevoli''.
``Ai fini del riconoscimento della cooperazione nel reato colposo non è necessaria la consapevolezza della natura colposa dell'altrui condotta, né la conoscenza dell'identità delle persone che cooperano, ma è sufficiente la coscienza dell'altrui partecipazione nello stesso reato, intesa come consapevolezza del coinvolgimento di altri soggetti in una determinata attività, fermo restando che la condotta cooperativa dell'agente deve, in ogni caso, fornire un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell'evento, non voluto da parte dei soggetti tenuti al rispetto delle norme cautelari''.
``Per aversi cooperazione nel delitto colposo, non è necessaria la consapevolezza della natura colposa dell'altrui condotta, né la conoscenza dell'identità delle persone che cooperano, essendo sufficiente la coscienza dell'altrui partecipazione nello stesso reato, intesa come consapevolezza, da parte dell'agente, del fatto che altri soggetti - in virtù di un obbligo di legge, di esigenze organizzative correlate alla gestione del rischio, o anche solo in virtù di una contingenza oggettiva e pienamente condivisa - sono investiti di una determinata attività, con una conseguente interazione rilevante anche sul piano cautelare, nel senso che ciascuno è tenuto a rapportare prudentemente la propria condotta a quella degli altri soggetti coinvolti''.
``La cooperazione colposa descrive un legame ed un'integrazione tra le condotte che opera non solo sul piano dell'azione, ma anche sul regime cautelare, richiedendo a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto'' (nella fattispecie, concorso del datore di lavoro con il figlio nella causazione di un infortunio a lavoratore).
Circa la c.d. colpa relazionale v.:
``Sussiste la cooperazione nel delitto colposo quando il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge ovvero da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio o, quantomeno, sia contingenza oggettivamente definita della quale gli stessi soggetti risultino pienamente consapevoli''.
``È responsabile ai sensi dell'art. 113 c.p. di cooperazione nel delitto colposo l'agente il quale, trovandosi a operare in una situazione di rischio da lui immediatamente percepibile, pur non rivestendo alcuna posizione di garanzia, contribuisca con la propria condotta cooperativa all'aggravamento del rischio, fornendo un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell'evento, ancorché la condotta del cooperante in sé considerata appaia tale da non violare alcuna regola cautelare, essendo sufficiente l'adesione intenzionale dell'agente all'altrui azione negligente, imprudente o inesperta, assumendo così sulla sua azione il medesimo disvalore che, in origine, è caratteristico solo dell'altrui comportamento''.
(Per il richiamo all’art. 113 c.p. con riguardo all’RLS v. Cass. 25 settembre 2023 n. 38914, sub art. 50 in Premessa, e con riguardo al consulente esterno Cass. 21 dicembre 2018 n. 57937, sub art. 16, paragrafo 14).
Premessa: Una pietra miliare è ormai Cassazione penale, Sez. IV - Sentenza n. 8476 del 27 febbraio 2023 (u.p. 17 gennaio 2023) - Pres. Serrao - Est. Ricci - P.M. (Diff.) Casella - Ric. R. Premette che ``la delega della cui portata si discute è conferita dal consiglio di amministrazione ad un consigliere ed ha, pertanto, in astratto le caratteristiche delle delega gestoria contemplata dal diritto societario all'art. 2381 c.c.'', e che ``mentre nel caso della delega di funzioni contemplata dall'art. 16 D.Lgs. n. 81/2008 viene in rilievo la traslazione di alcuni poteri e doveri di natura prevenzionistica, nel caso della delega gestoria vengono in rilievo criteri di ripartizione dei ruoli e delle responsabilità tra gli amministratori in ambito societario caratterizzato da strutture più o meno articolate''. Ammette che, ``non di rado, peraltro, anche nella giurisprudenza della Suprema Corte la differenza fra i due tipi di delega non è stata sufficientemente enucleata, con conseguente confusione di piani che invece vanno tenuti distinti''. Osserva che ``la delega di funzioni di cui all'art. 16 D.Lgs. n. 81/2008 è lo strumento con il quale il datore di lavoro (e non anche il dirigente, pure investito a titolo originario come il preposto dal TUSL di compiti a tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro) trasferisce i poteri e responsabilità per legge connessi al proprio ruolo ad altro soggetto: questi diventa garante a titolo derivativo, con conseguente riduzione e mutazione dei doveri facenti capo al soggetto delegante''. Chiarisce che, invece, ``l'istituto della delega gestoria attiene alla ripartizione delle attribuzioni e delle responsabilità nelle organizzazioni complesse ed è preordinato ad assicurare un adempimento più efficiente della funzione gestoria (in quanto evidentemente più spedita) ed al contempo la specializzazione delle funzioni, tramite valorizzazione delle competenze e delle professionalità esistenti all'interno dell'organo collegiale''. Nota che, ``nelle società di capitali più semplici, in cui figura un amministratore unico titolare della ordinaria e straordinaria amministrazione, questi assume anche la posizione di garanzia datoriale'', là dove ``nelle società di capitali in cui, invece, l'amministrazione sia affidata ad un organo collegiale quale il consiglio di amministrazione, l'individuazione della posizione datoriale è più complessa, anche in ragione della molteplicità di possibili modelli di amministrazione offerti dalla normativa societaria''. Sottolinea che, ``nell'ipotesi in cui non siano previste specifiche deleghe di gestione, l'amministrazione ricade per intero su tutti i componenti del consiglio e tutti i componenti del consiglio sono investiti degli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legislazione a carico del datore di lavoro''. Subito aggiunge che ``di frequente accade, tuttavia, che il consiglio di amministrazione deleghi le proprie attribuzioni o solo alcune di esse ad uno o più dei suoi componenti o ad un comitato esecutivo (c.d. board) attraverso la c.d. delega gestoria disciplinata dall'art. 2381 c.c.'', e che ``tale ultima norma detta le condizioni per accedere al modello in esame, i limiti entro cui è possibile ricorrevi e gli effetti che l'adozione del modello determina nel rapporto fra delegati e deleganti''. Avverte che, ``nel caso della delega gestoria il dovere di controllo che permane in capo ai membri del Cda non delegati deve essere dunque ricondotto agli obblighi civilistici di cui agli artt. 2381, comma 3, c.c. e 2932, comma 2, c.c. così come modificato dalla riforma del diritto societario attuata con il D.Lgs. n. 6/2003 che ha abolito il generale dovere di vigilanza di tutti gli amministratori sul generale andamento della società'', e che ``sulla base di tali disposizioni il consiglio di amministrazione nel suo complesso, oltre a determinare il contenuto della delega, conserva la facoltà di impartire direttive ed è tenuto sulla base delle informazioni ricevute a valutare l'adeguatezza dell'assetto della società e a valutare sulla base delle relazioni informative dei delegati il generale andamento della gestione (art. 2381, comma 3, c.c.)''. Con tre ulteriori avvertenze:
- ``tutti gli amministratori sono solidalmente responsabili se essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose (art. 2932, comma 2, c.c.)'';
- ``alla concentrazione dei poteri e delle attribuzioni in capo ad alcuni soggetti, giustificata dalla necessità di un più proficuo esercizio, deve corrispondere in via generale una esclusiva responsabilità, sempre che si accerti che il consiglio delegante abbia assicurato il necessario flusso informativo ed esercitato il potere dovere di controllo sull'assetto organizzativo adottato dal delegato'';
- ``nell'ottica di accrescimento della tutela del lavoratore, a seguito della delega gestoria l'obbligo di adottare le misure antinfortunistiche e di vigilare sulla loro osservanza si trasferisce dal consiglio di amministrazione al delegato, rimanendo in capo al consiglio di amministrazione residui doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo''.
A) Un insegnamento della Corte Suprema concerne l'individuazione del datore di lavoro di fatto :
``L'infortunato lavorava di fatto come dipendente dei coniugi gestori di un negozio di ferramenta, si era occupato dell'assistenza al padre anziano del marito, svolgeva lavori agricoli nell'azienda di famiglia e alcuni servizi (carico e scarico merce, sistemazione negli scaffali) presso il negozio di ferramenta. In definitiva svolgeva mansioni di badante e aiuto magazzino al nero. le condotte omissive delle doverose misure di prevenzione facevano capo ad entrambi i titolari delle posizioni di garanzia ai sensi dell'art. 299 D.Lgs. n. 81/2008. Ciò che rileva è il concreto esercizio dei poteri di datore di lavoro da parte degli imputati nei confronti dell'infortunato, operaio tuttofare, da cui derivava l'obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (ex artt. 2087 c.c. e 18 D.Lgs. n. 81/2008), nella specie fornendogli gli strumenti di protezione individuale, informandolo e formandolo in relazione ai propri compiti e ai rischi connessi, prevedibili ed evitabili''.
``La definizione di datore di lavoro accolta dal D.Lgs. n. 81/2008 non si identifica con la relativa qualifica civilistica, essendo invece attribuito decisivo rilievo all'assetto organizzativo concreto del lavoro, alla soggezione del lavoratore alle scelte organizzative e di spesa del soggetto a cui vengono imputati i doveri e la indicata posizione di garanzia. Nella fattispecie l'infortunato svolgeva un'attività formalmente autonoma ma di fatto subordinata alle direttive ed alle scelte dell'imputato, che gli commissionava di volta in volta il lavoro, gli forniva tutti gli strumenti di lavoro ed anche il mezzo di locomozione della ditta da utilizzare durante il lavoro e per recarsi in cantiere. Inoltre l'imputato gli doveva fornire le relative istruzioni in relazione ad ogni evenienza anche di carattere tecnico che si fosse presentata nel corso del lavoro. La circostanza che l'infortunato lavorasse anche per altre ditte non appare dirimente ai presenti fini, poiché le qualifiche, rispettivamente di lavoratore e di datore di lavoro, secondo l'assetto della normativa antinfortunistica di cui al citato Testo Unico n. 81, fanno perno sugli indicati criteri della organizzazione e direzione del lavoro e sulla mancanza di autonomia del lavoratore nell'organizzazione e nell'espletamento delle relative incombenze lavorative. Ne deriva che l'imputato era titolare di una posizione di supremazia e di garanzia nei confronti dell'infortunato, dalla quale discendevano gli obblighi posti dalla normativa antinfortunistica a carico del datore di lavoro, e comunque anche a carico del committente ai sensi dell'art. 71 T.U.''.
``La giurisprudenza di legittimità è costante nell'interpretare l'art. 299 D.Lgs. n. 81/2008 nel senso che l'individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale. Secondo il diritto vivente, pertanto, la disposizione in esame concretizza, dal punto di vista normativo, il principio di effettività, nel senso che assume il ruolo di garante colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, senza necessità di un elemento probatorio documentale o formale, potendo il giudice del merito fondare il convincimento anche su testimonianze od altri accertamenti fattuali''. (In senso conforme Cass. 27 giugno 2019, n. 28097).
``La giurisprudenza di legittimità ammette la possibilità di desumere la qualifica datoriale e la posizione di garanzia da elementi rivelatori, in fatto, dello svolgimento delle funzioni tipiche del datore di lavoro, prediligendo il principio di effettività''.
Con un'avvertenza:
``Con specifico riguardo al principio di effettività, in base al quale assume la posizione di garante colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, si sarebbe dovuto accertare se i comportamenti descritti fossero occasionali o conseguenti ad una prassi, collegati ad una ripartizione di fatto di sfere di gestione all'interno dell'organizzazione aziendale, onde spiegare in base a quali indici concreti si potesse ritenere che l'imputato avesse di fatto assunto e svolto i compiti propri del datore di lavoro, non essendo a tal fine sufficiente quanto indicato a proposito della presenza dell'imputato sul luogo al momento dell'infortunio, all'aver dato disposizione al lavoratore di chiudere una finestra ed all'aver fornito la scala''.
Emblematico questo caso:
Infortunio mortale a un lavoratore formalmente assunto al pari di altri colleghi da una s.r.l. limitatasi, ``non essendo però a ciò autorizzata, a somministrare illecitamente, sotto la mera apparenza di un contratto di subappalto, manodopera a un'altra s.r.l.'', appaltatrice di lavori di costruzione di un complesso edilizio. Si accerta che la prima s.r.l. ``era completamente priva di qualsiasi organizzazione, non aveva alcuna struttura aziendale indispensabile per l'attività che sulla carta esercitava impiegando circa 200 dipendenti, quali uffici amministrativi, magazzini, né disponeva di alcuno strumento di lavoro e/o macchinario necessario nel settore edile, ma si limitava ad assumere formalmente operai dal sud Italia per portarli nella provincia di Bolzano, ove poi lavoravano alla dirette dipendenze e sotto la direzione degli imprenditori locali, tra cui il titolare dell'altra s.r.l.'', condannato per omicidio colposo. La Sez. III conferma la condanna, ``stante il ruolo di datore di lavoro rivestito dall'imputato nei confronti degli operai (solo) formalmente alle dipendenze di altra s.r.l.''.
In questo quadro, si è anche sottolineato:
``È stato lo stesso imputato ad ammettere il proprio ruolo di datore di lavoro ed a rivendicare come attività da lui compiute quelle di fornire o meno una specifica formazione agli operai, di provvedere in tema di misure di prevenzione e protezione e, soprattutto, di redigere il DVR (Documento di Valutazione dei Rischi), risultato incompleto e lacunoso. È stato lo stesso imputato a riferire del proprio ruolo di datore di lavoro `delegato', ed a difendersi, nel corso del processo, dalle accuse di non avere organizzato corsi di formazione specifici per il sistema di ancoraggio PERI, di avere lasciato operare soggetti non preparati, di non avere messo a disposizione mezzi di protezione e di avere tollerato una prassi lavorativa diversa da quella prevista nel POS, nella redazione del quale aveva svolto peraltro un ruolo di primo piano. Non è rinvenibile, peraltro, alcuna incompatibilità logica fra le contestazioni mosse all'imputato in qualità di dirigente e quelle invece addebitategli in qualità di datore di lavoro, in quanto non è dato normativamente riscontrare alcuna incompatibilità fra gli obblighi gravanti su tali due garanti della sicurezza dei lavoratori, salvo gli obblighi di elaborare la valutazione dei rischi e di nominare il RSPP, gravanti solo sul ruolo apicale. Per il resto, il T.U. in materia di sicurezza ed igiene del lavoro (D.lgs. n. 81/2008) riconduce al datore di lavoro ed al dirigente i medesimi obblighi di sicurezza, benché declinati in maniera differente, come chiaramente evincibile, fra gli altri, dal disposto dell'art. 18, rubricato, per l'appunto, `Obblighi del datore di lavoro e del dirigente'''.
Dove fa discutere il riferimento alla figura del ``datore di lavoro delegato '': come se la delega prevista dall'art. 16, D.Lgs. n. 81/2008 potesse avere per oggetto la stessa qualità di datore di lavoro. Una figura che nemmeno sembra esclusa da:
Ad avviso dei magistrati di merito, l'imputato era ``delegato, con procura speciale conferitagli dall'amministratore unico della s.r.l., in qualità di `responsabile della direzione e della sicurezza e della salute sul luogo di lavoro', e, pertanto, di `datore di lavoro' nell'accezione di cui all'art. 2, comma 1, lett. b) D.Lgs. n. 81/2008''. Nel confermarne la condanna per un infortunio, la Sez. IV si allinea: ``L'imputato era il delegato, con procura speciale conferitagli dall'amministratore unico, in qualità di `responsabile della direzione e della sicurezza e della salute sul luogo di lavoro', cioè era, sotto il profilo della sicurezza, figura datoriale''.
``Al di là della formale formulazione del mandato, all'imputato era stata assegnata la responsabilità in materia di ``puntuale applicazione di tutte le norme e cautele dirette alla prevenzione degli infortuni sul lavoro e alla sicurezza delle persone'' e pertanto risulta del tutto artificioso e inconcludente discettare se l'oggetto del mandato assorbisse la stessa posizione datoriale, ovvero i singoli momenti applicativi della sicurezza laddove l'imputato non solo aveva accettato siffatta investitura ma aveva già operato sul campo, procedendo alla predisposizione del DVR e, al contempo era dotato di autonomia patrimoniale fino alla concorrenza di importi considerevoli, certamente sufficienti alla messa in sicurezza della postazione suddetta''.
B) Da richiamare, peraltro, un ulteriore insegnamento che al datore di lavoro di fatto affianca comunque il datore di lavoro di diritto : v. le indicazioni giurisprudenziali riportate sub art. 299 al paragrafo 2.
C) Quanto al datore di lavoro nelle società complesse:
``Nelle società di capitali, il datore di lavoro si identifica con i soggetti effettivamente titolari dei poteri decisionali e di spesa all'interno dell'azienda, e quindi con i vertici dell'azienda stessa, ovvero nel presidente del consiglio di amministrazione, o amministratore delegato o componente del consiglio di amministrazione cui siano state attribuite le relative funzioni. Il principio è stato ulteriormente precisato dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che, nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia''.
``L'art. 2, lett. b), D.Lgs. n. 81/2008 individua il datore di lavoro nella persona che è `titolare del rapporto di lavoro' o che comunque `ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa' con riferimento a tutta l'operatività aziendale''. ``L'unicità del concetto di datore di lavoro impone di escludere che la relativa figura possa essere sotto-articolata a seconda delle funzioni svolte o dei settori produttivi'' e di escludere che ``la medesima organizzazione, ove unitaria, o una sua unità produttiva possano conoscere la compresenza di più datori di lavoro''. E ancora: ``una volta individuato il rischio come non specifico delle attività svolte nelle singole attività, tanto che la sua gestione presuppone poteri non disponibili a quei datori di lavoro, è del tutto conseguente che la valutazione di tale rischio è oggetto di un obbligo che fa capo al datore di lavoro `apicale'''.
Il presidente del consiglio di amministrazione viene condannato per l'infortunio occorso a un lavoratore che, mentre ``teneva in mano un pallone in vetro per provvedere all'operazione di carico dello stesso'', ``perdeva la presa'', con la conseguenza che ``il pallone urtava contro il bordo del macchinario, rompendosi, provocandogli lesioni gravi''. Addebito mosso: aver omesso di ``valutare il rischio connesso alla movimentazione dei palloni in vetro utilizzati'', e di fornire ``all'infortunato i necessari dispositivi di protezione individuale (guanti antiscivolo/antitaglio)''. A sua discolpa, l'imputato sostiene di essere stato ``erroneamente qualificato, nonostante l'art. 2 D.Lgs. n. 81/2008 dia risalto alla concreta allocazione della responsabilità all'interno dell'azienda, desunta dall'esercizio dei poteri decisionali e di spesa, piuttosto che alla titolarità del rapporto di lavoro con il dipendente, ciò anche in considerazione del principio di effettività di cui all'art. 299 D.Lgs. n. 81/2008''. Ne ricava che ``nelle società di capitali la responsabilità datoriale non possa sempre ricadere indistintamente su tutti i consiglieri di amministrazione, dovendosi invece verificare in concreto quale sia il soggetto titolare dei rispettivi poteri e delle connesse responsabilità''. E aggiunge che ``nel caso di specie, non era l'imputato ma altro soggetto ad essere munito di poteri di direzione generale e gestione operativa, redattore e firmatario del documento di valutazione dei rischi nonché responsabile del servizio di prevenzione e protezione dell'unità produttiva ove occorse l'infortunio''. La Sez. IV non è d'accordo. Rileva che ``l'art. 299 D.Lgs. n. 81/2008 vale ad elevare a garante colui che di fatto assume e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, mentre non può essere invocato in funzione restrittiva degli obblighi che la normativa prevenzionistica assegna ai soggetti regolarmente investiti di tali poteri'', e che ``il principio di effettività di cui al citato art. 299 è stato dettato dal legislatore in chiave ampliativa del novero dei soggetti gravati dalla posizione di garanzia, come reso evidente dalla presenza dell'avverbio `altresì' in funzione qualificativa del verbo `gravare'''. E ne desume che ``si tratta di una ipotesi alternativa di tipicità della fattispecie incriminatrice, che certamente non vale ad escludere da responsabilità il soggetto titolare dei relativi obblighi prevenzionistici''. Con riguardo al caso di specie, la Sez. IV prende atto che l'imputato ``rivestiva la qualifica di presidente del consiglio di amministrazione della società (titolare del rapporto di lavoro con il soggetto infortunato)'', e che ``non vi era alcuna specifica delega di funzioni nei confronti di altri soggetti, sicché egli era titolare di tutti i poteri di controllo, gestionali e di spesa tipici del datore di lavoro''. Quanto alla dedotta ``presenza di un'altra figura apicale (`amministratore') che si sarebbe occupata di prevenzione'', osserva che tale presenza non vale ``ad esonerare da responsabilità datoriale l'imputato, il quale per legge rimane investito dei poteri tipici del garante ex art. 2 D.Lgs. n. 81/2008''. Spiega che, ``nelle società di capitale, il datore di lavoro si identifica con i soggetti effettivamente titolari dei poteri decisionali e di spesa all'interno dell'azienda, e quindi con i vertici dell'azienda stessa, ovvero nel presidente del consiglio di amministrazione, o amministratore delegato o componente del consiglio di amministrazione cui siano state attribuite le relative funzioni''. Precisa utilmente che, ``nell'eventualità di una ripartizione di funzioni nell'ambito del consiglio di amministrazione ex art. 2381 c.c., gli altri componenti rispondono anch'essi del fatto illecito allorché abbiano dolosamente omesso di vigilare o, una volta venuti a conoscenza di atti illeciti o dell'inidoneità del delegato, non siano intervenuti''. E sottolinea ``l'assenza di deleghe di attribuzioni di poteri inerenti agli obblighi prevenzionistici nei confronti di un soggetto specifico, per cui tali obblighi incombevano su tutti i componenti del Consiglio di amministrazione, ivi compreso l'imputato''. (Dove particolarmente calzante è il riferimento alla delega di cui all'art. 2381 c.c., da non confondere con la delega di funzioni antinfortunistiche rilasciata a norma dell'art. 16 D.Lgs. n. 81/2008 da parte di un datore di lavoro destinato peraltro a rimaner tale).
La Sez. IV conferma la condanna della presidente e di due componenti del consiglio di amministrazione di una s.r.l. per i reati di lesioni personali colpose gravissime in danno di un dipendente colpito in fonderia da una tazza di caricamento oltre che di omissione colposa di cautele antinfortunistiche. A sua discolpa, la presidente del C.A. sostiene che, ``sebbene componente del consiglio di amministrazione, svolgeva esclusivamente compiti di natura amministrativa e contabile, non esercitando in concreto funzioni datoriali, né avendo mai assunto alcuna responsabilità dell'organizzazione del lavoro e dell'unità produttiva'', e invoca ``il principio di effettività, che impone di assegnare la posizione di garanzia solo a chi svolga in concreto le funzioni di datore di lavoro''. La Sez. IV premette che, ``se, in linea teorica, rivestono la qualifica di datore di lavoro tutti i componenti del consiglio amministratore, che gestisce ed organizza l'attività di impresa'', ``nondimeno, in concreto, nelle realtà più articolate ed in aziende di rilevanti dimensioni, l'individuazione della figura del datore di lavoro può non coincidere con la mera assunzione formale della carica di consigliere, laddove all'interno dell'organo deliberativo siano individuati soggetti cui vengono specificamente assegnati gli obblighi prevenzionistici''. Ricorda che, ``nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia''. Nel richiamare la sentenza delle Sezioni Unite sul caso ThyssenKrupp, osserva che ``l'assunzione della veste di garante può derivare dalla formale investitura, dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche della figura o dal trasferimento di poteri e funzioni da parte del soggetto che ne è titolare'', e che, ``se le figure dei garanti hanno una originaria sfera di responsabilità che non ha bisogno di deleghe per essere operante, ma deriva direttamente dall'investitura o dal fatto, la delega è invece qualcosa di diverso'', in quanto ``essa, nei limiti in cui è consentita dalla legge, opera la traslazione dal delegante al delegato di poteri e responsabilità che sono proprie del delegante medesimo''. Nota come ``ciò che identifica il datore di lavoro è, dunque, la titolarità del potere decisionale sull'impresa e del potere di spesa, cui corrisponde l'obbligo prevenzionistico derivante dallo stesso esercizio dell'impresa''. Spiega che ``è proprio l'art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs, n. 81/2008 a stabilire il legame fra l'obbligo prevenzionistico ed il soggetto titolare della responsabilità decisionale, organizzativa e di spesa dell'impresa'', e a chiarire ``come un simile rapporto derivi dal tipo di assetto organizzativo in cui il lavoratore presta la propria attività, modulando la figura di datore di lavoro non solo sulla titolarità dell'impresa e del rapporto di lavoro, ma sulla sua gestione attraverso l'esercizio dei poteri decisionali e di spesa''. A questo punto, la Sez. IV afferma che, ``nell'ambito di complesse organizzazioni imprenditoriali, in forma societaria, ciò legittima la distinzione fra ambiti gestori diversi derivanti dalla modulazione delle attribuzioni fra componenti del consiglio di amministrazione'', e che ``l'estesa articolazione dell'organizzazione giustifica la ripartizione delle attribuzioni, in quanto funzionale al raggiungimento degli scopi dell'impresa''. Pone in risalto che ``la forma può essere analoga a quella della delega di funzioni, ma anche implicita nell'incarico attribuito, consistente nel conferimento ad uno o più membri dell'organo deliberante di poteri esclusivi propri di quest'ultimo, senza che a ciò corrisponda una separazione tra il potere decisionale dell'imprenditore, nella sua forma societaria, e la sua gestione parcellizzata, convalidata dall'effettività del potere decisionale e di spesa conferito''. Precisa che ``il limite dell'esonero degli altri componenti del consiglio di amministrazione è delineato dall'obbligo della vigilanza, cui l'organo deliberativo non può in alcun caso sottrarsi, in quanto organo che conferisce un potere proprio''. E con riguardo alla presidente imputata nel caso di specie, conclude che non è stata ritenuta ``una responsabilità oggettiva, inerente alla `posizione' ricoperta, ma in forza della sua partecipazione all'organo deliberativo, titolare del potere decisionale ed organizzativo dell'impresa e del potere di spesa, che identificano, nel loro riflesso sul rapporto di lavoro, la figura del datore di lavoro, come delineata dal D.Lgs. 81/2008''.
Questa sentenza si addentra nel difficile tema inerente all'individuazione del datore di lavoro all'interno delle società complesse. Anni addietro, la Sez. IV accolse al riguardo una posizione poi più volte ribadita. Emblematici furono due principi evocati da Cass. 31 gennaio 2014, in ISL, 2014, 3, 154. Il primo fu che ``questa Corte in plurime sentenze ha già avuto modo dì statuire che, nelle imprese gestite da società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni ed igiene sul lavoro, posti dalla legge a carico del datore di lavoro, gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione''. Un secondo principio fu che, ``anche di fronte alla presenza di una eventuale delega di gestione conferita ad uno o più amministratori, specifica e comprensiva dei poteri di deliberazione e spesa, tale situazione può ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del consiglio, ma non escluderla interamente, poiché non possono comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso di mancato esercizio della delega''. La Sez. IV ricordò che, ``in una fattispecie relativa ad impresa il cui processo produttivo prevedeva l'utilizzo dell'amianto e che aveva esposto costantemente i lavoratori al rischio di inalazione delle relative polveri, si è ritenuto che, pur a fronte dell'esistenza di amministratori muniti di delega per l'ordinaria amministrazione e dunque per l'adozione di misure di protezione concernenti i singoli lavoratori od aspetti particolari dell'attività produttiva, gravasse su tutti i componenti del consiglio di amministrazione il compito di vigilare sulla complessiva politica della sicurezza dell'azienda, il cui radicale mutamento - per l'onerosità e la portata degli interventi necessari - sarebbe stato indispensabile per assicurare l'igiene del lavoro e la prevenzione delle malattie professionali (Cass. 14 gennaio 2003, Macola e altro [in ISL, 2003, 16, 1057])''. Insegnò che, ``in sostanza, in presenza di strutture aziendali complesse, la delega di funzioni esclude la riferibilità di eventi lesivi ai deleganti se sono il frutto di occasionali disfunzioni; quando invece sono determinate da difetti strutturali aziendali e del processo produttivo, permane la responsabilità dei vertici aziendali e quindi di tutti i componenti del consiglio di amministrazione'', e che, ``diversamente opinando, si violerebbe il principio del divieto di totale derogabilità della posizione di garanzia, il quale prevede che pur sempre a carico del delegante permangano obblighi di vigilanza ed intervento sostitutivo''. Aggiunse che, ``in definitiva, anche in presenza di una delega di funzioni ad uno o più amministratori (con specifiche attribuzioni in materia di igiene del lavoro), la posizione di garanzia degli altri componenti del consiglio non viene meno, pur in presenza di una struttura aziendale complessa ed organizzata, con riferimento a ciò che attiene alle scelte aziendali di livello più alto in ordine alla organizzazione delle lavorazioni che attingono direttamente la sfera di responsabilità del datore di lavoro''. Con riguardo al caso di specie, la Sez. IV precisò che ``la violazione delle disposizioni a tutela della sicurezza dei lavoratori afferiva un aspetto strutturale e permanente del processo produttivo interno allo stabilimento, e in particolare un momento particolarmente delicato, quale quello del sollevamento dei gusci, mai sottoposto ad adeguata attenzione e anzi neppure considerato nel documento di valutazione dei rischi'', e che ``la violazione di che trattasi non può imputarsi ad un fattore contingente e occasionale, o comunque non prevedibile, ma si rivela talmente grave e `strutturale', da investire indubitabilmente compiti e decisioni di alto livello aziendale non delegabili e proprie di tutto il consiglio di amministrazione ed, in ogni caso, obblighi di sorveglianza e denuncia gravanti su ciascuno dei suoi componenti''. E concluse che, ``se ciò vale per i singoli componenti del consiglio, a maggior ragione la posizione di garanzia rimane radicata in capo al presidente del consiglio di amministrazione''.
Non concordante appare l'impostazione ora accolta dalla sentenza n. 55005/2017. Infatti, la Sez. IV prende atto che, a dire del giudice di primo grado, ``i componenti del Consiglio di Amministrazione di una società possono assurgere al ruolo di garanti, assumere posizioni di garanzia in materia di sicurezza del lavoro solo quando il CDA non abbia trasferito poteri e responsabilità all'Amministratore Delegato o ad altri soggetti''. Richiama sul punto ``la giurisprudenza di questa Corte'', e nello specifico Sez. 4, n. 43786/2010, Cozzini, e Sezioni Unite 38343/2014, Espenhahn e altri. Osserva che la definizione di datore di lavoro contenuta nell'art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 81/2008 ``sottolinea il ruolo di dominus di fatto dell'organizzazione ed il concreto esercizio di poteri decisionali e di spesa''. Sostiene ``la necessità di non fare confusione tra i piani del diritto societario e quelli del diritto penale del lavoro''. Asserisce che ``nell'ambito di organizzazioni complesse, d'impronta societaria, la veste datoriale non può essere attribuita solo sulla base di un criterio formale, magari indiscriminatamente estensivo, ma richiede di considerare l'organizzazione dell'istituzione, l'individuazione delle figure che gestiscono i poteri che danno corpo a tale figura''. Ammette che ``datore di lavoro può essere anche l'intero Consiglio di Amministrazione o il Comitato Esecutivo che di questo ne è emanazione, il cosiddetto `board''', ma richiede che ``il giudice ne verifichi e dia conto in motivazione della reale partecipazione ai processi decisori''. Ricorda che, ``nel caso esaminato dalle SS.UU - che riguardava il caso della società Thyssenkrupp - l'ascrivibilità dell'omissione di cui si discuteva, accompagnata dal differimento del progetto dell'impianto, fu frutto di una determinazione concertata, cui tutti gli imputati diedero il loro consapevole, doloso contributo'', e che ``in quel caso i membri del board furono ritenuti penalmente responsabili dai giudici di merito -con decisione convalidata in sede di legittimità - perché si ritenne che tutti concorressero alla gestione collettiva dell'impresa, facendo parte di un board decisionale che si occupava di tutti i settori aziendali, compreso quello della sicurezza sul lavoro''. Rileva che, ``in difetto di tale prova, i giudici del merito paiono fare corretta applicazione, quanto ai membri del Comitato Esecutivo della s.p.a., dell'insegnamento delle Sezioni Unite''. Sottolinea che ``le norme del codice civile in argomento, e nello specifico gli articoli da 2381 a 2392, trattano del Presidente, del Comitato esecutivo, dell'Amministratore delegato, del Consiglio di Amministrazione e delle loro responsabilità verso l'esterno'', e che ``proprio l'art. 2381 prevede la possibilità del CDA di delegare proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo, se lo statuto o l'assemblea lo consentono, prevedendo e regolando il sistema delle deleghe''. Ma con riguardo al caso di specie rileva che ``la delega eventuale di attribuzione di funzioni al comitato esecutivo non si è mai concretizzata'', e che ``attribuzioni e poteri ven(nero) di fatto, in modo sostanziale, delegati all'AD e/o a determinati soggetti, non componenti del Comitato Esecutivo, né membri del CDA, ma esterni a tali organi, nominati quali direttori generali o centrali, direttori di unità, direttori di stabilimento, direttori tecnici, capo approvvigionamenti''.
Si tratta di un'impostazione successivamente ripresa da una sentenza relativa ``a quarantotto decessi per fatti che si sviluppano lungo l'arco temporale di venticinque anni di storia industriale italiana, a partire dal lontano 1960'':
``Ben può essere datore di lavoro e gestore del rischio, penalmente responsabile, l'intero consiglio di amministrazione ovvero il comitato esecutivo che ne è emanazione (board) (così come un singolo componente), purché il giudice di merito verifichi e dia conto in motivazione della reale partecipazione ai processi decisori''.
Non manca, peraltro, il laborioso tentativo di far salva comunque in determinati casi la responsabilità dei vertici aziendali:
Per il decesso di una donna intenta ad attraversare la strada nel corso di un'operazione di posa di manto in asfalto e investita da un compressore in retromarcia, la Sez. IV annulla con rinvio l'assoluzione per non avere commesso il fatto del presidente del CdA di una s.p.a., esecutrice dei lavori e proprietaria del mezzo investitore: ``All'imputato è stato contestato di avere consentito l'impiego di un macchinario inadeguato e di non avere predisposto la recinzione del cantiere temporaneo e mobile presso il quale è avvenuto l'infortunio. Trattasi di due obblighi espressamente contemplati dalla legge: l'art. 71, comma 4, D.Lgs. n. 81/2008, infatti, prevede che il datore di lavoro deve, tra l'altro, adottare le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano oggetto di `idonea manutenzione al fine di garantire nel tempo la permanenza dei requisiti di sicurezza di cui all'art. 70'; l'art. 108 stesso D.Lgs., inoltre, con specifico riferimento ai cantieri, prevede che durante i lavori deve essere assicurata la viabilità delle persone e dei veicoli, laddove il successivo art. 109 stabilisce che il `cantiere, in relazione al tipo di lavori effettuati, deve essere dotato di recinzione avente caratteristiche idonee ad impedire l'accesso agli estranei alle lavorazioni'. La corte d'appello sembra aver ritenuto operativa una delega delle specifiche funzioni in esame al preposto e, sul versante prettamente soggettivo, la inesigibilità del comportamento alternativo lecito in capo al titolare della posizione di garanzia. Sotto il primo profilo, nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia. Inoltre, indipendentemente dalla esistenza o meno della figura dei preposti - la cui specifica competenza è quella di controllare l'ortodossia antinfortunistica dell'esecuzione delle prestazioni lavorative per rapporto all'organizzazione dei dispositivi di sicurezza - il datore di lavoro risponde dell'evento dannoso laddove si accerti che egli abbia omesso di rendere disponibili nell'azienda i predetti dispositivi di sicurezza. Egli, peraltro, quale responsabile della sicurezza, ha l'obbligo non solo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 c.c., egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro. Peraltro, in ordine alla ripartizione degli obblighi di prevenzione tra le diverse figure di garanti nelle organizzazioni complesse, gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere sì trasferiti (con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante), a condizione che il relativo atto di delega ex art. 16 del D.Lgs. n. 81/2008 riguardi un ambito ben definito e non l'intera gestione aziendale, sia espresso ed effettivo, non equivoco ed investa un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa. Il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell'esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli Nella specie, l'infortunio è stato diretta conseguenza dell'investimento della vittima; che il rullo era privo di presidi atti a scongiurare l'investimento, avvenuto proprio nel corso di una manovra di retromarcia; e l'area di lavoro non era stata delimitata, né interdetta al transito pedonale. Il che pone l'infortunio quale diretta concretizzazione del rischio generato dalla omessa vigilanza sulla manutenzione dell'apparecchiatura e dalla mancata interdizione del sito. Infine, nessuna delega, valida secondo i principi sopra richiamati, era stata conferita al preposto, sul punto (essendosi) rilevata la mancata osservanza dell'obbligo datoriale di vigilare sul soggetto delegato, tenuto conto delle caratteristiche dell'azienda e delle sue dimensioni. La corte d'appello ha del tutto omesso di esaminare la posizione di garanzia datoriale con specifico riferimento agli obblighi espressamente indicati nel capo d'imputazione, ritenendo - in maniera del tutto avulsa dal sistema normativo antinfortunistico - che la responsabilità di tale garante richiedesse una condotta attiva (ordine di omettere la segnaletica e gli appositi presidi interdittivi) o l'utilizzo personale del macchinario non munito dei necessari accessori, in tal modo omettendo di scrutinare la componente normativa della responsabilità colposa e di valutare dunque la condotta inosservante della specifica regola cautelare e la sua funzione preventiva. Ha poi del tutto omesso di esaminare l'aspetto della questione attinente ai requisiti di una delega valida e di analizzare in chiave critica la mancata vigilanza da parte del soggetto delegante sull'attività del delegato, per il caso in cui si volesse considerare valida la delega opposta a difesa. Quanto alla esigibilità del comportamento omesso, infine, a fronte della minuziosa disamina del compendio fattuale (era emerso che con un'ordinanza il corpo di polizia municipale aveva addirittura imposto all'impresa di predisporre adeguate protezioni; che il sito lavorativo era costituito da un cantiere mobile per il quale non erano state predisposte recinzioni atte a impedire l'accesso a terzi estranei, essendo stati posizionati solo cartelli di divieto di sosta; che l'impresa non era di enormi dimensioni, né era articolata in diverse attività produttive; che l'imputato, immediatamente contattato dal preposto e dal conducente dopo l'infortunio, si era personalmente recato sul posto e aveva fornito alla ASL la documentazione concernente la sicurezza), la corte d'appello si è limitata a richiamare la forma societaria dell'impresa (una s.p.a.), la circostanza che la stessa aveva cantieri in varie parti d'Italia e che l'imputato non usava personalmente il rullo. Per quanto attiene al profilo soggettivo della colpa e alla sua valutazione in base alla prevedibilità dell'evento, essa è certamente imposta dalla necessità di scongiurare forme di responsabilità oggettiva. Tale valutazione va condotta con riguardo alla concreta capacità dell'agente di uniformarsi alla regola cautelare in ragione, questa volta, delle sue specifiche qualità personali, rispetto alle quali va individuata la specifica classe di agente modello di riferimento e precisato che, proprio in materia antinfortunistica, una volta compiuta l'indagine causale, il giudice di merito deve procedere, in maniera distinta, all'accertamento in concreto della colpa del datore di lavoro, anche nell'ipotesi in cui la condotta imprudente del lavoratore non soddisfi i caratteri dell'esorbitanza o dell'abnormità, e dunque sia irrilevante in una prospettiva causale. Nel compiere tale valutazione assume rilievo anche la natura della norma cautelare violata (rigida o dal contenuto comportamentale non rigidamente definito). 3.4.2. Nel caso all'esame, la corte d'appello non ha considerato la natura delle norme violate, di contenuto predeterminato; ma neppure valutato la concreta capacità dell'agente di adeguarsi al modello comportamentale da esse delineato''. (Circa le implicazioni della mancata delega al preposto v. anche Cass. 27 settembre 2019, n. 39713).
``È pur vero che, in tema di individuazione delle responsabilità penali all'interno delle organizzazioni complesse, non può attribuirsi, in via automatica, all'organo di vertice la responsabilità per l'inosservanza della normativa di sicurezza, dovendosi sempre considerare l'effettivo contesto organizzativo e le condizioni in cui detto organo ha dovuto operare. Tuttavia, nel caso che ci occupa, era in atto, per fronteggiare un'anomalia di funzionamento del macchinario cui era addetto l'infortunato, una pericolosa prassi di oscuramento del sensore che l'imputato, che non era solo il direttore di stabilimento, ma anche il procuratore con delega in materia di tutela della salute e della sicurezza sul luogo di lavoro - posizione che l'imputato rivestiva sin da epoca in cui era rilevabile, poiché già manifestatosi, il malfunzionamento del sensore di prossimità - ha colpevolmente tollerato. L'imputato non fu posto a conoscenza di tale difetto fino al momento dell'incidente di cui si discute. Ma ciò è del tutto ininfluente. Infatti, non vale a mandare esente da responsabilità l'imputato la sua non conoscenza del suddetto malfunzionamento e, conseguentemente, della pericolosa operazione compiuta dai dipendenti per supplire all'intervento dei manutentori. Egli, infatti, non ha appreso del guasto per una sua colpevole inerzia, dal momento che, nella sua qualità di direttore di stabilimento con delega in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, avrebbe dovuto sottoporre gli impianti dello stabilimento a regolare ed approfondita manutenzione, attività finalizzata, evidentemente, come desumibile dal tenore letterale dell'art. 64, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 81/2008, a rilevare ed eliminare eventuali difetti che, come nel caso di specie, potessero pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori. È evidente che in una struttura aziendale delle dimensioni di quella che ci occupa l'esecuzione materiale di tale gravoso non può essere sempre e comunque demandata personalmente al direttore dello stabilimento, ma egli, in quanto destinatario degli obblighi che la normativa ora citata gli impone, deve, se non vi provvede direttamente, premurarsi di predisporre tali controlli e verificare che gli stessi vengano poi effettivamente posti in essere, ed esigere altresì dal servizio di manutenzione a tal fine preposto una puntuale e costante informazione in ordine all'attività svolta e alle anomalie riscontrate, di talché, una volta preso atto di eventuali problemi in grado di ripercuotersi sulla sicurezza e salute dei lavoratori, possa conseguentemente dare disposizioni per eliminarli, così adempiendo all'ulteriore obbligo che la disposizione in esame gli impone (provvedere affinché `vengano eliminati, quanto più rapidamente possibile, i difetti rilevati che possano pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori'). In altri termini, il soggetto che riveste la posizione di garanzia deve dapprima impartire le necessarie indicazioni per ovviare ad eventuali criticità presenti all'interno dello stabilimento che possano compromettere la sicurezza o la salute dei dipendenti; provvedendo, in particolare, a predisporre un regolare e frequente controllo, tra le altre cose, dei macchinari e degli impianti utilizzati nella produzione, sottoponendoli quindi ad opportuna manutenzione tecnica (ad opera di personale eventualmente a ciò adibito). Tale operazione - che nel caso di specie non risulta essere stata fatta - non può poi prescindere da un continuo monitoraggio, da parte del direttore-delegato, sull'operato e sull'esito di tale attività di manutenzione, non potendosene disinteressare, ed in questa fase egli è tenuto ad attivarsi personalmente e, se del caso, a sollecitare il personale dell'apposito servizio affinché gli riferisca dell'eventuale presenza di anomalie cui deve porsi rimedio, poiché solo in tal modo può efficacemente adempiere all'obbligo di eliminarle; essendo lui, e non già il personale del servizio di manutenzione, munito di delega in materia di salute e sicurezza dei lavoratori e, dunque, destinatario delle prescrizioni sopra enucleate. Va anche sottolineato che la prassi invalsa di oscurare manualmente il sensore, che innegabilmente riduceva i presidi di sicurezza, potrebbe essere sintomatica non di mera omissione della sorveglianza da parte del datore di lavoro, bensì dell'avallo di siffatto modus operandi in funzione di una maggiore efficienza produttiva e soprattutto di un risparmio di spesa. Ma al di là di tale considerazione, va anche ribadito che, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, non adempie agli obblighi derivanti dalle norme di sicurezza l'imprenditore che, dopo l'avvenuta scelta della persona preposta al cantiere o incaricata dell'uso degli strumenti dj lavoro, non controlla o - se privo di cognizioni tecniche - non fa controllare la rispondenza dei mezzi usati o delle attrezzature ai dettami delle norme antinfortunistiche. In tal caso, infatti, la presenza e la eventuale colpa del preposto non eliminano la responsabilità dell'imprenditore potendosi ritenere che l'infortunio non sarebbe occorso se il datore di lavoro avesse controllato e fatto controllare le attrezzature, le macchine e predisposto i mezzi idonei a dotarle dei requisiti di sicurezza mancanti, conferendo al preposto come suo `alter ego' non solo la generica delega a sorvegliare lo svolgimento del lavoro in cantiere ma anche dotandolo dei poteri di autonoma iniziativa - anche eventualmente di spesa o di modifica delle condizioni di lavoro, delle fasi e dei tempi del processo lavorativo - per l'adeguamento e l'uso, in condizioni di sicurezza, dei mezzi forniti''.
Significative, altresì:
Per l'infortunio subito dal dipendente di una s.r.l. esercente un'impresa edile, furono condannati, in particolare, il presidente del consiglio di amministrazione e l'amministratore delegato. La Sez. IV conferma la condanna: ``L'amministratore delegato della s.r.l., in assenza di una formale delega in materia antinfortunistica, era contitolare, insieme al presidente, di poteri decisionali e di spesa all'interno dell'azienda. Da tali circostanze deve farsi discendere, in capo all'amministratore delegato, la titolarità di una posizione di garanzia che non poteva essere esclusa per il solo fatto che egli non si fosse mai interessato del cantiere. Nelle società di capitale, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo Il caso di delega validamente conferita della posizione di garanzia. Ne discende la possibilità della coesistenza, all'interno della medesima impresa, di più figure aventi tutte la qualifica di datore di lavoro, su cui incombe, allo stesso modo, l'onere di valutare i rischi per la sicurezza, di individuare le necessarie misure di prevenzione e di controllare l'esatto adempimento degli obblighi di sicurezza. Si è quindi data corretta attuazione all'orientamento pressoché unitario della giurisprudenza di legittimità che individua un `cumulo delle responsabilità' in capo ai rappresentanti della componente datoriale delle società di capitali, il cui limite di estrinsecazione può essere ravvisato solo ove esista una delega esplicita o implicita della posizione di garanzia''.
Dopo aver ribadito che, ``nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia'', la Sez. IV sottolinea l'esigenza di non confondere siffatta delega (palesemente attribuita a norma dell'art. 2381 c.c.) con la delega di funzioni antinfortunistiche rilasciata dal datore di lavoro in forza dell'art. 16 D.Lgs. n. 81/2008: ``l'attribuzione di ruoli all'interno dell'organigramma aziendale, quando associata alla effettiva titolarità di pertinenti poteri, fonda la posizione gestoria a titolo originario''; là dove ``la delega delle funzioni prevenzionistiche di cui all'art. 16 D.Lgs. n. 81/2008 comporta il trasferimento dal datore di lavoro ad altri di alcune sue specifiche e definite competenze e dei correlati poteri''. Preziosa, altresì, un'ulteriore notazione: ``la preposizione di un preposto non costituisce atto di delega in senso stretto, e d'altronde non sottrae il datore di lavoro ai propri obblighi di organizzazione e di vigilanza sulla osservanza delle procedure aziendali, anche da parte del preposto stesso''.
V. anche sub artt. 16, paragrafo 10, e 18, paragrafo 5, nonché Cass. n. 5441 del 4 febbraio 2019 e Cass. n. 57706 del 20 dicembre 2018.
D) Ripartizione di competenze tra amministratori . Oltre a Cass. 12 giugno 2019, n. 25836 (retro, al par. C) e a Cass. n. 3313 del 23 gennaio 2017 (sub art. 299, al par. 2):
Due amministratori di una s.r.l. proprietaria di una discoteca, in concorso con il legale rappresentante separatamente giudicato - condannati per il reato di cui all'art. 681 c.p. ``per aver tenuto spettacoli e intrattenimenti danzanti a pagamento, senza il rispetto delle norme in materia di pubblica incolumità e di prevenzione incendi, consentendo l'ingresso di un numero di avventori di gran lunga superiore al limite di capienza del locale e proseguendo abusivamente nell'attività dopo la scadenza della licenza, nonostante la diffida del questore e il provvedimento di revoca formale dell'autorizzazione'' - lamentano che ``le attività meramente tecniche ed esecutive da essi esercitate, sotto la direzione e il controllo dell'amministratore di diritto, non consentivano di qualificarli quali amministratori di fatto, né l'esercizio di poteri gestori avrebbe potuto essere desunto dalla mera presenza degli imputati all'interno del locale''. La Sez. I replica: ``La gestione del locale e delle serate era comune a tutti e tre i soci, secondo una distribuzione di ruoli ben definita. L'amministratore di fatto, che è tale quando la sua partecipazione alla società esorbita dalle mera titolarità delle quote sociali e si esprime in atti di gestione, è assoggettato agli stessi obblighi dell'amministratore di diritto e gli specifici compiti cui attendevano i prevenuti, impegnati nella scelta dei gruppi musicali e nella soluzione dei problemi tecnici, erano indicativi dell'attiva partecipazione dei medesimi all'organizzazione degli intrattenimenti e delle serate danzanti in un locale privo di autorizzazione e di certificato di prevenzione incendi. Entrambi erano presenti in occasione dei sopralluoghi eseguiti nei mesi nel corso dei quali era stata accertata la presenza di un esorbitante numero di avventori che non riuscivano a muoversi e ad allontanarsi dal locale''.
``Quanto emerso dall'esame della visura camerale della s.p.a. datrice di lavoro dell'infortunato, priva di amministratore delegato, e, cioè, la paritaria posizione dei due amministratori, entrambi procuratori dotati dei medesimi poteri, non è smentito in alcun modo dai contenuti dei due ordini di servizio a firma del presidente, al tempo, della società. Invero, in tali ordini di servizio, non era contenuta alcuna specifica delega alla sicurezza, ma solo una ripartizione, tra i due dirigenti del tempo (i due imputati), delle materie di rispettiva competenza: gli acquisti e le vendite Italia Estero per l'uno, la produzione e la gestione finanziaria per l'altro. È vero che nella delega a quest'ultimo si fa riferimento alla sicurezza, è tuttavia altrettanto vero che a tale generica indicazione non può attribuirsi il valore di una formale delega in materia, attesto che: 1) essa non presenta la forma ed i contenuti della delega, come richiesti dalla concorde giurisprudenza di questa Corte, che pretende che la stessa sia consacrata in un atto formale di investitura da cui risulti l'affidamento dell'incarico a persona competente ben individuata e che lo abbia accettato, consapevole dei doveri di cui si fa carico, cioè di rispettare e far rispettare la normativa di sicurezza; 2) detto documento, a firma del presidente del tempo della società, non risulta essere stato confermato dalla nuova amministrazione societaria, meno ancora, correttamente formulato nei termini sopra indicati. E dunque, sotto ogni profilo corretta si presenta la decisione impugnata che, anche sulla base della visura camerale, ha attribuito, data l'assenza di specifica delega, la paritaria posizione di amministratori responsabili, e quindi di datori di lavoro ad ambedue gli imputati''. Decisione, peraltro, anche in linea con la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, nei casi di imprese gestite da società di capitali, gli obblighi relativi alla sicurezza gravano su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, non potendo, in ogni caso, essere trasferiti i doveri di controllo concernenti l'andamento della gestione.
Dei due amministratori delegati di una s.p.a. imputati di lesione personale colposa in danno di un dipendente, uno deduce che ``mai si era occupato della sicurezza''. La Sez. IV, pur dichiarando il reato prescritto, ribatte: ``Nella sua qualità, l'imputato era tenuto a garantire la sicurezza e la incolumità dei lavoratori e l'osservanza delle norme antinfortunistiche. Né era rilevante il fatto che egli si interessasse della parte amministrativa della società e non dell'attività `tecnica' di competenza dell'altro amministratore delegato. All'imputato non era stata conferita nessuna formale delega, così come stabilito dalla normativa antinfortunistica, né, in ogni caso, risultava che una siffatta ripartizione di competenze aziendali fosse stata consacrata in atti formali della società di attribuzione delle competenze ai due amministratori delegati secondo la divisione da essi sostenuta''.
E) Si moltiplicano via via le analisi dedicate al datore di lavoro pubblico . Ecco una delle più recenti, peraltro sviluppata nella più ampia prospettiva di tutela della pubblica incolumità:
Nel confermare la condanna di un sindaco per il reato di cui agli artt. 16 e 20, comma 1, D.Lgs. 8 marzo 2006 n. 139 ``per aver omesso di richiedere il rilascio del certificato di prevenzione incendi per la scuola media statale comunale'', la Sez. III osserva che ``tenuto all'adempimento dell'obbligo, in assenza di formale attribuzione della competenza ad altro soggetto, fosse il legale rappresentante dell'ente proprietario dell'istituto scolastico, ovverosia il sindaco pro tempore''. E spiega: ``La disciplina legislativa che attribuisce funzioni e responsabilità nell'ambito delle pubbliche amministrazioni, ed in particolare di quelle degli enti locali, porta a concludere che gli obblighi gravanti sull'ente, anche quelli relativi all'adempimento di prescrizioni connesse ad una posizione di garanzia, spettino - laddove la normativa primaria o secondaria non preveda diversamente e in difetto di una valida attribuzione delegata ad altre figure istituzionali - al legale rappresentante dell'ente, vale a dire, nei comuni, al sindaco pro tempore. La conclusione si trae dal principio generale per cui la responsabilità dell'adempimento delle prescrizioni richieste dalla legge agli enti, salvo che, appunto, sia diversamente stabilito, è imputabile al legale rappresentante, non potendo certo ammettersi situazioni in cui nessuno ne sia responsabile, ciò che risulterebbe vi e più inaccettabile nel caso - qual è quello di specie - in cui si tratti di norme cautelari connesse ad una posizione di garanzia finalizzate alla protezione della pubblica incolumità. La prima, esplicita, conferma sistematica della correttezza di questa affermazione si trae dalla disposizione di cui all'art. 2, lett. b), D.Lgs. n. 81/2008. La disposizione stabilisce che per `datore di lavoro', soggetto titolare delle posizioni di garanzia previste da tale corpo normativo, nelle pubbliche amministrazioni s'intende il dirigente ai quale spettano poteri di gestione, ovvero - il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto a un ufficio avente autonomia gestionale, con la residuale specificazione che `in caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice'' dell'ente'. Se è ben vero che tale disposizione non è direttamente applicabile al caso di specie, non venendo qui in rilievo prescrizioni direttamente (e, comunque, esclusivamente) finalizzate alla tutela della sicurezza ed igiene nei luoghi di lavoro, ma un più ampio spettro di tutela della pubblica incolumità, essa va comunque considerata quale disposizione che, nella particolare materia, esplicita principi altrimenti ricavabili dal sistema e dunque applicabili anche nel caso di obblighi di protezione di diversa natura. In particolare, l'obbligo della cui violazione qui si discute non rientra tra quelli in materia di prevenzione degli infortuni che gravano sul datore di lavoro, perché la disposizione violata ha un ambito di tutela più ampio di quello concernente la salute e sicurezza dei luoghi di lavoro. Come reso evidente dal tenore del primo comma dell'art. 16, D.Lgs. 8 marzo 2006, n. 139 - recante `assetto delle disposizioni relative alle funzioni e ai compiti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco' - la prescrizione si riferisce infatti alla tutela della pubblica incolumità. D'altra parte, anche con riguardo alle prescrizioni contenute nel D.Lgs. n. 81/2008 in tema di gestione della sicurezza degli edifici scolastici, ai fini della individuazione dei soggetti responsabili è necessario distinguere tra misure di tipo strutturale ed impiantistico, di competenza dell'ente locale proprietario dell'immobile e titolare del potere di spesa funzionale all'adozione delle misure necessarie, e gli adempimenti di tipo amministrativo e gestionale spettanti, invece, alla amministrazione scolastica. La conclusione raggiunta non è inficiata dalle disposizioni che delineano la ripartizione delle funzioni in base alle norme dell'ordinamento degli enti locali. Anzi, le stesse sostanzialmente ribadiscono i principi più sopra affermati, ulteriormente confermandone la sicura desumibilità dal sistema. È ben vero che i dirigenti comunali possono essere titolari di posizioni di garanzia nello svolgimento dei compiti di gestione amministrativa a loro devoluti, residuando in capo al sindaco unicamente poteri di sorveglianza e controllo collegati ai compiti di programmazione che gli appartengono quale capo dell'amministrazione comunale ed ufficiale di governo. È necessario, tuttavia, che la direzione degli uffici e dei servizi sia attribuita ai dirigenti secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti (cfr. art. 107, comma 1, T.U.E.L.) o, comunque, che siano chiari e correttamente delegati i relativi poteri e funzioni. Nel caso di specie, non risulta che il disbrigo delle pratiche relative alla prevenzione incendi per gli immobili di proprietà comunale fosse connesso a servizi delegati a personale dirigenziale, né vi era alcuna specifica e valida delega a dirigenti o funzionari comunali, tale non potendo considerarsi il generale, e generico, atto di attribuzione di funzioni fatto dal sindaco a un geometra (peraltro privo della formale qualifica di dirigente) quale `responsabile degli Uffici e dei Servizi facenti capo al Settore Lavori Pubblici e Urbanistica' al quale era stata tra l'altro delegata la `manutenzione edifici'. Tale atto era sprovvisto dei requisiti imposti per poter ritenere validamente conferita una delega: la disciplina della delega di funzioni prevista dall'art. 16, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, sebbene espressamente dettata per la materia della sicurezza del lavoro, si estende anche alla delega conferita in altri settori. Perché un soggetto subentri nella posizione di garanzia riconducibile a funzioni delegate è necessario che il relativo atto di delega sia espresso, inequivoco e certo ed investa persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, ivi compresi anche i relativi poteri di spesa. Proprio quest'ultimo aspetto aveva impedito, anche successivamente all'accertamento del reato, di perfezionare la pratica di certificazione del plesso scolastico rispetto alla prevenzione del rischio d'incendio, essendo necessari adeguamenti strutturali di messa in sicurezza dell'edificio che richiedevano interventi per la cui realizzazione il Comune non aveva stanziato i necessari fondi, tanto che il certificato non era stato ancora perfezionato cinque anni dopo l'accertamento del reato. La responsabilità di adempiere agii obblighi stabiliti in materia di prevenzione degli incendi in capo al proprietario degli edifici scolastici gravava, pertanto, sull'imputato quale sindaco del comune, e, in ogni caso, trattandosi di materia concernente la pubblica incolumità, il medesimo ne era comunque responsabile. Anche laddove talune funzioni siano state correttamente delegate al personale dirigente, il sindaco, in base agli artt. 50 e 54, T.U.E.L., rimane titolare di una posizione di garanzia a tutela dell'incolumità pubblica in quanto, pur essendo privo di poteri di concreta gestione, deve svolgere un ruolo di vigilanza e controllo sull'operato dei suoi dirigenti, e dispone di mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad impedire eventi dannosi nonché del potere sostitutivo di intervento nelle situazioni contingibili e urgenti. La distinzione operata dall'art. 107, T.U.E.L. fra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo, e i compiti di gestione attribuiti ai dirigenti - non esclude il dovere di attivazione del sindaco allorché gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l'integrità dell'ambiente.
Significative, con specifico riguardo al datore di lavoro pubblico, sono, alla luce dell'art. 2, comma 1, lett. b), secondo periodo, D.Lgs. n. 81/2008:
``Il Sindaco, ove abbia provveduto all'individuazione dei soggetti cui attribuire la qualità di datore di lavoro, risponde per l'infortunio occorso al lavoratore solo nel caso in cui risulti che egli, essendo a conoscenza della situazione antigiuridica inerente alla sicurezza dei locali e degli edifici in uso all'ente territoriale, abbia omesso di intervenire, con i propri autonomi poteri, atteso che con l'atto di individuazione, emanato ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 81/2008, vengono trasferite al dirigente pubblico tutte le funzioni datoriali, ivi comprese quelle non delegabili, il che rende non assimilabile detto atto alla delega di funzioni disciplinata dall'art. 16 del medesimo decreto legislativo''.
Con riguardo a un caso di morte per elettrocuzione in seguito a contatto con il palo metallico di sostegno di un lampione, la Sez. IV sostiene: ``In tema di tutela della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro negli enti locali, la qualifica di datore di lavoro spetta al dirigente responsabile del corrispettivo servizio tecnico, individuato dall'organo di governo, che assume quindi, a meno che egli non sia del tutto privato di poteri di gestione di spesa, i relativi obblighi di garanzia e protezione''.
Condannato per violazioni antinfortunistiche, il presidente di un consorzio di bonifica deduce a sua discolpa ``la presenza di un ingegnere esperto e regolarmente convenzionato e stipendiato'' e di un altro ingegnere quale rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. La Sez. III prende atto che l'imputato fu ritenuto ``responsabile delle contravvenzioni per la sua qualifica di datore di lavoro quale presidente del consorzio''. Ricorda che ``la mera designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione non costituisce una delega di funzioni e non è dunque sufficiente a sollevare il datore di lavoro ed i dirigenti dalle rispettive responsabilità in tema di violazione degli obblighi dettati per la prevenzione degli infortuni sul lavoro''. Rileva che ``per le pubbliche amministrazioni l'art. 2, comma 1, lettera b, D.Lgs. n. 81/2008 prevede quale datore di lavoro il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale'', e che ``l'art. 32, commi 8 e 9, D.Lgs. n. 81/2008 prevede per i soli istituti di istruzione, di formazione professionale e universitarie nelle istituzioni dell'alta formazione la designazione di un responsabile individuandolo tra il personale interno all'unità scolastica o in assenza gruppi di istituti possono avvalersi in maniera comune dell'opera di un unico esperto esterno, tramite stipula di apposita convenzione'', sicché ``trattandosi di una eccezione alla regola generale, la nomina di un esterno non può essere valida per altre amministrazioni non previste dalla norma''. Ne desume che, ``nel caso in giudizio, l'ingegnere quale responsabile del servizio prevenzione e protezione era un esterno e non un dirigente dell'ente'', e che, quindi, ``poiché la deroga è prevista solo per i soli istituti di istruzione, responsabile deve ritenersi l'imputato, presidente''. Spiega che, ``in tema di tutela della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro negli enti locali, l'organo di direzione politica che non abbia espressamente attribuito la qualifica di datore di lavoro dirigente del settore competente, conserva lui stesso la qualifica'', e che ``la delega ad un esterno non può ritenersi valida''.
Il sindaco di un comune - condannato per la violazione dell'art. 70, comma 1, D.Lgs. n. 81/ 2008, perché ``non metteva a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi alle specifiche disposizioni legislative e regolamentati di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto, e, in specie, non dotava i plessi scolastici gestiti dall'ente locale (scuola materna, scuole elementari, scuole medie) di impianti elettrici a norma, ovvero di impianti dotati di certificato di conformità, con verifica di messa a terra e comunicazione di denuncia dell'impianto'' - lamenta che le violazioni accertate, ``in forza del principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico e di gestione, sarebbero ascrivibili al dirigente responsabile, in via esclusiva, dell'attività amministrativa, ossia il dirigente dell'ufficio tecnico del comune, che era il responsabile della manutenzione dell'edificio scolastico''. La Sez. III non è d'accordo. Osserva, infatti, che ``l'individuazione del dirigente (o del funzionario) cui attribuire la qualifica di datore di lavoro è demandata alla pubblica amministrazione, la quale vi provvede con l'attribuzione della qualità e il conferimento dei relativi poteri di autonomia gestionale, non potendo tale qualifica essere attribuita implicitamente ad un dirigente o funzionario solo perché preposti ad articolazioni della pubblica amministrazione che hanno competenze nel settore specifico'', e che ``nelle pubbliche amministrazioni, l'attribuzione della qualità di datore di lavoro a persona diversa dall'organo di vertice non può che essere espressa, anche perché comporta i poteri di gestione in tema di sicurezza''. Ne ricava che ``sono gli organi di direzione politica che devono procedere all'individuazione, tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici, non essendo per tale ragione possibile una scelta non espressa e non accompagnata dal conferimento di poteri di gestione alla persona fisica'', e che, ``in mancanza di tale individuazione, permane in capo a suddetti organi l'indicata qualità, anche ai fini dell'eventuale responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica''. Ciò premesso in linea generale, la Sez. III afferma che ``il sindaco di un comune va esente da responsabilità in materia antinfortunistica, in base all'art. 2, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008, solo se procede all'individuazione dei soggetti cui attribuire in sua vece la qualifica di datore di lavoro'', e che ``viceversa, l'organo di direzione politica che non abbia espressamente attribuito la qualifica di datore di lavoro al dirigente del settore competente, conserva lui stesso la qualifica''. Con riguardo al caso di specie, rileva come ``non risulta che l'imputato, nella veste di sindaco del comune peraltro di modeste dimensioni abbia espressamente attribuito la qualifica di datore di lavoro al dirigente del settore competente, con la conseguenza che egli stesso conservava detta qualifica''. Aggiunge che ``le riscontrate criticità, relative agli impianti elettrici, furono segnalate dal dirigente dell'istituto proprio (e solo) al sindaco, il quale, ove avesse espressamente individuato un dirigente cui attribuire la qualifica di datore di lavoro, avrebbe investito costui della problematica; ma tale circostanza non risulta affatto, a conferma che nessuna individuazione era stata compiuta dal sindaco, il quale, pertanto, era l'unico soggetto cui attribuire la qualifica di datore di lavoro''.
Nessun dubbio che in assenza di un'esplicita individuazione del datore di lavoro da parte dell'organo di vertice della pubblica amministrazione - ivi incluso il comune - il datore di lavoro coincida con lo stesso organo di vertice, e, dunque, nel caso di un comune, con il sindaco. Peraltro, si rendono necessari due chiarimenti. Il primo è che il soggetto individuato come datore di lavoro dall'organo di vertice deve in ogni caso essere dotato di ``autonomi poteri decisionali e di spesa''. Un secondo chiarimento concerne lo specifico settore delle scuole. Non è la prima volta che un sindaco venga chiamato in causa per la violazione di norme antinfortunistiche rilevate nell'ambito di una scuola. Semmai può sorprendere che questa responsabilità gli venga attribuita nella veste di datore di lavoro. L'art. 18, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008 prevede, infatti, che ``gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del presente decreto legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione'', e che ``in tale caso gli obblighi previsti dal presente decreto legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico''. Contempla, dunque, un sistema di sicurezza delle scuole imperniato su una duplice posizione di garanzia: la posizione di garanzia facente capo alla scuola in quanto datrice di lavoro; e la posizione di garanzia facente capo all'ente proprietario, all'amministrazione tenuta.
La Sez. IV conferma la condanna dell'ingegnere responsabile dell'ufficio lavori pubblici di un comune ``per avere omesso di fornire ai lavoratori dipendenti idonei sistemi di protezione individuali anticaduta e di assicurare una formazione adeguata circa l'uso corretto dei DPI, ovvero di fare installare adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali per prevenire il pericolo di caduta dall'alto cagionando, così, a un operaio comunale lesioni colpose mentre era intento a posizionare dei coppi sul tetto dello stabile adibito a ricovero dei mezzi comunali'': ``Nell'art. 2, comma 1, lettera b, D.Lgs. n. 81/2008 sono confluite le soluzioni adottate da parte della giurisprudenza nella vigenza della precedente normativa, meno esaustiva di quella attuale, laddove si era specificata la necessità di un atto espresso di individuazione del dirigente o del funzionario quale datore di lavoro, altrimenti rimanendo quella posizione in capo al vertice politico dell'ente pubblico. Si era, in altre parole, riconosciuto carattere costitutivo all'atto dell'organo di vertice dell'ente che attribuisse ad altri la qualità di datore di lavoro, data la natura originaria della posizione datoriale del dirigente, individuato in quanto tale dalla legge. Corollario di tali affermazioni di principio, oggi positivizzate nel testo normativo, è che l'individuazione del dirigente (o del funzionario) cui attribuire la qualifica di datore di lavoro è demandata alla pubblica amministrazione, la quale vi provvede con l'attribuzione della qualità e il conferimento dei relativi poteri di autonomia gestionale, non potendo tale qualifica essere attribuita implicitamente ad un dirigente o funzionario solo perché preposti ad articolazioni della pubblica amministrazione che hanno competenze nel settore specifico. Nelle pubbliche amministrazioni, in altre parole, l'attribuzione della qualità di datore di lavoro a persona diversa dall'organo di vertice non può che essere espressa, anche perché comporta i poteri di gestione in tema di sicurezza. Sono gli organi di direzione politica che devono procedere, dunque, all'individuazione, tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici, non essendo per tale ragione possibile una scelta non espressa e non accompagnata dal conferimento di poteri di gestione alla persona fisica. La conseguenza della eventuale mancata indicazione è la conservazione in capo all'organo di direzione politica della qualità di datore di lavoro. Ciò posto, nel caso in esame, l'incarico dirigenziale all'imputato risultava formalizzato dal sindaco con decreto. Peraltro, proprio in attuazione di tale decreto, lo stesso imputato aveva predisposto ed organizzato l'addestramento sul funzionamento dei dispositivi di protezione antinfortunistica ed aveva anche ragguagliato la competente azienda sanitaria circa l'adempimento delle prescrizioni impartite dopo l'infortunio de quo. Veniva altresì accertato che la delega conferita a un geometra era, invece, limitata all'istruttoria dei procedimenti e non implicava alcuna autonomia decisionale o di spesa ed alcun trasferimento sostanziale di funzioni''.
Il sindaco di un comune fu condannato per più violazioni antinfortunistiche, ``per avere, quale datore di lavoro, omesso di attuare le misure necessarie al fine di verificare che i luoghi di lavoro (scuola materna comunale) venissero sottoposti alla regolare manutenzione tecnica ed eliminare quanto più rapidamente possibile i difetti rilevati, tali da pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori''. A propria discolpa, l'imputato deduce ``l'avvenuta individuazione, da parte del comune, del responsabile del servizio scuole nella persona di un dirigente comunale'', e ciò per ``il principio della distinzione tra ruolo politico e ruolo amministrativo nell'ambito dell'ente locale''. La Sez. III non è d'accordo. E nel condurre un discorso tutto basato sulla responsabilità del sindaco come datore di lavoro all'interno della scuola, afferma che, ``in tema di tutela della sicurezza e salute dei luoghi di lavoro negli enti locali, per datore di lavoro deve intendersi il dirigente al quale spettano poteri di gestione, ivi compresa la titolarità di autonomi poteri decisori in materia di spesa'', e che ``la condizione necessaria per riconoscere in capo al dirigente la qualità di datore di lavoro è che questo sia dotato di effettivi poteri gestionali, decisionali e di spesa''. Ricorda, altresì, che ``il dirigente del settore manutenzione del patrimonio edilizio comunale, pur potendo assumere la qualità di datore di lavoro ex art. 2, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008, non è responsabile delle violazioni che sanzionano la mancata esecuzione degli interventi di messa in sicurezza e ristrutturazione degli edifici scolastici, qualora risulti in concreto privo di autonomi poteri gestionali, decisionali e di spesa''. Ne desume che, ``qualora l'organo politico dell'ente locale sia imputato di una violazione in materia di sicurezza sul lavoro, incombe sullo stesso l'onere della prova dell'esistenza di un soggetto dirigente dotato di competenza nel settore, nonché dei mezzi per esercitare in concreto detta competenza''. Aggiunge che, nel caso di specie, l'imputato ``non ha fornito in concreto alcuna prova né dell'effettivo conferimento della qualifica dirigenziale del servizio scuole comunale, né di quali siano l'oggetto e i limiti di tale eventuale conferimento, né della disponibilità da parte del dirigente di autonomi poteri ai fini della realizzazione della regolare manutenzione tecnica e della tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori scolastici''.
Non è la prima volta che un sindaco viene chiamato in causa per la violazione di norme antinfortunistiche rilevate nell'ambito di una scuola. Semmai può sorprendere che questa responsabilità gli venga attribuita nella veste di datore di lavoro. L'art. 18, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008 prevede, infatti, che ``gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del presente decreto legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione'', e che ``in tale caso gli obblighi previsti dal presente decreto legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico''. Contempla, dunque, un sistema di sicurezza delle scuole imperniato su una duplice posizione di garanzia: la posizione di garanzia facente capo alla scuola in quanto datrice di lavoro; e la posizione di garanzia facente capo all'ente proprietario, all'amministrazione tenuta. (V. in proposito Cass. 22 marzo 2016, in ISL, 2016, 6, 336; Cass. 21 gennaio 2016, ibid., 2016, 3, 115; Cass. 1° settembre 2014, R.C., Porretta e altri, ibid., 2014, 11, 549. Per la giurisprudenza risalente all'epoca dei D.P.R. degli anni cinquanta, e segnatamente del D.P.R. n. 547/1955, Guariniello, Sicurezza del lavoro e Corte di Cassazione, Il Repertorio 1988-1994, Milano, 1994, 182 s.). Circa il distinguo tra designazione del datore di lavoro pubblico e delega di funzioni v. Cass. n. 9343 del 18 marzo 2021, sub art. 16, al paragrafo 33.
Un dipendente comunale occupato presso l'area ecologica ``accedeva in una zona di detta area ove erano in corso operazioni di smaltimento di materiali ferrosi a cura di una ditta che ne aveva assunto l'appalto'', e, ``in tale occasione, veniva investito dalla caduta di una lavatrice che stava per essere caricata su un rimorchio''. Per lesioni personali colpose fu condannato il responsabile, nell'ambito del comune, del servizio lavori pubblici manutenzione patrimonio e servizi ambientali, ``per non avere curato in tale veste la compilazione del documento di valutazione dei rischi da interferenze (DUVRI), omettendo così di prevedere cautele e misure volte a evitare l'accesso di persone all'area ecologica durante le operazioni di carico di materiali da smaltire''. A sua discolpa, l'imputato deduce che ``egli non poteva ricoprire, nella sua qualità di funzionario comunale, la posizione datoriale, che nell'ambito della sua amministrazione di competenza spetta al sindaco'', e rileva, inoltre, che ``egli non ha mai ricevuto una delega avente i requisiti di cui al D.Lgs. 81/2008''. Nel confermare la condanna, la Sez. IV premette che, in forza dell'art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 81/2008, ``per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa''. Rileva che ``ciò appare perfettamente coerente con il principio di separazione fra funzioni di indirizzo politico e di gestione negli enti locali, ormai invalso da tempo nel nostro sistema e recepito, oltre che dal D.Lgs. n. 165/2001, anche dall'art. 107 del Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli Enti locali, approvato con D.Lgs. n. 267/2000''. Ne desume che, ``in tale sistema di separazione fra le due distinte forme di responsabilità - politica e gestionale - non può farsi questione circa la sussistenza o meno, in capo al dirigente o al funzionario comunale titolare di poteri di gestione e d'impegno di spesa, di una delega di funzioni sul modello e per le finalità di cui all'art. 16, D.Lgs. n. 81/2008'', e che ``siffatta delega ha rilievo laddove il soggetto destinatario di compiti e funzioni propri del datore di lavoro sia, per ciò stesso, soggetto distinto dal datore di lavoro medesimo: ciò che accade nelle ordinarie realtà aziendali e nell'ambito dei modelli organizzativi di natura privatistica''. Sostiene che, ``nella specie (ossia nell'ambito del modello organizzativo tipizzato dalla legge con riguardo all'amministrazione comunale), l'imputato era stato individuato, con uno specifico atto, quale soggetto cui erano state conferite funzioni specifiche comprensive dell'esercizio di poteri decisionali e di spesa (nei termini esplicitamente previsti dal citato art. 2, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008) e assumeva perciò, ope legis, la corrispondente posizione datoriale''. Spiega che, ``con l'atto di individuazione, emanato ai sensi dell'art. 2, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008, vengono trasferite al dirigente pubblico tutte le funzioni datoriali, ivi comprese quelle non delegabili, il che rende non assimilabile detto atto alla delega di funzioni disciplinata dall'art. 16 del medesimo decreto legislativo'', ``ciò in quanto, con il suddetto atto d'individuazione, il soggetto depositario di poteri gestionali e di spesa assume ex lege la qualifica datoriale''. E conclude che, ``in tale veste, incombeva all'imputato la compilazione del documento di valutazione dei rischi interferenziali, compito assegnato al datore di lavoro dall'art. 26, comma 3, del D.Lgs. n. 81/2008 e ricompreso fra gli obblighi datoriali connessi ai contratti d'appalto o d'opera o di somministrazione''.
È da notare che tutto sta a verificare se il dirigente individuato come datore di lavoro risulti effettivamente dotato di ``autonomi poteri decisionali e di spesa'', e che, per altro verso, il DUVRI di cui all'art. 26, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008, a differenza del DVR previsto dall'art. 28, D.Lgs. n. 81/2008, non è un atto indelegabile del datore di lavoro.
Nell'impianto di depurazione del comune di Mineo, all'interno del pozzetto di ricircolo dei fanghi, morirono sei operai, quattro dipendenti del comune e due di una s.r.l. incaricata di effettuare l'espurgo della condotta di collegamento tra la vasca del biorotore (ossia la vasca in cui avviene il nucleo del trattamento depurativo mediante un processo di rimozione e trasformazione delle sostanze inquinanti) e la vasca di sedimentazione finale (ossia la vasca in cui si raccolgono i fanghi successivamente al processo di sedimentazione primaria). Sei i condannati per omicidio colposo. Tre nell'ambito del comune: il responsabile area servizi tecnologici e del territorio, dirigente dell'ufficio tecnico del comune; il responsabile del servizio lavori pubblici, manutenzioni e sicurezza sul lavoro, subentrante nelle competenze di responsabilità dell'area in caso di assenza temporanea del responsabile; l'assessore con delega ai lavori pubblici, al servizio idrico integrato, all'ecologia, ai servizi tecnologici. E tre nell'ambito della s.r.l.: il legale rappresentante e presidente del consiglio d'amministrazione; il responsabile del servizio di prevenzione e protezione; il preposto con qualifica di capo cantiere. La Sez. IV annulla con rinvio la condanna dell'assessore per nuovo esame. Annulla con rinvio la condanna dei due dirigenti comunali limitatamente al trattamento sanzionatorio (peraltro con dichiarazione di irrevocabilità della condanna in ordine all'affermazione di responsabilità). Annulla senza rinvio la condanna dell'RSPP per non aver commesso il fatto. Conferma, invece, la condanna per omicidio colposo del presidente del consiglio di amministrazione e del preposto della s.r.l.
a) Per quel che concerne ``le funzioni datoriali nelle pubbliche amministrazioni'', la Sez. IV, dopo aver ribadito gli insegnamenti impartiti dalla più recente giurisprudenza della Corte Suprema, distingue ``gli effetti dell'individuazione del dirigente pubblico al quale viene conferita la qualifica di datore di lavoro dalle conseguenze giuridiche della delega di funzioni datoriali disciplinata dall'art. 16 D.Lgs. n. 81/2008''. Rileva che ``l'atto di individuazione è correlato alla specialità della disciplina dettata per le pubbliche amministrazioni, alle quali non si applicano i criteri di imputazione della responsabilità per cosiddetta colpa di organizzazione individuati dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 e dall'art. 30 D.Lgs. n. 81/2008'', e che ``tale specialità impone di chiarire che al dirigente così individuato competono tutte le funzioni datoriali, senza distinzione tra funzioni delegabili e non delegabili, in ragione della qualifica di datore di lavoro che tale soggetto viene ad assumere''. Ritiene di desumerne che, ``in tema di norme per la prevenzione degli infortuni, la normativa vigente esclude che si possa ascrivere all'organo di vertice, anche se di un comune di modeste dimensioni, quale organo politico, ogni violazione di specifiche norme antinfortunistiche, quando risulti individuato il dirigente con qualifica di datore di lavoro in correlazione all'ubicazione ed all'ambito funzionale del singolo ufficio'', e che ``negli enti locali, che rientrano nel novero delle pubbliche amministrazioni, la qualifica di datore di lavoro, ai fini della normativa sulla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, con tutte le conseguenze che tale qualifica comporta, è riconosciuta al dirigente dotato di poteri di gestione e titolare di autonomi poteri decisionali anche in materia di spesa, tenuto conto della ripartizione di funzioni indicata dall'ordinamento degli enti locali (art. 107 D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267), che conferisce ai dirigenti amministrativi autonomi poteri di organizzazione delle risorse''. Aggiunge che ``il principio di separazione tra politica ed amministrazione delineato dall'art. 107 D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (in precedenza, art. 51 L. 8 giugno 1990, n. 142 e per tutte le Amministrazioni pubbliche art. 3 D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29) implica una fondamentale distinzione tra le funzioni di indirizzo politico-amministrativo e quelle di amministrazione'': ``le prime competono agli organi di governo, i quali le esercitano definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento delle predette funzioni, con verifica della rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti; le seconde rientrano nella sfera di competenza dei dirigenti, ai quali spetta l'adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, compresi tutti quelli che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. I dirigenti sono responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati''. ``Da tale assetto'', desume che ``gli obblighi di controllo sulla fonte del rischio spettano al dirigente responsabile del corrispondente servizio tecnico; l'organo politico risponde, per tale profilo, di atti o condotte omissive che abbiano privato il dirigente della reale autonomia di spesa, funzionale agli interventi necessari per neutralizzare il rischio'', e ``rispetto alla tutela dei lavoratori da rischi derivanti dall'ambiente di lavoro, la posizione di garanzia spetta, dunque, negli enti pubblici al dirigente individuato come datore di lavoro ed al preposto''. In questo quadro, la Sez. IV afferma che ``l'impianto normativo del T.U.E.L. riserva, in sostanza, all'autonomia autoorganizzatoria degli enti locali, mediante l'adozione di specifiche norme di rango regolamentare, in conformità alle norme statuarie, l'organizzazione degli uffici e dei servizi, nonché l'attribuzione delle facoltà gestionali ai dirigenti'', ed ``è pertanto in tale ambito che occorre provvedere all'individuazione del dirigente o del funzionario responsabile delle procedure stabilite in materia di sicurezza; spetta, in altre parole, al regolamento dell'ente, in raccordo con lo Statuto, provvedere all'organizzazione degli uffici e dei servizi, ricercando i dipendenti dirigenti, o non dirigenti, in relazione alla tipologia dell'ente, cui attribuire le responsabilità connesse al procedimento, anche in materia di sicurezza sul lavoro (e di ambiente), in relazione alle specifiche professionalità possedute dai medesimi''. È un fatto comunque che, nel caso di specie, ``con determinazioni sindacali, il responsabile area servizi tecnologici e del territorio era stato formalmente destinatario di atto di individuazione quale dirigente dell'ufficio tecnico comunale, avente autonomia gestionale, e datore di lavoro, né risulta che alla citata qualifica non corrispondessero i relativi poteri''.
(È da notare, peraltro, che, come si ricava dall'art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 81/2008, ``in caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo'', e che trova applicazione anche nelle pubbliche amministrazioni il principio di effettività statuito dall'art. 299, D.Lgs. n. 81/2008: v., in particolare, con specifico riguardo al comune, Cass. n. 35295 del 21 agosto 2013 e Cass. n. 43846 del 21 ottobre 2014; nonché, a ben vedere, del medesimo estensore della sentenza qui commentata, Cass. n. 22415 del 27 maggio 2015).
b) A questo punto, la Sez. IV sottolinea ``la necessità di delineare con chiarezza, e con differenziazione rispetto ai doveri datoriali, quale sia l'ambito entro il quale si manifesta in capo all'organo di vertice dell'ente, o all'assessore delegato, l'obbligo di gestire il rischio derivante ai lavoratori dalle mansioni svolte presso strutture ed impianti pubblici''. Premette che, ``per il Sindaco, la norma di riferimento è l'art. 50 T.U.E.L., che definisce il primo cittadino come organo responsabile dell'amministrazione del Comune'', e che, ``sebbene la disposizione faccia esplicito riferimento alla delimitazione dei poteri del sindaco con quanto previsto dall'art. 107 (Funzioni e responsabilità dei dirigenti) e quindi ad una distinzione tra poteri di indirizzo e poteri di concreta gestione, ciò non esclude che il primo cittadino debba svolgere un ruolo di controllo sull'operato dei suoi dirigenti e che analogo controllo siano tenuti a svolgere gli assessori con riguardo ai dirigenti che operano nei settori di loro competenza''. Osserva che, ``con riguardo alla messa in sicurezza degli impianti di proprietà dell'ente, la posizione di garanzia dell'organo politico non è, in particolare, esclusa dall'attribuzione dei compiti di gestione ai dirigenti amministrativi perché si versa in un'area di rischio che può derivare anche da scelte di indirizzo politico dell'ente'', e che, ``onde evitare ogni forma di automatismo tra posizioni apicali e responsabilità omissive è, in ogni caso, necessario verificare la concreta conoscenza o conoscibilità della situazione di pericolo''. Rileva che ``l'assessore con delega ai lavori pubblici, al servizio idrico integrato, all'ecologia, ai servizi tecnologici è stato ritenuto responsabile sia per culpa in eligendo, con riferimento alla scelta di persona priva delle necessarie competenze quale addetto al depuratore, sia per culpa in vigilando, per non avere verificato con la necessaria cura il funzionamento del depuratore, in virtù del principio di equivalenza causale di plurime posizioni di garanzia'', e che ``la sua posizione di garanzia è stata desunta dall'esistenza di una delega con correlate funzioni di spesa, programmazione, indirizzo e controllo nei settori lavori pubblici, servizio idrico integrato, ecologia e servizi tecnologici e dal fatto che le vicende del depuratore, uno degli impianti più importanti nel piccolo comune, non potessero sfuggire alla sua attenzione''. Sicché ``il mancato smaltimento dei fanghi dopo diversi anni di attività del depuratore avrebbe dovuto allertare l'assessore preposto al settore, al di là degli esiti delle analisi dei reflui, soprattutto in presenza di note con le quali l'autorità regionale competente chiedeva informazioni sul quantitativo di rifiuti prodotto dall'impianto''. La Sez. IV non è convinta da questa argomentazione, e annulla con rinvio la condanna dell'assessore, considerando carente ``l'individuazione dei presupposti di fatto sui quali si fonda nel caso concreto l'obbligo di garanzia gravante sull'assessore'', sia sotto il profilo della culpa in eligendo, sia sotto il profilo della culpa in vigilando.
Non agevolmente comprensibile è l'attribuzione nella seguente sentenza della qualità di datore di lavoro ad un preposto quale un caposquadra dei vigili del fuoco:
``Nelle pubbliche amministrazioni, la qualifica di datore di lavoro ai fini della normativa sulla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro deve intendersi attribuita al dirigente al quale spettano poteri di gestione, compresa la titolarità di autonomi poteri decisionali''. (La sentenza è riportata più ampiamente sub art. 3, al paragrafo 17).
F) Singolare, poi, rimane la fattispecie esaminata con riguardo agli uffici giudiziari da:
Un dipendente pubblico in servizio alla procura della repubblica presso il tribunale (successivamente trasferito d'ufficio al tribunale con qualifica di ausiliario), rinviato a giudizio per il reato di cui all'art. 314 c.p. innanzi il medesimo tribunale, presenta istanza di ricusazione nei confronti del presidente, in quanto costui, presidente del tribunale e del collegio chiamato a giudicarlo, quale capo dell'ufficio, doveva considerarsi figura assimilata al datore di lavoro, ricorrendo pertanto l'ipotesi di cui all'art. 36, lettera b), e 37 c.p.p.: tanto più che, presso il tribunale, era vacante il ruolo di dirigente amministrativo, sicché i compiti di controllo sul personale dovevano ritenersi attribuiti al capo dell'ufficio giudiziario, e che il presidente del tribunale, quale capo dell'ufficio giudiziario, era portatore di un interesse all'esito del giudizio penale in questione, che riguardava fatti posti in essere da esso imputato quale dipendente della amministrazione giudiziaria. La Sez. VI ritiene che, ``al di là di quanto previsto da specifiche disposizioni di legge, l'equiparazione del capo dell'ufficio giudiziario al datore di lavoro nei confronti del personale amministrativo rappresenta una evidente forzatura del dato normativo, trattandosi con tutta evidenza di rapporto regolamentato in via pubblicistica e svolto in maniera impersonale e obiettiva, oltre che mediato da altre figure professionali'', e che ``il fatto che, per ragioni contingenti, era mancante il dirigente amministrativo, pur comportando il temporaneo svolgimento da parte del capo dell'ufficio giudiziario di talune competenze normalmente riservate al primo, era circostanza che non spostava in alcun modo i termini della questione, posto che comunque si trattava di competenze che non incidevano sulla titolarità del potere disciplinare nei casi più gravi, quale quello di specie''. Chiarisce che ``l'interesse nel procedimento, cui fa riferimento l'art. 36, comma 1, lettera a), c.p.p., è quello per il quale il giudice ha la possibilità di rivolgere a proprio vantaggio economico o morale l'attività giurisdizionale che è stato chiamato a svolgere nel processo oppure che si è venuta a creare sulla base di rapporti personali svoltisi al di fuori del processo''. Sottolinea che ``il capo dell'ufficio giudiziario non aveva, in quanto tale, alcun interesse ad un determinato esito del procedimento, ma agiva unicamente al fine di correttamente esercitare il potere disciplinare''.
G) Il datore di lavoro è da individuare a prescindere dallo specifico adempimento:
In una raffineria, tre dipendenti di un'impresa appaltatrice di lavori di bonifica di un impianto muoiono per asfissia da ridotta concentrazione di ossigeno in ambiente confinato dopo essere entrati nel serbatoio di accumulo. La Sez. IV conferma la condanna del datore di lavoro e del direttore di stabilimento della s.p.a. committente, imputati di omicidio colposo al pari del datore di lavoro dell'impresa appaltatrice. A sua discolpa, il datore di lavoro committente solleva una questione di grande interesse. Sostiene, infatti, che l'art. 2, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008 impone di attribuire la posizione datoriale a colui che esercita i poteri decisionali e di spesa il cui esercizio è necessario ma anche sufficiente ad evitare il verificarsi dell'evento che si è realizzato E spiega: ``l'identificazione della persona fisica in capo alla quale deve ritenersi costituita la posizione di garanzia che la legge attribuisce al cd. datore di lavoro si snoda attraverso i seguenti passaggi cruciali: (i) in primo luogo, occorre definire quale evento concreto - e quale dinamica - si sia storicamente verificata; (ii) in secondo luogo, bisogna identificare l'esercizio di quale potere avrebbe effettivamente impedito il verificarsi di quell'evento; (iii) infine, si tratta di individuare la figura aziendale titolare dei poteri che, in tale determinata situazione concreta ed in relazione all'evento occorso nel caso di specie, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento stesso, in virtù della titolarità di poteri decisionali e di spesa idonei a conferirle la responsabilità dell'azienda o di una sua unità produttiva, qualora si tratti di aziende di grandi dimensioni e con un'articolata partizione interna di ruoli e funzioni''. Con lucidità, la Sez. IV ribatte che una simile tesi ``è errata, perché confonde il piano dell'identificazione della posizione di garanzia (in una dimensione per così dire `statica') con quello dell'individuazione della condotta cautelare che si sarebbe dovuta tenere (dimensione `dinamica' della responsabilità colposa)''. Precisa che, ``per quanto le due operazioni possano avere punti di contatto (come hanno punti di contatto l'obbligo di diligenza e la diligenza doverosa), si tratta di piani distinti''. Spiega che ``alla ricerca della posizione datoriale va identificato chi sia munito dei poteri qualificanti, ai sensi dell'art. 2, lettera b), D.Lgs. 81/2008, operazione che prescinde totalmente dall'evento concretamente determinatosi, dovendosi guardare alla relazione tra poteri e plesso organizzativo, nel senso che va ricercato chi sia munito dei poteri di `governo' del plesso in questione, secondo i dettami della disposizione testé menzionata''. Osserva che, ``allorquando l'evento illecito si verifica concretamente, imposto dalla necessità dell'accertamento penale che ipotizza una responsabilità colposa, inizia a dipanarsi un percorso a ritroso che da quello conduce alla misura cautelare non osservata che, ove adottata, sarebbe valsa ad evitarlo [ad esempio, la fornitura della cintura di sicurezza]; e quindi all'accertamento dell'inerenza di quella regola all'area di rischio governata da questo o da quel garante''. Ma subito aggiunge che ``chi debba essere identificato come datore di lavoro non dipende dal fatto che nella vicenda concreta a dover essere osservata era la prescrizione, indirizzata al datore di lavoro, di fornire la cintura di sicurezza; bensì dalla titolarità dei poteri di cui al menzionato art. 2, lettera b), D.Lgs. 81/2008''. Con riguardo al caso di specie, pone in risalto ``l'omesso adempimento di un obbligo datoriale, quale quello dell'aggiornamento dei documenti di valutazione del rischio'', e, dunque, ``inadempienze che chiamano in causa la figura datoriale''. E considera ``incongrua l'evocazione del principio di effettività (art. 299, D.Lgs. n. 81/2008)'', dal momento che ``il potere datoriale era stato concretamente esercitato da parte dell'imputato (previsione della doppia firma e convenzione per la nomina di coordinatore per la sicurezza)''.
H) Inoltre, il datore di lavoro è da individuare a prescindere dal possesso di competenza tecnica:
``La redazione del documento di valutazione dei rischi e l'adozione di misure di prevenzione non escludono la responsabilità del datore di lavoro quando, per un errore nell'analisi dei rischi o nell'identificazione di misure adeguate, non sia stata adottata idonea misura di prevenzione''.
``Il legale rappresentante non può esimersi da responsabilità adducendo una propria incapacità tecnica, in quanto tale condizione lo obbliga al conferimento a terzi dei compiti in materia antinfortunistica''.
``Se il datore di lavoro è una persona giuridica, destinatario delle norme è il legale rappresentante dell'ente imprenditore, quale persona fisica attraverso la quale il soggetto collettivo agisce nel campo delle relazioni intersoggettive, così che la sua responsabilità penale, in assenza di valida delega, è indipendente dallo svolgimento o meno di mansioni tecniche, attesa la sua qualità di preposto alla gestione societaria. Il legale rappresentante non può esimersi da responsabilità adducendo una propria incapacità tecnica, in quanto tale condizione lo obbliga al conferimento a terzi dei compiti in materia antinfortunistica''.
``Destinatario della normativa antinfortunistica in una impresa strutturata come persona giuridica è il suo legale rappresentante, quale persona fisica attraverso cui l'ente collettivo agisce nel campo delle relazioni intersoggettive; ne consegue che la responsabilità penale del predetto, ad eccezione delle ipotesi di valida delega, deriva dalla sua qualità di preposto alla gestione societaria ed è indipendente dallo svolgimento, o meno, di mansioni tecniche''.
I) Per quel che concerne le società di persone:
Infortunio addebitato al socio accomandatario legale rappresentante e al socio accomandatario nonché preposto di fatto di una s.a.s.. La Sez. IV conferma la condanna: ``La responsabilità penale del datore di lavoro, nel caso di specie di entrambi gli imputati, non è affatto esclusa per il solo fatto che sia stato designato uno dei soci amministratori quale responsabile del servizio di prevenzione e protezione trattandosi di soggetto che in quanto tale agiva come ausiliario del datore di lavoro che perciò rimane direttamente obbligato ad assumere le iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio''.
I legali rappresentanti di una s.n.c. condannati per un infortunio subito da un dipendente sostengono essi ``erano entrambi soci amministratori della società'', e che l'uno aveva conferito delega all'altro in materia di sicurezza. Ribatte la Sez. IV: ``quanto all'eventuale delega al co-amministrare, sono stati esclusi i presupposti per la validità di una tale delega: la circostanza che entrambi gli imputati fossero soci amministratori è proprio quella che comporta la responsabilità di entrambi, laddove l'esistenza di una delega non risulta essere stata dimostrata''. (V. pure Cass. 26 febbraio 2016, n. 7897).
Per l'infortunio mortale al socio accomandatario di una s.a.s. caduto dal tetto di un capannone, la Sez. IV conferma la condanna - oltre che della legale rappresentante della società proprietaria del capannone e committente dei lavori di bonifica del tetto dall'amianto e del progettista direttore dei lavori che aveva ricevuto l'incarico di predisporre il piano di sicurezza - anche del socio accomandante della s.a.s. appaltatrice di tali lavori, con l'accusa di ``non aver adottato idonee misure di sicurezza''. E osserva: ``Un complesso di fattori evidenziano il perdurare della situazione di amministratore dell'imputato collegata ad una sua ingerenza nella attività della s.a.s.: non solo egli figurava quale sottoscrittore del contratto di appalto di cui si discute, ma il suo ruolo di soggetto `di riferimento' della s.a.s. risultava da molteplici dichiarazioni testimoniali che lo indicavano come il vero referente della società tanto da poter essere considerato l'amministratore di fatto. Ora, la giurisprudenza di legittimità ha spesso integrato i criteri sostanziali e formali da cui può derivare la assunzione di una posizione di garanzia e, oltre a fare riferimento alla veste giuridica rivestita, corrispondente ad una ipotesi normativa o contrattuale, ha sottolineato, fin da epoca risalente, che la individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e sull'igiene del lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto. Peraltro, l'assunzione della posizione di garanzia in base ad un'assunzione di fatto di poteri inerenti obblighi di tutela è attualmente normativamente prevista, in tema di sicurezza sul lavoro, nel caso di chi, pur sprovvisto di formale investitura, `esercita in concreto i poteri giuridici riferiti' al datore di lavoro, al dirigente e al preposto (D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 299), e ciò conferma la correttezza del precedente orientamento giurisprudenziale. Deve pertanto concludersi che corretta è stata l'attribuzione all'imputato di una posizione di garanzia nei confronti dell'infortunato in relazione ai ruoli dagli stessi assunti e a prescindere dalle rispettive qualifiche formali. Dovendosi ulteriormente precisare che l'assunzione da parte del socio accomandante di poteri di rappresentanza che per legge sono riservati all'accomandatario non ha affatto l'automatica conseguenza della inesistenza del contratto in tal modo concluso, ma comporta soltanto, da un lato, la perdita del beneficio della responsabilità limitata verso i terzi del socio accomandante e, dall'altro, la possibilità per la società falsamente rappresentata di ecce pire l'inefficacia del contratto stesso, facoltà di cui la s.a.s. non ha in alcun modo dimostrato di volersi avvalere''.
``Nella società in nome collettivo la responsabilità aziendale, amministrativa, contabile e civile si radica indistintamente su tutti i soci, con la conseguenza che tutti, nella qualità di datori di lavoro, assumono il ruolo di garanti penalmente responsabili per la sicurezza sul lavoro''.
``La responsabilità dei tre datori di lavoro è correttamente correlata al doppio dato della loro eguale qualità di soci e della effettiva dotazione per ciascuno di pari poteri gestori. L'addebito di mancata osservanza di regole generali e di regole specifiche in ogni caso attinenti al sistema organizzato della s.n.c. dei tre fratelli offre adeguato fondamento alla motivazione che ritiene irrilevante la assenza dal cantiere nel giorno dell'infortunio di uno dei tre fratelli''.
La Corte Suprema prende in esame un'ipotesi di infortunio subito dal dipendente di una s.n.c. ``incaricato di recarsi presso la sede di un'altra ditta allo scopo di valutare i lavori da eseguire per lo smontaggio di alcune strutture site presso uno stabilimento non più in uso, al fine di formulare un preventivo alla ditta committente'', e precipitato a terra durante il sopralluogo dal tetto di una cella frigorifera.
Quanto alla posizione di garanzia ricoperta dall'imputato, la Sez. IV nota che, ``ove anche erroneamente fosse stato indicato l'imputato quale rappresentante legale, ciò non varrebbe ad escluderne la responsabilità per l'infortunio, posto che, in tema di infortuni sul lavoro, l'accertamento della qualità di destinatario delle norme antinfortunistiche va condotto con riferimento alle mansioni in concreto svolte e alla specifica sfera di responsabilità attribuita'', e che, ``prescindendo dalla riconducibilità al soggetto di una veste istituzionale all'interno dell'impresa, tale qualità non può non essergli riconosciuta allorché egli si comporti, di fatto, come se l'avesse, impartendo disposizioni nell'esecuzione delle quali il lavoratore subisca danni per il mancato rispetto di norme prevenzionali''. Osserva che, ``nel caso di specie, a prescindere dalla considerazione secondo cui la responsabilità per violazioni commesse nell'ambito di una società in nome collettivo ricadono su ciascuno dei soci allorché non sia stato nominato un amministratore che abbia assunto su di sé la gestione della società e le relative responsabilità, è stato, comunque, pacificamente accertato, non solo che all'imputato era stata rilasciata procura institoria (che certamente lo ha in qualche modo preposto all'attività d'impresa - pur se, secondo quanto sostenuto nella sentenza impugnata, non gli ha conferito specifici poteri in tema di prevenzione di infortuni - e dunque in posizione certo sovraordinata rispetto ai lavoratori dipendenti della società), ma anche che è stato proprio l'imputato ad incaricare il lavoratore di recarsi presso la sede della ditta committente per eseguire sul posto i controlli e le verifiche finalizzati alla stesura di un preventivo di spesa'': ``circostanza, quest'ultima, che, da un lato, ribadisce, quantomeno, la posizione di gestore di fatto dell'azienda assunta dall'imputato, dall'altro, ne individua precise responsabilità nei confronti del lavoratore per la mancata messa a disposizione del lavoratore dei presidi di sicurezza idonei ad evitare che lo stesso rimanesse vittima di infortuni''.
``L'obbligo di adottare le misure idonee e necessarie alla tutela dell'integrità fisica dei lavoratori, quando si tratti di società di persone e non risulti l'espressa delega a persona di particolare competenza nel settore della sicurezza, incombe su ciascun socio''.
Non è facile ricomporre in un quadro unitario gli orientamenti emersi in passato nella giurisprudenza della Corte di cassazione in merito allo spinoso problema concernente l'identificazione dei soggetti penalmente responsabili per violazioni antinfortunistiche nell'ambito di un'impresa con più titolari. In numerosi casi, il Supremo Collegio afferma che, nell'ipotesi di impresa retta da due soci che non hanno nominato un direttore tecnico, se non risulta provata l'assegnazione ad un socio delle mansioni tecniche e all'altro di quelle amministrative, la responsabilità penale per un infortunio sul lavoro deve gravare su entrambi i soci (cosi, ad es., Cass. 11 luglio 1983, Minetta, in Riv.pen., 1984, 346). In altri casi, precisa che ``l'azienda coinvolge e rende corresponsabili, nel suo dinamismo produttivo, tutti i contitolari dell'impresa, anche sotto il profilo della prevenzione degli infortuni sul lavoro, essendo i medesimi tenuti su un piano di parità alla osservanza delle norme antinfortunistiche indipendentemente dalla ripartizione dei rispettivi compiti, che per ragioni interne di carattere organizzativo hanno ritenuto di attribuirsi per il buon andamento dell'azienda'' (in questo senso, tra le altre, Cass. 18 marzo 1985, Segarelli, in Riv.pen., 1986, 839). Successivamente, Cass. 3 agosto 1995, Bosia e altro, in Dir.prat.lav., 1995, 41, 2619, afferma che ``l'azienda coinvolge e rende corresponsabili nel suo dinamismo produttivo tutti i contitolari dell'impresa, essendo gli stessi tenuti, allorché si ingeriscano nella conduzione aziendale, su un piano di parità all'osservanza delle norme antinfortunistiche, indipendentemente dalla ripartizione dei rispettivi compiti che, per ragioni interne di carattere organizzativo, hanno ritenuto di attribuirsi'' (conforme Cass. 3 agosto 1995, Caccioppoli, inedita). Meno drastica appare l'analisi sviluppata in Cass. 7 settembre 1995, P.M. in c. Pasin e altri, ibid., 1995, 41, 2619: ``Se è vero che, almeno in linea di principio, deve ritenersi che, nel caso di società di persone di ridotte dimensioni, i precetti normativi abbiano come destinatari tutti i soci, conseguendone che la loro inosservanza comporta la responsabilità penale di tutti, pur tuttavia anche in questa ipotesi non può prescindersi da una valutazione in concreto che può eventualmente condurre, nella specifica fattispecie, a diversa conclusione. Nelle società di persone, dovendo presumersi che tutti i soci abbiano compiti di direzione e gestionali e tenuto conto della loro solidale responsabilità verso i terzi, coerentemente si afferma che su tutti e su ciascuno incomba l'osservanza degli obblighi a tutela dei lavoratori. Qualora peraltro risulti rigorosamente provato che tra gli stessi si sia preventivamente concordato che a uno o ad alcuni di essi venga affidato il compito di gestione dell'impresa e ogni facoltà decisionale, con gli obblighi connessi alla gestione e alla assunzione di responsabilità, con assoluta assenza di ingerenza in tali campi da parte degli altri, dovrà derivarne che solo sui primi faccia carico il dovere di assicurare il regolare svolgimento della attività lavorativa''. Dopo, Cass. 5 settembre 1997, Bombardieri, in ISL, 1997, 11, 641, afferma che, trattandosi di società di persone, ``l'obbligo di adottare le misure idonee e necessarie alla tutela dell'integrità fisica dei lavoratori incombe su ciascun socio, risultando altresì l'inesistenza di una espressa delega a persona di particolare competenza nel settore della sicurezza con piena autonomia decisionale''. A sua volta, Cass. 28 maggio 1999, Fanelli e altri, ibid., 1999, 7, 435, esamina una fattispecie in cui i soci di una società in nome collettivo - condannati, per non aver accertato mediante visita medica periodica, ad intervalli non superiori ad un anno, l'idoneità di un apprendista adolescente - avevano sostenuto che soltanto uno dei soci sarebbe stato delegato agli adempimenti riguardanti gli apprendisti. Replica che, ``in tema di responsabilità penale dei singoli soci di una società in nome collettivo bisogna distinguere il caso in cui vi sia stata la nomina dell'amministratore da quello in cui tale designazione manchi''. Infatti, ``nella prima ipotesi l'amministratore assume su di sé l'intera gestione della società e, salvo diversa prova, gli altri soci sono estranei''. Invece, ``nella seconda ipotesi, bisogna differenziare l'illecito, consistente in un comportamento attivo, da quello integrato da una semplice omissione'': ``nella condotta commissiva la responsabilità va ascritta al singolo socio che lo ha posto in essere, in base al principio costituzionale di cui all'art. 27, secondo cui la responsabilità è personale''; ``ove, invece, la violazione sia integrata da un'omissione, responsabile è ogni singolo socio, poiché ad ognuno di essi competono per intero i poteri ed i doveri connessi''. La conclusione è che ``la legittimità della decisione pretorile'', poiché ``nella specie non risulta alcuna nomina di un amministratore e l'illecito è di carattere omissivo''. D'altra parte, Cass. 21 maggio 2002, Tesi e altri, ibid., 2002, 8, 444, torna sul tema in un caso in cui per un infortunio sul lavoro i tre soci di una s.n.c. furono condannati per il delitto di lesione personale colposa. Nel respingere il ricorso proposto dagli imputati, la Corte Suprema mette in rilievo che ``i tre imputati erano ugualmente amministratori della società, e non avevano affidato nessuno specifico incarico di responsabilità a chicchessia per vigilare e sovraintendere al settore della sicurezza del lavoro con ampio margine di autonomia''. Aggiunge che ``la responsabilità della prevenzione degli infortuni non poteva che fare capo a loro in modo uguale, a nulla rilevando il fatto che ognuno di loro di fatto si fosse occupato esclusivamente o prevalentemente di una struttura diversa dall'altro socio amministratore, e ciò per la solidale responsabilità della gestione, insita nella natura della società da loro costituita''. E in proposito richiama l'insegnamento per cui ``l'obbligo di adottare le misure idonee e necessarie alla tutela dell'integrità fisica dei lavoratori, quando si tratti di società di persone e non risulti l'espressa delega a persona di particolare competenza nel settore della sicurezza, incombe su ciascun socio''. Ancora, Cass. 15 giugno 2002, Burbassi e altro, ibid., 2002, 8, 444, investita di un caso d'infortunio addebitato al legale rappresentante di una s.n.c., ne respinge la doglianza secondo cui egli ``si occupava, nell'ambito societario, soltanto di questioni amministrative'', sul presupposto che l'imputato, ``nella sua posizione apicale di una s.n.c. di ridotte dimensioni, ha permesso, o non ha saputo impedire, l'utilizzo di uno strumento chiaramente pericoloso''. Inoltre, Cass. 21 maggio 2003, Riboldi e altri, ibid., 2003, 8, 471, con riguardo alle società in nome collettivo - dopo aver precisato che ``la società titolare dello stabilimento ove si è verificato l'infortunio sul lavoro è una società in nome collettivo, e quindi una società di persone'' - afferma che ``in tema di responsabilità per violazione delle norme antinfortunistiche, l'obbligo di adottare le misure idonee e necessarie alla tutela dell'integrità fisica dei lavoratori, quando si tratti di società di persone e non risulti l'espressa delega a persona di particolare competenza nel settore della sicurezza, incombe su ciascun socio''. Infine, Cass. 7 aprile 2003, Suraci e altri, ibid., 2003, 8, 471, nel considerare un infortunio accaduto in un cantiere gestito da una s.r.l., osserva che ``giustamente la responsabilità della omissione delle cautele, causa prossima delle lesioni personali riportate dal lavoratore, è stata attribuita a tutti e tre gli amministratori della s.r.l., senza seguire il criterio proposto dalla difesa che voleva limitarla, al massimo, a chi dei tre si occupava del cantiere in cui si è verificato l'infortunio''. E spiega che ``la macchina irregolare e pericolosa non era, per così dire, specifica di quel cantiere, bensì apparteneva al parco macchine aziendale ed era destinata ad operare in qualsiasi cantiere'', e che ``l'aver posto in funzione una siffatta macchina, in un cantiere o nell'altro, era una decisione degli amministratori della società nella loro attività dirigenziale globale e non già del solo di essi che aveva cura del singolo cantiere''). (Sul tema v., altresì, Cass. 31 maggio 2012, n. 21226, relativa a una s.r.l.).
L'art. 2, comma 1, lett. d), D.Lgs. n. 81/2008 cerca di fornire una definizione di ``dirigente'', beninteso ``ai fini ed agli effetti delle disposizioni dello stesso decreto'':
``Con riferimento a colui che dà in concreto l'ordine di effettuare un lavoro, ma che non impartisce direttive circa le modalità di esecuzione di questo, si tratta di soggetto che con quell'ordine si inserisce ed assume di fatto la mansione di dirigente sicché ha il dovere di accertarsi che il lavoro venga fatto nel rispetto delle norme antinfortunistiche, senza lasciare agli operai, non soliti ad eseguirlo, la scelta dello strumento da utilizzare. La figura di dirigente presuppone l'esistenza di comportamenti ricorrenti, costanti e specifici dai quali desumersi l'effettivo esercizio di funzioni dirigenziali, come tali riconosciute in ambito aziendale, anche nel campo della sicurezza del lavoro, con poteri decisionali al riguardo. Tali principi possono essere mantenuti fermi ma vanno raccordati a quanto previsto dal D.Lgs. n. 81/2008. Il quale, all'art. 2, comma 1, lett. d), definisce indirettamente le funzioni dirigenziali: esse consistono nell'attuazione delle direttive del datore di lavoro, organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa in forza di competenze professionali, poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico. La corte di appello ha attribuito all'imputato la qualifica di dirigente perché organizzava la composizione delle squadre e così determinava la distribuzione dei compiti tra i lavoratori; in tal modo si è conformata ai principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, sia quanto ai poteri che connotano il dirigente sia in merito al rilievo che assume l'esercizio di fatto di quei poteri da parte di chi non è provvisto della qualifica''.
Il dirigente, ``in base alla definizione datane dall'art. 2, comma 1, lettera d), D.Lgs. n. 81/2008, è la `persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa'; trattasi di un soggetto che si colloca ad un livello di responsabilità intermedio che dirige appunto, ad un qualche livello, l'attività lavorativa, un suo settore o una sua articolazione. Tale soggetto non porta le responsabilità inerenti alle scelte gestionali generali; ma ha poteri posti ad un livello inferiore: il fatto che in diversi casi si tratti di soggetti provvisti di potere di spesa non costituisce requisito ineludibile della posizione dirigenziale (ed invero, in plurime pronunzie della Corte di legittimità si afferma che la figura del dirigente dispone `solitamente' - e dunque non necessariamente - di siffatto potere). In forza di tale posizione, deve ritenersi corretta l'attribuzione alla vicaria del ruolo di garante ai fini della prevenzione degli infortuni, anche attraverso la segnalazione dei rischi presenti nell'ambiente di lavoro, atteso che, in base al principio di effettività, assume la posizione di garante colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto''.
``Come il datore di lavoro, anche il dirigente ed il preposto destinatari diretti (iure proprio) delle norme antinfortunistiche, prescindendo da una eventuale `delega di funzioni' conferita dal datore di lavoro. Che si tratti di una responsabilità diretta lo si ricava, del resto, dal disposto degli artt. 55 e 56 del citato D.Lgs. n. 81/2008, laddove, rispettivamente per il dirigente e per il preposto, sono stabilite le sanzioni per l'inosservanza alla normativa precauzionale di cui sono direttamente onerati''.
``Il direttore dello stabilimento di una s.p.a. è destinatario iure proprio, al pari del datore di lavoro, dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega di funzioni, in quanto, in virtù della posizione apicale ricoperta, assume una posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti. Infatti, il compito del direttore dello stabilimento non si esaurisce nella predisposizione di adeguati mezzi di prevenzione e protocolli operativi, essendo lo stesso tenuto ad accertare che le disposizioni impartite vengano nei fatti eseguite e ad intervenire per prevenire il verificarsi di incidenti, attivandosi per far cessare eventuali manomissioni o modalità d'uso da parte dei dipendenti o il mancato impiego degli strumenti prevenzionali messi a disposizione''. ``Il soggetto che riveste la posizione di garanzia deve dapprima impartire le necessarie indicazioni per ovviare ad eventuali criticità presenti all'interno dello stabilimento che possano compromettere la sicurezza o la salute dei dipendenti, provvedendo, in particolare, a predisporre un regolare e frequente controllo, tra le altre cose, dei macchinari e degli impianti utilizzati sottoponendoli quindi ad opportuna manutenzione tecnica''.
``Il direttore generale di una struttura aziendale è destinatario iure proprio, al pari del datore di lavoro, dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega di funzioni, in quanto, in virtù della posizione apicale ricoperta, assume una posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti''.
Infortunio addebitato al socio accomandatario legale rappresentante e al socio accomandatario nonché preposto di fatto di una s.a.s. La Sez. IV conferma la condanna: ``La responsabilità penale del datore di lavoro, nel caso di specie di entrambi gli imputati, non è affatto esclusa per il solo fatto che sia stato designato uno dei soci amministratori quale responsabile del servizio di prevenzione e protezione trattandosi di soggetto che in quanto tale agiva come ausiliario del datore di lavoro che perciò rimane direttamente obbligato ad assumere le iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio''.
``Il direttore generale di una struttura aziendale è destinatario `iure proprio', al pari del datore di lavoro, dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega di funzioni, in quanto, in virtù della posizione apicale ricoperta, assume una posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti''.
In uno stabilimento industriale scoppia un serbatoio contenente azoto, muoiono quattro lavoratori: tre dipendenti della società esercente lo stabilimento industriale, e un tecnico manutentore di un'altra società a sua volta incaricata di gestire l'impianto di produzione e stoccaggio di azoto ubicato in un'area recintata posta all'interno dello stabilimento industriale. Furono imputati di omicidio colposo, in particolare, quattro responsabili della società esercente l'impianto di produzione e stoccaggio di azoto: il direttore generale della società; il direttore dell'unità operativa locale interessata dallo scoppio del serbatoio in qualità di datore di lavoro; il responsabile tecnico e l'RSPP di tale unità operativa locale. Anzitutto, la Sez. IV annulla la condanna del direttore generale della società. Prende atto che costui ``rivestiva la qualifica di direttore generale dell'azienda, ed era stato investito dal consiglio di amministrazione di specifici compiti in materia di sicurezza e vigilanza''. Rileva che, ``nella procura rilasciatagli, era previsto che egli dovesse occuparsi di `organizzare e assicurare la verifica delle macchine' in modo da garantire la loro costante conformità alle disposizioni di legge antinfortunistiche'', ed ``organizzare la predisposizione delle misure di sicurezza previste dalla legge o rese necessarie dalla natura o dall'andamento delle lavorazioni''. Osserva che la corte d'appello, ``pur attribuendo all'imputato una responsabilità omissiva che si è estrinsecata nella mancata attivazione dei suoi poteri di vigilanza e di intervento rispetto alla preoccupante situazione locale dell'impianto, ha, nel contempo, dato atto di un assoluto difetto di flussi di informazioni provenienti dalle unità operative esistenti nello stabilimento nei confronti dei vertici della società'', e, segnatamente, di ``comunicazioni da parte delle unità operative riguardanti gli inconvenienti registrati nel funzionamento dell'impianto''. E dispone che ``il giudice del rinvio dovrà risolvere l'evidenziata aporia logica di tale segmento argomentativo, spiegando, in particolare, come si concilia l'addebito individuato a carico dell'imputato, cui è attribuita la colpa di non avere avviato autonome verifiche sulla sicurezza dell'impianto, con l'assenza di comunicazioni riguardanti gli inconvenienti registrati da parte del personale tecnico operante sul posto''. Per contro, la Sez. IV conferma la condanna degli altri tre imputati, e, in ispecie, del direttore e dell'RSPP dell'unità operativa coinvolta nello scoppio: il primo per aver ``redatto e sottoscritto, in collaborazione con il secondo, un DVR in cui il rischio scoppio per basse temperature veniva ritenuto `non credibile' e, pertanto, fortemente sottovalutato''. A sua discolpa, il direttore dell'unità operativa sostiene che ``il documento di valutazione dei rischi, da lui sottoscritto in qualità di datore di lavoro, era un documento `standard', predisposto dalla direzione rischi dell'azienda e non modificabile'', e ne desume che ``il suo contenuto non rientrava nella propria sfera di competenza''. La Sez. IV replica che ``in qualità di datore di lavoro e di responsabile dell'unità operativa locale, l'imputato avrebbe dovuto individuare specificamente il rischio di uno scoppio per le basse temperature proprio alla luce dei precedenti episodi nel corso dei quali si erano raggiunte condizioni di pericolo assimilabili a quelle che determinarono il tragico evento''. Ricorda che ``la specificità delle previsioni contenute nel documento di valutazione sono elemento essenziale nella economia della gestione del rischio facente capo al datore di lavoro'', e critica, pertanto, ``la prospettazione difensiva in base alla quale il rischio da scoppio per basse temperature potrebbe ricavarsi dalla combinazione di altri diversi fattori, assimilabili al primo'', trattandosi di ``situazioni che difettano del necessario carattere della specificità che deve connotare le previsioni contenute nel DVR''.
(È da notare che, nella vicenda esaminata dalla presente sentenza, resta il dubbio circa l'individuazione come datore di lavoro del direttore di una singola unità produttiva in presenza di un sovrastante direttore generale della società).
``Il dirigente dello stabilimento, per la sua posizione apicale, è destinatario iure proprio di tutti gli obblighi di garanzia''.
La Sez. IV annulla con rinvio la condanna di un direttore di stabilimento delegato per la sicurezza del lavoro per l'infortunio a un dipendente inciampato sul bordo di un tappeto di gomma antiscivolo: ``Nessuna spiegazione viene fornita rispetto alla problematica della esigibilità nei confronti del prevenuto di un intervento riguardante un aspetto talmente minuto e di dettaglio dell'ambiente di lavoro, rispetto ad un'organizzazione aziendale che non poteva non prevedere la presenza di più soggetti intermedi preposti al coordinamento e alla direzione dell'attività lavorativa, né ci si domanda se la detta problematica del tappetino fosse stata, e come, segnalata all'imputato, o se costui potesse o dovesse, ed in che modo, accorgersene da solo. In definitiva, la questione irrisolta è se si possa muovere al prevenuto, al di là della sua accertata posizione di garanzia, un rimprovero personale di colpa per non essere intervenuto per risolvere la situazione di pericolo. Si pone il problema se il cattivo fissaggio del tappetino sia ricollegabile ad una carenza strutturale derivante da una scelta gestionale di fondo del datore di lavoro, ad es. per una deliberata scelta aziendale volta al risparmio sui costi di manutenzione dell'ambiente di lavoro, ovvero se l'incuria sia soltanto espressione di una situazione occasionale e contingente, alla quale avrebbero dovuto e potuto ovviare in prima battuta altre figure soggettive intermedie quali preposti o dirigenti. Ed è evidente che, ove fosse accertato che nessun responsabile avesse informato l'imputato della situazione di rischio in questione, nessun rimprovero di colpa potrebbe essere mosso nei confronti di quest'ultimo, difettando in tal caso i presupposti di concreta prevedibilità e prevenibilità dell'evento da parte del medesimo''.
``In qualità di direttore generale e responsabile del centro cottura, per la sua posizione dirigenziale, aveva il compito dì fornire adeguate informazioni ai lavoratori addetti a quel reparto, in relazione al funzionamento delle macchine ivi esistenti ed ai rischi a cui si esponevano durante il loro impiego, nonché, di attuare una organizzazione del lavoro che tenesse indenne da eventuali infortuni i lavoratori inesperti. La imputata era stata formalmente nominata direttore generale pro-tempore della società e, già prima di quella data, si era occupata di una serie di incombenze che rivelavano la sua posizione dirigenziale nell'azienda e nella struttura denominata centro cottura. In quanto investita di tale funzione, era destinataria, iure proprio, al pari del datore di lavoro, degli obblighi di formazione e informazione dei lavoratori circa ì rischi scaturenti dalle lavorazioni eseguite nel centro di cottura''.
Di grande interesse sono le pagine che la sentenza sulla Thyssenkrupp dedica alle figure del direttore dell'area tecnica e del direttore di stabilimento. Al primo riguardo, le SS.UU. osservano: ``Il ruolo di garanzia dell'imputato viene dalla corte d'appello connesso alla sua veste di dirigente con riferimento a specifici compiti affidatigli. Tra essi ve n'erano due che riguardavano la prevenzione degli infortuni nello stabilimento e specificamente l'adozione di presidii contro il verificarsi di incendi. Egli era infatti a capo di due aree che si occupavano rispettivamente di attività di progettazione, preventivazione dei contratti di appalto e poi di coordinamento delle attività in cantiere per assicurare la qualità delle prestazioni, i costi e gli aspetti di sicurezza. Egli era inoltre responsabile della manutenzione delle macchine e dei locali. Era stato delegato dall'amministratore delegato in tema di igiene e sicurezza con un'ampiezza di mandato che comprendeva le aree acquisti, approvvigionamenti, impianti, servizi, materie prime, materiali anche di Torino. La pronunzia dà conto dei riscontri effettivi, afferenti alla intensa attività svolta in continuo contatto con il direttore di stabilimento e con l'RSPP in tema di opere prevenzionali. L'imputato ha interloquito su tutte le questioni afferenti alla sicurezza in relazione alle richieste dell'ente assicurativo; era informato direttamente dall'amministratore delegato dei progetti di intervento antincendio dopo il disastro di Krefeld; fu richiesto di fornire il suo contributo tecnico per operare le scelte fra i progetti; era presente alle riunioni in cui si discuteva dell'utilizzo dei fondi straordinari antincendio; fu d'accordo con l'amministratore delegato nel far slittare l'utilizzo dei fondi straordinari ad epoca successiva al trasferimento degli impianti in Terni. Sul punto l'imputato è confesso ma non si tratta di novità dibattimentale giacché tale circostanza risulta da numerose email. Si tratta di dirigente cui l'amministratore delegato confida fin dal 2005 il progetto riservato di chiusura dello stabilimento torinese e dal quale ottiene nel 2007 collaborazione per perseguire al meglio questo obiettivo, spiegando nelle sedi interne alla holding la necessità di tener conto del fatto che lo stabilimento torinese chiuderà. Si dà atto che l'imputato ha negato tale ruolo di tramite fra l'amministratore delegato ed il responsabile di TKR ma la circostanza è documentata da un una lunga serie di email. Anche tale apprezzamento è immune da censure. Non vi è dubbio, alla stregua della argomentata prospettazione di cui si è dato conto, che l'imputato fosse un dirigente di altissimo livello, dotato di tutte le conoscenze e competenze tecnico- scientifiche necessarie all'assunzione delle determinazioni spettanti al board; e che egli abbia esercitato tale essenziale funzione di collaborazione proprio in vista delle determinazioni afferenti al trasferimento degli impianti torinesi, dalle quali è scaturito l'intero processo. Ed è davvero difficilmente sostenibile che un tecnico tanto competente ignorasse il fenomeno del flash fire. La apprezzata competenza del tecnico è d'altra parte dimostrata dal fatto che egli contribuì a progettare eseguì in ogni fase la realizzazione dell'impianto di spegnimento in Terni. Tale complesso di acquisizioni colloca la condotta dell'imputato nella sfera di cooperazione colposa. Ma si può sin d'ora concludere che il ruolo dirigenziale di cui si discute e soprattutto l'ammessa attività di `consulenza' che costituisce esplicazione del ruolo professionale ed istituzionale demandatogli, configura in modo indubitabile un ruolo di garanzia, idoneo a basare l'attribuzione degli esiti antigiuridici delle condotte omissive contestate. E le deduzioni difensive di dettaglio non scalfiscono tale valutazione sul ruolo del professionista''. ``L'imputato non solo cumulava diversi, cruciali incarichi formali, ma era anche il pianificatore degli investi- menti in materia di sicurezza antincendio. Ha una competenza tecnica talmente sofisticata da essere il progettista dell'impianto di spegnimento in Terni dopo I fatti di Torino. È il tecnico di fiducia dell'amministratore delegato per ciò che riguarda tutte le decisioni in tema di sicurezza e gestione dei relativi investimenti. Se è vero che egli non avrebbe potuto da solo impedire gli eventi per il limite di budget e di capacità decisionale autonoma, tuttavia anche per lui vale la considerazione che egli aveva poteri e doveri residuali, quale appunto quello di segnalare la necessità di operare in senso prevenzionale che gli è stato contestato. Per ciò che riguarda l'efficienza causale della sua condotta omissiva si fa un ragionamento circa le apprezzabili, significative probabilità di scongiurare il danno. L'imputato avrebbe potuto segnalare, con cognizione di causa e l'autorevolezza che l'amministratore gli riconosceva ricorrendo a lui per le decisioni che coinvolgevano aspetti tecnici e finanziari, la necessità di utilizzare anche per lo stabilimento di Torino, come faceva per quello di Terni, i fondi stanziati per la prevenzione di incendi sulle linee. Si aggiunge che la costanza con la quale l'amministratore lo coinvolse sempre con un ruolo di primo piano nelle decisioni trova una definitiva conferma nella sua consultazione prima della decisione finale di far slittare a dopo il trasferimento a Terni l'utilizzo dei fondi straordinari stanziati. Ciò attesta senza dubbio che l'amministratore lo riteneva persona la cui adesione gli era necessaria per adottare, nello specifico campo antinfortunistico, le sue decisioni''. Quanto al direttore di stabilimento, le SS.UU. affermano: ``Per l'imputato la posizione di garanzia discende dal ruolo dirigenziale di direttore dello stabilimento, con delega in ordine alla sicurezza del lavoro. D'altra parte tale ruolo e tale sfera di responsabilità non è per nulla incompatibile, secondo la corte d'appello, con quella concomitante dell'amministratore delegato. Il ruolo altamente dirigenziale prospetta in modo indubitabile la contestata posizione di garanzia; a prescindere dalla portata delle delega attribuitagli. Compete alla figura del dirigente di attuare le direttive del datore di lavoro, organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa, in virtù di competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli. Il dirigente è tenuto a cooperare con il datore di lavoro nell'assicurare l'osservanza della disciplina legale nel suo complesso; e, quindi, nell'attuazione degli adempimenti che l'ordinamento demanda al datore di lavoro. Tale ruolo, nella fattispecie è chiaramente assai ampio in considerazione dell'importante incarico di direttore dello stabilimento''. ``L'imputato era sicuramente privo di qualunque autonomo potere decisionale rispetto alla dirigenza di Terni nel campo della sicurezza: non decideva ma si limitava a girare a Terni le richieste protese ad operare le scelte. L'imputato era tenuto ad obblighi giuridici che discendevano dalla posizione che aveva scientemente accettato; ma ha anche operato in concreto aderendo alle decisioni assunte a Terni in tutti i campi della mancata prevenzione che sono stati già analizzati. A lui è particolarmente ricollegabile una diretta responsabilità delle condizioni di degrado cui erano giunti gli impianti grazie alle politiche di risparmio operate nella sede ternana. Egli vedeva tutti i giorni l'entità dei ricorrenti incendi e focolai che si verificavano; sapeva che flash fire si erano già verificati in azienda, come riferito dalle squadre di emergenza. Aveva assistito alle varie visite fatte nello stabilimento anche in connessione con le problematiche assicurative ed aveva girato le relative proposte all'amministratore senza indicare alcuna preferenza. Egli aveva visto il risultato della restrizione nel campo della manutenzione, dell'uscita di lavoratori esperti, nonché della carenza di pulizia e di procedure di sicurezza. Tali comportamenti, non esclusivi, non sono meramente passivi ma pienamente adesivi alla strategia ternana di spendere il meno possibile per Torino, tentando di conservare però una regolarità amministrativa formale. La documentazione difensiva attestante l'attività sul fronte della prevenzione non è rilevante perché riguarda condotte poste in essere fino al 2006 o adempimenti assunti verso organi di controllo ancora in fieri e che riguardavano siti distanti dalla linea APL5 ovvero simulazioni di incendio in zone diverse. Nulla che contraddica, dunque, il totale disinteresse per il rischio di flash fire. Gli è stato contestato di non aver segnalato la necessità degli interventi prevenzionali che erano doverosi e che, se fossero stati realizzati avrebbero scongiurato gli eventi. A tale dovere egli si è sottratto a partire dal 2007. Gli interventi di sollecitazione si fermano infatti al 2006. Si dà conto delle obiezioni difensive circa l'idoneità causale di eventuali iniziative di segnalazione. Esse tuttavia trovano risposta secondo il paradigma dell'alto grado di credibilità razionale. Si scorgono condotte che avrebbero potuto ragionevolmente scongiurare gli eventi. Ci si riferisce soprattutto alla passiva accettazione dei documenti di valutazione del rischio generico e specifico di incendio con annesso piano di emergenza ed evacuazione formato dal RSPP. Se nel documento fossero stati correttamente indicati i rischi effettivi degli impianti, alla dirigenza ternana non sarebbe stato possibile protrarre la strategia gestionale di risparmio decisa in vista della chiusura della sede di Torino, non sarebbe stato possibile far slittare per ben due volte l'utilizzo di quei fondi già stanziati che la casa madre sollecitava a usare subito per salvare la vita delle persone con tolleranza zero''. (In proposito v. anche la successiva Cass. 6 maggio 2015, n. 18651).
Un cancello automatico di 900 kg. posto all'ingresso di un magazzino della marina militare cadde e travolse un operaio civile incaricato di ovviare al suo cattivo funzionamento. Furono condannati, in particolare, un capitano di fregata in qualità di datore di lavoro; un altro capitano di fregata in qualità di responsabile del servizio di prevenzione e protezione; un terzo capitano di fregata in qualità di dirigente responsabile dei magazzini. Con riguardo all'imputato designato con ordine del giorno dell'ammiraglio comandante responsabile protezione incendi e dirigente responsabile della sicurezza del comprensorio ex magazzini, la Sez. IV chiarisce che ``tale incarico non è stato conferito da persona non legittimata a farlo, in quanto la nomina è avvenuta in un contesto documentale unitario in cui, la massima carica militare della marina ebbe a distribuire le funzioni, assegnando tra l'altro la qualifica di datore di lavoro''. Ne trae che ``la investitura quale dirigente dei magazzini al cui accesso era destinato il cancello caduto, ha radicato in suo capo una posizione di garanzia''. Segnala che ``il suo ufficio era sito a meno di dieci metri dal cancello per cui egli aveva una percezione diretta della sua struttura e del suo funzionamento'', che ``a lui era stato comunicato da un addetto alla vigilanza il cattivo funzionamento del cancello'', che ``la cura del varco era sotto la sua responsabilità, tanto vero che era stato proprio l'imputato a conferire alla ditta installatrice l'incarico di manutenzione ordinaria'', e che ``a fronte di ciò egli non ha adottato alcuna specifica iniziativa (es. disporre dopo la segnalazione dell'addetto alla vigilanza una manutenzione straordinaria, invece di limitarsi colpevolmente ad attendere lo svolgimento della semestrale manutenzione), né ha informato gli utilizzatori del cancello dei rischi connessi al sua cattivo funzionamento, cosi ponendo in atto una condotta omissiva eziologicamente legata all'evento mortale''. Esclude che ``a sua discolpa l'imputato (possa) invocare una carenza di conoscenze tecniche e la circostanza che al controllo del cancello era destinata la ditta che aveva la manutenzione'', in quanto ``la sua posizione di garanzia lo obbligava ad avere o ad acquisire un sufficiente patrimonio di conoscenza idoneo ad esercitare le funzioni conferite, ovvero, in alternativa, a rinunciarvi''.
Il dirigente della divisione mercati dell'assessorato alle attività produttive di una amministrazione comunale titolare e gestore di un mercato e il direttore preposto al controllo di tale mercato furono condannati per omicidio colposo in danno di un commerciante di pesce deceduto e per lesioni personali colpose in danno di altri due commercianti di pesce a causa di leptospirosi contratta nel reparto ittico di detto mercato: in particolare, il primo, ``perché informato ripetutamente dai responsabili della Azienda USL del persistere delle carenti condizioni igieniche del citato mercato, ometteva di adottare per la parte di sua competenza, o di fare adottare al sindaco e alla giunta comunale gli atti amministrativi in grado di salvaguardare i luoghi di lavorazione e vendita del pesce, dall'insorgenza della leptospirosi, in particolare di fare adottare misure in grado di impedire l'ingresso dei topi e ratti attraverso finestre, porte e sistema fognario al reparto ittico in questione''; e il secondo, perché, ``nella sua qualità di preposto al controllo quotidiano del mercato e delle attività in esso in corso, nonostante la persistenza nel tempo di precarie condizioni igieniche per il continuo ingresso di topi e ratti e la presenza di loro escrementi, ometteva di attivarsi per far riparare e sistemare la serranda di ingresso al mercato che rimaneva parzialmente aperta in tempo di notte nonché nei giorni di sospensione dell'attività commerciale; i vetri rotti delle finestre e le zanzariere di protezione strappate o mancanti; i chiusi o le grate dei punti di scolo delle acque reflue''. La Sez. IV osserva che ``i commi 1 e 3 dell'art. 107, D.Lgs. n. 267/2000, in tema di funzioni e responsabilità della dirigenza degli enti locali, espressamente attribuiscono la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e di controllo''. E con riguardo al direttore del mercato aggiunge che ``non possono escluderne la responsabilità le segnalazioni da lui fatte alla divisione mercati, avendo egli il potere di chiudere il reparto ittico nel caso estremo di permanenza di situazioni igieniche non idonee e pericolose''.
L'art. 2, comma 1, lett. e), D.Lgs. n. 81/2008 fornisce una definizione di preposto. Questi gli insegnamenti della Corte Suprema (v. anche sub art. 19):
Per l'infortunio occorso a dipendente di un'impresa appaltatrice nell'ambito di uno stabilimento siderurgico, fu condannato anche il capo reparto di tale impresa. La Sez. IV annulla la condanna per non aver commesso il fatto: ``Le tre condotte (con)causative dell'evento letale addebitate alla responsabilità del capo reparto [la mancata perfetta bonifica preventiva con azoto; la mancata chiusura dell'altoforno; la mancata predisposizione di rapide via di fuga] consistono in conseguenze di generali scelte economiche e tecniche riconducibili ai vertici di un'azienda di grandi dimensioni, scelte che è impensabile possano essere addebitate ad un semplice capo reparto, che sulle stesse non avrebbe mai potuto influire. In tema di prevenzione di incidenti in cui possono essere coinvolti i lavoratori, il capo-reparto ed il capo-cantiere, le cui posizioni sono assimilabili, sono destinatari dell'obbligo di vigilare sulla corretta applicazione delle norme antinfortunistiche e delle regole di comune prudenza. Nel caso di specie, la scelta sicura in assoluto sarebbe stata quella di operare ad altoforni spenti ma le difficoltà tecnico-economiche ad agire in tal modo hanno determinato, nel necessario bilanciamento tra costi e benefici, la opzione aziendale di agire ad altoforno in funzione: scelta certamente legittima ma che avrebbe comportato la necessità di agire con elevatissima prudenza, attesa la inevitabile fuoriuscita dalle giunzioni che venivano aperte di significative quantità di gas ad alto potenziale tossico. Il coinvolgimento dell'imputato nella responsabilità penale deriva da un'errata impostazione, quella ciò di addebitare al capo reparto condotte derivanti da scelte esulanti dalle competenze dello stesso, mediante ricorso all'istituto della cooperazione nel delitto colposo. L'applicazione dell'art. 113 c.p. (che ha funzione estensiva dell'incriminazione coinvolgendo anche condotte, di per, sé atipiche, incomplete o di modesta significatività) presuppone necessariamente che l'agente sia consapevole dell'agire altrui, circostanza che non e emersa in alcun modo rispetto alla concreta situazione dell'imputato''.
``Il direttore tecnico ed il capo cantiere, figure inquadrabili rispettivamente in quella del dirigente e del preposto, sono titolari di autonome posizioni di garanzia, seppure a distinti livelli di responsabilità, dell'obbligo di dare attuazione alle norme dettate in materia di sicurezza sul lavoro. Ne consegue che la nomina di un capo cantiere non implica di per sé il trasferimento a quest'ultimo della sfera di responsabilità propria del ruolo dirigenziale del direttore tecnico. Dunque, se è vero che il capo cantiere è destinatario diretto dell'obbligo di verificare che le concrete modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative all'interno del cantiere rispettino le normative antinfortunistiche, deve rilevarsi che nel caso di specie il preposto ha affermato di aver deciso autonomamente che quel solaio poteva sopportare il carico della benna piena senza bisogno di particolare accorgimenti di sicurezza, compiendo così una valutazione che si è rivelata errata, e in ciò, ad avviso della Corte di merito si incentra la responsabilità del direttore tecnico di cantiere, che aveva il preciso obbligo di verificare il minuto rispetto delle norme di sicurezza e di far osservare quanto previsto dal POS e dal DPI, e non rimettere agli stessi dipendenti la salvaguardia della loro incolumità . Appare allora immune da censure l'affermazione di penale responsabilità del direttore tecnico: l'imputato avrebbe dovuto vigilare e tenere sotto controllo le attività quotidianamente svolte nel cantiere, evitando di consentire ai dipendenti di operare scelte spettanti alla dirigenza e di assumere iniziative operative proprie, e nella specie avrebbe dovuto pretendere ed accertarsi che gli operai lavorassero ancorati alle funi di sicurezza come previsto dal ripetuto piano delle demolizioni e non rimanere assente dal cantiere, sebbene informato del lavoro da svolgere, senza aver imposto le osservanze di salvaguardia''.
Nel duplice ruolo di preposto e responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, un imputato di omicidio colposo fu prosciolto dal GUP per non aver commesso il fatto. Nell'annullare la sentenza di proscioglimento, la Sez. IV prende atto che ``l'imputato dispose la lavorazione a seguito della quale scaturì l'infortunio letale, diede istruzioni sul lavoro da compiere ed interloquì al riguardo anche con il lavoratore deceduto cui forni specifiche spiegazioni sul da farsi''. Osserva che questo dato ``si mostra coerente con il ruolo contrattuale in seno all'azienda che implicava anche un incarico di direzione e sovraintendenza incompatibile con la veste di semplice operaio''. Ne desume che l'imputato ``esercitò in concreto il ruolo di cui si parla, giacché programmò ed organizzò la lavorazione e diede puntuali istruzioni ai dipendenti'', e, dunque, ``sia sul piano contrattuale che su quello dell'effettuale svolgimento del ruolo demandatogli, l'imputato era titolare di una posizione di garanzia che cumulava i ruoli di preposto e dirigente''. E aggiunge che l'imputato ``non si preoccupò minimamente di fornire istruzioni sulle cautele da adottare a causa della presenza della linea elettrica, né esercitò alcuna azione di controllo e vigilanza, cosi ponendo in essere una condotta che appare non priva di rilievo ai fini della configurazione della colpa''.
Per un'analisi del ruolo spettante ai ``quadri'', e, cioè, a quei ``prestatori di lavoro subordinato'' che, a norma dell'art. 2, comma 1, L. 13 maggio 1985, n. 190, ``pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgano funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell'attuazione degli obiettivi dell'impresa'', v., sub art. 16, al par. 31, Cass. 31 maggio 2017 n. 27310.
Condanna di due consigliere di amministrazione di una società cooperativa per contravvenzioni antinfortunistiche rilevate in seguito al decesso di un dipendente. La Sez. III annulla con rinvio la condanna. Prende atto che i magistrati di merito ``hanno ravvisato la penale responsabilità delle imputate, richiamando il principio, in forza del quale nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia (Sez. IV, 13 novembre 2013 n. 49402; Sez. IV, 1° febbraio 2017 n. 8118)''. Ribatte che, ``a fronte di una pronuncia rimasta isolata, sia più convincente il diverso orientamento, propugnato da numerose decisioni, secondo cui, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, destinatario della normativa antinfortunistica in una impresa strutturata come persona giuridica è il suo legale rappresentante, quale persona fisica attraverso cui l'ente collettivo agisce nel campo delle relazioni intersoggettive'', che ``la responsabilità penale del predetto, ad eccezione delle ipotesi di valida delega, deriva dalla sua qualità di preposto alla gestione societaria ed è indipendente dallo svolgimento, o meno, di mansioni tecniche'', che ``destinatario della normativa antinfortunistica, nell'ambito di un'impresa organizzata in forma societaria, è sempre il legale rappresentante, qualora non siano individuabili soggetti diversi obbligati a garantire la sicurezza dei lavoratori'', che ``nelle società di capitale il datore di lavoro si identifica con i soggetti effettivamente titolari dei poteri decisionali e di spesa all'interno dell'azienda, e quindi con i vertici dell'azienda stessa, ovvero nel presidente del consiglio di amministrazione, o amministratore delegato o componente del consiglio di amministrazione cui siano state attribuite le relative funzioni''. Afferma che ``si tratta di un'interpretazione da preferire perché rispettosa del dato normativo'', poiché, ``ai sensi dell'art. 2 D.Lgs. n. 81/2008, datore di lavoro è ``il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa''.
A questo punto, la Sez. III sottolinea che ``attribuire la qualifica di datore di lavoro a tutti i membri del consiglio di amministrazione di una società significherebbe operare un'indebita estensione della definizione di `datore di lavoro', come risultante dal citato art. 2, in violazione dell'art. 25, comma 2, Cost.''. Con riguardo al caso di specie, rimprovera ai magistrati di merito di aver ``ravvisato l'affermazione della penale responsabilità sul presupposto che, in capo alle imputate, sia attribuibile la qualifica di `datore di lavoro', qualifica che spetta unicamente al legale rappresentante dell'ente, ossia al presidente della cooperativa''. Aggiunge che, ``in tema di violazione della normativa antinfortunistica, la penale responsabilità di uno o più membri del consiglio di amministrazione può prefigurarsi in almeno due casi'', peraltro non esplorati dai magistrati di merito:
- ``in primo luogo, rileva la previsione dell'art. 299 D.Lgs. n. 81/2008'', che, elevando a garante colui che di fatto assume ed esercita i poteri del datore di lavoro, amplia - e certamente non riduce - il novero dei soggetti investiti della posizione di garanzia, senza tuttavia escludere, in assenza di delega dei poteri relativi agli obblighi prevenzionistici in favore di un soggetto specifico, la responsabilità del datore di lavoro, che di tali poteri è investito ex lege e che, nelle società di capitali, si identifica nella totalità dei componenti del consiglio di amministrazione'';
- ``in secondo luogo, sulla base dei principi generali in tema di concorso di persone nel reato, già affermati con riferimento ai reati tributari e fallimentari, i componenti del consiglio di amministrazione rispondono anch'essi per omesso impedimento del reato allorché abbiano anche solo colposamente - trattandosi, in questo caso, di figure contravvenzionali - omesso di vigilare, ovvero, una volta venuti a conoscenza del fatto penalmente illecito o dell'inidoneità del delegato, non siano intervenuti''.
Nel confermare la responsabilità del presidente di una cooperativa per l'infortunio occorso a ``un socio lavoratore addetto all'abbattimento degli alberi, a seguito di acuta insufficienza cardio-circolatoria conseguente a shock emorragico secondario a dissezione dell'aorta toracica discendente e lacerazione della vena cava superiore in soggetto con gravi lesioni traumatiche toraco-addominali''. La Sez. IV osserva: ``In tema di sicurezza sui luoghi di lavoro e di prevenzione degli infortuni, i soci delle cooperative sono equiparati ai lavoratori subordinati e la definizione di `datore di lavoro', riferendosi a chi ha la responsabilità della impresa o dell'unità produttiva, comprende il legale rappresentante di un'impresa cooperativa. Beneficiari delle norme di tutela della sicurezza del lavoro sono, oltre i lavoratori dipendenti, i soci di cooperative di lavoro. Il presidente e legale rappresentante di una cooperativa di lavoro deve essere considerato destinatario delle norme antinfortunistiche quando a questa spetti di eseguire le opere``. (Su un'ipotesi d'infortunio mortale occorso a un socio lavoratore colpito da una porzione di tronco d'albero v. Cass. n. 43211 del 22 ottobre 2019, sub art. 109, paragrafo 1).
``I soci delle cooperative sono equiparati ai lavoratori subordinati e la definizione di `datore di lavoro', riferendosi a chi ha la responsabilità della impresa o dell'unità produttiva, comprende il legale rappresentante di un'impresa cooperativa''.
``Nei confronti del socio lavoratore, ai fini della normativa antinfortunistica, il datore di lavoro costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, resta comunque la cooperativa (ed i suoi responsabili), cui compete il dovere di accertarsi che l'ambiente di lavoro abbia i requisiti di affidabilità e di legalità quanto a presidi antinfortunistici, idonei a realizzare la tutela del lavoratore, e di vigilare costantemente a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l'opera''.
``Questa Corte di legittimità, con orientamento consolidato, ha statuito che in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro e di prevenzione degli infortuni, i soci delle cooperative sono equiparati ai lavoratori subordinati e la definizione di `datore di lavoro', riferendosi a chi ha la responsabilità della impresa o dell'unità produttiva, comprende il legale rappresentante di un'impresa cooperativa''.
Il presidente e legale rappresentante di una cooperativa venne condannato per un infortunio mortale accaduto a un socio lavoratore adibito alla pulizia dell'argine di un torrente a mezzo di un trattore; ``il trattore procedeva sull'argine per le operazioni di disboscamento quando aveva dovuto affrontare un dislivello di circa 20 cm. che ne aveva provocato il sobbalzo, al termine del quale il trattore era finito su un conglomerato di cemento inserito nella scarpata, realizzando un movimento di scivolamento-ribaltamento. II conducente era stato quindi catapultato all'esterno del mezzo d'opera, riportando lesioni letali''. La colpa addebitata all'imputato fu quella ``di non aver effettuato la valutazione del rischio afferente la descritta lavorazione, di aver consentito l'utilizzo del trattore senza l'ausilio di un operatore a terra e nono- stante esso non montasse né una gabbia di protezione del posto di guida né avesse in dotazione una cintura di sicurezza per il conducente, misure e dispositivi che qualora assunte o presenti avrebbero certamente evitato il verificarsi del decesso''. A sua discolpa, l'imputato sostiene che ``risultava assolutamente imprevedibile sia che il trattore potesse incappare nell'insidia sia che si trovasse a lavorare sul ciglio della scarpata''. La Sez. IV ribatte: ``La prevedibilità dell'evento è nelle caratteristiche intrinseche dell'area delle operazioni e nelle modalità con le quali queste dovevano essere svolte. Esse rendevano altamente probabile il rischio di uno scivolamento o di un ribaltamento lungo la scarpata, ad evitare il quale sarebbe stata necessaria la presenza di un secondo operatore; e per evitare che ai movimenti incontrollati del mezzo d'opera seguissero lesioni del conducente, il trattore avrebbe dovuto essere provvisto di gabbia di sicurezza e di cintura di sicurezza''.
Per il caso di un ``socio lavorante'' individuato come datore di lavoro v. Cass. n. 58350 del 28 dicembre 2018, sub art. 16, par. 9.
La giurisprudenza ha avuto occasione di occuparsi di obblighi e responsabilità del proprietario di immobile per eventi ivi accaduti (v. anche sub artt. 26 e 90, nonché Cass. 29 gennaio 2013, n. 4493 e Cass. 27 maggio 2015, n. 22384):
``La proprietaria di un fabbricato viene condannata omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, per avere, con colpa generica e violazione del D.P.R. 16 Aprile 2013 n. 74, omesso la manutenzione dell'impianto termico per la climatizzazione invernale da cui era conseguita, per il malfunzionamento della caldaia e per difetti nel sistema di evacuazione dei fumi, la condensazione di particolato all'interno della canna fumaria e, in ragione della ostruzione costituita dalla retina parauccelli posta all'imbocco del comignolo che ne impediva lo sfogo all'esterno e delle lesioni presenti nel condotto in muratura e di quelle nella parete in adiacenza al passaggio della canna fumaria, i fumi erano penetrati all'interno di due unità abitative, provocando la morte di due persone e lesioni personali a una terza''.
Il socio accomandatario di una s.a.s. proprietaria di un immobile fu condannato per lesione personale colposa in danno della socia di un circolo ubicato nell'immobile, per ``aver omesso di dotare i gradini delle scale dell'immobile di pedata antisdrucciolevole, ai sensi della L. n. 13/1989, idonea ad impedire che la stessa, nel scendere le scale interne per recarsi verso l'uscita, scivolasse a terra''. La Sez. IV annulla la condanna perché il fatto non sussiste: ``La legge n. 13/1989 (`Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati') e il correlativo D.M. n. 236/1989 (`Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle barriere architettoniche') non trovano affatto applicazione nel caso di specie. Le norme contenute nella prima si applicano - come dispone l'art. 1, comma 1 - ai progetti relativi alla costruzione di nuovi edifici ovvero alla ristrutturazione di interi edifici. Il citato decreto ministeriale ha ad oggetto: gli edifici privati di nuova costruzione, residenziali e non, ivi compresi quelli di edilizia residenziale convenzionata; gli edifici di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata ed agevolata, di nuova costruzione; la ristrutturazione degli edifici privati, di cui ai precedenti punti, anche se preesistenti all'entrata in vigore dell'anzidetto decreto; gli spazi esterni di pertinenza degli edifici di cui si è sinora detto. L'edificio di cui si tratta risale agli anni sessanta e mai fu oggetto di ristrutturazione consistente, di talché esso non era soggetto alla normativa testé ricordata perché già esistente al momento dell'entrata in vigore della stessa''.
``Il titolare degli obblighi di protezione e controllo, che versa in posizione di garanzia, deve essere titolare di un potere (giuridico, ma anche di fatto) attraverso il corretto uso del quale, attivandosi, possa impedire l'evento dannoso; in applicazione di tale principio, si è in particolare osservato che è onere del proprietario consegnare all'affittuario dell'appartamento un impianto di riscaldamento revisionato, in piena efficienza e privo di carenze funzionali e strutturali; e si è affermato che configura il delitto di omicidio colposo la condotta dei proprietari di un appartamento che l'abbiano locato con una caldaia per il riscaldamento in pessimo stato di manutenzione, cosicché, durante il funzionamento, si era determinata la fuoriuscita di monossido di carbonio che aveva mortalmente intossicato gli occupanti dell'immobile, giacché il proprietario di un immobile si trova in posizione di garanzia rispetto alla funzionalità dell'impianto di riscaldamento. Del resto, in coerenza con i principi ora richiamati, il legislatore, con il D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 192, recante Attuazione della direttiva n. 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell'edilizia, ha espressamente previsto (sub art. 7): che spetta in primo luogo al `proprietario' mantenere in esercizio gli impianti termici per la climatizzazione invernale e estiva e provvedere affinché siano eseguite le operazioni di controllo e di manutenzione secondo le prescrizioni della normativa vigente; e che `l'operatore', incaricato del controllo e della manutenzione degli impianti per la climatizzazione invernale ed estiva, esegue dette attività a regola d'arte, nel rispetto della normativa vigente, con l'obbligo di redigere e sottoscrivere un rapporto di controllo tecnico. Come si vede, il garante della funzionalità della stufa a legna, nel caso di specie, gravato degli obblighi manutentivi, è da individuare nel proprietario, unico soggetto titolare del potere di attivarsi, incaricando un artigiano specializzato, di effettuare la pulizia periodica della canna fumaria. E preme evidenziare che l'artigiano, una volta incaricato dalla proprietà, ha il dovere di effettuare l'intervento a regola d'arte e di rilasciare il relativo rapporto di controllo tecnico''.
Il caso è quello di un crollo intervenuto in locali di una ASL, concessi in comodato a una ASP, con conseguente decesso di una paziente non autosufficiente. Nel confermare la condanna del responsabile dell'unità operativa manutenzione dell'ASL, la Sez. IV osserva: ``L'imputato ebbe la colpa di aver omesso d'intervenire nella qualità di responsabile del pertinente servizio e, comunque, in caso d'impossibilità di una efficace opera manutentiva, dovuta a ragioni pratiche o giuridiche, non provvide a segnalare alla direzione dell'ASL l'urgente necessità di sgombrare i locali. In ogni caso, non è dato cogliere la ragione per la quale il responsabile per la manutenzione avrebbe dovuto restare esonerato dall'intervenire ove il pericolo fosse derivato, in tutto o in parte, da vizi addebitabili all'appaltatore, piuttosto che a degrado fisiologico. Non influisce punto sulle questioni qui in esame la ricostruzione civilistica del rapporto intercorso tra l'impresa appaltatrice e la stazione appaltante (ASL): invero, quali che siano gli obblighi dell'appaltatore in caso di consegna anticipata di parte dell'opera, derivanti da vizi della stessa, non può essere messo in dubbio che il committente, il quale riceve il fabbricato assume, per ciò stesso, la funzione di garante nei confronti dei soggetti che il detto fabbricato frequenteranno o in esso, addirittura, stazioneranno in permanenza. A ben vedere senza fondamento appare, di poi, il tentativo di far derivare dalle norme sul comodato la conclusione secondo la quale l'ASL, al momento del crollo, non rivestiva la detta funzione di garanzia nei confronti della vittima. Volutamente omettendo l'esatto inquadramento della vicenda fattuale, che vide due pubbliche amministrazioni (l'ASL e l'IPAB, alla quale succedette l'ASP) far luogo ad un protocollo d'accordo, così da assicurare la presa in carico di pazienti lungo degenti, che l'ASL affidava all'IPAB, mettendo a disposizione i relativi locali, la questione della penale responsabilità non può essere risolta richiamando l'art. 1808 c.c. (ammesso che l'intesa fra i due enti possa risolversi facendo esclusivo riferimento alle norme civilistiche regolanti il comodato), il quale ha il solo scopo di stabilire il riparto delle spese occorse per la riparazione della cosa fra comodante e comodatario. L'obbligo del comodatario, invero, di affrontare le spese necessarie per l'uso della cosa (ad es. canoni per corrente elettrica, acqua, riscaldamenti, ecc.) e di anticipare quelle occorrenti per le spese straordinarie, necessarie e urgenti sostenute per la conservazione della stessa, in nulla elide quello del proprietario di garantire (artt. 2051 e 2053 c.c.) i terzi dai danni che dalla cosa derivino. In definitiva, il comodatario, salvo, poi, se del caso, di individuare una concorrente responsabilità dello stesso, non solleva il comodante proprietario dagli obblighi propri derivanti dalla titolarità. Il caso concreto, poi, mostra piuttosto emblematicamente l'effettiva impossibilità del comodatario di prevenire l'evento: le gravi infiltrazioni venivano regolarmente segnalate e, comunque, erano note all'ASL; senza contare che gli interventi avrebbero dovuto interessare parti non concesse in comodato. Chiaramente forzata appare l'interpretazione delle competenze dell'Unità Operativa Grandi Opere Edili. La unità di cui detto svolgeva il compito di progettare e seguire l'intrapresa edificazione di nuovi manufatti edilizi ospedalieri, senza competenza alcuna sulla manutenzione. La circostanza che, per determinazione dirigenziale, all'unità in parola fossero state attribuite competenze fino all'avvio delle funzioni sanitarie, non significa affatto che le dette competenze vengano meno solo con l'accettazione dell'opera da parte dell'ASL, bensì, più in generale, come appare ragionevole, con l'avvio d'utilizzo degli immobili. Ovviamente, senza che sussista il formalistico ostacolo prospettato dal ricorrente, ove occorrente, la documentazione, se del caso ancora in possesso dell'appaltante (non transitata, cioè, con la consegna anticipata), potrà e dovrà essere messa a disposizione del committente e per questo alla Unità Operativa Manutenzione, onde consentire le riparazioni e gli interventi che si fossero resi necessari''.
Malgrado gli insegnamenti della Corte Suprema in materia di sicurezza nell'ambito del condominio, permangono ambiguità ed equivoci in ordine alle responsabilità dell'amministratore di condominio nella duplice veste di datore di lavoro e/o di committente (v. in proposito, anche per un ampio resoconto giurisprudenziale, l'e-book Guariniello, Sicurezza nel condominio-Profili di responsabilità, Wolter Kluwer, 2018).
``L'amministratore di condominio riveste una specifica posizione di garanzia, ex art. 40, comma 2, c.p., in virtù del quale su costui ricade l'obbligo di rimuovere ogni situazione di pericolo che discenda dalla rovina di parti comuni, attraverso atti di manutenzione ordinaria e straordinaria, predisponendo, nei tempi necessari alla loro concreta realizzazione, le cautele più idonee a prevenire la specifica situazione di pericolo. In base all'art. 1130 n. 4 c.c., l'amministratore di condominio deve compiere atti conservativi delle parti comuni dell'edificio. La sussistenza della posizione di garanzia, tuttavia, non esime di verificare la sussistenza del nesso causale. Versandosi in tema di reato omissivo, ai fini dell'accertamento del nesso di causalità, occorre individuare tutti gli elementi concernenti la causa dell'evento, al fine di poter effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, l'evento lesivo sarebbe stato evitato al di là di ogni ragionevole dubbio''.
Il capo condominio di un immobile committente dei lavori di rifacimento del prospetto viene condannato per omicidio colposo ai danni di un dipendente della ditta appaltatrice precipitato a terra dal ponteggio metallico, sia per ``culpa in eligendo, per avere affidato i lavori a impresa priva dei requisiti di affidabilità e capacità tecnico organizzativa'', sia per ``culpa in vigilando, per avere omesso di vigilare sulla predisposizione da parte della ditta appaltatrice di adeguate misure antinfortunistiche''. Nel confermare la condanna, la Sez. III rileva, in particolare, ``la non necessarietà della forma scritta per la conclusione di un contratto d'appalto (ex art. 1350 c.c.)''. (Su questo punto v. sub art. 26, par. 1, g).
Per un caso di condomini che in assenza di un amministratore furono imputati dell'infortunio mortale subito dal titolare della ditta di installazione di impianti elettrici incaricato dei lavori di rifacimento dell'impianto elettrico delle parti comuni del fabbricato e deceduto per elettrocuzione v. Cass. 24 maggio 2019, n. 23121. Sulla condanna del direttore dei lavori nominato dal condominio per il decesso di due lavoratori causato dal crollo di un muro di contenimento prospiciente il piazzale del condominio Cass. 12 ottobre 2018, n. 46428.
Per un caso d'infortunio accaduto a un minore in un condominio:
L'amministratore di una s.r.l. committente di opere edili in corso presso un condominio fu assolto dal reato di lesione personale colposa in danno di un minore inciampato in materiali abbandonati in maniera incontrollata all'ingresso del portone del condominio. E ciò sul presupposto che non avrebbe rivestito ``una posizione di garanzia nei confronti dei terzi per i danni causati dalla esecuzione delle opere appaltate, essendo tale rischio gravante esclusivamente sull'appaltatore''. Su ricorso della parte civile, la Sez. IV annulla l'assoluzione con rinvio al giudice civile: ``il gestore del rischio connesso all'esistenza di un cantiere deve rispondere della prevenzione degli infortuni che abbiano coinvolto soggetti che siano terzi estranei rispetto all'attività in corso di svolgimento nel cantiere''.
Questa un'ipotesi di vendita di appartamento di un immobile:
L'addebito mosso all'amministratore delegato alla vendita di una s.r.l. era quello di aver colposamente cagionato lesioni personali alla persona offesa, cedendole un appartamento e permettendole di abitarvi, nonostante l'assenza di agibilità del fabbricato, ed essendo l'immobile dotato di una scala condominiale priva di qualsivoglia presidio di sicurezza, così da provocare la caduta della donna. Ma la Sez. III obbietta che ``la persona offesa era pienamente consapevole dell'assenza del certificato di agibilità dell'immobile e della conformazione della scala, e, comunque, il certificato non era stato ancora rilasciato per ragioni estranee alla regolarità della scala''.
Una fattispecie peculiare è esaminata da:
``Il custode di un condominio rimase schiacciato dall'anta destra del cancello che delimitava il terreno attiguo, bene in proprietà di società dichiarata fallita e oggetto di aggiudicazione ai due imputati in seguito a vendita immobiliare eseguita in sede fallimentare. Le condizioni del cancello erano fortemente degradate. In attesa del decreto di trasferimento del bene gli aggiudicatari avevano avviato lavori di pulitura e di sistemazione dell'area, con transito all'interno di mezzi meccanici. La riconducibilità agli imputati di un obbligo di gestione dell'area, con correlato obbligo di protezione dei terzi, è stata rinvenuta in derivazione del concreto esercizio dei poteri del possessore. Il possesso (o compossesso) di un bene, concretandosi in un potere di fatto sulla cosa, che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà, non presuppone l'effettiva e continua utilizzazione della cosa in ogni sua parte, essendo sufficiente una relazione con il bene unitariamente considerato, anche se si concreti, per le particolari esigenze del possessore, in forme di godimento limitato; mentre l'animus possidendi consiste unicamente nell'intento di tenere la cosa come propria mediante l'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o altro diritto reale, indipendentemente dall'effettiva esistenza del relativo diritto o della conoscenza del diritto altrui. In ragione dell'effettivo potere fisico sulla cosa sussiste in capo al possessore l'obbligo di custodia e manutenzione. Ciò fa del possessore il soggetto titolare di un potere di gestione della fonte del pericolo insita nel o costituita dal bene posseduto, nei limiti connessi alla particolarità della sua posizione; pertanto poteri-doveri di gestione che non potranno estendersi tanto quanto sono estesi quelli del proprietario del bene, ma che ciò non di meno pretendono di essere esercitati, ove ne ricorrano le condizioni, per la tutela dei terzi''.
Tutto da esplorare è poi il tema relativo alla responsabilità penale del curatore del fallimento in materia di sicurezza del lavoro, vuoi come gestore, vuoi in caso di vendita o affitto. Utile è comunque lo spunto offerto da:
``Il curatore fallimentare di una società proprietaria di un ex hotel La Spezia fu rinviato a giudizio per rispondere del reato di cui all'art. 590 c.p., perché, per colpa, non avendo provveduto a far chiudere gli accessi all'immobile che versava in stato di degrado ed abbandono, aveva cagionato lesioni personali a un minore. Difatti, questi aveva fatto ingresso nell'immobile per recuperare una palla e nel frangente era andato ad urtare contro lo sportello dell'alloggiamento del contatore dell'acqua che si trovava aperto e distaccato dal muro''. Nel confermare la condanna, la Sez. IV osserva: ``la posizione di garanzia a carico del prevenuto discende da un verso dalla prescrizione di cui all'art. 677 c.p. (omissione di lavori in edifici che minacciano rovina) ma anche da ulteriori obblighi di `normale e civile prudenza' connessi con la conservazione di complessi immobiliari in stato di abbandono, ed innanzitutto da quanto stabilito nell'art. 2051 c.c., che prevede la responsabilità per il danno di cose tenute in custodia. Sotto detto profilo, va detto che il titolare di un complesso immobiliare non utilizzato, in stato di abbandono e di pericolo, deve ritenersi tenuto ad evitare in modo tassativo l'accesso a terze persone non solo a tutela dell'incolumità delle stesse in riferimento ad una possibile rovina dei beni, ma anche per non consentire l'utilizzazione arbitraria ed al di fuori di ogni controllo di strutture attualmente non destinate all'originaria attività ed evitare, pure sotto tale aspetto, prevedibili situazioni di pericolo. Ne consegue, ad avviso di questo Collegio, che ricorre nel caso di specie il rapporto di causalità materiale tra la condotta omissiva del curatore del fallimento e l'evento. Inoltre, ricorre la corrispondenza causale tra la violazione della regola cautelare posta a carico del prevenuto e la produzione del risultato offensivo. In altre parole, secondo il criterio della c.d. `concretizzazione del rischio', si manifesta l'avviso che, nella vicenda in esame, l'evento lesivo verificatosi rappresenti la realizzazione del rischio che la norma cautelare violata dall'imputato doveva prevenire''.
Per la condanna del liquidatore di una società per il reato di deposito incontrollato di rifiuti v. Cass. 17 luglio 2019, n. 31311.
``Grava sul datore di lavoro l'obbligatorietà del rispetto delle norme antinfortunisti - che a tutela dei lavoratori addetti ai macchinari (e quindi in relazione alla prestazione dell'attività lavorativa cosi espletata) come pure dei terzi, a prescindere che si tratti della dimostrazione di funzionamento all'interno di uno stand fieristico che in tali circostanze fattuali costituisce l'ambiente di lavoro''.
Crollo del traliccio per antenne collocato sul tetto di un centro commerciale verificatosi durante un violento temporale con pericolo per l'incolumità pubblica. Condannato per disastro colposo, il proprietario locatario del traliccio sostiene che spettava alla società locatrice provvedere a propria cura e spese ai lavori per mettere il traliccio in condizioni di sicurezza e all'eventuale rinforzo delle strutture. La Sez. IV ribatte che ``l'art. 1575 c.c. impone al locatore non solo di consegnare al conduttore la cosa locata in buono stato di manutenzione ma di conservarla in condizioni che la rendano idonea all'uso convenuto, anche in considerazione del fatto che un edificio o quanto sullo stesso impiantato possano costituire una fonte di pericolo'', e che ``il proprietario, ossia il soggetto titolare di poteri dispositivi - titolarità altresì dimostrata dal fatto che allo stesso venivano chieste da soggetti terzi le autorizzazioni ad installare o rimuovere antenne e parabole - viene, quindi, ad assumere una posizione di controllo di tale fonte di pericolo e, pertanto, una posizione di garanzia dalla quale derivano obblighi la cui violazione assume rilievo giuridico''.
L'amministratore delegato legale rappresentante e l'RSPP di una s.r.l. esercente un albergo in affitto sono condannati per il decesso di un ospite caduto dal terrazzino della stanza in cui alloggiava per cedimento del parapetto: il primo per ``non avere sollecitato la società proprietaria, della quale era anche socio, a eseguire gli interventi di manutenzione straordinaria per mettere in sicurezza i parapetti delle stanze del secondo piano della struttura, e non aver disposto la manutenzione ordinaria degli stessi, né supervisionato adeguatamente tale manutenzione''; il secondo ``per non aver individuato nel DVR il rischio di caduta nel vuoto dal terrazzino della camera occupata dalla vittima, rischio presente sia per il modo in cui il parapetto era realizzato, sia per lo stato degli ancoraggi al muro, e per non aver prescritto, né segnalato alla s.r.l. la necessità di intervenire su tale parapetto''. Si accertò che la manutenzione omessa era in realtà quella ordinaria, spettante al gestore, in quanto ``gli interventi di manutenzione straordinaria, spettanti alla ditta proprietaria, riguardavano solo l'altezza insufficiente dei parapetti'', e ``tale caratteristica non aveva giocato un ruolo causale sulla caduta della vittima, la quale era stata diretta conseguenza di altri fattori, tutti riconducibili alla manutenzione ordinaria (in particolare: inadeguatezza delle viti utilizzate per l'ancoraggio, siccome prive di bulloni; progressiva perdita di resistenza delle tavole di legno, a causa dei plurimi fori praticati nei vari tentativi di fissaggio; ancoraggio delle staffe all'interno del muro, e non all'esterno, con conseguente minore resistenza alla pressione orizzontale)''. Si accertò, altresì, che ``le carenze manutentive erano grossolane e gravi, e semplici interventi a basso costo avrebbero scongiurato l'incidente''. A sua discolpa, il titolare della s.r.l. sostiene che ``non poteva conoscere il dettaglio delle condizioni di vetustà della stessa, a tal fine essendosi giovato di un consulente per redigere il DVR e la check list degli interventi da effettuare, oltre che di un manutentore che operava ispezioni sui luoghi'', e che, ``pertanto, a entrambi i soggetti, sarebbe stata rilasciata una sorta di delega implicita di funzioni che avrebbe esonerato il delegante dalle relative responsabilità''. La Sez. IV replica: ``Gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro (al quale, nella specie, va assimilato l'A.D. della società che gestiva la struttura alberghiera) possono essere sì trasferiti (con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante), a condizione che il relativo atto di delega ai sensi dell'art. 16 del D.Lgs. n. 81/2008 riguardi un ambito ben definito e non I'intera gestione aziendale, sia espresso ed effettivo, non equivoco ed investa un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa. La mera designazione del RSPP non costituisce una delega di funzioni e non è, dunque, sufficiente a sollevare il datore di lavoro e i dirigenti dalle rispettive responsabilità in tema di violazione degli obblighi dettati per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Il conferimento a terzi della delega relativa alla redazione del documento di valutazione dei rischi non esonera il datore di lavoro dall'obbligo di verificarne l'adeguatezza e l'efficacia, e nemmeno può rilevare una scelta datoriale di delegare, eventualmente, allo stesso RSPP o all'operaio manutentore la decisione di operare gli interventi idonei a prevenire il rischio considerato, sia per difetto di valida delega in tal senso, ma anche perché trattasi di scelte proprie della figura datoriale e non di altre figure, quale quella meramente esecutiva dell'operaio manutentore o del RSPP, sul quale incombono obblighi diversi e, certamente, non di tipo operativo''.
Presso il capannone di un'impresa sita in Prato, due cittadine cinesi avevano preso in locazione da una s.a.s. un locale adibito non solo a unità produttiva, ma altresì ad alloggio degli operai, essendovi stati realizzati locali dormitorio loro destinati, in assenza di autorizzazioni amministrative e in violazione di quanto disposto dalla normativa in materia prevenzionistica e antincendio; molti di questi operai erano, inoltre, irregolari sul territorio italiano in quanto sprovvisti di permesso di soggiorno, ed erano retribuiti con salari di gran lunga inferiori a quelli minimi previsti dai contratti collettivi di settore, oltreché costretti a sostenere orari e turni di lavoro assolutamente inconciliabili con le disposizioni a tutela dei lavoratori. In dipendenza delle suddette violazioni di norme prevenzionistiche, si venivano a determinare le condizioni per lo sprigionarsi di un incendio, verosimilmente a causa di un malfunzionamento dell'impianto elettrico, in prossimità della scala d'accesso al soppalco-dormitorio, Le due gestrici dell'impresa (l'una titolare di fatto, l'altra vicaria della sorella) furono condannate l'una per omissione dolosa di cautele antinfortunistiche e l'altra per omissione colposa in essa assorbito l'incendio colposo, nonché entrambe per favoreggiamento di permanenza illegale di soggetti clandestini a fine di ingiusto profitto e omicidio colposo in danno di sette operai impiegati presso la suddetta impresa in conseguenza di asfissia acuta da intossicazione di monossido di carbonio e/o da cianuri, e infine la prima per incendio colposo. (V. in proposito Cass. n. 12643 del 19 marzo 2018, sub art. 61, paragrafo 33). Separatamente, si è proceduto nei confronti del socio accomandatario e del socio accomandante amministratore di fatto della s.a.s. immobiliare proprietaria e locatrice del capannone, assolti in appello dal reato di cui all'art. 449 c.p. per non avere commesso il fatto, ma condannati per omicidio colposo. La Sez. IV si uniforma alle doglianze difensive e annulla la condanna perché il fatto non sussiste. Prende atto che, ad avviso dei magistrati di merito, il locatore avrebbe violato l'obbligo statuito dall'art. 1575 c.c. di consegnare e mantenere la cosa locata in buono stato di manutenzione per ``avere formalmente riconsegnato, in occasione della conclusione di un nuovo contratto, un bene inidoneo all'uso convenuto, in quanto contenente l'opera abusiva realizzata dal conduttore durante la vigenza del precedente contratto e costituita da un soppalco che rendeva promiscuo l'uso del capannone, che per la sua conformazione creava una situazione di pericolo per i lavoratori''. Premette che ``nell'obbligo di consegnare la cosa locata in buono stato manutentivo, in modo da servire all'uso convenuto, è compreso l'obbligo di garantire che la cosa sia esente da vizi che la rendano inidonea all'uso o che ne diminuiscano il godimento ed ancor prima quello di assicurare che la cosa non sia affetta di vizi tali da renderla pericolosa per la salute''. Precisa che ``non possono essere ex lege (ma solo ex contractu) addebitate al locatore le conseguenze dell'inidoneità funzionale o della modifica dell'immobile incombendo sul medesimo solo quelle discendenti dal contratto o dalle deficienze strutturali del bene (a mero titolo di esempio: la vetusta del tetto, o vizi dei plinti dell'immobile, inidoneità di parapetti ecc.) o comunque quelle che costituiscano vizi propri della cosa tali da porre in pericolo la salute del conduttore o dei suoi familiari o dipendenti (art. 1580 c.c.), purché essi non siano originate dall'attività del conduttore o dalle modificazioni dell'immobile da questi realizzate in corso di contratto''. Rileva che, ``nel caso di specie, la costruzione del soppalco, adattato a dormitorio dei lavoratori, che ha reso promiscuo l'uso del capannone, vada ascritta al conduttore, che vi ha provveduto poco dopo la conclusione dell'originario contratto di locazione'', e che ``il conduttore-datore di lavoro non è mai mutato nel corso del tempo''. Sostiene che ``solo l'effettiva restituzione del bene ai sensi dell'art. 1590 c.c. -conseguente la scadenza naturale del rapporto o il suo scioglimento- avrebbe eventualmente consentito al locatore di adempiere all'obbligo di consegnare nuovamente il medesimo bene privo dei vizi derivanti dalla trasformazione dovuta alle addizioni del conduttore, ed in particolare di vizi che ne rendessero l'utilizzo pericoloso per la salute'', ma che ``siffatta restituzione non solo non vi è stata, ma è stata chiaramente esclusa dalle parti contrattuali posto che ai contratto originario è seguito contratto di identico contenuto, con cui si è semplicemente prevista la modificazione dell'importo del canone, senza alcuna soluzione di continuità nel godimento dell'immobile da parte dei conduttore''. Aggiunge che, ``se l'area di rischio governabile dal locatore, rispetto alla quale può affermarsi che egli rivesta una posizione di garanzia, è quella delineata dagli obblighi a lui facenti capo ai sensi degli artt. 1575 e 1580 c.c. -e cioè consegnare in buono stato di manutenzione, privo di vizi che ne determinino la pericolosità per il conduttore ed i terzi che lo utilizzino in forza del contratto - aventi natura cautelare in quanto il loro carattere prescrittivo comporta l'elisione di un rischio, è solo con l'effettiva consegna del bene che sorge posizione di garanzia'', ``in relazione all'area di rischio dal medesimo governabile e cioè in relazione alle caratteristiche strutturali dell'immobile, restando escluse (salvo diversa pattuizione, da cui può scaturire ulteriore obbligo cautelare) sia la sua conformità all'attività da svolgervi, che le trasformazioni o addizioni successive apportate dal conduttore''. Esclude che ``nell'obbligo di mantenere la cosa in stato da servire all'uso convenuto, vi sia quello di imporre l'eliminazione di manufatti costruiti dai conduttori nel corso del rapporto''. Spiega che ``l'obbligo previsto dall'art. 1575, n. 2), c.c. è strettamente connesso con quello previsto a suo carico dall'art. 1575, n. 1), c.c.'', ``tende ad assicurare il buono stato di manutenzione della cosa per la durata del contratto e consiste nel provvedere a tutte le riparazioni necessarie a conservare la cosa nello stato in cui si trovava al momento della consegna del bene''. Ne ricava che, ``salva diversa previsione contrattuale, grava sul conduttore la responsabilità per i rischi derivanti da addizioni e trasformazioni effettuate nel corso del rapporto''. Considera ``del tutto indifferente la circostanza che gli imputati avessero c no conoscenza dell'addizione alla cosa locata costituita dalla struttura costruita dal conduttore, posto che l'eventuale consapevolezza di una violazione antinfortunistica posta in essere dall'imprenditore che conduce in locazione l'immobile non estende al locatore alcuno degli obblighi propri del datare di lavoro, in assenza dei poteri a lui facenti capo, rimanendo a carico del locatore solo quelli derivanti dalla legge o dal contratto in forza del rapporto di locazione''.
Nel chiudere il portone d'accesso a un capannone industriale di proprietà di una s.r.l. concesso in locazione a una s.a.s. e da questa sublocato a una ditta individuale, due lavoratori stranieri dipendenti l'uno della s.a.s. e l'altro della ditta individuale furono travolti dal cancello fuoriuscito dalle guide e precipitato a terra. Vennero condannati per omicidio colposo in danno di un lavoratore e per lesione personale colposa in danno dell'altro, oltre che la titolare della ditta individuale, i rappresentanti legali della s.r.l. e della s.a.s.: il primo perché ``aveva un obbligo di vigilanza sul bene immobile anche dopo la sua locazione atteso che i vizi del cancello erano anche strutturali e costruttivi'', e il secondo perché, ``avendo condotto in locazione il medesimo immobile sino al giorno precedente l'evento, era a conoscenza (o doveva esserlo) di detti vizi strutturali del cancello che era tenuto ad eliminare prima di sublocare''. Nel confermare tali condanne, la Sez. IV, anzitutto, addebita al rappresentante legale della s.a.s. la violazione dell'art. 64, D.Lgs. n. 81/2008, ``avendo inviato i propri dipendenti a svolgere un'attività a loro specificamente ordinata in un luogo di lavoro di cui egli conosceva o doveva conoscere la pericolosità, avendolo lui stesso condotto in locazione sino al giorno precedente l'infortunio, risultando anche per lui evidente la totale carenza di manutenzione del cancello''. E spiega che la sua responsabilità ``va valutata anche alla stregua dell'art. 1575 c.c. che gli conferiva una specifica posizione di garanzia, stante che egli aveva sublocato il capannone che aveva l'obbligo di consegnare in buono stato di manutenzione''. Quanto al legale rappresentante della s.r.l. che aveva locato il capannone di cui era proprietaria, sottolinea che ``rivestiva la posizione di garanzia conseguente all'obbligo stabilito dall'art, 1575 c.c. a carico del locatore'', e che ``il subentro del conduttore e della subconduttrice, con il rispettivo onere di manutenzione della cosa locata, non ha fatto venir meno l'obbligo del proprietario di consegnare la cosa in buono stato di manutenzione, per cui le carenze e i vizi da omessa manutenzione, sicuramente risalenti ad epoca precedente la consegna del bene al conduttore, avrebbero dovuto essere eliminati proprio dal proprietario''. Aggiunge che ``la cattiva manutenzione del cancello rendeva necessario al proprietario intervenire anche predisponendo dei sistemi anticaduta, cautele che, invece, non sono state apposte''.
``L'avere preso in locazione un capannone che già in origine presentava evidenti lacune sotto il profilo dell'osservanza delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro (anche sotto il profilo del rischio incendi) e di sicurezza dei lavoratori non esimeva di certo le due imputate cinesi (non solo la titolare di fatto della ditta, ma anche la sorella e vicaria) dall'obbligo di riportare a norma i luoghi di lavoro ove si svolgeva l'attività dell'impresa ed in cui lavoravano, e addirittura vivevano, diversi operai. Del resto è censurabile in sede penale la condotta del datore di lavoro che, avendo ricevuto in locazione i locali in cui si svolge la prestazione lavorativa, ometta di mantenere in buono stato di conservazione e di efficienza tali luoghi, a meno che non dimostri che l'esecuzione degli interventi di adeguamento sia stata resa impossibile dal comportamento del locatore. Nella specie, quindi, era onere delle imputate (quanto meno) quello di assumere preventivamente informazioni circa la rispondenza alla normativa prevenzionistica dei locali adibiti a luogo di lavoro e, quindi, di procedere ai necessari adeguamenti a tal fine''.
Il legale rappresentante di una s.r.l., locatrice di un immobile ad uso officina, fu imputato del reato di lesioni personali colpose, ``per avere installato e mantenuto in opera una porta scorrevole di accesso al locale priva dei necessari dispositivi atti ad impedire che la stessa potesse fuoriuscire dai propri binari di scorrimento ed omettendo di installare un meccanismo di fine corsa in corrispondenza della parte superiore della porta, per negligenza, imprudenza ed imperizia nonché per violazione del punto 1.6.12 dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008)''. La Sez. IV osserva: ``Nel diritto dei contratti, dal quale il giudice penale mutua l'aspetto descrittivo dell'obbligo di fonte negoziale da cui si origina la posizione di garanzia del locatore, tra le obbligazioni di quest'ultimo rivestono particolare rilievo, per il caso concreto, gli obblighi di manutenzione e di riparazione (artt. 1575-1577 c.c.), ma anche la responsabilità per vizi della cosa locata che la rendano pericolosa per la salute del conduttore (artt. 1578-1580 c.c.). Si tratta di obblighi che regolano il rapporto contrattuale ed, al contempo, delineano l'ambito della responsabilità del locatore nei confronti del conduttore. Escluso che l'attività d'installazione e verifica della perfetta funzionalità della porta di accesso all'immobile possa ritenersi attività gravante sul conduttore, ne deriva sotto tale profilo l'inclusione della condotta contestata nel presente processo (concretata dall'omessa installazione di un meccanismo di fine corsa in corrispondenza della parte superiore della porta) nell'area di rischio propria dell'imputato in virtù del contratto. Risulta, infatti, palese che le attività manutentive tendono a garantire che l'uso ed il godimento del bene locato non comportino pericoli per la salute del conduttore. Il tribunale ha richiamato l'art. 1575 c.c. come fonte della posizione di garanzia del proprietario dell'immobile concesso in locazione ed ha specificato che i vizi strutturali della porta scorrevole concretavano violazione dello specifico obbligo del locatore di consegnare il locale in buono stato di manutenzione, causalmente correlati all'evento con elevato grado di credibilità razionale''.
Presso un allevamento avicolo, il dipendente di una ditta trasportatrice, ultimato lo scarico in un silos della fornitura di mangimi, secondo una prassi consolidata, si arrampica sino alla sommità del silo per chiuderne manualmente il coperchio a causa del malfunzionamento del meccanismo di apertura/chiusura azionabile da terra, ma perde l'equilibrio, e in assenza di un sistema anticaduta precipita a terra. Viene condannata per omicidio colposo l'amministratrice unica della s.r.l. proprietaria dell'allevamento gestito da altra s.r.l. sulla base di un contratto di affitto di azienda. Colpa: non aver eliminato le scale di accesso alla sommità del silo prive delle adeguate protezioni previste al punto 1.7.1.3 dell'Allegato IV al D.Lgs. n. 81/2008, o, in alternativa, non aver fatto installare sulla sommità del silo i parapetti di protezione contro le cadute dall'alto prescritti nel punto 1.7.3 del medesimo Allegato IV. Nel confermare la condanna, la Sez. IV osserva: ``È irrilevante, ai fini della esclusione della penale responsabilità del legale rappresentante della società proprietaria, la contemporanea esistenza di un Consorzio e di un ufficio tecnico facente capo allo stesso. Invero, il Consorzio era stato previsto per assicurare a ciascuna ed a tutte le aziende ad esso aderenti di poter fruire, dei vantaggi commerciali di una siffatta aggregazione (era, cioè, un Consorzio che acquistava materie prime e che strutturava i servizi che dovevano essere organizzati, all'interno di ciascuna società); mentre l'Ufficio tecnico svolgeva sì il servizio relativo alla prevenzione degli infortuni negli allevamenti delle società consorziate, ma ciò faceva collaborando con le singole società, in capo alle quali continuava a permanere la responsabilità della attuazione dei vari apprestamenti antinfortunistici. Detta responsabilità, nella concreta fattispecie, trattandosi di allevamento concesso in locazione, continuava a permanere in capo alla locatrice, alla quale dunque spettava il compito di curare la sicurezza dell'impianto concesso in affitto, in tutte le sue componenti strutturali, mentre alla società locataria rimanevano unicamente (anche con richiamo a una clausola del contratto di affitto di azienda) gli oneri relativi alla c.d. `ordinaria manutenzione' dei beni affittati (categoria nella quale non poteva farsi rientrare la conformazione dei silos locati ai criteri di cautela propri della normativa di settore)''.
Condannato per non aver mantenuto in buono stato di conservazione ed efficienza i luoghi di lavoro, il datore di lavoro di un supermercato lamenta che aveva tentato di risolvere i problemi della pavimentazione del locale contattando la proprietà dello stesso, che per l'esecuzione dei lavori necessari dovevano essere coinvolti la proprietà dei locali e il condominio soprastante. E che le zone del pavimento rovinate erano state comunque transennate con conseguente mancanza di pericolo. Nel richiamare gli artt. 63, comma 1, e 64, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, la Sez. III ribatte: ``Il soggetto tenuto a provvedere affinché i luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di buono stato di conservazione ed efficienza è il datore di lavoro. Ne consegue che la circostanza che il locale - luogo di lavoro non conforme a tali requisiti sia di proprietà di terzi non esclude comunque la responsabilità del locatore - datore di lavoro salvo non si dimostri che l'adeguamento è stato reso impossibile dal comportamento del proprietario; in particolare, va escluso che il rifiuto o l'inerzia del proprietario dei locali a far sì che le irregolarità siano eliminate esima il datore di lavoro dal dovere, impostogli per legge, di effettuare il necessario adeguamento, per il tramite di opere, ordinariamente consentite, di piccola manutenzione e di riparazione urgente, salvo evidentemente rivalersi, quanto agli esborsi economici sopportati, sul proprietario del luogo di lavoro. Quand'anche pertanto si ritenesse, nella specie, essere emersa tale inerzia del proprietario, pur sollecitato dal conduttore dei locali, ciò non verrebbe ad incidere a fronte della mancata prospettazione di lavori impossibili da eseguirsi se non con il consenso del locatore, sulla configurabilità del reato a carico dell'imputato, tanto più che la società conduttrice ebbe a detenere i locali, nella condizione di irregolarità, ancora per parecchi anni dalla contestazione del fatto, si da escludere che solo a causa della mancata ottemperanza del proprietario a porre in regola la pavimentazione, l'imputato abbia deciso di risolvere il contratto di locazione. Né lo stesso imputato adduce insuperabili circostanze, impeditive, appunto, di una condotta regolarizzatrice. Quand'anche si recepisse l'argomentazione secondo cui il pavimento era stato transennato, va ricordato che la natura formale del reato contestato, per la cui sussistenza è sufficiente, da parte dell'agente, l'omissione che costituisce l'elemento materiale della fattispecie, esclude che sia necessaria anche una situazione di pericolo per l'incolumità''.
Un lavoratore precipita al suolo dal balcone non adeguatamente protetto del locale assegnatogli come alloggio dal datore di lavoro. Nel confermare la condanna del datore di lavoro, la Sez. IV prende atto che ``la corte di appello, sovvertendo il giudizio espresso sullo specifico punto dal tribunale, ha ritenuto che nella vicenda in esame non trovi applicazione la normativa prevenzionistica, poiché la precipitazione della vittima non è avvenuta da un luogo o in ambiente di lavoro; di talché la disciplina giuridica della vicenda è stata rinvenuta nelle norme concernenti il rapporto di locazione di immobili''. E osserva: ``L'art. 1575 c.c. impone al locatore di consegnare al conduttore la cosa locata in buono stato di manutenzione e di conservarla in condizioni che la rendano idonea all'uso convenuto (in tema di vizi della cosa locata, il locatore è tenuto, ai sensi dell'art. 1575 c.c., a consegnare al conduttore la cosa locata in buono stato di manutenzione e, quindi, dovendo adempiere con diligenza la relativa prestazione, il medesimo deve eseguire, prima della consegna, i necessari accertamenti, la cui omissione è ragione di colpa). Qualora il conduttore abbia esercitato l'azione di risarcimento per i danni derivati dai vizi della cosa locata, il locatore è esente da responsabilità solo se prova di aver ignorato tali vizi senza colpa. La previsione trova la propria ratio nella impossibilità giuridica del conduttore di intervenire su elementi strutturali del bene, essendo riservato al proprietario il potere di apportare modifiche ad esso. Molteplici fattori convergono nel fare di un edificio una fonte di pericolo per la salute di quanti vengono a contatto con il medesimo; il soggetto titolare di poteri dispositivi viene quindi ad assumere una posizione di controllo (di tale fonte), e pertanto una posizione di garanzia dalla quale derivano obblighi la cui violazione assume rilievo giuridico.
La previsione di un dovere, peraltro, non implica di per sé che la relativa prescrizione abbia natura cautelare; per restare alle previsioni dell'art. 1575 c.c., non appare aver tale natura l'obbligo del locatore di garantire al conduttore il pacifico godimento del bene durante la locuzione (art. 1575, n. 3 c.c.). Occorre quindi chiedersi se la regola in questione (consegnare e mantenere in buono stato di manutenzione la cosa) abbia o meno lo scopo di prevenire eventi rientranti in una determinata sfera di rischio, individuando - per dirla con attenta dottrina - programmi di comportamento ritenuti idonei a fronteggiare il medesimo (eliminandolo: regole cautelari proprie; diminuendone le probabilità di verificazione: regole cautelari improprie). Orbene, risulta palese che le attività manutentive tendono a garantire che l'uso ed il godimento del bene locato non comporti pericoli per la salute del conduttore; non corrisponde ad un buono stato di manutenzione quell'immobile che presenta un cornicione, reso raggiungibile dalla rimozione dell'ostacolo posto all'accesso, privo di adeguato parapetto. Non vi è quindi dubbio che al locatore competesse di tenere in condizioni che lo rendessero idoneo all'uso anche il cd. balcone, almeno dal momento in cui questo era stato adibito a zona di sosta dai conduttori, essendo di ciò divenuto consapevole il locatore. In tema di nesso di causalità, ai sensi dell'art. 41 c.p., vale ad escludere il medesimo solo il fattore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l'evento letale. Tale non può essere considerato lo stato di ubriachezza della vittima, posto che l'uso di sostanze alcoliche, anche sino allo stato di alterazione psico-fisica, da parte di un soggetto maschile di età adulta non costituisce evenienza imprevedibile ed eccezionale''.
(Circa il proprietario-locatore-committente v. sub art. 89, paragrafo 11. Per un caso di alloggio considerato "luogo di lavoro" v., invece, Cass. 4 febbraio 2010, n. 4939, Stipa).
Nel definire il lavoratore come la ``persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un'arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari'', l'art. 2, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008 dimostra l'intenzione del nostro legislatore di estendere ulteriormente il fronte dei soggetti tutelati dalle norme di sicurezza del lavoro, e, sotto questo verso, di ampliare il concetto di ``lavoratore''.
Spetta all'interprete inquadrare correttamente nell'ambito del D.Lgs. n. 81/2008 categorie sempre più diffuse quali i lavoratori distaccati (v. sub art. 26, par. 18), i lavoratori all'esterno, i crowd-workers (i lavoratori ``nella folla''), i collaboratori ``out bound'', i lavoratori agili introdotti dal D.Lgs. n. 81/2017 (al proposito l'e-book Guariniello, La sicurezza sul lavoro agile, Wolter Kluwer, 2017). Basilare sotto questo aspetto, ma purtroppo trascurato, è che, dall'art. 3, comma 4, D.Lgs. n. 81/2008, si desume una regola generale: il D.Lgs. n. 81/2008 si applica integralmente a tutela di qualsiasi persona che di fatto eserciti l'attività nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro, a prescindere dalla tipologia contrattuale. E si desume una deroga alla regola generale: qualora rientri nell'ambito di una delle categorie disciplinate dall'art. 3 nei commi dal 6 al 13-ter, il lavoratore è tutelato nei modi e nei limiti ivi stabiliti. Di qui l'esigenza di verificare per ciascuna categoria di lavoratori se tale categoria rientri, o no, nei commi dal 6 al 13-ter. Ove a seguito di tale verifica si pervenga a una risposta negativa, per forza di cose rientra pienamente in gioco la regola generale. Nessun dubbio, d'altra parte, che i commi dal 6 al 13-ter, derogando a una regola generale, non estendono la propria area di applicazione al di là dei casi espressamente e tassativamente previsti.
``Le disposizioni di cui al D.Lgs. n. 81/2008 si applicano anche in caso di insussistenza di un formale contratto di assunzione, in quanto rileva l'espletamento di mansioni lavorative tipiche dell'impresa, indipendentemente dalla circostanza che esse siano svolte a titolo di favore, nel luogo di lavoro deputato e su richiesta dell'imprenditore''.
``Le norme di cui al D.Lgs. n. 81/2008, che presuppongono necessariamente l'esistenza di un rapporto di lavoro, come quelle concernenti l'informazione e la formazione dei lavoratori, si applicano anche in caso di insussistenza di un formale contratto di assunzione''.
``Qualora sia accertato che ad una determinata attività siano addetti lavoratori subordinati o, anche di fatto, soggetti quali soci di società e di cooperative, che prestino la loro attività per conto della società e degli enti stessi, non occorre altro per ritenere obbligato ad attuare le misure di sicurezza il legale rappresentante della società o dell'ente. Attesa la qualifica di presidente della cooperativa rivestita dall'imputato, egli non poteva ignorare il rapporto lavorativo di fatto instauratosi con l'infortunato e l'attività a cui era stato adibito, avendo peraltro partecipato a tale attività''.
Nello scaricare letame in un campo mediante un trattore, l'infortunato si appoggia al telaio del rimorchio, e rimane folgorato perché il cassone entra in contatto con i fili dell'alta tensione. Due sono le linee percorse per motivare la condanna di uno dei titolari della società agricola affittuaria del campo. La prima è la definizione di lavoratore dettata dall'art. 2, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008: ``Tale definizione, poiché fa leva sullo svolgimento dell'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione del datore di lavoro indipendentemente dalla tipologia contrattuale, è più ampia di quella prevista dalla normativa pregressa nella quale si faceva riferimento al `lavoratore subordinato' (art. 3 D.P.R. n. 547/1955) e alla `persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro' (art. 2, comma 1, lett. a, D.Lgs. n. 626/1994). L'infortunato si recò in un campo del quale era affittuaria la società agricola; l'imputato era tra i titolari dell'azienda ed era interessato allo svolgimento del lavoro di concimazione del terreno, per svolgere il quale aveva incaricato, con apposito contratto d'opera, altro soggetto (il quale lavorava con proprie attrezzature in un'altra parte del campo e utilizzava un veicolo di dimensioni minori); fu l'imputato a fornire all'infortunato il trattore e il semirimorchio necessari al trasporto del letame da scaricare nel campo. Avendo svolto attività lavorativa nell'interesse dell'imputato, nel terreno affittato dall'azienda agricola, avvalendosi di mezzi da lui forniti e secondo le sue indicazioni, l'infortunato era destinatario della tutela antinfortunistica ai sensi dell'art. 2 D.Lgs. n. 81/2008, e non rileva se tale attività doveva essere retribuita o era svolta per sdebitarsi di un piacere ricevuto''. A supporto della condanna, viene, peraltro, evocata una seconda linea: ``In base all'art. 26 D.Lgs. n. 81/2008, quando affida a lavoratori autonomi o a soggetti terzi il compito di svolgere determinate lavorazioni, il committente continua ad essere responsabile del rispetto della normativa antiinfortunistica se si ingerisce nell'attività del lavoratore autonomo. Nel caso di specie, tale ingerenza vi è stata perché il trasporto e lo scarico del letame (eseguiti nell'interesse dell'impresa della quale l'imputato era socio) avvennero utilizzando il trattore e il rimorchio forniti dall'imputato stesso. Si tratta di argomentazioni non illogiche né contradditorie e conformi ai principi di diritto che regolano la materia. Certamente, per valutare la responsabilità del committente, in caso di infortunio, occorre verificare in concreto l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo, e tuttavia nel caso di specie l'incarico era stato conferito ad un singolo individuo, i mezzi per svolgerlo erano stati forniti dal committente, e questi era così ben informato della situazione di pericolo da aver avvisato l'altro incaricato con apposito contratto d'opera di stare attento ai fili dell'alta tensione''. (Conforme Cass. 30 agosto 2022 n. 31879).
Il proprietario di un'imbarcazione da pesca in secca all'interno di un cantiere commissiona a titolo oneroso lavori in nero di resinatura della carena. L'incaricato precipita al suolo da un'altezza di circa 2,5 metri procurandosi lesioni encefaliche e vertebrali tali da ridurlo in stato vegetativo permanente. Addebito di colpa mosso al ``datore di lavoro di fatto'': violazione degli artt. 111, comma 1, lett. a), e 122 D.Lgs. n. 81/2008, ``per non avere, nel quadro di un lavoro temporaneo in quota, scelto le attrezzature più idonee a garantire e mantenere le condizioni di lavoro sicure e per non avere adottato adeguate impalcature o ponteggio o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta delle persone''. A propria discolpa, l'imputato nega la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Ma la Sez. IV replica: ``era stato l'imputato a incaricare l'infortunato di effettuare lavori di manutenzione della barca; i tabulati telefonici avevano evidenziato numerosi contatti fra i due, riferibili, in assenza di qualsivoglia altro rapporto, a contatti di lavoro; l'imputato aveva fornito all'infortunato e ad altro lavoratore il materiale da utilizzare per il lavoro; la saltuaria collaborazione della persona offesa con un'impresa di pompe funebri non gli aveva impedito di eseguire i lavori di rimessaggio su incarico dell'imputato Bolla; il rapporto di lavoro era stato certamente in essere, come comprovato dalla predisposizione dei voucher nei mesi precedenti''. Conclusione: ``applicabilità della normativa prevenzionistica a rapporti quale quello in esame'', stante ``la definizione di lavoratore contenuta nel D.Lgs. n. 81/2008''.
``La definizione di `lavoratore' di cui all'art. 2, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008 fa leva sullo svolgimento dell'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione del datore di lavoro indipendentemente dalla tipologia contrattuale. Ne consegue che ai fini dell'applicazione di norme incriminatrici previste nel decreto citato rileva l'oggettivo espletamento di mansioni tipiche dell'impresa nel luogo deputato e su richiesta dell'imprenditore, a prescindere dal fatto che il lavoratore possa essere titolare di impresa artigiana ovvero lavoratore, venendo altresì in considerazione gli indici di emersione formali (contratto di assunzione, versamento di contributi, inserimento in busta paga), ovvero sostanziali in assenza dei primi, quali il fatto di ricevere istruzioni e il compenso, sia pure orario, dall'imprenditore e non già dal committente''.
``Ai fini dell'applicazione delle norme incriminatrici previste nel D.Lgs. n. 81/2008, rileva l'oggettivo espletamento di mansioni tipiche dell'impresa (anche eventualmente a titolo di favore) nel luogo deputato e su richiesta dell'imprenditore, a prescindere dal fatto che il `lavoratore' possa o meno essere titolare di impresa artigiana ovvero lavoratore autonomo. Venendo al caso di specie, il riferimento a tale nozione `ampia' rende di per sé irrilevante il riferimento a una decisione della corte d'appello sezione lavoro, che avrebbe escluso la sussistenza di un rapporto di dipendenza tra l'infortunato e la s.p.a. amministrata dagli imputati. L'infortunato, sebbene formalmente non fosse in rapporto di dipendenza organica dalla suddetta società, era sostanzialmente assimilabile a un lavoratore dipendente, mentre la sua qualità di artigiano e lavoratore autonomo celava, in realtà, un rapporto di subordinazione di fatto alla società: egli, operando prevalentemente per la predetta società, era un semplice muratore, privo di iscrizione alla camera di commercio, non aveva il DURC e nei lavori edilizi fatturava esclusivamente i costi della manodopera; del resto le fatture da lui emesse riportavano la ragione sociale di una ditta di stireria. Inoltre era privo di adeguate attrezzature''.
``L'argomentazione riguardante l'asserita autonomia dell'operaio infortunato nel rapporto di lavoro che lo legava alla s.p.a. è del tutto inconferente, dovendosi attribuire prevalenza di significato alla situazione di fatto esistente nell'azienda, in rapporto alla quale la persona offesa rivestiva la qualifica di lavoratore dipendente. Pertanto, lo svolgimento in `autonomia' di piccoli lavori di manutenzione non era suscettibile di determinare alcun esonero di responsabilità in capo a coloro che rivestivano una posizione di garanzia rispetto al dipendente. L'individuazione del rapporto di lavoro dipendente o subordinato prescinde da aspetti formali legati al contenuto del contratto, essendo necessario verificare in concreto le sue caratteristiche e gli elementi che ne connotano lo svolgimento, alle dipendenze e su richiesta di un datore di lavoro. Peraltro, una missiva indirizzata alla parte lesa dalla s.p.a. precisa, sulla base dell'inquadramento risultante dal contratto collettivo di categoria, che i lavoratori del livello a cui apparteneva la persona offesa `operano in condizioni di autonomia parzialmente vincolata, eseguendo compiti seguendo istruzioni specifiche, nell'ambito di procedure e di processi standardizzati; ricevono una supervisione sul modo di operare ed un controllo sul risultato delle attività'. Dal che si desume che la persona offesa operava quale dipendente della società, svolgendo compiti che gli erano stati assegnati sulla base di direttive impartite dal datore di lavoro e sotto la sua sorveglianza''. (V. anche Cass. n. 25329 del 7 giugno 2019).
``Una s.n.c., al fine di adempiere le obbligazioni assunte con l'appalto stipulato con una s.p.a., si avvaleva sia dei propri dipendenti che di lavoratori autonomi con i quali, a sua volta, stipulava contratti di subappalto che erano in realtà contratti di prestazione d'opera nel senso che i subappaltatori, al di là delle formule impiegate nei rispettivi contratti, nel concreto mettevano a disposizione del committente solo la loro personale forza lavoro. Nessuno di costoro disponeva di attrezzature proprie e la s.n.c. provvedeva a fatturare, in proprio, alla s.p.a. committente anche il nolo delle attrezzature utilizzate da tutti coloro che lavoravano per la s.n.c. in quel cantiere e così anche, come risulta da apposita fattura, di quel martello elettrico utilizzato anche dalla vittima nell'operazione di demolizione parziale che gli costò la vita. La natura subordinata di un rapporto va affermata ogni qualvolta si verifichi la soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro. Fondamentale criterio differenziale del rapporto di lavoro subordinato rispetto al rapporto di lavoro autonomo è invero quello della subordinazione del lavoratore al potere direttivo del beneficiario della prestazione lavorativa''.
``Sotto il profilo generale, e sulla scia di un costante orientamento giurisprudenziale, la definizione di `lavoratore', di cui all'art. 2, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008, fa leva sullo svolgimento dell'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione del datore di lavoro indipendentemente dalla tipologia contrattuale, ed è definizione più ampia di quelle previste dalla normativa pregressa, che si riferivano invece al `lavoratore subordinato' (art. 3 D.P.R. n. 547/1955) e alla `persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro' (art. 2, comma 1, lett. a, D.Lgs. n. 626/1994). Ai fini dell'applicazione delle norme incriminatrici previste nel decreto citato, rileva l'oggettivo espletamento di mansioni tipiche dell'impresa (anche eventualmente a titolo di favore) nel luogo deputato e su richiesta dell'imprenditore, a prescindere dal fatto che il `lavoratore' possa o meno essere titolare di impresa artigiana ovvero lavoratore autonomo''. (Conformi Cass. 15 aprile 2019, n. 16202; Cass. 21 maggio 2018, n. 22478; Cass. 11 aprile 2017, n. 18936).
Una studentessa di scuola superiore, assunta come praticante per il periodo feriale e adibita a una macchina per il taglio di materiali in gomma ad azionamento pneumatico, aveva istintivamente cercato di allontanare un pezzo di profilo in gomma tagliato, entrando così in contatto con la parte non protetta dell'utensile da taglio. In primo grado, il datore di lavoro e l'RSPP furono condannati, per aver omesso ``l'elaborazione del documento contenente la valutazione dei rischi e l'individuazione delle misure di prevenzione, nonché il rispettivo programma relativo alla realizzazione, omettendo di considerare i rischi connessi alla macchina, e omettendo di corredare la valutazione con la documentazione prevista dal D.P.R. n. 459/1996 (manuale istruzioni per l'uso e la manutenzione, attestato di conformità, marcatura di conformità CE), e per non aver valutato i particolari rischi in relazione alla presenza di lavoratori minorenni con riferimento all'art. 7, legge n. 977/1967''. Per contro, in appello, gli imputati furono assolti perché il fatto non costituisce reato per difetto di colpa. La Sez. III annulla la sentenza di assoluzione. E muove un rimprovero al giudice d'appello: di non aver ``posto nel giusto rilievo la circostanza che la lavoratrice si è infortunata proprio nello svolgimento delle sue mansioni''.
Per un'analisi del concetto di lavoratore subordinato:
``Posto che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo, l'elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore, con assoggettamento al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, ed al conseguente inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale con prestazione delle sole energie lavorative corrispondenti all'attività di impresa. Ulteriori elementi, quali l'assenza di rischio, la continuità della prestazione, l'osservanza di un orario e la forma della retribuzione, pur avendo natura meramente sussidiaria e non decisiva, possono costituire indici rivelatori della subordinazione, idonei anche a prevalere sull'eventuale volontà contraria manifestata dalle parti, ove incompatibili con l'assetto previsto dalle stesse. L'esistenza del vincolo di subordinazione va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell'incarico conferito; e laddove sia difficile individuare detto discrimine, per la peculiarità del rapporto, è legittimo ricorrere a criteri distintivi sussidiari, quali la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale, ovvero l'incidenza del rischio economico, l'osservanza di un orario, la forma di retribuzione, la continuità delle prestazioni. In particolare, nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione, oppure, all'opposto, nel caso di prestazioni lavorative dotate di notevole elevatezza e di contenuto intellettuale e creativo, al fine della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, il criterio rappresentato dall'assoggettamento del prestatore all'esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare, in quel particolare contesto, significativo per la qualificazione del rapporto di lavoro, ed occorre allora far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell'orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza di un effettivo potere di autoorganizzazione in capo al prestatore''.
È nota anche alla giurisprudenza lavoristica la difficoltà di operare, su scala generale, una distinzione - nei casi dubbi - tra rapporto di lavoro subordinato e prestazione d'opera qualificabile come lavoro autonomo. Tradizionalmente l'elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al rapporto di lavoro autonomo è l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia ed inserimento nell'organizzazione aziendale; vi sono poi altri elementi, quali l'assenza di rischio, la continuità della prestazione, l'osservanza di un orario e la forma della retribuzione, ai quali si attribuisce natura sussidiaria, di per sé non decisiva; in ambito agricolo, ad esempio, si è evocata in talune pronunzie la valenza di alcuni elementi sintomatici della subordinazione, come il rispetto di orari precisi, l'inserimento delle prestazioni in una struttura organizzativa aziendale, cui possono (e in taluni casi devono, come nel caso di attività lavorativa agricola prestata a favore di parenti ed affini) aggiungersi altri elementi idonei a dimostrare almeno un nesso di corrispettività tra la prestazione lavorativa e quella retributiva, entrambe caratterizzate dalla obbligatorietà, e l'esistenza di quel tanto di direttive e controlli in merito alla prestazione lavorativa che valgano a differenziare il rapporto dal lavoro autonomo. Epperò, neppure deve trascurarsi che il richiamo alla giurisprudenza lavoristica vale qui ai limitati fini generali della connotazione del rapporto, altre e diverse essendo le finalità e le esigenze probatorie che caratterizzano il giudizio penale e la disciplina prevenzionistica che ne costituisce, nel caso di che trattasi, il principale riferimento. (La sentenza è riportata più ampiamente sub art. 26, Premessa).
(Per la condanna del rappresentante legale di una s.p.a. in caso d'infortunio a un'associata in partecipazione Cass. 2 febbraio 2016, n. 4338).
Circa la responsabilità del direttore e del sorvegliante di una s.a.s. per l'infortunio occorso a un socio dipendente v. Cass. 5 ottobre 2017. n. 45821. V., inoltre:
In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il socio di fatto che presta la sua attività per conto della società è contemporaneamente oggetto e destinatario delle norme antinfortunistiche e di quelle di comune prudenza e di buona tecnica, sicché deve provvedere, a tutela dell'incolumità propria e degli altri lavoratori, anche eventualmente soci, della società, a che il lavoro si svolga con l'osservanza delle norme antinfortunistiche e di quelle di comune prudenza. (Sul punto v. anche Cass. 7 marzo 2012, n. 9122, Alpago e altri).
Riconosce ``la tutela anche in fattispecie di lavoro prestato per amicizia, per riconoscenza o comunque in situazione diversa dalla prestazione del lavoratore subordinato o autonomo, purché detta prestazione sia stata effettuata in un ambiente che possa definirsi di lavoro''. (V. anche Cass. n. 28159 del 21 luglio 2021, sub art. 26, paragrafo 1, lettera p).
``L'approntamento di misure di sicurezza e quindi il rispetto delle norme antinfortunistiche esula dalla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato o autonomo, essendo stata riconosciuta la tutela anche in fattispecie di lavoro prestato per amicizia, per riconoscenza o comunque in situazione diversa dalla prestazione del lavoratore subordinato o autonomo, purché detta prestazione sia stata effettuata in un ambiente che possa definirsi di lavoro''.
``L'infortunato quel giorno era alle dipendenze `di fatto' dell'imputato, atteso che il lavoratore era stato condotto sul cantiere da un amico dell'imputato, per sostituirlo nelle `maestranze' di quest'ultimo, poiché quel giorno lui non si sentiva bene. Anche il teste aveva dichiarato che l'infortunato si trovava in cantiere dalla mattina in aiuto dell'imputato per il rifacimento della copertura. Il rapporto di lavoro fra i due, sia pure irregolare, risulta evocato anche dall'altro lavoratore presente''.
``L'infortunato lavorava di fatto come dipendente dei coniugi gestori di un negozio di ferramenta, si era occupato dell'assistenza al padre anziano del marito, svolgeva lavori agricoli nell'azienda di famiglia e alcuni servizi (carico e scarico merce, sistemazione negli scaffali) presso il negozio di ferramenta. In definitiva svolgeva mansioni di badante e aiuto magazzino al nero''.
``L'infortunato al momento del sinistro era un lavoratore in nero alle dipendenze dell'imputato e la circostanza che non vi fosse un regolare contratto di lavoro non esime il datore di lavoro dall'osservanza della disciplina in materia infortunistica''.
La Sez. IV prende atto che l'infortunato era un lavoratore in nero chiamato secondo necessità come ``tuttofare''. Rileva che, in base all'art. 2, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008, ``le norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro si applicano a chiunque ponga in essere una prestazione lavorativa in senso lato, anche occasionale o senza retribuzione ovvero per imparare un mestiere''. Ne desume che ``la tutela, oltre a riguardare i lavoratori subordinati, si estende a tutte le persone che vengano a trovarsi in situazioni di pericolo connesse all'attività esercitata, a prescindere dall'eventuale mancato perfezionamento di un contratto e dall'episodicità della prestazione''.
(Per il caso di lavoratore straniero privo di permesso di soggiorno v., ad es., Cass. 21 maggio 2019 n. 22095).
Il datore di lavoro è chiamato a tutelare la sicurezza dei lavoratori, ovunque essi operino, e, dunque, anche nel caso in cui la prestazione dell'attività venga effettuata all'estero. Una prima ipotesi concerne un infortunio avvenuto all'estero su una nave italiana:
La Sez. IV conferma la condanna del ``direttore di macchina in seconda, addetto al servizio di prevenzione e di protezione per la sezione macchina e responsabile delle operazioni di pulizia dei filtri delle prese d'aria di una condotta di ventilazione posta su un ponte di una motonave per il ricambio d'aria nella zona motori'' per l'infortunio mortale di un operaio dipendente ``assegnato ad una squadra, il cui caposquadra era l'imputato, che, durante la navigazione tra Brasile e Argentina, doveva pulire il filtro della presa d'aria di una condotta di ventilazione che si apriva sul ponte, e che, una volta smontata la griglia di protezione, precipitava dentro una condotta di ventilazione, scivolando per trentotto metri sino al ponte ove era l'apparato motore''. Colpa: ``non avere previsto il rischio di caduta dentro la condotta di ventilazione e non avere adottato le misure necessarie contro tale rischio, in particolare avere omesso di collocare segnali di pericolo o adeguate barriere di protezione contro le cadute nella condotta (violazione dell'art. 63, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, e dei punti 1.4.6. e 1.4.7. dell'allegato IV allo stesso)''.
Ecco altri casi:
``Sequestro probatorio di un mezzo composto da motrice e annesso rimorchio di proprietà di una s.r.l., in quanto ritenuto causa dell'evento mortale occorso a un dipendente, avvenuto all'interno di un autolavaggio, situato nella cittadina tedesca di Freiberg''. La Sez. IV osserva: ``Il tribunale ha ritenuto corretta l'affermazione della giurisdizione italiana e l'individuazione del giudice competente per territorio, trattandosi di delitto comune (infortunio sul lavoro) astrattamente ascrivibile a un cittadino italiano, ossia al datore di lavoro, commesso all'estero e come tale punibile, ai sensi dell'art. 9, comma 2, c.p., su istanza della persona offesa, nella specie sussistente essendo stata avanzata querela-denuncia dal prossimo congiunto della vittima. Ha giudicato, altresì, destituita di fondamento la censura proposta in punto di nullità della querela perché depositata da un incaricato ma priva di sottoscrizione autentica, ritenendo non essere questa necessaria per essere il reato procedibile d'ufficio. Il tribunale ha correttamente negato rilievo alla censura concernente l'invalidità della querela al fine di escludere la giurisdizione italiana, trattandosi di omicidio colposo perseguibile d'ufficio. Pur essendo condivisibile che l'istanza della persona offesa fosse comunque necessaria anche per consentire la procedibilità in Italia in ordine al reato di cui si tratta, in quanto commesso all'estero, la mancanza di una condizione di procedibilità può considerarsi elemento ostativo all'esercizio dell'azione penale ma è inidonea ad inficiare la legittimità del sequestro probatorio, in quanto atto d'indagine diretto ad assicurare le fonti di prova. In taluni casi, la mancanza di una condizione di procedibilità può configurarsi come situazione ostativa al compimento di singoli atti del procedimento anche nella fase delle indagini preliminari, come avviene nel caso di assenza dell'indagato dal territorio dello Stato ai fini dell'esecuzione di una misura cautelare personale. Si tratta, tuttavia, di ipotesi diversa dal caso che qui occupa, in cui trova applicazione il diverso principio per cui la mancanza di una condizione di procedibilità può essere dichiarata solo nella fase processuale. E tuttavia, una motivazione del sequestro che non sia meramente apparente deve svolgere argomentazioni in merito al fumus del nesso di pertinenzialità degli automezzi con il reato che siano ancorate alle peculiarità del caso concreto, qui caratterizzato dalla pendenza di un procedimento contro ignoti relativo a fatti verificatisi in Germania, dove le indagini si sono rivolte verso soggetti che non hanno alcun legame con il mezzo sequestrato. Apodittica e fittizia è, in particolare, l'affermazione per cui il provvedimento di sequestro, disposto a notevole distanza di tempo dai fatti, indicherebbe il fumus in quanto gli stessi sarebbero `ritenuti possibile causa dell'evento mortale occorso, dovendosi pertanto considerare indispensabile procedere ad accertamenti tecnici volti a verificarne la funzionalità, nonché la presenza di eventuali difetti di costruzione e/o manutenzione che possano avere determinato l'evento mortale', senza alcun riferimento alle acquisizioni d'indagine denotanti le ragioni di tale affermazione''.
In Francia, la società di gestione dell'energia elettrica appalta l'esecuzione di lavori elettrici su tralicci di un elettrodotto ad alta tensione di sua proprietà ad altra società che li subappalta a una ulteriore società che a sua volta li subappalta a una società italiana. Un dipendente della società italiana rimane ``vittima di folgorazione, mentre, unitamente ad altro operaio, era intento alla rimozione di un morsetto fissato su un traliccio attraversato dalla corrente elettrica indotta''. Due furono gli imputati condannati per omicidio colposo: l'amministratore unico della società, il capo squadra presente in cantiere preposto all'esecuzione dei lavori subappaltati, con l'addebito di avere, entrambi, omesso di fornire all'infortunato dispositivi di protezione individuale, in particolare, guanti isolanti; e, inoltre, il capo squadra preposto, omesso di ``vigilare in ordine alla mancata fornitura di detti dispositivi da parte del committente, dell'appaltatore e dei subappaltatori'', ``formare professionalmente e di informare preventivamente il lavoratore dei rischi connessi con l'esecuzione dei lavori affidatigli'', ``vigilare in ordine al mancato adempimento di tali obblighi da parte del committente, dell'appaltatore e dei subappaltatori''. La Sez. IV prende atto che ``la documentazione trasmessa dall'autorità giudiziaria francese, e cioè la relazione dell'ingegnere francese e ispettore del lavoro intervenuto presso il cantiere era esaustiva e completa, tale da permettere una precisa ricostruzione dell'infortunio e da consentire l'individuazione dei rapporti intercorrenti tra le diverse società presenti sul cantiere e tra le stesse e la società committente'', e che ``il complesso probatorio acquisito dalle autorità francesi era stato integrato e supportato da un ulteriore apporto conoscitivo offerto dalla relazione dell'ispettorato del lavoro italiano, dall'esame dei compagni di lavoro della vittima, dalla perizia affidata ad un esperto in materia di elettricità''. Considera ``irrilevante l'accertamento volto a verificare la pendenza in Francia, per lo stesso infortunio, di eventuali procedimenti penali a carico di rappresentanti di altre società coinvolte nei lavori, le cui eventuali responsabilità, se accertate, nulla rileverebbero ai fini della decisione''. Rileva, altresì, che ``certamente la società italiana operava in piena autonomia'', nonostante ``la possibile presenza sul cantiere di altra impresa che operava sotto la direzione di un proprio capocantiere''. Di fronte poi ``alle incertezze (attribuite dai giudici del merito alla presenza di diverse società impegnate nello svolgimento della stessa attività lavorativa) relative all'individuazione della società sulla quale gravava il compito di approntare materiali e mezzi occorrenti per l'esecuzione dei lavori'', sottolinea comunque ``l'obbligo, posto in capo ai due imputati, di intervenire, in ogni caso, per garantire il rispetto delle misure prevenzionali, a salvaguardia dell'incolumità fisica e della salute dei dipendenti della società della quale erano comunque garanti, in ragione della carica ricoperta e del ruolo svolto all'interno della predetta società''. Precisa che, ``in considerazione delle rispettive posizioni, gli imputati, a prescindere dagli obblighi, pur concorrenti, gravanti su altri soggetti ed imprese interessate ai lavori, erano comunque titolari di precise posizioni di garanzia nei confronti dei dipendenti della società che essi rappresentavano, e ad essi pure incombeva l'obbligo di adottare tutte le misure di sicurezza e di prevenzione necessarie a prevenire infortuni ed a garantire la sicurezza dei dipendenti che ad essi, in vario modo, facevano capo'', e che ``tali obblighi non si limitavano alla fornitura (omessa) degli strumenti e mezzi tecnici di protezione individuale (guanti isolanti per l'alta tensione), ma anche alla verifica che gli stessi fossero effettivamente forniti ai propri dipendenti, se altri soggetti ne avessero assunto l'obbligo''. Soggiunge che, ``in vista del grado di professionalità e di esperienza che richiedeva l'esecuzione dei lavori affidati all'infortunato e la pericolosità degli stessi, spettava in prima battuta proprio ai due imputati di verificare le capacità e competenze specifiche del lavoratore, di curarne la formazione e di fornire allo stesso le informazioni necessarie al loro svolgimento'', ``tutto ciò a prescindere dai contenuti degli accordi intercorsi e dei contratti sottoscritti dalle diverse imprese coinvolte nei lavori e dall'assunzione, da parte delle stesse, di specifiche responsabilità di direzione dei lavori, nonché dalla presenza di responsabili di cantiere dipendenti da taluna di esse''. Pone ancora in risalto che ``l'esperienza nell'infortunato, assunto pochi giorni prima dell'incidente, era, nello specifico settore, assente, poiché egli era del tutto ignorante dei fenomeni elettrici, non aveva frequentato alcun corso di formazione ed avrebbe solo potuto svolgere lavori di supporto dei compagni più esperti''. E conclude che ``l'affidamento all'infortunato di compiti ben superiori alle sue capacità, esperienza e competenza, senza preventivamente averne curato la formazione e senza fornire adeguate informazioni sui rischi connessi alle mansioni affidate, la mancata consegna di dispositivi di protezione e l'omessa vigilanza della consegna degli stessi da parte di chi ne fosse stato anche tenuto, rappresentano la violazione sistematica dei più elementari obblighi che le norme sulla prevenzione degli infortuni impongono al datore di lavoro e a chi lo rappresenta''.
``Il dipendente infortunato era un apprendista in servizio da poco più di un mese, peraltro il suo contratto era di installatore e riparatore di apparecchi elettronici ed elettromeccanici in addestramento, con un programma di attività formativa e teorica relativa alle tecniche di cablaggio dei quadri, assemblaggio dei componenti elettrici ed elettronici e verifica e collaudo finale degli stessi, e, in ogni caso, gli era stato ordinato da parte del preposto ed amministratore di fatto di lavorare sopra un tetto in assenza di qualsiasi adeguata formazione ed informazione al riguardo e in mancanza di qualsiasi dispositivo di protezione contro le cadute dall'alto, collettivo (impalcati, reti) o individuale, in particolare senza consegnargli la cintura di sicurezza, che, in teoria, poteva essere agganciata alla linea-vita presente, che era stata installata da altra ditta''.
``La condizione di apprendista del lavoratore avrebbe dovuto indurre il datore di lavoro ad essere particolarmente attento e zelante nel mettere a disposizione del giovane le attrezzature idonee per eseguire in tutta sicurezza il lavoro e nel renderlo edotto dei relativi rischi''.
La socia accomandataria di una s.a.s. fu condannata per il reato di cui all'art. 3, comma 1, L. n. 977/1967 e i genitori per il reato previsto dall'art. 26, comma 6, L. n. 977/1967, per avere la prima ammesso al lavoro una sedicenne senza che la stessa avesse frequentato il periodo minimo di istruzione obbligatoria, e gli altri due consentito l'avvio al lavoro in tale condizione. La Sez. III osserva: ``A mente dell'art. 2 della L. n. 977/1967 (intitolata `tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti'), come modificato dall'art. 4 del D.Lgs. 4 agosto 1999 n. 345 (recante `Attuazione della direttiva 94/33/CE relativa alla protezione dei giovani sul lavoro'), le relative norme, comprese quelle penali contestate nel presente giudizio, non si applicano con riferimento al caso degli adolescenti addetti a lavori occasionali o di breve durata concernenti, per quanto qui di interesse, le `prestazioni di lavoro non nocivo, né pregiudizievole, né pericoloso, nelle imprese a conduzione familiare' (comma 1, lett. b). L'impresa in cui era impegnata la sedicenne aveva carattere familiare e la ragazza vi lavorava in quanto parente del compagno della socia accomandataria''.
``La posizione di garanzia che rivestiva imponeva al datore di lavoro di approntare ogni mezzo prevedibile secondo il modello dell'agente avveduto perché il garantito (l'operario infortunato), particolarmente esposto in quanto inesperto apprendista, non andasse incontro ad infortuni. L'imputato, invece, ha del tutto omesso di informare e formare il giovane infortunato sui rischi della lavorazione e sulle modalità d'un approccio corretto e responsabile alla macchina taglia tronchi. Inoltre, nessun presidio era stato posto al fine d'impedire pericoloso accostamento al macchinario. Infine, la valutazione dei rischi, proprio perché non aveva tenuto conto di quello specifico derivante dalla macchina tagliatrice nella fase in cui la predetta procede ad accatastare a pressione i tronchi tagliati, era risultata carente''.
Circa un infortunio occorso a un lavoratore diciannovenne assunto con contratto di formazione lavoro v. Cass. 31 gennaio 2012, n. 3999).
A) I professionisti
Si addebitarono i reati di disastro colposo, omicidio colposo e lesioni personali colpose, a tre ingegneri e a un architetto per ``avere cagionato il crollo o, comunque, avere cooperato nel porre le condizioni del crollo di porzione dell'ala nord dell'edificio sito in L'Aquila e denominato `Casa dello studente' in occasione della scossa di terremoto del 6 aprile 2009, ore 03.32, e la conseguente morte di otto persone (sette studenti universitari che risiedevano presso l'edificio ed il portiere dello stabile), oltre al ferimento ed all'insorgenza di malattie anche psicologiche relativamente a ventiquattro persone (ventitré studenti ed un altro portiere dello stabile)''. Gli ingegneri furono chiamati a rispondere dei reati nelle qualità di progettisti e direttori dei lavori, e uno dei tre con la qualifica di ingegnere capo. L'architetto in veste di presidente della commissione di collaudo dei lavori di restauro e risanamento dell'edificio sede della Casa dello studente, nonché di responsabile dell'area tecnica dell'azienda e di responsabile unico del procedimento. Per quel che concerne gli ingegneri, la Sez. IV osserva: ``agli ingegneri sono state ritenute addebitabili non soltanto condotte di tipo omissivo (essenzialmente: non avere esaminato il progetto originario; non avere confrontato le originarie previsioni con la concreta situazione dell'immobile al momento dell'incarico da parte dell'ente; non avere preso in considerazione il rilevante aumento dei carichi verticali già realizzato per effetto degli interventi precedenti), ma anche di tipo commissivo (essenzialmente: avere ulteriormente aumentato i carichi; avere introdotto la parete REI, causativa di rigidezza)''. Quanto all'architetto, la Sez. IV rileva che egli ``avrebbe dovuto valutare la regolarità delle opere realizzate dai coimputati non soltanto sotto il profilo formale o tecnico-amministrativo ma anche in relazione alle ripercussioni sulla staticità dell'edificio, considerata anche la sismicità della zona in cui sorgeva l'immobile''. E spiega: ``All'architetto, in quanto presidente della commissione di collaudo dei lavori che erano stati svolti sull'edificio sede della Casa dello Studente di L'Aquila dagli ingegneri, era stato affidato dall'ente committente il compito di collaudo sia statico sia tecnico-amministrativo e, mentre il secondo venne effettuato, il primo fu, colpevolmente, omesso, in violazione della posizione di garanzia rivestita. Ciò si desume sia dal tenore letterale dell'incarico al proprio dipendente sia da quanto all'epoca previsto dall'allora vigente art. 187, commi 1 e 2, del D.P.R. 554/1999, n. 554. Del resto, l'art. 188, comma 3, del D.P.R. 554/1999 prevede, in via prioritaria, che il collaudatore dei lavori pubblici sia nominato dall'ente pubblico tra i propri dipendenti (per evidenti ragioni di economia e di efficienza dell'attività amministrativa), potendosi l'amministrazione rivolgere a soggetti esterni soltanto in caso di carenza nell'organico, carenza che sia procedimentalmente verificata, di soggetti in possesso dei requisiti necessari. In generale, per `i lavori comprendenti strutture' di cui al citato art. 188, comma 6, D.P.R. 554/1999 si devono considerare i lavori comprendenti strutture in via diretta ed in via indiretta, intendendo per primi quelli che vengono effettuati direttamente sulle strutture e per secondi i lavori che hanno, comunque, influenza diretta sulle strutture, proprio come accaduto nel caso di specie (pareti rigide sopra travi che debbono avere una certa elasticità: l'elasticità subirà una riduzione e ciò dovrà risaltare all'occhio dell'ingegnere e dell'architetto scrupoloso e diligente). Peraltro, le disposizioni sui lavori pubblici che si sono richiamate (con specifico riferimento alla unicità della nozione di collaudo, alla incompatibilità tra funzioni di progettista e direttore dei lavori, da un lato, e di collaudatore, dall'altro, ed alla preferenza accordata per la scelta di collaudatori tra dipendenti dell'ente pubblico) sono state, in maniera significativa, sostanzialmente riprodotte nella normativa successivamente entrata in vigore (art. 141 del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163; disciplina successivamente abrogata dall'art. 217 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50). Per tutte le ragioni esposte non possono, in definitiva, trovare accoglimento i motivi di ricorso variamente impostati sull'affidamento che, in tesi difensiva, l'architetto avrebbe potuto/dovuto riporre sulle relazioni asseverate o dichiarazioni tecniche asseverate, documenti che, comunque denominati, provengono dalla parte che, avendo un interesse anche economico, è soggetta al controllo del collaudatore-emanazione della p.a. committente, né sulla ritenuta regolarità formale del procedimento amministrativo, nemmeno sotto il profilo del silenzio-assenso''.
Per disastro colposo furono condannati sia il direttore tecnico di cantiere per conto dell'Associazione Temporanea di Imprese (A.T.I) tra la s.p.a. A e la s.p.a. B esecutrice dei lavori di ampliamento della Facoltà di Ingegneria dell'Università degli Studi di L'Aquila, sia il direttore dei lavori per conto della s.p.a. C, concessionaria su incarico dell'Università degli studi di L'Aquila della realizzazione dell'ampliamento della sua Facoltà di Ingegneria, ``per avere cagionato il crollo, o comunque per avere cooperato nel porre le condizioni del crollo, delle strutture murarie (in blocchetti di calcestruzzo vibrocompresso) e delle strutture di copertura inclinate di vetro, acciaio ed alluminio sulle prime appoggiate, dell'area di ingresso principale della facoltà di Ingegneria dell'Università degli studi di L'Aquila, realizzate nel periodo compreso tra l'aprile ed il dicembre 1994, in occasione della scossa di terremoto del 6 aprile 2009''. La Sez. IV conferma la condanna: ``Ciò che è stato contestato ai due imputati non è la inadeguatezza in prospettiva di sicurezza del progetto, ma non avere controllato e preteso che le opere fossero edificate in conformità agli elaborati progettuali, con la presenza quindi delle nervature di rinforzo e dei pilastrini di irrigidimento che, previsti nel progetto, non erano stati inglobati nell'opera. Tale condotta poteva essere pretesa dal direttore dei lavori, che sovraintendeva proprio alla realizzazione del progetto costruttivo''. ``Il direttore tecnico del cantiere, tra gli altri compiti, ha quello di garantire la fedele esecuzione del progetto e la conformità alle condizioni contrattuali, sia staticamente che esteticamente. Anche l'art. 6 del decreto 19 aprile 2000, n. 145 del Ministero dei Lavori Pubblici indica nel direttore tecnico colui che cura l'organizzazione, la gestione tecnica e la conduzione del cantiere, compiti questi che comportano quindi il controllo degli impegni contrattuali, primo fra tutti la conformità delle opere al progetto, tenuto conto anche che il direttore di cantiere è proprio colui che verifica l'impiego dei materiali. Una volta assunta una posizione di garanzia, questa non può essere derogata da scelte personali o da accordi taciti''.
Il 31 ottobre 2002, un edificio scolastico a San Giuliano di Puglia crollò in concomitanza con una scossa di terremoto, causando la morte di 27 bambini e di una maestra e lesioni a 39 persone, tra bambini, insegnanti, operatori scolastici. Fu condannato anche il progettista direttore dei lavori: ``Il doppio ruolo svolto dall'ingegnere avrebbe consentito la verifica dell'accresciuta fragilità dell'edificazione per causa dell'anomala sopraelevazione, e la assenza di una tale verifica è pure assunta a prova della colpa addebitata. Rispetto a tutte le contestazioni elevate all'ingegnere (dalla mancata osservanza di regole cautelari procedimentali alla mancata osservanza di regole cautelari sostanziali), la corte d'appello specifica che la preventiva richiesta di autorizzazione al Genio Civile (ora Regione) ex art. 2 L. n. 64/1974 avrebbe dovuto essere inoltrata dal geometra tecnico comunale e non dall'ingegnere, ma che quest'ultimo, doveva peraltro rispondere quale direttore dei lavori per omissione di vigilanza sull'adempimento preventivo non osservato dal tecnico comunale con eventuale esercizio di potere di sospensione degli stessi lavori. La stessa redazione del certificato di staticità e agibilità costituirebbe un'ingerenza anomala del progettista e direttore dei lavori che avrebbe sostituito la doverosa nomina di un collaudatore terzo ai fini del collaudo statico con una attestazione priva di qualsiasi valenza tecnica e amministrativa''.
Il 23 novembre 1980, a Nocera Inferiore, in seguito alla scossa del terremoto che interessò parte della Campania e della Lucania, un palazzo cedette di schianto, seppellendo tra le macerie i suoi quaranta abitanti, nessuno dei quali scampò. Per omicidio e disastro colposi fu condannato l'ingegnere progettista e direttore dei lavori: ``Il progettista-costruttore di uno stabile in zona non dichiarata sismica non è tenuto ad adottare quelle cautele che, particolarmente, la legge richiede per l'erezione di edifici in zone ad elevato rischio sismico, tali dichiarate. Ma, nel caso di specie, la questione non si pone in tale termini, posto che all'imputato non è stato certo contestato di non avere adottato tecniche, imposto cautele, selezionato materiali siccome prescritto per le costruzioni in zone sismiche, ma di non avere (come doveva), nel momento in cui erratamente o superficialmente progettò, ovvero, incautamente e sbadatamente controllò [o non controllò] l'esecuzione dell'opera, tenuto conto della possibilità del verificarsi di un sisma che, unitamente a, e quindi coagendo con, quelle deficienze, ne avrebbe aggravato gli effetti portando anche alla rovina della costruzione. Indifferente, come ovvio, la circostanza se l'imputato abbia, o meno, in effetti, fermato la sua attenzione su tale riflessione; sta di fatto che egli, ingegnere-progettista e ingegnere-direttore dei lavori, doveva prevedere, e poteva agevolmente farlo, che una similmente fragile costruzione non avrebbe potuto reggere all'insulto di un evento inusuale, ma non di tale eccezionalità, da non rientrare nell'ordine della prevedibilità, quale, appunto, un terremoto, o, per esemplificare, un sensibile assestamento del suolo di appoggio o uno scoppio nelle immediate vicinanze, o qualsivoglia altro evento del genere. La prevedibilità dell'e-vento di cui si discute, dunque, va riferita, non agli effetti del sisma su una costruzione progettata e realizzata nella ortodossa osservanza delle norme della buona tecnica di edilizia civile, ma a una costruzione quale quella, quanto meno per le fondamenta, riscontrata ed evidenziata dai periti''.
Un insegnamento, questo, che nel 2016, con esplicito riguardo ai terremoti, la Corte Suprema riprende dalla sentenza del 1990, così sintetizzandolo: ``In breve, si tratta di eventi con i quali i professionisti competenti sono chiamati a confrontarsi senza poterne addurre fondatamente la relativa scientifica imprevedibilità''. (V. Cass. n. 28571 dell'8 luglio 2016, e Cass. n. 12478 del 24 marzo 2016, citate più avanti).
Beninteso, non è da escludere che il professionista venga esonerato da responsabilità. È il caso esaminato, oltre che da Cass. 15 aprile 2020, n. 12150 con riguardo al crollo di un fabbricato a tre piani a l'Aquila, da:
Un ingegnere progettista architettonico, strutturale e direttore dei lavori, per la realizzazione ex novo di un tetto di copertura a falde in cemento armato posto sopra il preesistente sesto solaio di un palazzo sito all'Aquila, e nel contempo amministratore pro tempore del condominio, fu condannato per omicidio e lesioni colpose, per il collasso integrale del palazzo in occasione del terremoto, e per le conseguenti morti e lesioni di più persone. La Sez. IV annulla senza rinvio la condanna perché il fatto non sussiste. In primo luogo, perché la corte d'appello, ``nel discostarsi dai pareri espressi dagli esperti nel corso del giudizio, non ha enunciato, con adeguatezza e logicità, gli argomenti che si sono resi determinanti per la formazione del proprio convincimento, ma si è limitata ad esprimere una diversa opinione, sulla tipologia dell'intervento realizzato dall'imputato, opinione non supportata da informazioni tecniche idonee a smentire le conclusioni rassegnate dai periti di ufficio''. E in secondo luogo, perché ``la motivazione espressa dalla corte d'appello sul tema della riferibilità causale dell'evento alla condotta omissiva dell'imputato risulta carente''.
L'esigenza di un adeguato approfondimento della eventuale responsabilità del professionista riemerge da:
Il progettista e direttore dei lavori fu condannato per disastro, omicidio e lesioni colpose, per aver causato, o concausato, il crollo di un palazzo all'Aquila di quattro piani fuori terra destinati a uso abitativo e un plano seminterrato usato come autorimessa, interamente collassato in occasione della scossa di terremoto del 6 aprile 2006, e in tal modo cagionato la morte di tredici persone residenti o dimoranti presso l'edificio, e il ferimento di altre tre. Nel 2002, l'imputato era stato incaricato dal condominio di progettare e dirigere i lavori per opere di manutenzione straordinaria, consistenti nell'incamiciatura (rinforzo mediante rivestimento e aumento delle dimensioni) di sei pilastri in calcestruzzo armato, posti nel piano seminterrato, resesi necessarie per il distacco del copriferro a causa dell'ossidazione e del rigonfiamento dei ferri di armatura. Gli si addebitò di avere, in una relazione allegata alla denuncia di inizio opere depositata in comune, attestato che ``la struttura non versa in condizioni da pregiudicare la stabilità'' e asseverato che le opere di manutenzione straordinaria descritte ``sono rispondenti alle norme edilizie, urbanistiche e di sicurezza vigenti'', e ciò senza:
- effettuare, né in via preventiva né in via successiva, idonea valutazione di adeguatezza statica e sismica delle strutture dell'intero edificio;
- accertare o comunque approfondire in modo adeguato l'effettiva consistenza strutturale dell'edificio, caratterizzato, in origine, da gravi carenze, progettuali, esecutive e di calcolo;
- effettuare o disporre l'esecuzione di alcuna prova di carico e di resistenza su nessuna delle strutture portanti dell'edificio;
- depositare o allegare con la relazione dei lavori l'elaborato grafico progettuale che indicasse con esattezza quali fossero i sei pilastri oggetto dell'intervento, o che indicasse la sezione resistente delle armature aggiuntive o il tipo di armatura a vincolo (staffe) dell'incamiciatura, o lo spessore delle incamiciature;
- allegare alcuna relazione di calcolo a verifica della tenuta strutturale dell'edificio prima e dopo l'intervento;
- redigere il progetto strutturale e i relativi calcoli, impedendone il prescritto deposito al Genio Civile, non consentendo così il collaudo statico delle nuove opere.
Nell'esaminare questo caso, dopo aver sottolineato - si badi - che ``non è in discussione la prevedibilità del sisma che si verificò il 6 aprile 2009, la giurisprudenza di questa Corte è sul punto ben consolidata'' - la Sez. IV conferma, anzitutto, la posizione di garanzia dell'imputato. Sotto questo aspetto, si domanda se il tecnico chiamato ad occuparsi di lavori che incidono su una limitata porzione di un edificio abbia l'obbligo di garantire non solo la corretta esecuzione dei lavori affidatigli, ma anche la complessiva sicurezza dell'edificio. Premette che ``il progettista e direttore dei lavori è tenuto a garantire che gli stessi siano eseguiti a regola d'arte''. Ma subito aggiunge che ``l'obbligo di garanzia non può andare oltre l'oggetto del rapporto contrattuale, e quindi non può concernere opere che non siano investite dell'attività del progettista e/o direttore dei lavori''. Con la conseguenza che, ``ove si tratti di opere del tutto autonome rispetto ad altre già esistenti in situ o in via di realizzazione non può pretendersi dal tecnico delle prime che si faccia carico della conformità e più genericamente della sicurezza di opere rispetto alle quali non vi è norma di diritto privato o di diritto pubblico che gli riconosca un potere di intervento''. Solo che ``il tipo di intervento affidato alle cure dell'imputato aveva carattere strutturale, perché si trattava di lavori di incamiciatura di sei pilastri, con effetti sullo stato tensionale dei medesimi'', e, quindi, ``egli aveva l'obbligo giuridico di osservare la normativa antisismica all'epoca vigente, la quale implicava l'accertamento della consistenza dei pilastri sui quali eseguire l'intervento; dal che sarebbe derivata la conoscenza dei difetti strutturali che viziavano i sei pilastri''. Dunque, ``non un obbligo di intervento o di segnalazione di difetti che attenevano a ulteriori e differenti porzioni dell'edificio'', ma ``un obbligo delimitato all'opera affidata alle cure dell'imputato''. E, si badi, ``non già un obbligo di segnalazione ai committenti, ma un obbligo di ben eseguire il mandato conferito'': ``il che avrebbe di per sé attivato una serie di effetti a cascata senza alcun ulteriore intervento dell'imputato, poiché sarebbe stato compito del committente nominare il collaudatore e questi sarebbe stato tenuto a riportare al medesimo l'esito - che si può certamente ritenere negativo - del collaudo''.
Un secondo punto affrontato dalla Sez. IV concerne la condotta colposa ascritta all'imputato: Egli non ha osservato le norme della legislazione antisismica, le quali hanno per l'appunto la funzione di rendere l'edificato in grado di resistere agli eventi tellurici caratteristici dell'area dell'insediamento (non a caso esisteva al tempo una classificazione delle aree del territorio nazionale, distinte per grado di rischio sismico, con effetti diretti sulla tipologia costruttiva da adottare). Inoltre, egli ha attestato che le opere erano rispondenti alle norme edilizie, urbanistiche e di sicurezza vigenti. L'imputato assume che, trattandosi di intervento migliorativo, secondo la definizione datane dal D.M. 16 gennaio 1996, punto C.9.1.2., non erano applicabili le disposizioni che imponevano adempimenti concernenti la sicurezza statica. Ma i lavori di incamiciatura dei sei pilastri - che contemplavano demolizioni di massetto fino alle fondazioni, realizzazione di fori passanti nel pilastro ogni 30-40 cm, realizzazione di fori profondi 15-20 cm sulla fondazione, collegamento ad essa dei nuovi ferri del pilastro - ebbero carattere di opera di risanamento strutturale e funzionale, con implicazioni importanti di natura statica, interessando essi parti strutturali in cemento armato; sicché era prescritta la verifica prevista dagli artt. 4, 6 e 7, L. n. 1086/1971, dalla L. n. 64/1974, dalla L. Regione Abruzzo n. 138/1996 e dal D.M. 16 gennaio 1996. Peraltro, anche qualora si fosse trattato di intervento di miglioramento, sull'imputato sarebbe gravato comunque l'obbligo di svolgere le indagini concernenti la sicurezza statica dei sei pilastri. Il punto C.9.2.2. del D.M. 16 gennaio 1996 prevedeva, infatti, che ``nel caso di interventi di miglioramento il progetto deve contenere la documentazione prescritta per gli interventi di adeguamento limitatamente alle opere interessate'', e che ``nella relazione tecnica deve essere dimostrato che gli interventi progettati non producano sostanziali modifiche nel comportamento strutturale globale dell'edificio''. E, per gli interventi di adeguamento, il punto C.9.2.1. prescriveva che ``gli interventi di adeguamento antisismico di un edificio devono essere eseguiti sulla base di un progetto esecutivo completo ed esauriente per planimetria, piante, sezioni, particolari esecutivi, relazione tecnica, relazione sulle fondazioni e fascicolo dei calcoli per la verifica sismica'', e che, ``in particolare, la relazione tecnica deve riferirsi anche a quanto indicato nei successivi punti C.9.2.3. e C.9.2.4.''. Disposizioni, queste ultime, che indicavano le operazioni e le scelte progettuali richieste in funzione della sicurezza statica dell'opera da realizzare. Pertanto, la variazione degli adempimenti tra l'una e l'altra tipologia di intervento non era tanto di carattere qualitativo quanto di carattere quantitativo. Le disposizioni appena evocate recano regole cautelari di tipo rigido; sicché il richiamo alla prevedibilità ed evitabilità di un evento quale quello verificatosi il 6 aprile 2009 all'Aquila in chiave di definizione di una regola cautelare `generica' appare non pertinente. Poi, l'asserita impossibilità di procedere alla verifica sismica dei pilastri per la indisponibilità dei dati, lungi dal costituire un fattore interpretabile a favore dell'imputato, rappresenta circostanza che avrebbe dovuto condurre ad una ancora maggior cura per gli aspetti concernenti la sicurezza statica. Del tutto improprio è il richiamo al principio di affidamento, poiché l'imputato era tenuto ad eseguire gli adempimenti richiesti dalla normativa antisismica ex novo, per la natura dell'intervento affidato alle sue cure.
A questo punto, però, la Sez. IV prende atto che, a dire della Corte d'Appello, l'imputato, accortosi dei deficit strutturali, sarebbe stato in grado di far presente al committente la situazione di pericolo in cui versavano tutti coloro che abitavano nel palazzo, e avrebbe potuto far presente al committente la necessità di un intervento generale sull'intera struttura portante dell'edificio e ciò avrebbe consentito di porre in essere gli opportuni rimedi per rendere l'edificio più solido, così evitandone il crollo. Rileva che in tal modo ``non è descritta la sequenza che dall'omissione degli adempimenti connessi alla normativa antisismica avrebbe condotto, secondo il criterio di alta probabilità logica, all'adeguamento statico o ad altra misura che, a sua volta, avrebbe avuto l'effetto di evitare gli eventi illeciti per cui è processo''. Ne desume che ``l'accertamento del nesso causale viene risolto in un giudizio esclusivamente di tipo deduttivo, basato su massime di esperienza (non rese esplicite dalla corte d'appello, ma chiaramente identificabili dal lettore)'', e che ``non vi è un solo dato processuale che venga richiamato a sostegno della deduzione''. E aggiunge: ``A mero titolo di esempio si può rilevare che non è stato indagato quali fossero i rimedi concretamente adottabili, se essi fossero nella disponibilità del condominio tanto per l'aspetto economico che per quello dispositivo; se vi fosse la concreta possibilità di un intervento dell'autorità pubblica, a fronte di una eventuale inattività dei condomini, ciò nonostante permanenti nelle rispettive abitazioni (anche solo perché confidenti nelle abitudine autoprotettive); quali fossero i tempi di attuazione delle misure concretamente adottabili. Ben possibili, poi, alternative ipotetiche ulteriori (una delle quali è la persistenza dell'uso delle abitazioni pur in assenza di interventi di adeguamento sismico), che aprono a percorsi ricostruttivi del nesso causale invero del tutto peculiari''. Di qui l'annullamento della condanna con rinvio per nuovo esame.
B) I costruttori
La Suprema Corte conferma la condanna anche di due costruttori, l'uno appaltatore e l'altro subappaltatore dei lavori di sopraelevazione alla scuola di San Giuliano. Nei loro confronti, la Sez. IV prende atto che ``anche a fronte delle significative sinergie tra i due imprenditori, essi, al di là della configurazione formale di un subappalto, eseguirono insieme i lavori della sopraelevazione, nell'ambito di una sorta di società di fatto e attraverso una totale commistione di ruoli tra i due''. E rileva che ``i due sono ritenuti responsabili delle singole violazioni di cautele procedimentali e di cautele sostanziali contestate con la considerazione che laddove le singole norme richiamano obblighi di adempimento di tecnici o di amministrativi non confondibili con gli imprenditori, l'aver realizzato una costruzione senza l'osservanza di quelle cautele, integra comunque forme di omissione colposa legate alla sottovalutazione dello stato reale delle condizioni di edificazione e anche legate alla prosecuzione della edificazione irregolare''. Aggiunge che ``talune regole (per esempio quelle contenute nel D.M. 20/11/87 che contiene norme tecniche per la progettazione l'esecuzione e il collaudo degli edifici in muratura e per il loro consolidamento) sono indirizzate letteralmente verso chiunque intenda procedere ad ampliare o sopraelevare un edificio in muratura, sicché anche i due erano tenuti alla loro osservanza, così come erano tenuti a osservare regole di prudenza adeguate all'edificazione in un comune ormai notoriamente ad alto rischio sismico''. Ed ancora: ``La sopraelevazione a carico di un edificio da consolidare e non consolidato e le specificamente contestate violazioni delle leges artis (per esempio, il doppio solaio tra il primo e il secondo piano o la non considerazione della trave tagliata e appoggiata ad un pilastro senza fondazioni) nella indebita edificazione, costituiscono altrettante condotte imprudenti e negligenti dalle quali scaturisce la colpa degli imputati. Ai due imputati non è stata contestata la mancata esecuzione del collaudo statico dell'edificio, ma la consegna provvisoria del manufatto effettuata senza preventivo collaudo, consegna che costituisce, come l'iniziata sopra-edificazione pur in assenza di progetto strutturale esecutivo e dei necessari calcoli''.
C) Pubblici amministratori e dirigenti
Quanto mai delicata è poi l'individuazione dei garanti della sicurezza sismica nei pubblici amministratori o dirigenti. Per cominciare, nel caso della scuola di San Giuliano, il sindaco (oltre che il geometra tecnico comunale, responsabile del procedimento relativo alla sopraelevazione):
Un argomento di particolare interesse concerne la asserita ``sconoscenza scusabile di un sindaco medico che non possiede cognizioni in materia edilizia per essere altrimenti specializzato''. La Sez. IV afferma che ``ogni sindaco conosce, per proprio sapere, o per acquisizione mediante i canali di apprendimento della sua amministrazione, gli obblighi minimi connessi all'esercizio del suo incarico elettivo'', e per giunta pone in rilievo ``i comuni oneri di diligenza e prudenza che sono richiesti non ad un sindaco in ragione della sua carica, ma che sono richiesti rispetto a qualsiasi condotta umana''. Precisa che ``la separazione tra attività politica di indirizzo e attività di gestione, non si spinge al punto di sottrarre alla attività di indirizzo e controllo l'onere di conoscenza (col suo corredo necessario di responsabilità) dell'oggetto sul quale quelle attività peculiari della carica elettiva, si esercitano''; che ``la scriminante definita amministrativa o politica da far valere per le sole condotte omissive - non ha anche una efficacia diretta di scriminante penale, se perfino la stessa scriminante amministrativa non opera quando i vizi dell'assunzione dell'atto deliberativo dell'organo elettivo siano così evidenti da escludere la buona fede''; e che ``l'addebito di condotte commissive dirette e personali che abbiano causalmente concorso a determinare il prodursi degli effetti vietati dalla legge penale, è indifferente alla esistenza di separazioni delle competenze amministrative incidenti, invece, salva individuazione della misura della incidenza, sulle omissioni rivenienti da inosservanza di norme cautelari''. In questo quadro, la Sez. IV mette in luce a carico del sindaco due tipologie di violazione: ``La prima tipologia riguarda violazioni derivanti da carenze di ordine strutturale riconducibili all'esercizio (mancato) di poteri di indirizzo e di programmazione, nonché di controllo dell'organo politico; omessa attivazione del sindaco, a fronte di violazioni derivanti da carenze strutturali, per l'esercizio dei poteri sindacali di sollecitazione e rimedio; ancora mancato esercizio delle proprie prerogative di controllo indirizzo e sollecitazione nonostante numerose sollecitazioni (per esempio dei presidi) ad attuare quell'esercizio''; ``la seconda tipologia riguarda violazioni derivanti da indebita attivazione costituente ingerenza nei poteri di gestione del funzionario responsabile del procedimento e tale da portare a compimento e aggravare gli effetti delle violazioni che dovevano essere fermate''. In questa seconda prospettiva, rileva che ``il sindaco, inerte rispetto a condotte imposte da obblighi di legge, si è invece adoperato in fatto col rilasciare al dirigente scolastico che reclamava un certificato di collaudo, un atipico certificato di agibilità della scuola'', ``autorizzando con ciò l'apertura della scuola al suo uso, pur in assenza di un collaudo statico e violando il divieto di consentire l'utilizzazione di una costruzione prima del collaudo stesso, utilizzazione a lui in concreto personalmente nota, quanto all'ala della scuola sottostante la sopraelevazione''. Quanto alla inesigibilità dalla comune diligenza di un medico/sindaco (non attrezzato con competenze edilizie specialistiche) della capacità di individuare il difetto di validità e la non effettiva equipollenza di un certificato di staticità e agibilità redatto dal progettista direttore dei lavori, la Sez. IV insegna: ``Una qualsiasi persona mediamente diligente, incaricata o meno di rappresentanza politica di una intera comunità locale, doveva quantomeno percepire che il certificato preso per buono conteneva la sottoscrizione del progettista, direttore dei lavori, e dunque rivelava la coincidenza tra soggetto controllante e soggetto controllato, manifestando agli occhi di chiunque il contrasto radicale di quella certificazione con gli stessi obbiettivi per i quali era richiesta e rilasciata''.
Istruttiva è poi:
Il dirigente tecnico architetto presso la soprintendenza e direttore della se-zione paesaggistica architettonica per l'urbanistica fu condannato per il delitto di disastro colposo, per aver omesso ``di attivarsi e di adottare, nonostante fosso consapevole della pericolosità statica della chiesa, risultante dai lavori eseguiti da parte delle soprintendenze, ed in particolare, del grave dissesto dei pilastri di destra della navata, acuitosi dopo un terremoto, avendo personalmente constatato i gravi fenomeni di schiacciamento del pilastro, tutti i provvedimenti di sua competenza (sopralluoghi, progetti, studi sullo stato dell'immobile, lettura dei dati delle strumentazioni di controllo poste in opera su sua disposizione sui primi quattro pilastri della navata destra, ed interventi di urgenza, di presidio e di consolidamento) che avrebbero impedito il crollo''. L'imputato rimprovera ai giudici di merito di ``non avere valutato l'impossibilità `economica' di intervento della Soprintendenza, che all'epoca dei fatti aveva un potere di spesa di L. 20.000.000 per gli interventi di urgenza, e di L. 5.000.000 per gli interventi di somma urgenza ai sensi dell'art. 14 legge 1089/1939, mentre l'intervento minimale per evitare il crollo richiedeva una spesa di almeno L. 500.000.000'', e ne ricava ``l'assenza di un potere di porre in essere gli atti necessari di intervento, sicché sarebbe anche errato il richiamo alla `posizione di garanzia'''. Nel respingere questa doglianza, la Sez. IV condivide l'analisi sviluppata dalla corte d'appello e imperniata ``su un argomento di carattere più generale, e cioè su come egli non si sia attivato in alcun modo, pur a conoscenza del pericolo, per impedire l'evento''. In particolare, richiama le norme della legge n. 1089/1939 (artt. 9, 14 e 16) che attribuiscono alla soprintendenza il compito di `assicurare la conservazione' del patrimonio artistico, e, in tale ottica, individua, a norma dell'art. 17 della legge regionale 7 novembre 1980 n. 116, il soggetto responsabile nella fattispecie non nel Soprintendente, che ha compiti più generali di organizzazione, ma nel direttore della sezione tecnica, che `esercita funzioni di direzione, di impulso e di coordinamento nell'attività della sezione e di ispezione; coordina ed organizza i servizi assegnati alla sezione cui è preposto e riferisce periodicamente al soprintendente o al direttore; adotta i provvedimenti sugli affari di competenza della sezione o attribuitigli per delega dal soprintendente o dal direttore e firma gli atti finali. Ne deduce che ``il potere di adozione dei provvedimenti sugli affari di competenza della sezione comporta, da un lato, il riparto delle competenze, dall'altro implica una indubbia capacità professionale, che comporta anche un potere di supplenza all'inerzia di altri soggetti''. Quanto all'elemento psicologico del reato, osserva che ``l'omissione ascrivibile all'imputato è relativa ai provvedimenti e adempimenti di sua competenza, quali sopralluoghi, progetti, studi sullo stato dell'immobile, che avrebbero consentito una più approfondita conoscenza delle condizioni statiche dell'edificio ed avrebbero permesso l'adozione, da parte dell'assessore o piuttosto da parte del soprintendente atteso che siffatti doverosi accertamenti avrebbero evidenziato l'urgenza degli interventi adeguati alla situazione''. In questo quadro, la Sez. IV afferma che ``la colpa addebitata all'imputato non è tanto il mancato intervento diretto, omettendo di disporre i lavori necessari per evitare l'evento disastroso poi verificatosi (per il quale egli lamenta l'assenza del potere di spesa), bensì quello di essersi del tutto disinteressato, con colpevole inerzia, di una situazione della quale era a conoscenza, sottovalutando lo stato di pericolo'', e, dunque, di ``non essersi attivato presso il soprintendente, o direttamente presso l'assessore competente, descrivendo la situazione nella sua grave ed effettiva pericolosità, in modo da provocarne il doveroso intervento'', e, cioè, di ``non essersi attivato presso gli organi amministrativi, dotati dei potere di spesa, affinché attu(assero) gli interventi necessari per eliminare la situazione di pericolo, ritenendo invece opportuno attendere le notorie lente procedure di attuazione di una legge a favore delle popolazioni terremotate''. Spiega che, sebbene ``edotto della situazione di estremo pericolo per la conservazione di quello che è, probabilmente, il più importante monumento artistico della zona (e comunque sicuramente uno dei più importanti)'', l'imputato ``si era limitato ad indirizzare all'assessorato competente due note'', l'una ``con la quale si chiedeva solo un finanziamento per opere provvisionali ed indagini preliminari alla redazione di un progetto di restauro definitivo'', e l'altra ``con la quale si precisava che con la precedente nota non aveva inteso chiedere alcuna autorizzazione preliminare alla redazione di progetti di restauro della cattedrale, dovendosi attendere l'avvio delle procedure finanziarie ex lege n. 43/1991, relativa ad un intervento complessivo di ricostruzione delle zone colpite dal sisma''. Non senza contare che ``l'immobile è rimasto aperto al pubblico e che, per buona sorte, il crollo si è verificato in orario in cui non era accessibile''. Non condivide ``quanto asserito dall'imputato in ordine alla circostanza che l'art. 14 della legge n. 1089/1939 si riferisca solo a poteri di intervento diretto per `assicurare la conservazione' dei patrimonio artistico, non spettanti al direttore di sezione per il potere limitato di spesa, rientrando la terminologia, peraltro riferita alla soprintendenza, e poi per effetto della citata legge regionale n. 116 del 1980 attribuita all'imputato, in una capacità di iniziativa tale da proteggere le opere d'arte e garantirne la conservazione''.
D) Datori di lavoro
Dopo il terremoto dell'Aquila, entrano nella giurisprudenza anche gli eventi sismici avvenuti in Emilia nel 2012. Nel caso ora esaminato dalla presente sentenza, si addebitò il delitto di omicidio colposo plurimo al proprietario di un immobile, legale rappresentante e responsabile del servizio prevenzione e protezione di una s.r.l., perché nel corso dell'evento sismico verificatosi la mattina del 29 maggio 2012 concorreva a cagionare la morte di tre persone per politrauma da schiacciamento presso il capannone industriale sede della s.r.l., gravemente danneggiata a seguito degli eventi sismici del precedente 20 maggio 2012. Colpa contestata: ``avere, dapprima (il 21-23 maggio) effettuato opere di rinforzo (consistite in lavori di consolidamento svolti personalmente in economia, anziché previa progettazione di un tecnico abilitato, preceduto dal deposito del progetto esecutivo e seguiti dalla valutazione di sicurezza dell'edificio ad opera di collaudatore nominato a tale fine) del tutto abusive, risultate insufficienti e incomplete, ove non addirittura controproducenti; avere poi acquisito da parte di un geometra, privo delle competenze specifiche in ambito di progettazione e sicurezza sismica delle costruzioni, un certificato di riscontrata idoneità statica e agibilità dell'immobile già gravemente lesionato; infine, avere disposto, sulla scorta di quello, la ripresa dell'attività lavorativa con accesso dei lavoratori e di un tecnico in azienda, in condizioni di persistente pericolo di ulteriori crolli''. Solo che il GUP del Tribunale di Modena pronunciò nei confronti dell'imputato sentenza di non doversi procedere perché il fatto non costituisce reato. Nell'annullare con rinvio questa sentenza, la Sez. IV rimprovera, in particolare, al GUP di aver ``contestato l'accusa, ritenendo che l'imputato avesse eseguito gli interventi edilizi a regola d'arte, del tutto obliterando la ben più ampia portata dell'imputazione, con la quale si contesta - anche - l'insufficienza e incompletezza degli interventi eseguiti in economia da parte di soggetto le cui competenze tecniche non sono state neppure spiegate, ma solo apoditticamente enunciate mediante un rinvio all'oggetto sociale dell'impresa da quegli condotta, operante in un campo del tutto diverso dall'edilizia antisismica''.
E) Responsabile della protezione civile
La Sez. IV conferma la condanna del vice capo settore tecnico operativo del dipartimento nazionale della protezione civile per i reati di omicidio e lesioni ascrittigli per colpa consistita nella ``imprudente propalazione pubblica di comunicazioni mediatiche dal contenuto avventatamente rassicurante'', comunicazioni ``ritenute dal giudice d'appello certamente rimproverabili per negligenza e imprudenza'', e che ``avevano prevedibilmente indotto la cittadinanza a tralasciare le tradizionali precauzioni finora costantemente osservate, così esercitando una sicura efficienza causale (d'indole psicologica) sulla decisione di talune delle vittime convinte, dopo le prime due scosse di terremoto verificatesi nella notte tra il 5 e il 6 aprile, a permanere all'interno della propria abitazione, rimanendone così travolte a seguito della successiva tremenda scossa distruttiva delle ore 3,32''. Questo il principio formulato dalla Sez. IV: ``L'organo della Protezione civile, che provvede a fornire informazioni alla pubblica opinione circa la previsione, l'entità o la natura di paventati eventi rischiosi per la pubblica incolumità, esercita una concreta funzione operativa di prevenzione e di protezione, ed è a tal fine tenuto ad adeguare il contenuto della comunicazione pubblica a un livello ottimale di trasparenza e correttezza scientifica delle informazioni diffuse, e ad adattare il linguaggio comunicativo ai canoni della chiarezza, oggettiva comprensibilità e inequivocità espressiva''.
F) Crolli senza responsabili
All'Aquila, il 6 aprile 2009, crolla l'ala nord di un edificio denominato ``Cioni-Berardi'', nove persone perdono la vita, altre rimangono ferite. Per i delitti di cui agli artt. 590, 589, 434 e 449 c.p. furono rinviati a giudizio cinque soggetti coinvolti nell'edificazione e nella ristrutturazione dell'edificio confinante denominato ``Belvedere'', con l'accusa di avere realizzato, ``un giunto sismico tra i due edifici non conforme alle prescrizioni normative vigenti e uno scavo per creare locali autorimesse, che avrebbe amplificato gli effetti del sisma''. Questa volta, la Sez. IV conferma l'assoluzione di tutti gli imputati per non aver commesso il fatto. Prende atto che, a dire dei magistrati di merito, ``i difetti costruttivi dell'edificio Belvedere configurano una possibile concausa del crollo del Cioni-Berardi, ma il crollo dell'Ala Nord dell'edificio Cioni-Berardi sarebbe avvenuto comunque, a causa dei vizi progettuali e strutturali di quest'ultima''. Spiega come, ``prima di verificare la sussistenza di concause estranee all'edificio crollato, fosse necessario valutare le concause intrinseche al Cioni-Berardi, trattandosi dell'immobile parzialmente crollato'': ``se, in presenza di concause, tutte fossero state necessarie a determinare l'evento, ciascuna doveva ritenersi rilevante; se, viceversa, come invece si è ritenuto provato, la somma delle concause concernenti direttamente l'edificio Cioni-Berardi fosse stata ritenuta da sola sufficiente a provocare il crollo, i fattori successivi ed esterni non potevano che diventare cause sopravvenute irrilevanti''. Con riguardo poi alla ``doglianza di una parte civile secondo cui, poiché l'edificio Cioni-Berardi non era crollato in occasione del terremoto del 1985, prima che fosse edificato il confinante edificio Belvedere, doveva, secondo criteri di logica, portare a che fosse stata tale edificazione a costituire quel qualcosa in più che, a fronte del sisma del 2009, aveva determinato il diverso esito ed il crollo dell'edificio'', la Sez. IV ribatte che ``mai due terremoti possono dirsi uguali, per intensità, per modalità di propagazione, per localizzazione degli epicentri'', e che ``peraltro tra l'uno e l'altro terremoto non era intervenuta solo la costruzione del confinante edificio Belvedere, ma erano trascorsi anche ulteriori 24 anni, ad aggravare la vetustà dell'edificio Cioni-Berardi''. E aggiunge che ``i due eventi sismici non sono assolutamente confrontabili'': ``Nel 1985 (e anche nel 1995) L'Aquila avvertì solo i cosiddetti sciami sismici, un numero elevato di scosse di piccola intensità che si susseguirono per molte settimane. Le scosse causarono nervosismo, ma non accadde nulla di grave. E l'anno precedente, il 7 maggio 1984, il terremoto che ebbe ad interessare anche l'Aquila, aveva una magnitudo inferiore, intorno ai 5 gradi della scala Richter, a quello del 2009 e, soprattutto, ebbe un epicentro molto più lontano, in Abruzzo. Il sisma che ha interessato L'Aquila alle 3.32 del 6 aprile 2009, provocando 309 morti, 1.600 feriti e 80 mila sfollati e distruggendo in pochi minuti gran parte del centro storico dell'Aquila e molti paesi vicini, ha avuto, invece, una magnitudo di 6.3 gradi della scala Richter. E, soprattutto, l'epicentro era a poche decine di chilometri da L'Aquila''.
II co-installatore e manutentore di una caldaia all'interno di un albergo viene condannato, in concorso con altri, per omicidio colposo in danno di un ospite e di lesioni colpose in danno di altri due, causati dallo ``sprigionamento dalla caldaia di fumi molto pericolosi, poiché aventi una percentuale altissima di monossido di carbonio, in ragione della pressione di alimentazione del gas metano in ingresso alla caldaia in misura nettamente superiore al valore massimo previsto dal produttore della stessa, fumi fuoriusciti dal camino in ragione di una rottura della canna''. Gli sono addebitati ``plurimi difetti di manutenzione dell'impianto, compresa la variazione in aumento della pressione del gas metano da 98 mm c.a. di pressione idraulica, valore massimo riportato sul libretto delle istruzioni della caldaia, sino a 162 mm c.a., variazione ritenuta determinante ai fini della causazione degli eventi''.
Un caso di decesso in un'abitazione per intossicazione da monossido di carbonio causata dal cattivo funzionamento della caldaia e dall'inidoneità del locale in cui la caldaia era ubicata. Fu condannato, tra gli altri, un tecnico manutentore che, nell'effettuare il controllo della caldaia, ``spuntava come positive le seguenti voci di verifica: `idoneità locale di installazione', `adeguate dimensioni delle aperture di ventilazione', `aperture di ventilazione libere da ostruzioni', `verifica efficienza evacuazione fumi', nonostante la caldaia fosse di tipo B (aperta), e fosse ubicata in un locale chiuso da vetrate con superficie di aereazione permanente provvista di griglia ostruita da grassi e polvere e nonostante fosse stato riscontrato un valore di CO pari 198 ppm, relativamente alto''; ``ometteva, altresì, nello spazio `raccomandazioni e prescrizioni' di prescrivere un qualche tipo di intervento in merito alla tipologia del locale, inadatto per caldaie tipo B'', e attestava che ``il locale di installazione non era idoneo per caldaie tipo B, senza esercitare il potere di diffida o la messa fuori servizio espressamente previsto dalla normativa vigente''. La colpa fu ravvisata ``in imprudenza, imperizia e negligenza, e nella violazione delle disposizioni di cui alla L. n. 10/1991, del D.P.R. n. 412/1993, del D.P.R. n. 660/1996, del D.Lgs. n. 192/1995, della Circolare del Ministero delle attività produttive n. 8895 del 23 maggio 2006, del Regolamento del Comune per l'esecuzione dei controlli sugli impianti termici e delle norme Uni 10389 e UNI 17129''. Nel respingere le argomentazioni difensive, ``relative all'asserita interruzione del nesso causale a seguito dell'esistenza di decorsi causali alternativi e delle concorrenti responsabilità o della stessa vittima o di altri soggetti (il comune e la concessionaria)'', la Sez. IV ricorda, anzitutto, che, ``quando l'obbligo di impedire l'evento ricade su più persone che debbano intervenire o intervengano in tempi diversi, il nesso di causalità tra la condotta omissiva o commissiva del titolare di una posizione di garanzia non viene meno per effetto del successivo mancato intervento da parte di un altro soggetto, parimenti destinatario dell'obbligo di impedire l'evento, configurandosi, in tale ipotesi, un concorso di cause ai sensi dell'art. 41, comma 1, c.p.''; che, ``in questa ipotesi, la mancata eliminazione di una situazione di pericolo (derivante da fatto commissivo od omissivo dell'agente), ad opera di terzi, non è una distinta causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento, ma una causa/condizione negativa grazie alla quale la prima continua ad essere efficace''; e che, ``in riferimento alla condotta più risalente nel tempo, rispetto all'evento lesivo, il nesso di causalità tra la condotta omissiva del titolare della posizione di garanzia, tenuto per primo ad intervenire, non viene meno per effetto del mancato intervento da parte di altro garante, sempre che la posizione di pericolo non si sia modificata, per effetto del tempo trascorso o di un comportamento del secondo garante, in modo tale da escludere la riconducibilità al primo garante della nuova situazione creatasi''. Considera, quindi, ``irrilevante il tempo trascorso tra la condotta riferibile all'imputato e l'evento, in quanto la mancata eliminazione della situazione di pericolo da parte degli altri tecnici che ebbero ad effettuare le manutenzioni successive a quelle poste in essere dall'imputato non aveva costituito una causa sopravvenuta, da sola sufficiente a cagionare l'evento mortale''. Prende atto in proposito che ``dalla perizia era risultato confermato che la propagazione di monossido di carbonio all'interno dell'appartamento era stata provocata dall'errata collocazione della caldaia di quella tipologia (B) in un locale interno all'appartamento, mentre aveva influito solo in minima parte il cattivo funzionamento della canna fumaria''. Ne ricava che ``le mancate eliminazioni della situazione di pericolo da parte dei successivi tecnici o dello stesso proprietario o da parte degli enti di controllo non avevano costituito altrettante distinte cause sopravvenute, idonee da sole a cagionare l'evento, ma mere condizioni negative, grazie alle quali ogni singola condotta, posta in essere autonomamente ed in violazione delle norme cautelari di riferimento, aveva continuato ad essere efficace''. Reputa poi infondata la lamentata ``mancanza di fonte giuridica dei poteri autoritativi connessi alla messa fuori servizio dell'impianto, i quali dovrebbero essere individuati in capo ad un soggetto pubblico, piuttosto che al tecnico manutentore nonostante le indicazioni del modello di controllo delle caldaie contenuto nell'allegato al D.P.R. n. 412/ 1993, modello poi riprodotto e sviluppato nell'allegato G del D.Lgs. n. 192/2005''. Spiega che, ``dall'analisi della menzionata fonte normativa (D.P.R. 26 agosto 1993, n. 412, regolamento recante norme per la progettazione, l'installazione, l'esercizio e la manutenzione degli impianti termici degli edifici ai fini del contenimento dei consumi di energia, in attuazione dell'art. 4, comma 4, della L. 9 gennaio 1991, n. 10, vigente al momento dei due accessi dell'imputato), emerge che l'allegato H contiene non solo il modulo relativo al `rapporto di controllo tecnico' (obbligatorio in forza dell'art. 11), ove è prevista un'apposita sezione relativa alle Prescrizioni, ma anche la guida alla compilazione delle stesse specifiche sezioni, ove al punto 6 è indicato nello spazio Prescrizioni che il tecnico, avendo riscontrato e non eliminato carenze tali da compromettere la sicurezza di funzionamento dell'impianto, dopo aver messo fuori servizio l'apparecchio e diffidato l'occupante dal suo utilizzo, indica le operazioni necessarie per il ripristino delle condizioni di sicurezza''. Nota che ``la dizione utilizzata evidenzia che la `messa fuori servizio' dell'apparecchio doveva essere effettuata dal tecnico che riscontrasse l'inidoneità, che avrebbe dovuto anche diffidare il proprietario dell'impianto dall'utilizzarlo ed indicare le prescrizioni necessarie per la messa a norma dello stesso''.
(Per la condanna ex art. 449 c.p. dell'amministratore unico di una ditta che aveva posto in opera la canna fumaria a servizio di una stufa a legna in un appartamento in violazione delle norme UNI 10683 e UNI EN 1443 Cass. 28 luglio 2017, n. 37825; su un caso di scoppio per il gas formatosi in una mansarda Cass. 18 gennaio 2019, n. 2300; per la condanna del proprietario e del conduttore di un appartamento per intossicazione da monossido di carbonio dovuta al reflusso di fumi e gas di combustione per occlusione della canna fumaria Cass. 18 luglio 2019, n. 31610; per la condanna dei responsabili di una s.p.a. appaltatrice della gestione del servizio di distribuzione del gas metano per l'esplosione in un immobile causata dalla fuga di gas con decesso di due abitanti Cass. 25 marzo 2019, n. 12879).
Con riguardo a un infortunio occorso in un ristorante-pizzeria, la Sez. IV osserva: ``Non ha rilievo la qualifica di `responsabile autocontrollo' del HACCP (acronimo di Hazard Analysis and Control of Criticai Points, protocollo volto a prevenire le possibili contaminazioni degli alimenti), siccome qualifica che attiene all'igiene e non già alla sicurezza nell'uso di strumenti taglienti''.
A seguito di un incendio sviluppatosi all'interno di una motonave, furono condannati per il reato di cui all'art. 449 c.p. il comandante, il direttore di macchina e il primo ufficiale di macchina, per colpa consistita ``nell'avere omesso di attivare, al primo insorgere dell'incendio in sala macchine, e comunque tempestivamente, i mezzi, le attrezzature e tutte le opportune misure antincendio per impedire al fuoco di propagarsi nei locali comunicanti attraverso le canalizzazione, pur nella consapevolezza che esso avrebbe potuto diffondersi ai piani superiori attraverso dette canalizzazioni non sigillate in corrispondenza degli attraversamenti dei ponti, ovvero non dotati di `fire barrier', e quindi nell'avere omesso le condotte doverose atte a prevenire l'espansione dell'incendio, non ignorando o potendo ignorare la mancanza della completa tenuta stagna tra la sala macchine ed i locali adiacenti o situati sui ponti superiori, cosi consentendo la propagazione dell'incendio dalla sala macchine ai locali adiacenti, ed il successivo sviluppo da poppa fino a prua; nell'avere omesso di assumere il pieno controllo della situazione, di coordinare i necessari interventi, di impartire direttive coerenti, e nell'aver lasciato all'improvvisazione ed all'iniziativa discrezionale di ciascuno le operazioni iniziali di spegnimento e contrasto alla diffusione del fuoco; nell'avere omesso di disporre tempestivamente la scarica di CO2 in sala macchine ed il controllo della completa tenuta stagna di tutte le aperture; cosi cooperando e ponendo in essere cause concorrenti nella produzione e nello sviluppo dell'incendio, divampato in sala macchine nella notte, mentre la motonave navigava al largo della costa somala''. Nel confermare la condanna, la Sez. IV insegna che, ``in presenza di un principio di incendio circoscritto e limitato dal punto di vista logistico, riconducibile - a titolo di dolo o colpa - a terze persone, non può non rispondere del reato di incendio colposo, oltre al soggetto che ha dato origine al fatto, anche colui il quale, venendo meno alla sua posizione di garanzia, abbia con- sentito poi alle fiamme - con condotta colposa, non attivandosi in maniera adeguata in relazione ai compiti affidatigli - di propagarsi ulteriormente fino ad interessare parti del tutto estranee all'iniziale incendio'' Adduce il caso dell'incendio di una casa, originato da una causa accidentale o da un'azione dolosa o colposa dell'uomo, che - in conseguenza della successiva condotta di coloro i quali, titolari di una posizione di garanzia, e pur avendo i mezzi e la possibilità per impedire l'ulteriore sviluppo dell'incendio, abbiano colposamente omesso di attivarsi - si sia propagato alle case limitrofe. E fissa ``il principio generale secondo cui, in tema di incendio, la circostanza che il fuoco sia sorto per causa accidentale o sia stato appiccato da altri non esclude che chi, colposamente, ha creato le condizioni per il propagarsi dell'incendio anche altrove, risponda a tale titolo del reato di cui all'art. 449 c.p.''.
Ha suscitato polemiche e malumori nel mondo della scuola, la sentenza n. 21593 del 19 settembre 2017 della Terza Sezione Civile della Cassazione: un ragazzo di 11 anni, alunno di prima media di una scuola pubblica, al termine delle lezioni, usciva di scuola e sulla strada comunale antistante l'edificio scolastico veniva investito e schiacciato da un autobus, morendo sul colpo. Sostiene la Cassazione che sussiste un obbligo di vigilanza in capo all'amministrazione scolastica con conseguente responsabilità ministeriale. E spiega che lo stesso Regolamento dell'istituto pone a carico del personale scolastico l'obbligo di far salire e scendere dai mezzi di trasporto davanti al portone della scuola gli alunni, compresi quelli delle scuole medie, così come l'obbligo di vigilare nel caso in cui i mezzi di trasporto ritardino. È generalmente sfuggito che proprio quella stessa vicenda dell'investimento all'uscita dalla scuola aveva già formato oggetto di una sentenza della Cassazione penale, la n. 17574 del 7 maggio 2010. Nell'ambito del procedimento penale, oltre al guidatore dell'autobus e a due dipendenti comunali, furono imputati di omicidio colposo sia l'insegnante di educazione fisica che aveva effettuato la lezione dell'ultima ora di scuola prima dell'uscita, sia la preside dell'istituto. E già allora la Cassazione pose a carico degli addetti al servizio scolastico un obbligo di vigilanza nei confronti degli alunni, al fine di evitare che gli stessi possano recare danno a terzi o a sé medesimi, o che possano essere esposti a prevedibili fonti di rischio o a situazioni di pericolo.
Né si dica, come pure è stato detto, che la Cassazione civile si sarebbe poi contraddetta nella successiva sentenza n. 22800 del 29 settembre 2017 in un caso in cui una minore si ferì urtando contro una ringhiera nel cortile di una scuola durante la ricreazione. Certo, qui fu esclusa la responsabilità del Ministero della Istruzione, ma solo perché si trattò di un evento ritenuto non prevedibile. Ma non basta. In tutte queste sentenze, vuoi la Cassazione penale, vuoi la Cassazione civile, fanno esplicita applicazione dei principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite in una sentenza del 27 giugno 2002, la n. 9346. Dove fu precisato che, in caso di accoglimento della domanda di iscrizione e conseguente ammissione dell'allievo, l'istituto scolastico assume l'obbligo di vigilare anche sulla sicurezza e l'incolumità dell'allievo nel tempo in cui fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni. E dove fu chiarito, altresì, che tra precettore ed allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell'ambito del quale il precettore assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e di vigilanza. Un'impostazione poi ripetutamente ribadita, anche da Cass. 21 gennaio 2016, n. 2536 in quel drammatico caso dei ragazzi morti nel crollo del convitto nazionale dell'Aquila in cui fu condannato anche il dirigente scolastico. Ed è in questo quadro che si colloca la sentenza n. 2334 del 31 gennaio 2018 riguardante un'allieva maggiorenne di un istituto scolastico caduta dopo la lezione di educazione fisica per accalcamento e spinte da parte dei compagni di scuola mentre stava uscendo dalla palestra. La III Sezione Civile della Cassazione insegna che ``la prevedibilità dell'evento dannoso individua al negativo il contenuto dell'obbligo di vigilanza dell'insegnante''. E precisa che, ``se permane la responsabilità anche nel caso in cui l'allievo sia maggiorenne, l'età maggiorenne incide comunque sul contenuto dell'onere probatorio dell'insegnante, in quanto la dimostrazione da parte sua della maggiore età dell'allievo - al di fuori di condotte specificamente correlate ad un insegnamento tecnico - deve ritenersi ordinariamente sufficiente per provare che l'evento dannoso ha costituito un caso fortuito, essendo stato posto in essere da persona non necessitante di vigilanza alcuna in quanto giunta ad una propria completa capacità di discernimento, persona che pertanto - essendo ben consapevole delle sue conseguenze - non era prevedibile che effettuasse una siffatta condotta''. Un principio, questo, che ``non può non valere anche per le persone che sono ormai prossime alla maggiore età, come sono usualmente quelle che frequentano l'ultimo anno di una scuola superiore''. Con l'avvertenza che ``la parte danneggiata può contrastare la presunzione di caso fortuito come discendente dalla dimostrazione dell'età maggiorenne o prossima alla maggiore età con la prova della prevedibilità della condotta dannosa da parte del soggetto che l'ha posta in essere, ovvero di un peculiare contenuto dell'obbligo di vigilanza che l'insegnante non abbia adempiuto: per esempio, dimostrando che autore dell'evento dannoso è stata una persona che aveva già manifestato spiccati elementi di asocialità, oppure una persona notoriamente ostile/vendicativa per pregressi eventi nei confronti della persona danneggiata''. Di particolare interesse, infine, è:
In una scuola dell'infanzia, un minore, affetto da tetraparesi spastica e atrofia ottica bilaterale, nell'aula di psicomotricità, dotata di giochi di grandi dimensioni, con finestra aperta e priva di grate, precipitava all'esterno da un'altezza di circa tre metri, riportando lesioni giudicate guaribili in giorni sette. L'insegnante di sostegno con rapporto c.d. `uno a uno' fu assolta per non aver commesso il fatto, l'assistente personale perché il fatto è di particolare tenuità ai sensi dell'art. 34, D.Lgs. n. 274/2000. Su ricorso del P.M., la Sez. IV annulla con rinvio l'assoluzione, e con riguardo all'insegnante di sostegno osserva: ``La condotta di reato è stata ascritta all'imputata a titolo di colpa generica, consistita nell'avere omesso, per negligenza, imprudenza e imperizia, di esercitare la dovuta sorveglianza sul minore affidatole, lasciandolo alle cure di altro soggetto. Il soggetto al quale il minore restò di fatto affidato, nel lasso temporale in cui avvenne l'incidente, era privo della necessaria formazione professionale per gestire quell'alunno''.
Nel caso di specie, per un infortunio mortale, furono condannati a titolo di omicidio colposo, nonché di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche aggravata di cui all'art. 437, comma 2, c.p., quattro persone: le due amministratrici di diritto di una s.r.l. e i due titolari di fatto dell'impresa, e, quindi, ``tutti quali datori di lavoro dell'infortunato''. A propria difesa, una delle amministratrici di diritto sostiene che ``era stata costretta a compiere alcune operazioni illecite stante la perdurante coazione morale e fisica e il costringimento psichico derivanti dal comportamento iracondo e minaccioso di un amministratore di fatto''. Di rimando, la Sez. IV richiama ``il principio, pacifico nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di stato di necessità (art. 54 c.p.), l'imputato ha un onere di allegazione avente per oggetto tutti gli estremi della causa di esenzione, sì che egli deve allegare di avere agito per insuperabile stato di costrizione, avendo subito la minaccia di un male imminente non altrimenti evitabile, e di non avere potuto sottrarsi, nemmeno putativamente, al pericolo minacciato, con la conseguenza che il difetto di tale allegazione esclude l'operatività dell'esimente''. Prende atto che nella specie ``è rappresentata una generica condizione di soggezione alla quale l'imputata si sarebbe comunque potuta sottrarre rinunciando ai vantaggi che la situazione complessivamente le arrecava, ma non una specifica imposizione connotata dalla minaccia di un pericolo nei termini richiesti dalla norma invocata''. E ne ricava che ``il riferimento agli interessi economici connessi alla posizione nell'azienda di famiglia consentono di ritenere congruamente motivata l'esclusione della scriminante''.
``Secondo la giurisprudenza costituzionale e di legittimità, a seguito della sentenza 23 marzo 1988 n. 364 della Corte Costituzionale, secondo la quale l'ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l'autore dell'illecito, si deve ritenere che per il comune cittadino tale condizione sia sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell'ordinaria diligenza, al c.d. `dovere di informazione', attraverso l'espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell'illecito anche in virtù di una culpa levis nello svolgimento dell'indagine giuridica''.
``In ordine alla presunta ignoranza, da parte della titolare cinese dell'impresa, delle violazioni della normativa antinfontunistica, non è in alcun modo configurabile nella specie un'ipotesi di `ignoranza inevitabile' della legge penale (o delle disposizioni extrapenali di riferimento): è ben vero che, a seguito della sentenza 23 marzo 1988 n. 364 della Corte Costituzionale, l'ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l'autore dell'illecito; tuttavia, la giurisprudenza anche apicale di legittimità afferma che, per il comune cittadino, tale condizione è sussistente solo qualora egli abbia assolto, con il criterio dell'ordinaria diligenza, al cosiddetto `dovere di informazione', attraverso l'espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia: obbligo particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell'illecito anche in virtù di una culpa levis nello svolgimento dell'indagine giuridica. Per l'affermazione della scusabilità dell'ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l'agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell'interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto. L'ipotesi di un soggetto sano e maturo di mente che commetta fatti criminosi ignorandone la antigiuridicità è concepibile soltanto quando si tratti di reati che, sebbene presentino un generico disvalore sociale, non siano sempre e dovunque previsti come illeciti penali, ovvero di reati che non presentino neppure un generico disvalore sociale. Ora, pur a fronte della condizione di straniera alloglotta, la titolare era - da un lato - dimorante in Italia da diversi anni e - dall'altro - aveva deliberatamente deciso di intraprendere l'esercizio di un'attività produttiva, assumendosene non solo gli oneri e i rischi economici, ma anche i correlativi doveri nei confronti dei dipendenti, ivi compresi quelli in tema di sicurezza e prevenzione degli infortuni; di tal che era onere della stessa attivarsi perché, nei locali della sua azienda, si operasse in sicurezza e si prevenissero i rischi connessi a infortuni o a incendi, attraverso l'adeguamento dei locali stessi alla vigente normativa''. (Per un'ulteriore ipotesi di buona fede vantata da una cittadina cinese v. Cass. 12 dicembre 2018 n. 55473, sub art. 16, par. 14).
Condannato per non aver provveduto alla valutazione del rumore durante il lavoro, l'amministratore unico di una s.r.l. esercente la produzione di manufatti in legno sostiene che ``difetterebbe in ogni caso l'elemento psicologico del reato, attesa la sua assoluta buona fede, avendo agito nell'erroneo convincimento di non essere tenuto ad effettuare nuove misurazioni del rumore'', e che ``egli sarebbe stato indotto nella convinzione della liceità del proprio comportamento dalla circostanza dell'immutabilità dei macchinari utilizzati e dalla natura artigianale dell'attività lavorativa esercitata''. La Sez. III ritiene irrilevante ``quanto dedotto dall'imputato (ossia il convincimento soggettivo di non essere tenuto alla valutazione per la natura dell'attività e per la `stabilità' del luogo di lavoro, nel senso che i macchinari in uso erano sostanzialmente rimasti immutati nel tempo), ai fini della esclusione dell'elemento soggettivo'': Il reato contestato all'imputato è punibile a titolo di colpa, essendo irrilevante l'animo di violare la legge, dovendosi ricordare che quanto invocato dal medesimo altro non è che l'ignoranza della legge che, dunque, non può trovare giustificazione. È ``pacifico il principio, già in precedenza affermato da questa Corte a Sezioni Unite, secondo cui, a seguito della sentenza 23 marzo 1988, n. 364 della Corte Costituzionale, secondo la quale l'ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l'autore dell'illecito, vanno stabiliti i limiti di tale inevitabilità. Per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell'ordinaria diligenza, al cosiddetto `dovere di informazione', attraverso l'espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è invece particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell'illecito anche in virtù di una `culpa levis' nello svolgimento dell'indagine giuridica. Per l'affermazione della scusabilità dell'ignoranza, occorre che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l'agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell'interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto. Nel caso di specie, l'imputato, datore di lavoro si è difeso sostenendo di non aver eseguito la valutazione convinto della liceità del proprio comportamento, convincimento soggettivo non derivato né dal comportamento positivo degli organi amministrativi né da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, donde l'irrilevanza di tale convincimento ai fini di ritenere giustificata la condotta posta in essere dal medesimo''. (Conforme Cass. 11 agosto 2015, n. 34818).
(In argomento v. pure Cass. 20 gennaio 2017, n. 2996; Cass. 26 giugno 2014, n. 27693 e Cass. 16 settembre 2015, n. 37613; nonché Cass. 29 febbraio 2016, n. 8195).
La giurisprudenza della Corte Suprema ``individua livelli crescenti di intensità della volontà dolosa: una volontà dolosa che dal livello più tenue del dolo eventuale va al livello più intenso del dolo intenzionale passando per il livello intermedio del dolo diretto'', e distingue la forma più tenue della volontà dolosa, e, cioè, il dolo eventuale, rispetto alla colpa cosciente. Si rende, pertanto, necessario ricostruire i modelli di dolo intenzionale, dolo diretto, dolo eventuale e colpa cosciente da assumere come punti di riferimento nella valutazione dei fatti oggetto dei procedimenti per reati in materia di sicurezza del lavoro. In argomento, nella sentenza sulla ThyssenKrupp, le SS. UU. hanno autorevolmente operato una scelta politico-criminale innovativa rispetto alla giurisprudenza della Corte Suprema prevalente in precedenza (su questa giurisprudenza v. i riferimenti contenuti in Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590, sesta edizione, Milano, 2014, 1186 s.):
Il dipendente di una s.r.l. appaltatrice, in qualità di dirigente o preposto di fatto, è condannato per l'infortunio occorso a due lavoratori, dipendenti l'uno della stessa s.r.l. e il secondo di altra s.r.l., ``attinti da una scarica elettrica nel mentre movimentavano vetrate di rilevanti dimensioni da posizionare sul tetto dell'abitazione del committente per la realizzazione di un lucernario. Quanto alla riconosciuta aggravante di cui all'art. 61, comma 1, n. 3 c.p., la Sez. IV prende atto che ``la Corte di appello sottolinea come la richiesta della sua esclusione sia stata prospettata in termini del tutto generici'', e che ``la difesa chiede l'esclusione dell'aggravante, limitandosi a richiamare le considerazioni svolte nel ricorso, senza argomentare in alcun modo la sua mancata ricorrenza''.
Una dipendente s'infortuna nell'operare ``su una macchina, su specifica disposizione dell'azienda, in condizioni di assoluta insicurezza, essendo stati rimossi i sistemi di protezione posti a tutela dell'incolumità degli addetti''. La Sez. IV sottolinea ``la totale indifferenza del datore di lavoro e del preposto per i rischi cui i propri dipendenti venivano esposti, a fronte di mere esigenze produttive, tanto che, qualora fosse stata fornita la prova del dolo (diretto o eventuale) con riguardo non solo alla condotta ma anche all'evento lesivo, essi avrebbero dovuto rispondere di lesioni volontarie e non colpose''.
Nell'occuparsi di un infortunio mortale addebitato a un direttore di stabilimento e a un caporeparto, la Sez. IV ha occasione di prendere in esame la colpa cosciente. Rileva che ``nella colpa cosciente (valutata, nel caso di specie, ai soli fini della comparazione fra circostanze aggravanti e circostanze attenuanti del reato di omicidio colposo), la verificazione dell'illecito da prospettiva teorica diviene evenienza concretamente presente nella mente dell'agente e mostra per così dire in azione l'istanza cautelare'', che ``l'agente ha concretamente presente la connessione causale rischiosa: il nesso tra cautela ed evento'', e che ``l'evento diviene oggetto di una considerazione che disvela tale istanza cautelare, ne fa acquisire consapevolezza soggettiva''. Ne desume ``il più grave rimprovero nei confronti di chi, pur consapevole della concreta temperie rischiosa in atto, si astenga dalle condotte doverose volte a presidiare quel rischio''. Individua ``in questa mancanza, in questa trascuratezza, il nucleo della colpevolezza colposa contrassegnata dalla previsione dell'evento'', nel senso che ``si è, consapevolmente, entro una situazione rischiosa e per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altra biasimevole ragione ci si astiene dall'agire doverosamente''. Prende atto che, ``nel caso in esame, i giudici del merito hanno ineccepibilmente ritenuto elemento centrale nel giudizio di sussistenza della colpa cosciente l'aver consentito (se non disposto o autorizzato), nell'ambito delle rispettive funzioni, l'alterazione (mediante rimozione del blocco) del sistema di sicurezza consentendo così di accedere all'impianto mantenendo anche il movimento principale di traslazione degli stampi nonostante che il manuale di istruzioni prevedesse che, in caso di apertura di una qualsiasi delle porte di accesso alla cabina e proprio grazie a quel sistema di blocco, le parti in movimento dei vari macchinari si sarebbero arrestate in automatico''. Aggiunge che, ``nel contesto della sicurezza del lavoro, tutto il sistema è conformato per governare l'immane rischio, gli indicibili pericoli, connessi al fatto che l'uomo si fa ingranaggio fragile di un apparato gravido di pericoli''.
``Le più volte ripetute sottolineature delle differenze tra dolo eventuale e colpa cosciente consentono di rimarcare ulteriormente la fallacia dell'opinione che identifica il dolo eventuale con l'accettazione del rischio. L'espressione è tra le più abusate, ambigue, non chiare, dell'armamentario concettuale e lessicale nella materia in esame. La si vede utilizzata in giurisprudenza in forma retorica quale espressione di maniera, per coprire le soluzioni più diverse. Sull'idea di accettazione del rischio insiste il ricorrente Procuratore Generale, ma si tratta di un punto di vista che deve essere recisamente respinto per le ragioni già più volte dette. Lo si ripete. Il legame previsto dall'art. 43 c.p. riguarda non una semplice condizione di rischio bensì un evento specifico, quello che presenta i tratti significanti dell'accidente concretamente verificatosi. Ciò che è di decisivo rilievo è che si faccia riferimento ad un reale atteggiamento psichico che sia rapportato allo specifico evento lesivo ed implichi ponderata, consapevole adesione ad esso, per il caso che abbia a realizzarsi. L'ottimismo ed il pessimismo, la speranza, naturalmente, non hanno un ruolo significativo nell'indagine sull'atteggiamento interno in rapporto alla direzione della condotta verso l'offesa del bene giuridico. È quindi artificiosa, nella fattispecie, la distinzione tra speranza ragionevole ed irragionevole. Lo stesso stato di dubbio irrisolto non risolve il problema del dolo eventuale: indica un indizio, ma è pur sempre necessario dimostrare che lo stato d'incertezza sia accompagnato dalla già evocata, positiva adesione all'evento; dalla scelta di agire a costo di ledere l'interesse protetto dalla legge. Ciò che è di decisivo rilievo è che nella scelta d'azione sia ravvisabile una consapevole presa di posizione di adesione all'evento, che consenta di scorgervi un atteggiamento ragionevolmente assimilabile alla volontà, sebbene da essa distinto: una volontà indiretta o per analogia, si potrebbe dire. In questo risiede propriamente la rimproverabilità, la colpevolezza dell'atteggiamento interno che si denomina dolo eventuale''.
Nell'ambito poi del caso Eternit, torna sul dolo eventuale, in linea con la sentenza sulla ThyssenKrupp di SS.UU. 18 settembre 2014 n. 38343, Cass. 16 maggio 2018, n. 21733. Tutta da leggere è poi la sentenza che ha chiuso il processo ThyssenKrupp: Cass. 12 dicembre 2016, n. 52511.
``Il caso fortuito consiste in quell'avvenimento imprevisto e imprevedibile che si inserisce d'improvviso nell'azione del soggetto e non può in alcun modo, nemmeno a titolo di colpa, farsi risalire all'attività psichica dell'agente. Nella specie pertanto non rileva il fatto che l'operazione di smontaggio e pulitura del cono superiore di un atomizzatore fosse sporadica o comunque meno frequente di quella di smontaggio e pulitura del cono inferiore: essa era comunque prevista, per il caso che si rendesse necessaria la procedura straordinaria, ossia laddove l'ostruzione cagionata dai residui sulle pareti interne dell'atomizzatore non potesse essere risolta con la procedura ordinaria e rendesse perciò necessario smontare, appunto, il cono superiore''.
``La rilevanza giuridica del caso fortuito è inesorabilmente legata ad un'azione umana, come riconosce la dottrina assolutamente prevalente, e come è rilevato dalla stessa formulazione dell'art. 45 c.p. che, adoperando l'espressione `commettere', suppone la presenza di un comportamento umano, attivo o negativo. Dall'incrocio di questo con l'avvenimento casuale deriva la produzione dell'evento, nel senso che questo, secondo il principio dell'equivalenza delle cause, è eziologicamente riconducibile alla condotta dell'uomo, il quale tuttavia non ne risponde per l'intervento del fattore causale imprevedibile. Dunque, il caso fortuito presuppone l'integrità del rapporto di causalità materiale tra la condotta e l'evento, collocandosi come causa (soggettiva) di esclusione della punibilità. Questa concezione è contrastata da quella, oggettiva, secondo la quale il fortuito escluderebbe il rapporto materiale. In linea di principio, questa Corte ritiene che la concezione soggettiva risponda compiutamente alla logica del sistema normativo, sia perché l'art. 45, pur non definendo il fortuito, si riferisce a questo come ad un evento (imprevedibile) che si inserisce nel corso di un'azione umana, sia perché la tesi che esclude il rapporto di causalità determinerebbe il carattere pleonastico dell'art. 45, che sarebbe un duplicato dell'art. 41 cpv c.p.; il che sembra inammissibile, per la presunzione di coordinata razionalità che deve pur assistere la redazione di un testo normativo improntato a sistematicità . D'altro canto, questa medesima teoria finisce per ammettere che il caso fortuito esclude la colpevolezza, sia pure come conseguenza riflessa del venir meno del rapporto di causalità materiale. Dunque, l'accadimento fortuito, per produrre il suo effetto di escludere la punibilità dell'agente - sul comportamento del quale viene ad incidere - deve risultare totalmente svincolato sia dalla condotta del soggetto agente, sia dalla sua colpa. Ne consegue che in tutti i casi in cui l'agente abbia dato materialmente causa al fenomeno - solo, dunque, apparentemente fortuito - ovvero nei casi in cui, comunque, è possibile rinvenire un qualche legame di tipo psicologico tra il fortuito e il soggetto agente (nel senso che l'accadimento, pure eccezionale, poteva in concreto essere previsto ed evitato se l'agente non fosse stato imprudentemente negligente o imperito) non è possibile parlare propriamente di fortuito in senso giuridico. Orbene, per il caso sottoposto a esame, è un dato di fatto oggettivo che lo pneumatico in questione era usurato e che era del tutto prevedibile, anche in ragione del carico trasportato dalla macchina, che lo stesso potesse scoppiare''.
``Il caso fortuito consiste in quell'avvenimento imprevisto e imprevedibile che si inserisce d'improvviso nell'azione del soggetto e non può in alcun modo, nemmeno a titolo di colpa, farsi risalire all'attività psichica dell'agente. Come è stato precisato in altra occasione, il caso fortuito si verifica quando sussiste il nesso di causalità materiale tra la condotta e l'evento, ma fa difetto la colpa, in quanto l'agente non ha causato l'evento per sua negligenza o imprudenza; questo, quindi, non è, in alcun modo, riconducibile all'attività psichica del soggetto. Ne consegue che, qualora una pur minima colpa possa essere attribuita all'agente, in relazione all'evento dannoso realizzatosi, automaticamente viene meno l'applicabilità della disposizione di cui all'art. 45 c.p. La natura colposa della condotta dell'imputato è quindi correttamente stata ritenuta incompatibile con una applicazione alla fattispecie dell'istituto del caso fortuito. La forza maggiore, dal canto suo, si concreta in un evento derivante dalla natura o dall'uomo che, pur se preveduto, non può essere impedito, trattandosi di vis maior cui resisti non potest''. (Conforme, sul caso fortuito, Cass. 10 luglio 2014, n. 30471).
``Quanto all'invocato principio dell'affidamento, il datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, sicché ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici e del fatto che il lavoratore possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando altresì a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l'opera. Il principio di affidamento non è certamente invocabile sempre e comunque, dovendo contemperarsi con il concorrente principio della salvaguardia degli interessi del soggetto nei cui confronti opera la posizione di garanzia. Nella specie, il datore di lavoro, il quale abbia negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'infortunio attivando le richieste misure preventive e protettive, non può invocare, quale esimente da responsabilità, il principio di affidamento nella corretta esecuzione della prestazione lavorativa da parte del lavoratore''.
``Il garante non può invocare, a propria scusa, il principio di affidamento, assumendo che il comportamento del lavoratore era imprevedibile, poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia. Il garante, dunque, ove abbia negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l'errore sulla legittima aspettativa in ordine all'assenza di condotte imprudenti, negligenti o imperite da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e negligenze o dai suoi stessi errori, purché connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa. Ne deriva che il titolare della posizione di garanzia è tenuto a valutare i rischi e a prevenirli e la sua condotta non è scriminata, in difetto della necessaria diligenza, prudenza e perizia, da eventuali responsabilità dei lavoratori''.
``Compito del titolare della posizione di garanzia è evitare che si verifichino eventi lesivi dell'incolumità fisica intrinsecamente connaturati all'esercizio di talune attività lavorative, anche nell'ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori subordinati o di terzi, la cui incolumità deve essere protetta con appropriate cautele. Il garante non può, infatti, invocare, a propria scusa, il principio di affidamento, assumendo che il comportamento del lavoratore o del terzo era imprevedibile, poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia. Il garante, dunque, ove abbia negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l'errore sulla legittima aspettativa in ordine all'assenza di condotte imprudenti, negligenti o imperite da parte dei lavoratori o dei terzi, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore e del terzo anche dai rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e negligenze o dai suoi stessi errori, purché connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa''.
``Non è invocabile il principio di affidamento nel comportamento altrui, con conseguente esclusione di responsabilità, da parte di chi sia già in colpa per avere violato norme precauzionali o avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che colui che gli succede nella posizione di garanzia elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione, in quanto la seconda condotta non si configura come fatto eccezionale sopravvenuto, da solo sufficiente a produrre l'evento''.
``In tema di nesso causale, quando l'obbligo di impedire l'evento ricade su più persone che debbano intervenire o intervengano in tempi diversi, il nesso di causalità tra la condotta omissiva o commissiva del titolare di una posizione di garanzia non viene meno per effetto del successivo mancato intervento da parte di altro soggetto, parimenti destinatario dell'obbligo di impedire l'evento, configurandosi, in tale ipotesi, un concorso di cause ai sensi dell'art. 41, comma 1, c.p. Inoltre, ai fini dell'eventuale interruzione del nesso causale tra la condotta e l'evento (art. 41, comma 2, c.p.), il concetto di causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento fa riferimento a fattori completamente atipici, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, che non si verificano se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta (tanto da risultare imprevedibili in astratto ed imprevedibili per l'agente). Ne consegue che deve escludersi che possa assumere tale rilievo eccezionale la condotta di un soggetto, pur negligente, la cui condotta inosservante trovi la sua origine e spiegazione nella condotta di chi abbia creato colposamente le premesse su cui si innesta il suo errore o la sua condotta negligente. In tema di causalità, non può parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per avere violato determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri ponga rimedio alla omissione, con la conseguenza che qualora, anche per l'omissione del successore, si produca l'evento che una certa azione avrebbe dovuto e potuto impedire, esso avrà due antecedenti causali, non potendo il secondo configurarsi come fatto eccezionale, sopravvenuto, sufficiente da solo a produrre l'evento''. (Fattispecie relativa all'incendio di un hotel).
Nel caso della Costa Concordia, quanto al principio di affidamento dell'agente sull'altrui condotta diligente, la Sez. IV premette che il problema ``si pone nelle attività che vengono compiute collettivamente, o da più persone indipendentemente tra loro (ma con la reciproca consapevolezza di ciò), allorché la condotta del singolo è influenzata dalla convinzione che gli altri individui coinvolti nella stessa attività agiranno in modo conforme a regole di cautela'', e che ``la questione si pone unicamente con riguardo alle attività rischiose giuridicamente consentite, perché solo per queste attività si può parlare di un rischio lecito e non di un obbligo di astenersi tout court''. Rileva che ``il principio in esame trova un temperamento nell'opposto principio secondo il quale il soggetto garante del rischio è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purché questo rientri nel limite della prevedibilità: si afferma cioè la necessità che il comportamento imprudente altrui debba essere valutato nella sua `ragionevole' prevedibilità in base alle circostanze del caso concreto''. Osserva che ``la questione rileva anche nell'ambito della responsabilità colposa plurisoggettiva, in quanto l'evento dannoso cagionato dalla convergenza di più condotte pone il problema della riferibilità, a ciascuno dei soggetti coinvolti, della connessa responsabilità, e quello di stabilire le possibili interazioni fra le diverse condotte'', e che, ``nelle fattispecie plurisoggettive colpose, la questione può porsi sia nei casi in cui i diversi soggetti coinvolti agiscano in rapporto di collaborazione diacronica, sia nei casi in cui essi agiscano in rapporto di collaborazione sincronica''. Precisa che ``si parla di collaborazione diacronica quando più soggetti intervengono nel tempo (ossia in successione) e pongono in essere condotte sulla cui correttezza e cautela gli altri devono, di regola, poter confidare'', mentre ``si parla di collaborazione sincronica nel caso di attività poste in essere nello stesso contesto spazio-temporale e per la medesima finalità, sia in assetto gerarchico, sia collettivamente (come accade ad esempio nel lavoro d'équipe)''. Afferma che ``in tutti i casi di collaborazione (sia essa diacronica o sincronica), al singolo agente deve farsi carico di prevedere la possibile condotta incauta degli altri operatori a condizione che siano ravvisabili: a) la concreta prevedibilità dell'altrui imprudenza, ossia la possibilità che, in relazione alla situazione concreta, il singolo agente possa ragionevolmente prevedere che altri agenti pongano in essere condotte imprudenti e potenzialmente dannose; b) l'evitabilità delle conseguenze dell'altrui comportamento imprudente, ossia la concreta possibilità di agire efficacemente per impedire gli effetti dell'altrui condotta colposa; c) gli eventuali obblighi di sorveglianza, coordinamento e controllo affidati al singolo operatore nei confronti degli altri''. E conclude che ``la responsabilità del primo garante nel prodursi dell'evento può essere affermata sempreché non intervenga, nel decorso causale che conduce all'evento medesimo, una causa sopravvenuta (eventualmente indotta da altro soggetto subentrato nella veste di garante) che inneschi un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla prima condotta''.
``La giurisprudenza di legittimità al riguardo dell'applicabilità del principio di affidamento nell'ambito della responsabilità per colpa (rectius: della responsabilità per reati colposi di evento) appare allo stato ancora divisa. Intanto, in merito alla estensione del riconoscimento che a tale principio può tributarsi. Più frequentemente affermata l'operatività nell'ambito della responsabilità medica (per quanto con infrequenti esiti di deresponsabilizzazione), questa è certamente controversa nella materia della circolazione stradale, ove si registra l'affermazione che costituisce di per sé condotta negligente l'aver riposto fiducia nel fatto che gli altri utenti della strada si attengano alla prescrizioni del legislatore, poiché le norme sulla circolazione stradale impongono severi doveri di prudenza e diligenza proprio per far fronte a situazioni di pericolo, determinate anche da comportamenti irresponsabili altrui, se prevedibili. Ciò nonostante, un diverso orientamento è incarnato dal principio per il quale occorre valutare, ai fini della sussistenza della colpa, se, nelle condizioni date, l'agente dovesse e potesse concretamente prevedere le altrui con- dotte irregolari: principio al quale sembrano fare eco alcune recenti decisioni - che però fanno registrare una differente formulazione - per le quali il principio dell'affidamento, nello specifico campo della circolazione stradale, trova un opportuno temperamento nell'opposto principio, secondo cui l'utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui, purché rientri nel limite della prevedibilità. L'applicabilità del principio di affidamento è invece tendenzialmente esclusa nel settore della sicurezza del lavoro, nel quale la giurisprudenza prevalente adotta addirittura una diversa chiave di lettura del problema sotteso al principio in questione, optando per lo schema di soluzione offerto dall'art. 41 cpv. c.p. (si veda la messe di decisioni in tema di comportamento del lavoratore vittima di infortunio, inosservante di regole cautelari). Ma anche quanto ai presupposti applicativi del principio di affidamento - con il pencolamento tra la tesi della non intoccabilità del medesimo da chi sia incorso nella violazione dell'obbligo di diligenza e quella che assume la violazione come premessa dell'operatività dell'affidamento - e alla identificazione del punto di incidenza di quello nella struttura del reato deve registrarsi l'esistenza di un panorama giurisprudenziale alquanto variegato. E tuttavia, è indubitabile che le pronunce maggiormente inclini a dare ingresso a tale principio nel percorso di verifica dell'imputazione giuridica del fatto al suo autore `naturalistico' (e quindi ponendo da parte la tesi, nel caso che occupa tranchant, secondo la quale il principio di affidamento non può essere invocato da chi abbia trasgredito agli obblighi cautelari impostigli) trovino un elemento di condivisione nella incompatibilità (già logica) dell'affidamento con la prevedibilità da parte dell'affidato della inosservanza altrui della regola di diligenza. Detto altrimenti, l'affidamento nell'altrui comportamento osservante non ha ragione di sussistere già più in fatto, dinanzi alla prevedibilità della trasgressione da parte dal soggetto la cui condotta è interferente con la propria''.
``Il principio di affidamento costituisce applicazione del principio del rischio consentito: dover continuamente tener conto delle altrui possibili violazioni della diligenza imposta avrebbe come risultato di paralizzare ogni azione, i cui effetti dipendano anche dal comportamento altrui. Il principio, d'altra parte, si connette pure al carattere personale e rimproverabile della responsabilità colposa, circoscrivendo entro limiti plausibili ed umanamente esigibili l'obbligo di rapportarsi alle altrui condotte: esso è stato efficacemente definito come una vera e propria pietra angolare della tipicità colposa. Pacificamente, la possibilità di fare affidamento sull'altrui diligenza viene, però, meno quando l'agente è gravato da un obbligo di controllo o sorveglianza nei confronti di terzi; o, quando, in relazione a particolari contingenze concrete, sia possibile prevedere che altri non si atterrà alle regole cautelari che disciplinano la sua attività o che, comunque, possa incorrere, per imprudenza o negligenza, in errore. La tendenza della giurisprudenza di legittimità è quella di escludere o limitare al massimo la possibilità di fare affidamento sull'altrui correttezza''.
Tra le definizioni contenute nell'art. 2, fa spicco, in particolare, quella dettata dalla lettera n). In effetti, il legislatore del 2008 stabilisce che per ``prevenzione'' s'intende ``il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell'integrità dell'ambiente esterno'', e in tal modo evoca il contenuto dell'art. 2087 c.c. In questo quadro, assumono ulteriore risalto gli insegnamenti impartiti dalla Corte di Cassazione al riguardo:
``Il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza, ha l'obbligo di predisporre le misure antinfortunistiche e di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in forza della generale disposizione di cui all'art. 2087 c.c., egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro, indipendentemente dall'ulteriore profilo di colpa specifica - affermato nella sentenza impugnata e relativo alla mancata formazione del lavoratore - che non ha formato oggetto di contestazione''.
``In materia di reati colposi derivanti da infortunio sul lavoro, per la configurabilità dell'aggravante speciale della violazione delle norme antinfortunistiche (rilevante per la procedibilità di ufficio in caso di lesioni gravi e gravissime e per il raddoppio della prescrizione ai sensi dell'art. 157 c.p.), non occorre che sia integrata la violazione di norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, giacché per l'addebito di colpa specifica, è sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa della violazione dell'art. 2087 c.c., che fa carico all'imprenditore di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori. Infatti, il datore di lavoro e gli altri soggetti investiti della posizione di garanzia devono in proposito ispirare la loro condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza, per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. In sintesi, sussiste una posizione di garanzia a condizione che: un bene giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo; una fonte giuridica anche negoziale abbia la finalità di tutelarlo; tale obbligo gravi su una o più persone specificamente individuate sulla base di un'investitura formale o l'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante; queste ultime siano dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che l'evento dannoso sia cagionato''.
``L'art. 2087 c.c. fa carico all'imprenditore di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori. Infatti, il datore di lavoro e gli altri soggetti investiti della posizione di garanzia devono in proposito ispirare la loro condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza, per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza''. (V. anche Cass. n. 24901 del 7 luglio 2021 e Cass. n. 10135 del 16 marzo 2020).
``La disposizione di cui all'art. 2087 c.c. rappresenta una norma di chiusura che pone in capo al datore di lavoro un obbligo generico di disposizione di tutte le misure necessarie per prevenire eventuali rischi, anche se non esplicitamente richiamate da norme particolari che prevedano reati autonomi''. (Questa sentenza è riportata più estesamente sub art. 15, par. 7).
``In forza dell'art. 2087 cod. civ., il datore di lavoro, anche al di là delle disposizioni specifiche, è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia di quanti prestano la loro opera nell'impresa, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo esattamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2. Tale obbligo è di così ampia portata che non può distinguersi, al riguardo, che si tratti di un lavoratore subordinato, di un soggetto a questi equiparato o, anche, di persona estranea all'ambito imprenditoriale, purché sia ravvisabile il nesso causale tra l'infortunio e la violazione della disciplina sugli obblighi di sicurezza''.
``L'art. 2087 c.c. pur non contenendo precetti specifici come quelli rinvenibili nelle leggi organiche per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, non si risolve in una mera norma di principio, ma deve considerarsi inserita a pieno titolo nella legislazione antinfortunistica, di cui costituisce norma di chiusura, che impone al datore di lavoro precisi obblighi di garanzia e protezione''. (Conforme Cass. 27 novembre 2017 n. 53549).
Preziosa è anche la giurisprudenza civile:
``L'obbligo di sicurezza posto a carico del datore di lavoro in favore del lavoratore, è previsto in generale, con contenuto atipico e residuale, dall'art. 2087 c.c. ed in particolare, con contenuto tipico, dalla dettagliata disciplina di settore concernente gli infortuni sul lavoro, le malattie professionali e le misure di prevenzione. In via generale, va altresì rimarcato come la disposizione di cui all'art. 2087 c.c., si qualifichi alla stregua di norma di chiusura del sistema antinfortunistico, estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, ed impone all'imprenditore l'obbligo di tutelare l'integrità fisiopsichica dei dipendenti con l'adozione - ed il mantenimento perfettamente funzionale - non solo di misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche dì sicurezza, a preservare i lavoratori dalla sua lesione nell'ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad eventi pur se allo stesso non collegati direttamente. In riferimento a tale profilo, con orientamento costante, questa Corte ha quindi affermato che la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. è di carattere contrattuale, atteso che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge, ai sensi dell'art. 1374 c.c. dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale; anche se è possibile ipotizzare - per un fatto che viola contemporaneamente sia diritti che attengono alla persona in base al precetto generale del neminem laedere, sia diritti che scaturiscono dal vincolo giuridico contrattuale - il concorso della azione contrattuale basata sulla violazione degli obblighi di sicurezza posti a carico del datore di lavoro dall'art. 2087 c.c. L'art. 2087 c.c., peraltro, non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini dell'art. 1218 c.c. circa l'inadempimento delle obbligazioni, da ciò discendendo che il lavoratore il quale lamenti di aver subito un danno da infortunio sul lavoro, deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, l'esistenza del danno ed il nesso causale tra quest'ultimo e la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile e, cioè, di aver adempiuto interamente all'obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure. per evitare il danno''.
Per riferimenti a norme tecniche e a linee guida, oltre che sub art. 87, v. Cass. 6 aprile 2021, n. 12940; Cass. 28 dicembre 2017, n. 57668 (sub art. 71, al par. 1); Cass. 18 ottobre 2015, n. 39765; Cass. 28 agosto 2014, n. 36348; Cass. 13 settembre 2013, n. 37559 (sub Allegato IV, al par. 1); Cass. 22 dicembre 2011, n. 47866 (sub Allegato V); Cass. 9 luglio 2009, n. 28232; Cass. 3 giugno 2008, n. 22164. Sulle norme UNI-CIG v. Cass. 20 dicembre 2022, n. 48217; Cass. 6 agosto 2015, n. 34298. Più volte, la colpa del datore di lavoro è stata individuata nell'inosservanza di questa o quella norma tecnica. Ad es.:
Cass. pen. 28 dicembre 2017, n. 12221 conferma la condanna del delegato del datore di lavoro per l'infortunio subito da un dipendente addetto a un'attrezzatura di lavoro, per violazione degli artt. 70 e 71 del D. 81, nonché della specifica norma UNI En (14070), a cui -dice la Corte Suprema- ``fa rimando l'art. 71 del D. 81 nel porre a carico del datore di lavoro l'obbligo di mettere a disposizione dei lavoratori le attrezzature conformi alle specifiche disposizioni legislative e regolamentari in materia''.
Cass. pen. 22 marzo 2018, n. 13315 conferma la condanna della datrice di lavoro per l'infortunio subito da un dipendente addetto a un'attrezzatura di lavoro ``non conforme ai requisiti di sicurezza previsti dalla normativa UNI EN (609-1-2004)''.
Cass. pen. 12 gennaio 2018, n. 1219 conferma la condanna del rappresentante legale di una s.r.l. per l'infortunio mortale subito da un dipendente adibito a un'attrezzatura di lavoro sprovvista del dispositivo prescritto dalla normativa UNI EN (703/2004).
Cass. pen. 31 ottobre 2017, n. 50018 annulla (con rinvio al giudice civile) l'assoluzione del rappresentante legale di una s.r.l. per l'infortunio subito da un dipendente addetto a un impianto privo dei necessari requisiti di idoneità e sicurezza dettati dalla norma UNI EN (1069-1).
Cass. pen. 20 aprile 2017, n. 19030 conferma la condanna del rappresentante legale di una s.p.a. per l'infortunio subito da un dipendente a una macchina non conforme alla normativa UNI EN (13769/2009).
Cass. pen. 20 marzo 2017, n. 13462 conferma la condanna del datore di lavoro per infortunio accaduto a una dipendente su un'apparecchiatura di lavoro sprovvista della protezione prescritta dalla specifica norma UNI EN.
Due precisazioni. In primo luogo, Cass. pen. 31 luglio 2018, n. 36736 ritiene non applicabile una norma UNI EN (1263 1-2), stante la sua non obbligatorietà all'epoca dei fatti e su quel tipo di impianti. Secondo chiarimento dato da Cass. pen. 22 dicembre 2011, n. 47886: le prescrizioni di una norma UNI EN (12159) non esauriscono gli obblighi eventualmente più ampi previsti dalla normativa statale di settore (v. anche Cass. pen. 3 giugno 2008, n. 22164 [UNI EN 294]).
Più frequenti di quanto non si usi pensare sono gli incidenti che accadono sulle piste da sci, e particolarmente incisivo sta diventando l'intervento giudiziario in tema di sicurezza in questo settore, a tutela sia dei lavoratori, sia degli utenti. Da leggere sono:
Uno sciatore intraprende la discesa di un ripido crinale, ma a causa del ghiaccio presente sul versante affrontato cade, scivolando a valle per poi collidere contro un albero. La Sez. IV dichiara inammissibile il ricorso presentato dall'amministratore unico della società esercente il comprensorio sciistico contro la sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato di omicidio colposo e di condanna in solido con il responsabile civile al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite: ``Lo sciatore non era stato posto in condizione di rendersi conto con immediatezza dei tratti di pista sciabili, e, soprattutto, non aveva ricevuto alcuna informazione sulla contingente situazione meteorologica del crinale percorso, con particolare riguardo alla presenza del pericolosissimo manto ghiacciato (a vetro) che avrebbe determinato l'inevitabile caduta dello sciatore. La zona dell'incidente - costituita dal tratto di pista/fuori pista in quel momento completamente ghiacciato - non era stata adeguatamente interdetta dal gestore, al fine di impedire fisicamente il transito su quel crinale degli sciatori, al di là dei due pali in croce e del generico cartello ivi collocati, del tutto inidonei a rappresentare la situazione di pericolo elevato in quel momento presente su quella specifica zona dell'area sciistica''.
Uno sciatore, mentre scendeva dalla pista nera di un comprensorio sciistico, perdeva il controllo degli sci, cadendo nel punto di compressione della pista e, dopo avere impattato al suolo, caratterizzato da neve dura e ghiacciata, continuava a scivolare sino a colpire il cannone sparaneve situato a valle non dotato di adeguate protezioni. Imputati di omicidio colposo (peraltro prescritto) l'amministratore unico e il capo servizio responsabile della sicurezza delle piste. La Sez. IV osserva: ``Le norme cautelari la cui violazione è stata contestata, sono quelle di cui all'art. 3 della L. n. 363/2003 ed alla legge regionale. L'art. 3 L. n. 363/2003, contiene disposizioni generali sugli obblighi dei gestori degli impianti sportivi di assicurare agli utenti la protezione da ostacoli presenti lungo le piste, mediante l'utilizzo di adeguate protezioni, mentre la legge regionale, ribadendo quanto stabilito dalla disciplina statuale, prescrive l'obbligo di eliminare all'interno delle aree sciabili attrezzate tutti i pericoli atipici connessi con le caratteristiche intrinseche delle aree stesse, intendendosi per pericolo atipico tutte quelle situazioni di carattere oggettivo, che espongono l'utente a un rischio che non può considerarsi connaturato alla pratica dello sci su piste battute e/o riconducibile a comportamenti dell'utente stesso e che quest'ultimo non è in grado di prevedere o individuare durante la permanenza all'interno delle aree sciabili e attrezzate. Con riferimento alla violazione relativa alla mancata adeguata protezione dell'innevatore, la protezione predisposta, costituita da un materassino delle dimensioni di cm. 200 di altezza per cm. 100 di larghezza, già di per sé non idoneo ad assorbire l'urto di uno sciatore che vi avesse impattato ad alta velocità, era mal posizionata, lasciando scoperta una parte rilevante della struttura metallica, proprio in direzione della parte finale della pista nera e fino al livello del piano innevato''. Nel riferirsi poi al capo servizio responsabile della sicurezza delle piste, pone in risalto ``l'assunzione della posizione di garante da parte di colui che di fatto ne assume i compiti e ne svolge i poteri, pur non essendo provvisto della delega formale da parte del datore di lavoro''.
Lungo una pista gestita da una s.p.a. e chiusa al pubblico per lo svolgimento di un allenamento sciistico, un atleta all'uscita di una porta proseguiva in diagonale senza più curvare e andava ad impattare con la rete di protezione presente lungo la pista nei pressi di un palo o direttamente con il palo. Per il suo decesso, la Sez. IV conferma la condanna dei legali rappresentanti della s.p.a. gestori e direttori della pista, con l'addebito: ``di aver posto a bordo pista il palo verticale in luogo di un ulteriore palo a C, con una protezione, costituita da un materassino, di altezza insufficiente'': ``L'analisi delle previsioni conduce a rilevare la complementarietà dei compiti spettanti all'organizzatore e al gestore della pista. Ai primi spetta la gestione dei rischi connessi all'attività agonistica, che certo sono interconnessi con quelli ordinariamente intrinseci alla pratica sciistica ma che le particolarità dell'agonismo caratterizza, sia sotto il profilo della recessività di regole cautelari che il praticante non agonista deve comunque osservare (artt. 8 e ss. Legge n. 363/2005), sia sotto il profilo della emergenza di nuove ed ulteriori regole, funzionali a contenere il rischio nel perimetro del consentito. Ne consegue, con specifico riferimento alle protezioni perimetrali della pista, che se l'organizzatore della gara è tenuto a occuparsi di una loro eventuale pericolosità in rapporto alle caratteristiche dell'attività agonistica, ciò non esclude che il gestore della pista permanga debitore della sicurezza di tali protezioni anche verso l'agonista (ovviamente, nel limite dei rischi prevedibili ed evitabili ai quali questi è esposto)''.
``Uno sciatore, perso il controllo degli sci, finiva fuori pista e scivolava lungo una parete scoscesa terminando la corsa a valle''. La Sez. IV annulla agli effetti civili l'assoluzione del gestore della pista dal reato di lesioni personali colpose, ormai prescritto: ``Il gestore della pista da sci è titolare di una posizione di garanzia, in forza della quale può essere chiamato a rispondere dei reati di omicidio o lesioni colposi, per non aver impedito la verificazione dell'evento lesivo - nella specie le lesioni di uno sciatore - che aveva l'obbligo giuridico di impedire, sempre che sia possibile muovergli un rimprovero a titolo di colpa. L'obbligo di garanzia del gestore trova fondamento anche nella legge n. 363/2003 che, nel dettare `norme in materia di sicurezza nella pratica degli sport invernali da discesa e da fondo', agli artt. 3 e ss. individua gli obblighi dei gestori delle aree sciabili. La normativa prevede, in particolare, che `i gestori assicurano agli utenti la pratica delle attività sportive e ricreative in condizioni di sicurezza ... i gestori hanno l'obbligo di proteggere gli utenti da ostacoli presenti lungo le piste mediante l'utilizzo di adeguate protezioni degli stessi e segnalazioni della situazione di pericolo'. Da ciò emerge che al di fuori dell'ambito della pista, il gestore non ha alcun potere di dominio sulle possibili fonti di pericolo per i terzi, né alcun potere di organizzazione, intervento e vigilanza su di esse, con la conseguenza che egli non ha alcun obbligo di attivarsi per impedire il verificarsi di eventi lesivi nei confronti di soggetti terzi. Non è configurabile, quindi, in capo al gestore dell'area sciabile, alcun obbligo di protezione nei confronti degli sciatori che abbiano abbandonato la pista battuta, volontariamente, o anche erroneamente e inconsapevolmente, ad esempio per eccessiva velocità o per disattenzione, e si siano trovati fuori pista. Il terreno innevato che si trova fuori della pista da sci, infatti, è estraneo al controllo del gestore della stessa, con la conseguenza che questi non è garante dei beni giuridici esposti ad eventuali pericoli che quel terreno possa presentare. Non questo è avvenuto nel caso di specie, in cui la dinamica stessa dell'incidente dimostra l'oggettiva pericolosità della pista. Perso il controllo degli sci, lo sciatore cadeva in pista, in un punto assai prossimo al dirupo nel quale scivolava. La mancata predisposizione di presidi atti a contenere la pericolosità di un consistente dirupo così prossimo ai margini della pista costituisce un indubbio profilo di colpa generica in capo al gestore dell'impianto. Una rete di contenimento, del tutto assente nella pista in questione, avrebbe certamente scongiurato la rovinosa caduta. Appare corretto riconoscere in capo al gestore l'obbligo di porre in essere ogni cautela per prevenire i pericoli anche esterni alla pista ai quali lo sciatore può andare incontro in caso di uscita dalla pista medesima, laddove la situazione dei luoghi renda probabile, per conformazione naturale del percorso, siffatta evenienza accidentale''.
Due partecipanti a una discesa notturna in slittino su una pista da sci perdono il controllo dello slittino e a forte velocità impattano su un cumulo di neve nel parcheggio. La Sez. IV annulla l'assoluzione per insussistenza del fatto pronunciata dal giudice di pace dal reato di lesioni personali colpose gravissime nei confronti del maestro di sci, quale promotore ed accompagnatore nella discesa, nonché del presidente e del capo servizi degli impianti sciistici: ``Il Giudice non avrebbe tenuto conto, in virtù dell'art. 3 L. n. 363/2003 del più generale obbligo dei gestori degli impianti sciistici di assicurare che le attività sportive e ricreative si svolgano in condizioni di sicurezza. Sebbene non vi sia alcun esplicito divieto nella norma di utilizzare in orari notturni le piste da sci, è indubbio che la mancanza di illuminazione non garantisca le condizioni di sicurezza degli impianti predicate nella norma richiamata. Il gestore della pista da sci è titolare di una posizione di garanzia, che trova fondamento nella disciplina citata, in forza della quale può essere chiamato a rispondere dei reati di omicidio o lesioni colposi, per non aver impedito il verificarsi di un evento lesivo che aveva l'obbligo giuridico di impedire, sempre che sia possibile muovergli un rimprovero a titolo di colpa, derivante dalla violazione di una o più norme cautelari che devono essere individuate sulla base delle due direttrici indicate nell'art. 3, comma 1, L. n. 363/2003 rappresentate dall'obbligo di consentire lo svolgimento delle attività sportive e ludiche in condizioni di sicurezza e dall'obbligo di utilizzare adeguate protezioni e segnalare situazioni di pericolo. Con riferimento alla posizione del maestro di sci, il giudice non si occupa di verificare la ricorrenza di eventuali profili dj responsabilità colposa generica, riconducibili a negligenza ed imprudenza che sono insiti nella contestazione di lesioni colpose. In particolare, ha mancato di verificare se il maestro, prima di intraprendere l'attività, si sia preoccupato di assicurarsi che i partecipanti alla manifestazione indossassero i necessari mezzi di protezione (caschi e calzature adatte); che vi fossero tutte le condizioni di sicurezza e che i partecipanti fossero stati adeguatamente istruiti sulle manovre da attuare nella conduzione del mezzo, tanto più che si trattava di persone del tutto inesperte''.
Il legale rappresentante, amministratore delegato, responsabile della sicurezza dei tracciati delle piste di sci gestite da una s.p.a. fu imputato di omicidio colposo in danno di uno sciatore ``dotato di regolare abbonamento che lo abilitava ad utilizzare le piste da sci della predetta società, il quale, mentre scendeva lungo la pista indossando un casco a protezione del capo, perdeva il controllo degli sci e delle conseguenti traiettorie, gli si staccava uno sci e cadeva a terra andando ad impattare con la testa un masso non protetto situato nei pressi del bordo della pista, previa rottura del casco''. Addebito di colpa: ``non provvedeva ad adottare misure di facile attuazione, idonee a segnalare adeguatamente il bordo della pista e la presenza del masso, apprestare delle protezioni, per eliminare il rischio di impatto degli sciatori contro lo stesso o eliminare la presenza dello stesso, che invece era situato in posizione tale da risultare prevedibile un possibile urto, con gravi conseguenze per gli sciatori''. La Sez. IV annulla con rinvio la condanna: ``L'obbligo di garanzia del gestore trova oggi fondamento anche nella legge n. 363/2003 che, nel dettare `norme in materia di sicurezza nella pratica degli sport invernali da discesa e da fondo', agli artt. 3 e ss. individua gli obblighi dei gestori delle aree sciabili. La normativa prevede, in particolare, che `i gestori assicurano agli utenti la pratica delle attività sportive e ricreative in condizioni di sicurezza ... i gestori hanno l'obbligo di proteggere gli utenti da ostacoli presenti lungo le piste mediante l'utilizzo di adeguate protezioni degli stessi e segnalazioni della situazione di pericolo'. Da ciò emerge che al di fuori dell'ambito della pista, il gestore non ha alcun potere di dominio sulle possibili fonti di pericolo per i terzi, né alcun potere di organizzazione, intervento e vigilanza su di esse, con la conseguenza che egli non ha alcun obbligo di attivarsi per impedire il verificarsi di eventi lesivi nei confronti di soggetti terzi. Non è configurabile, quindi, in capo al gestore dell'area sciabile, alcun obbligo di protezione nei confronti degli sciatori che abbiano abbandonato la pista battuta, volontariamente, o anche erroneamente e inconsapevolmente, ad esempio per eccessiva velocità o per disattenzione, e si siano trovati fuori pista. Il terreno innevato che si trova fuori della pista da sci, infatti, è estraneo al controllo del gestore della stessa, con la conseguenza che questi non è garante dei beni giuridici esposti ad eventuali pericoli che quel terreno possa presentare. Ne consegue che la protezione dello sciatore cessa ai bordi della pista, specie quando questa -come nel caso che occupa- sia sufficientemente larga da consentire un percorso in sicurezza, non potendo certo ritenersi che tutto il percorso debba essere contornato da reti di protezione. Il gestore deve, allora, prevenire quei pericoli fisicamente esterni alle piste, ma a cui si può andare incontro in caso di uscita di pista solamente qualora la situazione dei luoghi renda altamente probabile che si fuoriesca dalla pista battuta, per la conformazione naturale del percorso. Appare corretto riconoscere in capo al gestore l'obbligo di recintare la pista ed apporre idonee segnaletiche e protezioni, o in alternativa rimuovere possibili fonti di rischio, anche esterne al tracciato, ma solo in presenza di un pericolo determinato dalla conformazione dei luoghi che determini l'elevata probabilità di un'uscita di pista dello sciatore, mentre apparirebbe eccessivo (e concretamente inesigibile) pretendere dal gestore che tutta la pista sia recintata oppure che tutti i massi ed pericoli situati nelle sue prossimità siano rimossi''. (V. anche sulla posizione di garanzia del gestore di un impianto sciistico Cass. 25 febbraio 2019, n. 8110).
Il presidente del c.d.a., il consigliere delegato e l'addetto alla sicurezza, manutenzione e preparazione delle piste da sci di una s.p.a. gestrice di tali piste - imputato del delitto di lesione personale colposa per aver ``negligentemente inosservato l'obbligo di delimitare la pista al fine di proteggere gli sciatori da pericoli atipici, omettendo di apporre le dovute protezioni a lato della pista medesima, atte ad impedire che gli sciatori tagliassero la pista invadendola dai lati, permettendo così a un minore di invadere la pista, saltando da un dente formatosi a bordo pista, così collidendo con altra persona, intenta nello scendere lungo la pista, facendola rovinare a terra e cagionandole una malattia''- furono assolti perché il fatto non costituisce reato, ``sul presupposto che la normativa di cui alla legge della Provincia di Bolzano 23 novembre 2010 non richiederebbe la protezione delle piste, essendo volta soltanto a tutelare lo sciatore da possibili uscite di pista con conseguente collisione con ostacoli esterni''. La Sez. IV annulla con rinvio l'assoluzione: ``La normativa provinciale richiamata che, al comma 1, delimita il suo campo di applicazione alla disciplina, fra l'altro, della sicurezza e del comportamento degli utenti delle aree sciabili attrezzate ed alla gestione delle aree sciabili attrezzate per garantire la sicurezza prevede espressamente oltre all'obbligo di delimitazione (art. 3, comma 1: le piste da sci sono delimitate lateralmente a cura del gestore dell'area sciabile attrezzata, in modo tale da rendere chiaramente visibile il tracciato ed il confine tra area sciabile attrezzata ed area non attrezzata, anche in condizioni di scarsa visibilità)anche quello di protezione (art. 3, comma 3: I'area adiacente ai bordi delle piste è adeguatamente protetta contro pericoli atipici a cura del gestore dell'area sciabile attrezzata)''. Del resto la colpa omissiva deve ancorarsi ad un obbligo giuridico che non è necessariamente vincolato all'esistenza di una norma o regola dettata da fonte pubblicistica o privatistica, ma può derivare anche dall'attività propria dell'obbligato in quanto possibile fonte di pericolo. Il gestore dell'impianto e delle piste servite ha infatti a suo carico l'obbligo della manutenzione in sicurezza delle piste medesime che gli deriva altresì dal contratto concluso con lo sciatore che utilizza l'impianto. Il pericolo da prevenire, oggetto della posizione di garanzia, non è quindi solo quello interno alla pista: ed invero l'obbligo di protezione che è proiezione della posizione di garanzia riguarda anche i pericoli atipici, cioè quelli che lo sciatore non si attende di trovare, diversi quindi da quelli connaturati a quel quid di pericolosità insito nell'attività; certo, deve escludersi che un tale obbligo di protezione si possa dilatare sino a comprendervi i cd. pericoli esterni, ma, nondimeno, il gestore, nel caso in esame, doveva prevenire quei pericoli fisicamente esterni alle piste, ma cui si poteva andare incontro anche in caso di comportamento imprudente di terzi. Quel passaggio fuori pista era particolarmente pericoloso, stante la presenza del dente che ne consentiva l'utilizzo come trampolino per immettersi perpendicolarmente nella pista, con evidente (e prevedibile) rischio per gli sciatori ivi presenti. La pericolosità di quel passaggio era nota agli imputati o comunque essi avevano l'obbligo di esserne a conoscenza in quanto afferente, comunque, alla gestione della pista, con la conseguente necessità di apprestare le dovute protezioni o comunque di segnalare la situazione di rischio che poteva determinarsi per i fruitori della pista stessa, attesa la particolare conformazione dei luoghi. Sul punto questa Corte ha ritenuto sussistente, in capo al gestore di impianti sciistici, l'obbligo di porre in essere ogni cautela per prevenire i pericoli anche esterni alla pista ai quali lo sciatore può andare incontro''.
(V., altresì, su casi di scontro tra sciatori, Cass. 22 maggio 2018, n. 22787; Cass. 18 aprile 2018, n. 17367; Cass. 9 marzo 2017, n. 1142; Cass. 31 luglio 2015, n. 33819; Cass. 29 maggio 2014, n. 22287; per un incidente con lo snowboard, Cass. 28 aprile 2015, n. 17692; Cass. 18 dicembre 2014, n. 52666; Cass. 10 novembre 2014, n. 46326; per un caso di ribaltamento su motoslitta Cass. 4 settembre 1914, n. 36920; circa la posizione di garanzia del responsabile di un polo sciistico per la mancanza di reti di protezione lungo le piste da sci Cass. 30 maggio 2014, n. 22662; circa la delega sulle piste da sci v. Cass. 9 luglio 2018, n. 30927, sub art. 16, par. 32; per la condanna di due sciatori che l'uno praticando lo sci e l'altro lo snowboard cagionavano la caduta di valanghe Cass. 2 aprile 2019, n. 14263).
La Corte Suprema ha avuto occasione di occuparsi di sicurezza del lavoro anche nel mondo dello spettacolo (per la condanna del presidente di un'associazione culturale per le lesioni subite da un figurante per l'uso di un petardo esploso nell'ambito di uno spettacolo di ricostruzione storica Cass. 14 dicembre 2018, n. 56308; su un infortunio accaduto in discoteca Cass. 22 marzo 2018, n. 13328; per un'ipotesi d'incendio e crollo parziale in un teatro Cass. 8 marzo 2018, n. 10556; per un caso di crollo in un teatro Cass. 1° ottobre 2012, n. 37988; e per un caso di caduta in un cinema, Cass. 3 ottobre 2011, n. 35804; cfr. pure Cass. 9 agosto 2019, n. 35934):
Nel corso dell'allestimento della scenografia di uno spettacolo a teatro, un lavoratore cade ``nell'apertura della buca d'orchestra, profonda 2,5 metri, che si trovava sul palcoscenico di un teatro ed era priva di adeguata protezione, mentre stava trasportando un baule''. La Sez. IV conferma la condanna di tre imputati: il datore di lavoro della s.r.l. esercente la gestione del teatro, la legale rappresentante datore di lavoro della s.a.s, che aveva stipulato con la s.r.l. un accordo di rappresentanza teatrale per la messa in scena di uno spettacolo musicale, il datore di lavoro della ditta di cui era dipendente l'infortunato e che aveva ricevuto in subappalto i lavori di facchinaggio necessari per l'allestimento del teatro. Colpa consistente nella violazione dell'art. 26, D.Lgs n. 81/2008 per aver omesso ``di cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dei rischi sul lavoro, di provvedere ad un'opportuna e necessaria dettagliata informazione reciproca riguardante gli specifici rischi dell'ambiente di lavoro, con particolare riferimento al pericolo di caduta dall'alto dei lavoratori operanti sul palcoscenico del teatro a ridosso della buca di orchestra e a porre in essere un sistema coordinato di misure di protezione contro tale rischio, per rendere sicuro il movimento ed il transito dei lavoratori che vi operavano''.
Questo il caso inedito: un committente e responsabile dei lavori viene condannato per la violazione dell'art. 90, D.Lgs. n. 81/2008, per ``non aver designato il coordinatore per la sicurezza nell'ambito di un cantiere per la realizzazione di un palcoscenico per concerto musicale''. La Sez. III annulla la condanna. Premette che l'art. 88 D.Lgs. n. 81/2008 - come novellato dal D.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98, stabilisce che le disposizioni di cui al titolo IV dello stesso testo (compreso, quindi, l'art. 90) si applicano agli spettacoli musicali, cinematografici e teatrali e alle manifestazioni fieristiche tenendo conto delle particolari esigenze connesse allo svolgimento delle relative attività, individuate con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro della salute, sentita la Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, che deve essere adottato entro il 31 dicembre 2013. Prende atto che ``tale decreto è stato poi emanato il 22 luglio 2014, e per l'appunto prescrive - all'art. 2, capo 1 (Spettacoli musicali, cinematografici, teatrali) - che le disposizioni di cui al citato titolo IV trovino esecuzione, `ai fini della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, alle attività di montaggio e smontaggio di opere temporanee, compreso il loro allestimento e disallestimento con impianti audio, luci e scenotecnici, realizzate per spettacoli musicali, cinematografici, teatrali e di intrattenimento, fatte salve le esclusioni di cui al comma 3' (ossia, attività: a) funzionali allo svolgimento di spettacoli che si svolgono al di fuori del montaggio e smontaggio di opere temporanee di cui all'articolo 1, comma 3; b) di montaggio e smontaggio di pedane di altezza fino ai 2 m rispetto a un piano stabile, non connesse ad altre strutture o supportanti altre strutture; c) di montaggio e smontaggio di travi, sistemi di travi o graticci sospesi a stativi o a torri con sollevamento manuale o motorizzato, il cui montaggio avviene al suolo o sul piano del palco e la cui altezza finale rispetto a un piano stabile, misurata all'estradosso, non superi 6 m nel caso di stativi e 8 m nel caso di torri; d) di montaggio e smontaggio delle opere temporanee prefabbricate, realizzate con elementi prodotti da un unico fabbricante, montate secondo le indicazioni, le configurazioni e i carichi massimi, previsti dallo stesso, la cui altezza complessiva rispetto a un piano stabile, compresi gli elementi di copertura direttamente collegati alla struttura di appoggio, non superi 7 m)''. Ne desume che, ``con riguardo a condotte (omissive) tenute il 2012 nell'allestimento di un palco per concerto, non poteva trovare applicazione la disciplina di cui al citato titolo IV del D.Lgs. n. 81/2008, espressamente estesa anche alla specifica materia che occupa soltanto con il D.L. n. 69/2013, successivamente attuato con il decreto interministeriale richiamato''.
``Nel corso della notte, durante una manifestazione, uno spettatore cadeva da un bastione del Forte Belvedere in Firenze. La vittima precipitava all'interno di una `cannoniera' (cioè uno spazio vuoto inserito tra due terrapieni di uguale aspetto ed altezza, delimitati da camminamenti del tutto simili), mentre si spostava da un terrapieno all'altro ignorando la presenza di tale vuoto non segnalato né adeguatamente visibile a causa dell'ora notturna e della particolare conformazione dei luoghi. Nei confronti dell'assessore alla cultura del comune, è stato ritenuto l'addebito di aver consentito lo svolgimento di attività di pubblico spettacolo all'aperto negli spazi del Forte fino alle tre della notte, in una situazione incompatibile con le caratteristiche della struttura e con la tipologia di uso che era stata predisposta. Si è ritenuto in particolare che la struttura non fosse stata adeguata alle esigenze di sicurezza in conseguenza dei pericoli già segnalati negli anni precedenti e collegati anche ad incidenti occorsi a due cani sempre nella medesima, pericolosa zona. Si è reputato altresì che il luogo costituiva una vera propria insidia soprattutto per chi non conosceva i luoghi e la conformazione degli spalti, a causa della scarsissima illuminazione, dell'altezza dei camminamenti e dei bassi muretti. In breve, chi si trovava su un terrapieno, in una situazione di scarsa visibilità, non immaginava che al di là del camminamento vi fosse un precipizio''. Per dichiarando prescritto il reato di omicidio colposo, la Sez. IV osserva: ``Per ciò che attiene all'aggravante inerente alla violazione della normativa sulla sicurezza del lavoro, il caso impone di comprendere se si fosse in luogo di lavoro e se nell'incidente si sia concretizzato il rischio lavorativo. A mente dell'art. 62 D.Lgs. n. 81/2008, sono luoghi di lavoro quelli destinati ad ospitare posti di lavoro, ubicati all'interno dell'azienda o dell'unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell'azienda o dell'unità produttiva accessibile al lavoratore nell'ambito del proprio lavoro. Ai fini della individuazione dei soggetti gravati da obblighi prevenzionistici, la identificazione di uno spazio quale luogo di lavoro non può prescindere dalla identificazione del plesso organizzativo al quale lo spazio in questione accede. Lo si ricava dalla definizione legale che prevede un collegamento di ordine spaziale o almeno pertinenziale tra l'azienda o l'unità produttiva e il luogo di lavoro. E lo implica la logica stessa della normativa prevenzionistica, che attribuisce obblighi prevenzionistici a colui che è titolare di poteri organizzativi e decisionali che trovano nei luoghi di lavoro l'ambito spaziale e funzionale di estrinsecazione. Ogni tipologia di spazio può assumere la qualità di `luogo di lavoro'; a condizione che ivi sia ospitato almeno un posto di lavoro o esso sia accessibile al lavoratore nell'ambito del proprio lavoro. In particolare, può trattarsi anche di un luogo nel quale i lavoratori si trovino esclusivamente a dover transitare, se tuttavia il transito è necessario per provvedere alle incombenze affidate loro. Al contrario, non costituisce luogo di lavoro il sito nel quale un qualsiasi soggetto, che è anche prestatore d'opera in favore di taluno, si trovi a transitare. Vi è correlazione tra la nozione di `luogo di lavoro' e la specifica organizzazione imprenditoriale alla quale esso accede in funzione servente; correlazione che deriva dalla necessità che si tratti di ambito spazio-funzionale governato dalle figure istituzionali del sistema prevenzionistico. Dunque, conclusivamente, la indicata relazione spaziale e funzionale vale ad individuare il luogo di lavoro. A ciò va aggiunto che l'indicato ambito spaziale cui si connettono gli obblighi prevenzionistici non individua sempre e comunque una violazione cautelare come inosservanza della disciplina sulla sicurezza del lavoro. Occorre che l'inosservanza attenga ad una regola propria del sistema prevenzionistico; e che la violazione abbia avuto rilievo, nei reati di evento, nell'ambito di un accadimento in qualche guisa riconducibile ad una manifestazione dell'attività lavorativa. In breve, è necessario che nell'accadimento si sia manifestato il rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare. Nel sito nel quale si è verificato l'incidente non era in atto alcuna attività lavorativa: lo spettacolo notturno si svolgeva in altra, distinta area. D'altra parte, il rischio che si è concretizzato è quello di precipitazione notturna; e dunque tutt'affatto diverso da quello lavorativo. Dunque, correttamente è stata esclusa la discussa aggravante. Quanto alla posizione di garanzia afferente al ruolo di assessore dell'amministrazione comunale, all'interno del Forte del Belvedere era presente un rischio di precipitazione nel vuoto dovuto alla conformazione della storica architettura; e tale rischio era enfatizzato insidiosamente nelle ore notturne. Il rischio era ben noto all'assessore che lo gestiva concretamente e personalmente per ciò che attiene alle scelte di fondo afferenti alla sistemazione del manufatto ed alle modalità della sua utilizzazione. L'imputato era gestore del rischio, al più alto livello afferente alle scelte di fondo in ordine alla gestione del bene; rischio che aveva preso corpo ed aveva assunto una peculiare configurazione in relazione al programmato svolgimento di spettacoli notturni ed al rischio dovuto all'inefficace illuminazione di alcune zone degli spalti. È ben vero che nella gestione del rischio era coinvolto anche il livello tecnico dell'organizzazione comunale. Tuttavia, il rischio si è concretizzato ad un livello che coinvolge le scelte di alta amministrazione o se si vuole latamente politiche di cui l'assessore aveva la responsabilità. Dunque la presenza di responsabilità concorrente al livello dirigenziale non è, in prima approssimazione, in grado di esonerare da responsabilità l'imputato. La delibera di giunta che autorizzò l'utilizzazione del Forte per gli spettacoli notturni fu preparata e presentata dall'imputato nei cui confronti non può certo venir meno l'imputazione per il fatto che tale iniziativa istruttoria sia stata poi trasfusa in un atto collegiale della giunta cui aderirono altri assessori che, evidentemente, non erano stati in condizione di compiere approfondimenti ulteriori rispetto a quelli esperiti dall'assessore competente. Sebbene fossero stati compiuti lavori di risistemazione degli spalti e dei luoghi ritenuti più pericolosi, la zona in cui avvenne la caduta non era protetta. Ciò avrebbe richiesto di cautelare diversamente il rischio con l'adozione di misure volte ad impedire l'accesso alle aree più rischiose. A tale riguardo entra in questione il ruolo svolto dagli organismi tecnici che ispezionarono i luoghi e diedero assicurazioni in ordine alla sicurezza. Le ispezioni compiute erano avvenute di giorno e non avevano dunque avuto modo di valutare il rischio notturno. D'altra parte, la commissione sui pubblici spettacoli che aveva ispezionato il sito aveva redatto un atto che mostra chiaramente che l'indagine sulla sicurezza era stata esplicitamente confinata all'area in cui avveniva lo spettacolo ed alle installazioni ad esso pertinenti. Nessun apprezzamento dunque tale cruciale documento recava in ordine alla sicurezza della zona della cannoniera ed in genere degli spalti''.
``Il proprietario di una giostra denominata `tappetino' o `Jamaica', per colpa consistita nell'aver fatto eseguire a un lavoratore la riparazione della giostrina denominata `Jamaica' mentre la macchina era in movimento e, comunque, senza predisporre adeguate misure di sicurezza atte ad inibire l'accesso agli organi pericolosi in movimento, cagionava la morte del predetto lavoratore, intento ad eseguire la riparazione della giostrina e colpito alla nuca da un elemento pericoloso in moto. L'imputato, quale datore di lavoro, era in condizione, dal luogo in cui si trovava a manovrare la giostra, di vedere di fronte a sé il lavoratore e quindi, anche se l'iniziativa di andare a riparare il macchinario fosse stata del lavoratore, di fermare la giostra. La giostra in questione non mostrava transenne o altra sovrastruttura idonea ad impedirne l'accesso nella parte esclusa agli avventori. Il dispositivo per il gettito del fumo era posto in una zona pericolosa della giostra sottostante la pedana oscillante ed era azionabile da un pulsante posto su una consolle della cabina di controllo posizionata a lato della giostra. Si trattava di una zona priva di barriere idonee ad impedire l'accesso sia agli avventori o ad estranei all'organizzazione della giostra e risultava, peraltro, quest'ultima del tutto priva di qualsiasi dispositivo atto a bloccare automaticamente il movimento in caso di intrusione in zone pericolose da parte di chiunque. Con ciò si violava la normativa di cui all'art. 375, D.P.R. n. 547/1955 [e ora Allegato V, punto 11, D.Lgs. n. 81/2008], laddove si prescrive, in particolare, che, per l'esecuzione di lavori di riparazione o manutenzione di qualsiasi macchinario - da effettuarsi unicamente ad impianto fermo - debbano essere previste ed adottate misure di sicurezza idonee ad evitare pericoli per chi effettui i lavori di riparazione o manutenzione. Inoltre, la giostra in questione, pur non rientrando nella tipologia di macchinari soggetti alla normativa prevista dal D.P.R. n. 459/1996, imponeva al produttore ex D.Lgs. n. 115/1995 la sicurezza strutturale del macchinario ed al giostraio invece l'onere di predisporre ex art. 35, D.Lgs. n. 626/1994 [e ora art. 71, D.Lgs. n. 81/2008] presidi antinfortunistici idonei a garantire la sicurezza dei lavoratori e di terzi avventori e segnaletica atta a segnalare il possibile pericolo. L'imputato aveva del tutto omesso di effettuare il preventivo piano di valutazione dei rischi, avendo predisposto solo alcune transenne amovibili ai lati della giostra (peraltro finalizzate ad altro, e nello specifico ad indirizzare gli avventori verso la cabina anche per pagare il biglietto di ingresso) senza alcuna reale funzione di prevenzione e sicurezza per i lavoratori''. (V. anche sub art. 23, par. 10).
Sulla applicazione del D.Lgs. n. 81/2008 a ``Stuntmen'' e ``addetto effetti speciali'' v. Interpello n. 6 del 2 maggio 2013. Circa l’infortunio accaduto a minore di anni cinque in un parco giochi Cass. 20 luglio 2023 n. 31544.
Il pilota di un ultraleggero è condannato per i delitti di omicidio e di disastro aviatorio colposi, perché durante la fase di atterraggio aveva sorvolato la zona urbana e si era schiantato al suolo all'altezza di un viale cittadino, con conseguente decesso della passeggera: ``colpa generica per avere egli errato la manovra di riattaccata e per avere posto in essere, dimentico della natura e le potenzialità del mezzo ultraleggero, un'operazione destinata a fallire a causa della eccessiva vicinanza del mezzo al suolo, e colpa specifica per avere egli violato la normativa di regolamentazione del traffico aeroportuale''; ``l'ultraleggero era caduto a ridosso di un agglomerato di abitazioni, la caduta era avvenuta perché il pilota aveva violato la norma che gli imponeva di stare a distanza dall'aeroporto di almeno 5 chilometri e di volare a quota di almeno 500 piedi e con imprudenza e imperizia aveva tentato la riattaccata ad una distanza dal suolo troppo esigua''; ``ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all'art. 449, comma 2, c.p., per `caduta' di un aeromobile deve intendersi non solo quella del mezzo che, essendo in esclusiva balìa della forza di gravità, sia ingovernabile e precipiti, ma anche quella derivante da una manovra errata dal pilota, tale da determinare fattori di alterazione del normale assetto di volo (quali la velocità eccessiva, la quota bassa di navigazione aerea, l'angolo di discesa scorretto), che rendano non più governabile la traiettoria ed inevitabile l'impatto del velivolo con il suolo in un luogo diverso da quello voluto e previsto, in condizioni da cagionare il pericolo per la pubblica incolumità delle persone trasportate e di terzi''; ``con riguardo alla ipotizzata violazione dell'art. 3 Cost. per la disparità di trattamento sanzionatorio previsto in caso di incidente cagionato dal pilota di aeromobile rispetto a quello previsto in caso di incidente realizzato dal conducente di veicolo terrestre, basta rilevare che le situazioni prese in esame sono differenti: è proprio nella potenziale offensività, in ragione dei mezzi coinvolti (aeromobili, convogli ferroviari e navi) per loro natura capaci di accogliere un elevato numero di persone e di dimensioni notevoli, dei casi elencati nell'art. 449, comma 2, c.p., che deve individuarsi l'elemento differenziale tale da giustificare il trattamento sanzionatorio più grave''.
Per il decesso del pilota istruttore e dell'allieva pilota di un aeromobile caduto, la Sez. IV conferma l'assoluzione del legale rappresentante della ditta proprietaria del velivolo, il capo controllo e responsabile della gestione tecnica di tale ditta, e un funzionario dell'ENAC. E ciò perché si ravvisò ``la causa della precipitazione dell'aereo nella criticità della situazione indotta dallo stallo verificatosi nel corso della riattaccata in volo strumentale, e nel conseguente disorientamento spaziale del pilota, anche in relazione alle condizioni meteo di assenza di visibilità nella zona teatro dell'evento'', e non dunque nel ``malfunzionamento dell'orizzonte artificiale dell'aereo per mancata sostituzione del filtro dell'aria dell'apparato giroscopico''.
Al centro di questa sentenza un disastro aviatorio del 6 agosto 2005: in seguito allo spegnimento dei motori propulsori, un velivolo adibito al trasporto passeggeri nella tratta Tunisi-Bari-Djerba tenta l'ammaraggio nelle acque antistanti la costa di Palermo, e per la violenza dell'impatto con la superficie del mare si rompe in tre tronconi. Sedici i morti, tra passeggeri e membri dell'equipaggio, e feriti gli altri trasportati. Sette i condannati per disastro aviatorio colposo, omicidio colposo plurimo, e lesioni personali colpose aggravate: oltre al comandante e al copilota, alcuni esponenti della società proprietaria del velivolo: il direttore generale, il direttore tecnico preposto alle attività di manutenzione, il responsabile del reparto manutenzione, il capo-squadra in tale reparto, il meccanico che aveva curato l'istallazione di un apparecchio misuratore del carburante sul velivolo. La Sez. IV rileva nel caso di specie ``la presenza di carenze organizzative di natura radicale (assenza di un manuale generale proprio della compagnia, messa in esercizio di un software senza che il personale chiamato ad utilizzarlo avesse avuto idonea formazione per l'assenza di licenza d'uso, mancanza di un controllo di qualità delle procedure di manutenzione): carenze strutturali rispetto alle quali il fatto che fossero state costituite squadre di operatori alla cui testa era posto un capo dotato di adeguate competenze professionali, che l'intera struttura facesse capo a un direttore tecnico dotato dei necessari requisiti professionali ed infine che le operazioni coinvolte nella vicenda in esame non fossero particolarmente complesse, quand'anche fosse stato accreditato dall'accertamento processuale, non è in grado di esprimere alcuna efficacia compensativa''. E rileva ``la concreta riconducibilità della disorganizzazione aziendale al direttore generale della compagnia''. Spiega che, ``nell'ambito di una compagnia aerea l'organizzazione del servizio e reparto manutenzione degli aerei riveste una fondamentale importanza e rilevanza tale da non poter essere delegato esclusivamente a figure di secondo profilo'', e che, ``trattandosi di attività di trasporto di vite umane, l'inadeguata organizzazione del servizio manutenzione non può essere attribuito esclusivamente agli organi tecnici ma in quanto investe profili di responsabilità per l'intera società è direttamente incombente sui suoi vertici''. Sottolinea che ``tali affermazioni sono del tutto in linea con l'insegnamento di questa Corte in ordine alle condizioni di esonero del vertice nell'ambito delle organizzazioni complesse'', e che ``i principi di diritto espressi al riguardo evidenziano la necessità di mantenere ferma la relazione tra potere decisionale e responsabilità penale, di talché questa può investire anche soggetti non ricompresi nel vertice societario, quando ad essi siano stati trasferiti i poteri necessari a tenere la condotta doverosa''. Ne desume che, ``ad assumere rilievo, è la `qualità' del potere decisionale richiesto dalla condotta doverosa, direttamente proporzionale al grado di rilevanza strategica per la vita dell'impresa del comportamento che deve esser tenuto'', e che, ``in assenza della prova di adeguate ed efficaci deleghe di funzioni, quanto più la condotta doverosa è incidente sulla vita della compagine sociale - e quindi quanto più implica l'esercizio di poteri di particolare ampiezza - tanto più la sua omissione va ricondotta ai vertici societari''.
Il direttore di una scuola di volo utilizzatrice di un velivolo ultraleggero a motore fu condannato per il reato di omicidio colposo per aver ``indebitamente consentito un volo sportivo nel corso del quale l'apparecchio precipitava al suolo a causa del distacco dell'ala sinistra, determinando la morte del pilota'', con l'addebito ``di non aver eseguito alcuna manutenzione dell'aeromobile, di non aver previsto nella check-list da eseguire prima di ciascun volo l'ispezione degli spinotti di aggancio delle ali alla fusoliera; di non aver eseguito alcun controllo sullo stato degli stessi spinotti; di non aver correttamente istruito il pilota sulle modalità di esercizio del controllo sull'aggancio in questione e di aver delegato lo stesso controllo al pilota che era privo di adeguate conoscenze''. A propria discolpa, l'imputato deduce che, ``ai sensi dell'art. 876 del codice della navigazione, in mancanza della dichiarazione di esercenza debitamente resa pubblica, esercente si presume il proprietario sino a prova contraria; e conseguentemente nessun addebito può essere mosso all'imputato che non era proprietario del velivolo, di cui era invece proprietaria la società''; che ``la corretta manutenzione del velivolo gravava esclusivamente sulla società proprietaria''; e che è ``obbligo del pilota, previsto dall'art. 1 del D.P.R. n. 404/1988, di accertarsi personalmente dell'efficienza dell'apparecchio'', sicché ``lo stesso pilota avrebbe dunque dovuto preventivamente accertarsi che il volo potesse svolgersi in piena sicurezza, e, in particolare, verificare il corretto posizionamento degli spinotti e la loro frenatura''. Questa la replica della Sez. IV: ``Per ciò che attiene alla discussa veste di esercente gravante sull'imputato, l'art. 876 del codice della navigazione reca la presunzione di tale ruolo nei confronti del proprietario, che può essere tuttavia vinta da prova contraria. Da ciò si desume che la trascrizione nei registri non è affatto costitutiva, in quanto può essere superata, a vantaggio del proprietario, dalla prova di una diversa realtà dei fatti. Tale prova deve essere ampiamente ammessa laddove, come nel caso degli aerei ultraleggeri, non vi sia nemmeno la possibilità di trascrivere la dichiarazione di esercente, non essendo stato istituito un apposito registro. Quanto alla prova in questione, si è ritenuta significativa la missiva con la quale la società proprietaria del velivolo ha comunicato di aver ceduto in uso l'aeromobile alla società di cui l'imputato era il legale rappresentante, insieme ad altri tre velivoli; e l'esercente doveva dunque risponderne ai sensi dell'art. 878 del codice della navigazione. È d'altra parte evidente che sullo stesso esercente incomba l'obbligo di manutenzione. Si considera altresì che è del tutto assurdo affermare che incomba sul pilota l'obbligo di manutenzione o di verifica della efficienza del mezzo, giacché costui è responsabile del singolo volo e non della gestione complessiva del mezzo. Lo stesso pilota ha d'altra parte la più che legittima aspettativa che l'esercente abbia correttamente adempiuto all'obbligo di manutenzione. L'imputato era assolutamente consapevole degli obblighi che su di lui incombevano. Tale significativa circostanza si desume da alcuni documenti: la raccomandazione ricevuta dall'Aeroclub d'Italia di tener aggiornato il libretto degli apparecchi anche per la parte relativa alla manutenzione; inoltre una missiva a firma dell'imputato con la quale si trasmetteva all'Aeroclub il regolamento della scuola, nel quale si specificava che l'istruttore controllava gli apparecchi prima di ogni volo e comunque ne curava la manutenzione; ed ancora altro documento con cui l'imputato compilava la scheda della scuola di volo facendo figurare come addetto alla manutenzione persona che ha invece negato di essere mai stata addetta a tale incombenza''. D'altra parte, la sentenza reca una lettura riduttiva delle fonti dell'obbligo di garanzia che fonda l'obbligo manutentivo e radica la responsabilità per omissione. A ben vedere l'obbligo in questione non emerge solo dalla veste di esercente. Invero, la sfera di responsabilità che la normativa citata, e segnatamente l'art. 878, connette alla veste di esercente riguarda i fatti dell'equipaggio e le obbligazioni contratte dal comandante per quanto riguarda l'aeromobile e la spedizione. La norma, dunque non esaurisce per nulla la complessa, multiforme sfera di responsabilità incombente sul gestore dell'aeromobile. Questa Corte (Sez. IV, 22 maggio 2007, Conzatti) ha avuto modo di esaminare diffusamente il tema delle fonti dell'obbligazione di garanzia, sottolineando che nel presente si è fondatamente radicata nella cultura giuridica una visione mista, integrata, che coniuga quelle formali con quelle fattuali. È qui da rimarcare che l'obbligo di garanzia trova nel caso in esame fonte, in primo luogo, nell'atto negoziale tra il gestore della scuola e le persone cui l'aeromobile veniva affidato. Ancor di più rileva però, in fatto, che l'obbligo in discussione è strettamente legato alla gestione dell'attività di volo, che implica la gestione del rischio connesso. Gestione di un'attività rischiosa e responsabilità per la gestione dei pericoli tipicamente ad essa connessi sono tra loro strettamente legati: gestione, rischio e responsabilità sono logicamente, funzionalmente intrecciati in modo indissolubile. Se così non fosse il rischio sarebbe inaccettabilmente privo di governo; e renderebbe privo di ogni plausibilità, inaccettabile, l'esercizio dell'attività. Il rischio è normalmente consentito quando esso è gestito in conformità alle formali prescrizioni contenute in alcuna disciplina di settore o quando, in assenza, è mantenuto entro una misura accettabile attraverso l'adozione di misure di cautela suggerite dalle prassi virtuose nell'ambito specifico, o da primordiali regole di prudenza. Nel caso di specie non vi è dubbio che la gestione del rischio è stata estesa in modo abnorme oltre la sfera del consentito, a seguito della radicale omissione di qualunque cautela manutentiva. Parimenti si considera paradossale la pretesa che il pilota dovesse farsi carico di verifiche strutturali e manutentive che, invero con tutta evidenza, gravavano sul soggetto che gestiva il velivolo. Lo stesso pilota poteva fare legittimo affidamento sull'esecuzione delle necessarie attività di controllo e manutenzione. E d'altra parte, ove pure si volesse ritenere, in chiave meramente argomentativa ed ipotetica, un obbligo di esercitare un qualche controllo di massima, la violazione di tale dovere non potrebbe certo cancellare la colpa macroscopica e del tutto cosciente evidenziata dalla Corte di merito, concretatasi nella deliberata omissione di qualunque atto manutentivo da parte dell'imputato.
Sulla collisione in volo tra un aereo e un elicottero Cass. 18 ottobre 2022 n. 39127. Per un caso di omessa revisione del velivolo da parte del venditore e del suo mandatario, v. Cass. 8 giugno 2012, n. 22349; circa il disastro aviatorio, Cass. 31 luglio 2015, n. 33804; Cass. 13 dicembre 2012, n. 48234; Cass. 21 settembre 2012, n. 36639. Per un caso di lesioni subite da una passeggera a bordo di un aereo ultraleggero schiantatosi a terra Cass. 13 settembre 2018, n. 40784. Quanto al produttore di velivoli v. Cass. 23 settembre 2013 n. 39157, sub art. 23, par. 8. Circa lo sport del paracadutismo Cass. 23 agosto 2022 n. 31479 che conferma la condanna di due istruttori per il decesso di un allievo.
La Sez. IV affronta un'ipotesi in cui la titolare di uno studio professionale ricorre contro l'assoluzione perché il fatto non costituisce reato dal delitto di lesione personale colposa in danno di una persona che, nel recarsi presso lo studio, cadeva. (La sentenza è riportata più ampiamente sub art. 61, par. 44).
Di palese rilievo l'analisi svolta a proposito di una R.S.A. da:
Il legale rappresentante di una s.p.a. è condannato per omicidio colposo in danno di un ospite della casa di riposo per colpa generica consistente ``nell'omessa adozione di tutte le misure necessarie, atte ad assicurare un maggiore e più efficace controllo dell'ospite all'interno della struttura, senza essersi rifiutato di accettare una permanenza dell'ospite in quella struttura rivelatasi non idonea e non sufficientemente contenitiva, nonostante le condizioni psicofisiche del soggetto derivanti dalla sua patologia, la sua intolleranza alla struttura, episodi di vagabondaggio all'interno e tre tentativi di fuga''. Nel confermare la condanna, la Sez. IV osserva: ``L'imputato aveva lasciato `carta bianca' ai propri sottoposti in ordine all'espletamento delle più svariate attività, anche di carattere non strettamente organizzativo, in assenza di qualsivoglia forma di monitoraggio e controllo; la mancata conoscenza, in capo al predetto, delle problematiche che affliggevano l'ospite; il totale disinteresse del ricorrente verso le problematiche della RSA''. ``Va ricordato il principio giurisprudenziale, secondo cui, affinché si configuri la responsabilità del procuratore e delegato di una RSA per violazione degli obblighi di garanzia nei confronti degli anziani, non è sufficiente l'esistenza di una procura generale in materia antinfortunistica, essendo necessaria l'attribuzione e l'effettivo esercizio di poteri relativi alla specifica area di rischio della gestione e della protezione dei pazienti''.
I rispettivi legali rappresentante di una s.r.l. di gestione di una RSA e di una cooperativa assegnataria del servizio di continuità assistenziale, emergenza, sicurezza e cure dei pazienti all'interno della RSA sono condannati per omicidio colposo ai danni di un paziente incapace di provvedere a se stesso per malattia fisica e mentale. Addebito: ``aver lasciato senza presidio il piano ove si trovava il paziente, impiegando un numero di operatori socio-assistenziali inadeguato alle esigenze e alla logistica della struttura e alle condizioni psicofisiche dei pazienti e, in ogni caso, insufficiente ad assistere e vigilare i pazienti, omettendo di emanare direttive e ordini per disciplinare l'accompagnamento e l'afflusso degli ospiti in sala da pranzo'', e ``aver omesso di vigilare sullo svolgimento del servizio e, in particolare, non aver previsto, quantomeno nelle aree comuni e nei corridoi, sistemi di videosorveglianza atti a integrare l'attività di vigilanza approntata dagli operatori''. Con la conseguenza che, ``dopo che le operatrici si erano allontanate per accompagnare altri ospiti al piano terra, il paziente, utilizzando una sedia a rotelle ad auto spinta, era uscito dalla sua camera, posta al secondo piano, accedendo alla porta antincendio del pianerottolo e precipitando dalle scale'', (con riguardo a un caso di suicidio in altra RSA, Cass. 26 settembre 2022 n. 36039 dichiara prescritto l'omicidio colposo, ed esclude la sussistenza del reato di abbandono di incapaci di cui all'art. 591 c.p.).
Un paziente di 96 anni ricoverato al secondo piano di una R.S.A. raggiunge con una carrozzina il cancelletto di accesso alla scala, lo apre e cade fino al pianerottolo intermedio. Per la sua morte, oltre ad essere condannato con patteggiamento l'amministratore della R.S.A., vengono dichiarati colpevoli il procuratore delegato in materia antinfortunistica figlio dell'amministratore e la preposta al secondo piano. Ma la Sez. IV ne annulla la condanna con rinvio: ``La procura conferiva poteri di assunzione, licenziamento determinazione di mansioni e compensi del personale dipendente; di sottoscrizione dei contratti con i fornitori; di compiere tutti gli atti necessari e/o opportuni per il conseguimento dei fini di cui alle norme di prevenzione degli infortuni, incendi ed igiene del lavoro fissati dalle vigenti leggi in materia e di rappresentare la società presso uffici, enti ed autorità. L'investitura collegata a tele atto non valeva ancora a configurare in capo al procuratore la qualifica di vero e proprio amministratore, dovendosi verificare in concreto prove significative e concludenti dello svolgimento di funzioni direttive nella struttura, in relazione al suo specifico ambito di operatività, anche a mezzo dell'attivazione dei poteri conferiti con la procura stessa. In particolare doveva essere indagato l'esercizio in concreto, da parte dell'imputato, di funzioni e poteri impeditivi in relazione alla area di rischio rappresentata dalla gestione dei pazienti, ovvero all'area della protezione dei pazienti rispetto ai rischi cui i pazienti stessi erano esposti. La mancata chiusura a molla della serratura del cancelletto era volto a prevenire il rischio che il cancello potesse essere aperto proprio dagli ospiti della struttura, e non già del personale ivi occupato''. Quanto alla preposta: ``Ella aveva il dovere di sovraintendere e vigilare sull'osservanza, da parte dei singoli lavoratori della sua area di competenza, degli obblighi di legge e delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi di protezione, di segnalare tempestivamente alla direzione, RSPP ed RLS sia le deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale, sia le situazioni (strutturali, organizzative ecc.) che richiedono un tempestivo intervento e adeguamento. L' area di rischio affidata alla preposta era quella della vigilanza del rispetto da parte dei lavoratori occupati nel suo piano delle norme volte alla salvaguardia della normativa sulla sicurezza, e non già quella del controllo sulle fonti di pericolo per l'incolumità fisica degli anziani ricoverati''.
``Limitatamente alla valutazione delle esigenze cautelari'', la Sez. IV annulla con rinvio la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di due persone - l'una responsabile, l'altra gestore, di una struttura per anziani - per i reati di cui agli artt. 591 e 589 c.p. ``per colpa consistita nell'aver provocato la diffusione del virus Covid-19 non fornendo ai propri dipendenti adeguati dispositivi di protezione individuale, consentendo l'accesso a terzi, non indossando le mascherine protettive e non vigilando sul loro corretto utilizzo da parte dei soggetti presenti all'interno della struttura, non allertando i sanitari o i parenti dopo aver scoperto di aver contratto il virus''.
Condanna per lesione personale colposa di un'infermiera professionale e di un'operatrice sanitaria in servizio presso una RSA, perché, ``non accudendo con attenzione e cura un'ospite di anni 89, e, comunque non avvedendosi delle ingravescenti condizioni generali di salute della donna ed omettendo le dovute informazioni al medico o ai responsabili della struttura residenziale ovvero al medico di fiducia dell'ospite, le cagionavano lesioni personali gravi, costituite da stato di incoscienza, dispersione di urina, edemi declivi, ulcere da decubito con aree necrotiche, grave compromissione della pressione arteriosa, grave ipernatremia con disidratazione, infezione delle vie urinarie con ematuria e piuria, condizioni che esponevano a pericolo la vita della persona offesa''. Osserva la Sez. IV: ``Come tutti gli operatori di una struttura sanitaria, quale è una R.S.A., l'infermiere - e valga anche per l'operatore sanitario - è ex lege portatore di una posizione di garanzia, espressione dell'obbligo di solidarietà, costituzionalmente imposto dagli artt. 2 e 32 Cost., nei confronti dei pazienti/degenti, la cui salute egli deve tutelare contro qualsivoglia pericolo che ne minacci l'integrità. L'obbligo di protezione perdura per l'intero tempo del turno di lavoro. Non è certo sfuggito il dato costituito dalle gravi carenze strutturati, su più piani, della R.S.A., così come accertato dalle successive indagini amministrative, ma esse non esimevano le imputate da responsabilità. Durante la degenza della persona offesa, l'una risultava in servizio al mattino, l'altra il pomeriggio. A loro viene, in particolare, rimproverato di non aver prestato la dovuta attenzione alle condizioni della persona offesa il cui progressivo degrado, nel corso dei venti giorni da lei trascorsi nella struttura, era tale da poter essere colto anche dai profani. Una volta acclarata la posizione di garanzia ricoperta dall'autore del fatto, eventuali ulteriori condotte o fattori che si innestino nel meccanismo causale sono di regola irrilevanti. Al riguardo, infatti, occorre richiamare il consolidato principio secondo cui, in caso di condotte colpose indipendenti, non può invocare il principio di affidamento l'agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l'affermazione dell'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità e imprevedibilità''. (V. anche su una casa di cura Cass. 16 marzo 2020 n. 10114).
Altre sedi di rilievo:
Per omicidio e incendio colposi furono condannati il presidente del Tiro a Segno Nazionale, Direttore del Poligono T.S.N., e il Direttore di Tiro/Commissario di Tiro del Poligono, per aver cagionato la morte di un tiratore del Poligono e un incendio all'interno del Poligono, per inosservanza delle norme di cui alla ``Direttiva Tecnica per i poligoni chiusi a cielo aperto ed. 2006'', approvata dal Comandante delle scuole dell'Esercito, e di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, ``avendo omesso di predisporre il documento di valutazione dei rischi, nella specie di quello relativo all'incendio e di non aver osservato le disposizioni di cui agli artt. 15 e 18 D.Lgs. n. 81/2008 per non aver adottato le misure necessarie e adeguate alla prevenzione degli incendi (anche quelle previste dal D.M. del 10 marzo 1998 `Criteri generali di sicurezza antincendio e per la gestione dell'emergenza nei luoghi di lavoro') e all'evacuazione dei luoghi in caso d'incendio''.
In pizzeria, un lavoratore, ``utilizzando un tritacarne per potere sminuzzare la mozzarella, al fine di rimuovere un pezzo di mozzarella che aderiva al condotto di alimentazione del macchinario, inseriva un dito al suo interno'' e ``a seguito della ripresa della lavorazione, il macchinario trascinava all'interno del suo ingranaggio le dita della mano sinistra''. Al datore di lavoro fu addebitata ``la violazione degli artt. 70, comma 2, in relazione al punto 6.1, allegato V, del D.Lgs. n. 81/2008 e 18, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 81/2008'', per ``avere messo a disposizione del lavoratore una attrezzatura di lavoro inidonea, in relazione alla sicurezza dei lavoratori e non conforme ai requisiti generali di sicurezza; non avere adottato le misure tecniche ed organizzative necessarie per ridurre al minimo il rischio di lesioni alle mani per i lavoratori adibiti a tali macchine, non risultando munite di adeguati sistemi di protezione al fine di evitare contatti accidentali degli addetti con la coclea in movimento; avere consentito e comunque tollerato l'uso della macchina tritacarne, priva dei suddetti apprestamenti di difesa''.
La legale rappresentate di una cooperativa, ente gestore di una casa albergo per anziani, fu imputata di omicidio colposo in danno di ``due anziane ospiti della struttura, che decedevano in seguito ad intossicazione dovuta ad avvelenamento da monossido di carbonio, sprigionatosi dal fumo dell'incendio di un materasso presente nella stanza ove dormivano''. Tra i comportamenti omessi dall'imputata, ``la efficienza del sistema di rilevazione antincendio che non risultava funzionante nella struttura'', e la cui ``efficienza competeva, in base alla convenzione stipulata, alla ditta a cui era stato affidato l'immobile, dovendo il comune occuparsi della manutenzione straordinaria dell'edificio''.
Un ``devastante incendio della struttura in cui si trovavano 19 pazienti affetti da patologie psichiatriche che vi avevano poi trovato la morte per asfissia seguita da combustione dei corpi''. Al riguardo, la Sez. III conferma la condanna di un assessore del comune per omicidio colposo (con la precedente Cass. 3 giugno 2013 n. 23944, erano già stati definitivamente condannati il sindaco, un tecnico comunale, un ingegnere esterno incaricato della verifica delle strutture e degli impianti tecnologici del fabbricato interessato dall'incendio, e due direttori sanitari del distretto). A propria discolpa, l'assessore sostiene che, essendo ``sprovvisto delle necessarie cognizioni tecniche, non poteva non fare affidamento sulle relazioni redatte da soggetti muniti delle prescritte cognizioni ed addirittura officiati di esaminare la struttura e sviluppare le relative conclusioni''. La Sez. III non accoglie questa tesi difensiva. Premette che ``la struttura in argomento, costituita da un prefabbricato donato a suo tempo dal consolato francese al comune in occasione degli eventi sismici del 1980 e rimasto per anni inutilizzato, era stata destinata nel lontano 1996, in forza di una delibera della giunta municipale, ad ospitare pazienti dimessi dagli ospedali psichiatrici, cui era seguita pochi mesi dopo altra delibera con la quale si affidava detta struttura alla A.S.L.'', che, ``successivamente, la struttura era stata sottoposta a verifiche da parte della commissione tecnica regionale che aveva constatato numerose inadeguatezze tecniche e soprattutto la specifica inidoneità dell'impianto antincendio'', che, ``ciò nonostante il comune, su esplicita richiesta della A.S.L. competente, veniva sollecitato al rilascio del certificato di agibilità e del certificato di autorizzazione sanitaria per l'utilizzazione mirata della struttura suddetta'', che ``il certificato di agibilità veniva rilasciato dall'assessore, anche sulla base di una verifica tecnica operata dall'ingegnere esterno, condannato al pari del tecnico comunale che aveva suggerito il conferimento dell'incarico ad un tecnico esterno, onde accertare le condizioni della struttura in vista del rilascio del certificato di agibilità e soprattutto al fine di garantire la rispondenza dell'edificio alle norme di sicurezza richieste dalla legislazione vigente'', e che ``il sopralluogo dell'ingegnere era stata preceduto da altra certificazione ad opera del tecnico comunale che aveva attestato la qualità della struttura da lui definita `pesante'''. Sottolinea, altresì, che ``il vero regista della intera operazione doveva ritenersi il sindaco del comune'', e che fu il sindaco ad effettuare la ``scelta di consentire a tutti i costi l'impiego e l'utilizzazione della struttura nonostante il parere di inadeguatezza dal punto di vista tecnico e della sicurezza in generale''. A questo punto, però, la Sez. III osserva che, ``perché possa parlarsi di errore incolpevole derivante da un affidamento da parte del soggetto agente a dati elaborati da altri, occorre che non sia necessaria alcuna operazione di verifica da parte del soggetto officiato istituzionalmente di determinati compiti e poteri, dovendosi esigere un comportamento positivo ed attento, sulla base di una diligenza media, nella specie venuta meno''. Rileva che le argomentazioni difensive svolte dall'assessore ``bypassano quell'obbligo di doverosa informazione e cautela che deve ispirare il pubblico ufficiale nello svolgimento dei propri compiti istituzionali anche laddove coadiuvato da soggetti terzi dotati di specifiche cognizioni''. Ritiene convincente l'analisi della ``posizione dell'assessore quale soggetto pubblico incaricato di verificare la situazione - peraltro estremamente delicata e a sua conoscenza per la pregressa evidenziazione di criticità che avrebbero dovuto metterlo in allarme nonostante la apparente situazione di legittimità della struttura connessa al sopralluogo `rassicurante' da parte dell'ingegnere che abbisognava invece di una attenta lettura dei dati nel loro complesso non svolta dall'imputato''.
Non sono soltanto casi come Costa Concordia e Ponte di Genova a insidiare la sicurezza sui natanti. Oltre a Cass. 30 marzo 2023 n. 13273 e a Cass. 23 marzo 2022 n. 6640 (infortuni occorsi a nostromi di motopescherecci mortalmente colpiti al capo), v.:
La sera del 7 maggio 2013 nel Porto di Genova: ``una nave, in fase di manovra nello specchio acqueo dell'avamporto, nel compiere l'evoluzione che le avrebbe permesso di avviarsi verso l'uscita di Levante, urtava contro la struttura denominata Nuova Torre Piloti, determinandone il crollo, con la morte di nove delle persone ivi addette, il ferimento di altre quattro e la distruzione della centrale di controllo del Compartimento marittimo di Genova e delle ulteriori strutture operative ivi esistenti''. Nella sentenza n. 6490/2021, la Sez. IV prende atto che ``il tribunale ha ritenuto la responsabilità della società ex art. 25-septies D.Lgs. n. 231/2001, in relazione alla condotta del comandante per il reato di omicidio colposo, avendo l'imputato violato disposizioni prevenzionistiche nel momento in cui ha permesso che la nave partisse nonostante il contagiri in avaria, senza avvisare la compagnia, né tanto meno l'autorità marittima né il pilota, e tale condotta ha avuto un'indiscutibile rilevanza causale nel determinismo dell'evento''. Nota che ``il comandante è stato considerato quale persona sottoposta alla direzione e vigilanza dei vertici della società e non come figura apicale'', e che ``è stato ritenuto configurabile quanto meno l'interesse della compagnia, vista la decisione di procedere, comunque, nella manovra di partenza ormai già organizzata e in fase di esecuzione, nonostante la constatata avaria del contagiri, al fine di non ritardare il viaggio, affrontando tutti quegli oneri in termini di costi aggiuntivi e di controlli che dalla segnalazione del guasto sarebbero derivati''. Aggiunge che ``è stata accertata l'inadeguata attuazione del modello organizzativo adottato dalla società e la mancata esecuzione di sanzioni, anche nei confronti del comandante, nonostante i riscontrati incidenti avvenuti in passato e mai sottoposti a rilievo disciplinare''. Ne desume che ``la decisione del comandante di proseguire nella manovra nonostante l'avaria all'indicatore dei giri, senza segnalare nulla, rispondeva ad un modus operandi sicuramente non osteggiato dalla compagnia, che mai, anche in passato, aveva assunto iniziative contro i comandanti''. Precisa che ``la mera previsione di una procedura che nel tempo risulta non essere stata puntualmente osservata, in assenza di interventi della compagnia volti a pretenderne il rispetto anche con adeguate procedure sanzionatorie, ha indotto a reputare provata la violazione dei doveri di direzione e vigilanza da parte della società, con conseguente configurabilità a suo carico della relativa responsabilità amministrativa''.
Dal suo canto, in un momento processuale successivo, nella sentenza n. 4/2024, la Sez. III afferma il seguente principio di diritto: ``La parte civile non ha interesse a partecipare al giudizio di rinvio scaturito da annullamento pronunciato dalla Corte di cassazione in punto di determinazione della pena o riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, trattandosi di profili strettamente penalistici, che non influiscono sulla responsabilità civile''.
Condanna del responsabile di un natante motopeschereccio rimasto in avaria a sessanta miglia dalle coste libiche per ``i reati di avere fatto sorgere il pericolo di un naufragio di cui all'art. 450 c.p. e di inosservanza delle norme sulla sicurezza della navigazione, in quanto, violando le disposizioni del codice della navigazione e del relativo regolamento, si era fatto rimorchiare da altro natante per oltre quattrocento miglia fino al porto di Mazzara del Vallo, nonostante le avverse condizioni atmosferiche e la possibilità di usufruire di ripari più agevolmente raggiungibili quali i porti di Malta e di Lampedusa, omettendo di informare le autorità marittime competenti che avrebbero potuto valutare la adozione di ogni misura ritenuta opportuna per il soccorso del natante ivi compreso il rimorchio a mezzo di unità a ciò predisposta, e di chiedere l'autorizzazione al compimento del suddetto rimorchio, sebbene entrambe le imbarcazioni fossero prive della specifica idoneità rilasciata dall'autorità marittima''. Con il risultato di determinare ``il pericolo dei naufragio del natante laddove la navigazione della imbarcazione rimorchiata si era protratta per oltre tre giorni, in condizioni di mare pessimo e seguendo un tragitto diretto, senza alcuno scalo''.
Il comandante in coperta e la vedetta timoniere di una nave cargo sono imputati di omicidio colposo ai danni di due marinai a bordo di un peschereccio e per naufragio colposo del perchereccio, avendo cagionato la collisione tra le due imbarcazioni. Prescritto l'omicidio, la Sez. IV conferma la condanna per naufragio anche della vedetta timoniere, considerando il suo comportamento ``non scriminato dalla esecuzione di un ordine superiore'': ``non è applicabile la causa di giustificazione invocata (art. 51 c.p.) qualora il soggetto abbia agito in esecuzione di un ordine illegittimo impartitogli dal superiore gerarchico''; ``la scriminante in esame è configurabile nel caso in cui la condotta colposa dell'agente derivi dall'inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline imposta da direttive o disposizioni superiori, mentre la stessa non può essere riconosciuta nelle ipotesi di delitto colposo, quando la condotta riferibile all'agente che ricopre una posizione di garanzia sia caratterizzata da un atteggiamento di negligenza o imprudenza''.
Su un motopeschereccio impiegato nell'operazione di pesca a strascico, un marinaio ``si era posizionato a prora nei pressi del verricello (che è un'attrezzatura installata al centro della coperta dell'imbarcazione per la movimentazione in verticale e in orizzontale della rete a strascico) per comandarne l'utilizzo; la coperta del peschereccio era scivolosa (perché erano state fatte delle calate della rete con recupero e vi era deposito del materiale pescato, c.d. `lippo' in termini dialettali); l'imbarcazione, con motore a folle, era sottoposta all'azione del mare mosso, con fenomeni di beccheggio e rollio; nel compiere le operazioni di avvolgimento della corda di recupero della rete da pesca a verricello attivo in rotazione, il marinaio era rimasto impigliato ed era stato trascinato e schiacciato dal sistema di avvolgimento verricello-tamburi la cui forza di avvolgimento aveva provocato un trauma multiplo, soprattutto a carico del torace e della testa, staccata dal resto del corpo''. Condannato l'armatore datore di lavoro per ``la violazione della norma che impone di mettere a disposizione dei lavoratori un'attrezzatura conforme ai requisiti previsti dal D.Lgs. n. 81/2008 e adeguata al lavoro da svolgere, oltre che il necessario dispositivo di protezione individuale'', nonché per ``l'omessa formazione e informazione del lavoratore sui rischi specifici connessi all'attività svolta'' (``violazione degli artt. 71, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008 e 6 D.Lgs. n. 271/1999''). E condannato, altresì, il comandante per ``l'omessa dotazione al marinaio del necessario dispositivo di protezione individuale, l'omessa adozione delle misure tecniche ed organizzative adeguate per ridurre al minimo i rischi connessi all'impiego delle attrezzature di lavoro, l'omessa segnalazione all'armatore di deficienze e anomalie che avrebbero potuto compromettere la sicurezza del lavoratore, l'omessa informazione del lavoratore sui fattori di rischio, e l'omesso addestramento del marinaio al corretto utilizzo delle attrezzature'' (``violazione degli artt. 6 e 7 D.Lgs. n. 271/1999''). Gli imputati lamentano, in particolare, che non era stata considerata ``la certificazione rilasciata dal Registro Italiano Navale''. Ma la Sez. IV ribatte che ``tale documento non esime il datore di lavoro dal verificare il rispetto della normativa antinfortunistica, trattandosi di documento che ha valore certificativo della sicurezza della navigazione, piuttosto che dell'attività lavorativa che si svolge a bordo del natante''. Aggiunge che ``la posizione di garanzia del comandante e dell'armatore è stata correttamente inquadrata con riferimento alla violazione della normativa antinfortunistica, in linea con la considerazione che la dichiarazione rilasciata dal Registro Italiano Navale ai sensi dell'art. 19 del D.M. 22 giugno 1982 (Approvazione del regolamento di sicurezza per le navi abilitate all'esercizio della pesca costiera) certifica la sottoposizione a controllo delle dotazioni di sicurezza dei macchinari a bordo del natante eseguita dalla Capitaneria di porto e attestante che il natante è strutturato in conformità ai requisiti di sicurezza della navigazione previsti dal D.P.R. 8 novembre 1991 n. 435 e dai decreti ministeriali adottati per recepire le disposizioni adottate da organismi internazionali (art. 10 D.P.R. cit.)''. Aggiunge che ``tale testo normativo prevede visite e ispezioni concernenti `l'idoneità della nave alla navigazione', funzionali al rilascio e alla conferma del `certificato di navigabilità' (art. 21 D.P.R. cit.), e specifica quali siano le attrezzature soggette a verifica per le c.d. `annotazioni di sicurezza' (art. 29 D.P.R. cit.)''. Ne desume che ``le certificazioni esibite erano del tutto estranee alla materia della sicurezza sul lavoro'', e che ``gli enti tecnici e amministrativi preposti al rilascio dei certificati che abilitano alla navigazione svolgono accertamenti funzionali a verificare `l'adempimento delle prescrizioni relative alla sicurezza della vita umana in mare' (art. 36 D.P.R. cit.)''. Nota ancora che ``i certificati concernenti le attrezzature presenti sul motopeschereccio non autorizzavano l'apposizione di un chiodo che lasciasse operativo il meccanismo di rotazione delle campane né l'omessa fornitura ai lavoratori di presìdi antinfortunistici''. Sotto il profilo inerente alla sicurezza sul lavoro, la Sez. IV rileva che ``il gruppo del verricello occupava quasi tutta l'area di superficie di lavoro in coperta, lasciando liberi, ai due lati delle campane che lo fiancheggiavano, circa 35-38 centimetri'', che ``al momento dell'infortunio, la campana del verricello era scoperta, non aveva alcun elemento protettivo e tra il verricello e la campana vi era uno spazio non protetto.'', e che ``il sistema di azionamento del verricello era bloccato da un chiodo, che ne consentiva il continuo funzionamento; solo la rimozione del chiodo avrebbe arrestato il meccanismo''. Tanto è vero che, ``dopo l'infortunio, erano state apportate alcune modifiche'', e, ``in particolare, era stata apposta una leva a pedale per azionare il verricello solo su comando dell'operatore ed era stata apposta una struttura metallica a copertura della campana''. Aggiunge che ``il lavoratore non era provvisto di elmetto e tale dispositivo individuale avrebbe avuto un'importante funzione di salvaguardia della testa del lavoratore, rimasta invece incastrata nel verricello fra la campana in movimento e i tamburi''. Prende atto, quindi, che ``lo stato dei luoghi presentava il rischio che le campane, in continuo movimento e prive di protezione, intrappolassero parti del corpo del lavoratore, che, per andare dalla prora alla poppa, non avrebbe potuto fare altro che passare nei ristretto spazio di 35-38 centimetri esistente tra ognuna delle due campane, in permanente rotazione, e la fiancata''. Ne desume che ``sia la dotazione del dispositivo di protezione individuale, sia la dotazione di carter di protezione sugli organi meccanici in movimento, sia la dotazione di un idoneo sistema di azionamento del verricello solamente quando il lavoratore fosse stato lontano dagli organi in movimento, avrebbero evitato l'evento mortale''. La conclusione è che ``tanto l'armatore quanto il comandante dell'imbarcazione, nell'ambito delle rispettive competenze, avessero violato:
- l'art. 6, comma 5, lett. q), D.Lgs. n. 271/1999, che prescrive ad entrambi di `attuare misure tecniche ed organizzative adeguate per ridurre al minimo i rischi connessi all'impiego delle attrezzature di lavoro presenti a bordo ed impedire che queste vengano utilizzate per operazioni o in condizioni per le quali non sono adatte', specificando che tali misure si sarebbero sostanziate nell'installazione di sistemi di protezione di tutti gli spazi del verricello che potessero costituire pericolo, come ad esempio quello esistente tra le campane e il tamburo, così come nell'approntamento di un sistema di azionamento del verricello tale da consentire che non restasse costantemente in funzione quando l'operatore non era a distanza di sicurezza;
- l'art. 6, comma 5, lett. g), D.Lgs. n. 271/1999, che prescrive ad entrambi di `fornire ai lavoratori marittimi i necessari dispositivi individuali di sicurezza e di protezione, conformi alle vigenti norme e mantenerne le condizioni di efficienza', specificando che il dispositivo di protezione individuale necessario era il caschetto, la cui adozione avrebbe evitato che la testa del marinaio rimanesse intrappolata nel meccanismo di recupero della rete''.
Il proprietario comandante di un peschereccio è condannato per omicidio colposo in danno di persona incaricata di aiutarlo a recuperare le reti da pesca e a causa del previsto peggioramento delle condizioni meteo-marine e del conseguente ribaltamento dell'imbarcazione caduto in mare e deceduto per annegamento. Addebito di colpa: l'imputato ``rivestiva nei confronti del deceduto una posizione di garanzia particolarmente pregnante, sia in quanto comandante, sia per le responsabilità antinfortunistiche che gli competevano, e ciò perché i titolari di posizione antinfortunistiche devono rispondere del mancato uso dei dispositivi di sicurezza, sia in linea generale, sia con specifico riferimento agli obblighi imposti dall'art. 7 D.Lgs. 27 luglio 1999 n. 271'', e, in particolare, ``egli non ha provveduto a dotare l'imbarcazione di giubbotti salvagente, il cui uso era indicato come obbligatorio nel piano di sicurezza e la cui unica funzione è la prevenzione dall'annegamento''. Invero, ``il punto rilevante riguarda la presenza, obbligatoria ai sensi dell'art. 13 D.M. 5 agosto 2002 n. 218, e l'uso della cintura di salvataggio, prevista dalla predetta norma per ogni persona a bordo: si tratta di un galleggiante - da non confondersi con il salvagente anulare che il deceduto indossava ancora quando ne fu ritrovato il corpo - che si infila dalla testa e si chiude con una cintura alla vita''.
Per l'affondamento di un peschereccio in seguito all'impatto con una nave cisterna con morte di tre persone, furono imputati di naufragio e omicidio colposi il comandante e il timoniere della nave cisterna. Osserva la Sez. IV: ``La norma di cui all'art. 449, comma 2, c.p. - che prevede il raddoppio della sanzione - riguarda i casi di naufragio o di sommersione di una nave `adibita a trasporto di persone', specificazione che evidentemente riguarda la nave che sia adibita (anche se non destinata) al trasporto di soggetti ulteriori rispetto ai membri dell'equipaggio''.
Tra Capri e Positano, entrano in collisone un'imbarcazione lunga circa 20 metri e un semicabinato. Il comandante dell'imbarcazione fu imputato per naufragio colposo e omicidio colposo in danno di un monsignore e del fratello trasportati sul semicabinato. Rileva la Sez. IV: ``ai fini della configurabilità del delitto di naufragio colposo di natante di altrui proprietà, costituente un reato di pericolo astratto, va accertata l'offensività in concreto del fatto alla luce del criterio della `contestualizzazione dell'evento', con giudizio ex ante, verificando se, alla luce degli elementi concretamente determinatisi quali le dimensioni del mezzo, il numero di passeggeri che può essere trasportato, il luogo effettivo di naufragio, l'espansività e la potenza del danno materiale, il fatto era in grado di esporre a pericolo l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone''. (V. pure Cass. 19 marzo 2018, n. 12631 e Cass. 19 marzo 2018, n. 12631).
La Sez. IV conferma la condanna per naufragio colposo, lesione colposa e omissione di soccorso del conducente di un'imbarcazione da diporto entrato in collisione con un gommone: ``Perché si abbia naufragio non è necessario che il natante sia affondato, essendo sufficiente che lo stesso non sia più in grado di galleggiare regolarmente, risultando così inutilizzabile per la navigazione. Il delitto di omissione di soccorso sussiste, sotto il profilo dell'omesso avviso all'autorità, anche se si accerti che l'assistenza sarebbe stata impossibile o inutile, tanto che esso è escluso solo se la persona da assistere sia già morta. La tesi difensiva, circa l'insussistenza del reato per l'azione di soccorso prestata da terzi di cui l'imputato avrebbe avuto consapevolezza, risulta destituita in radice di ogni fondamento, alla luce del diritto vivente''.
Il comandante di uno yacht a secco in cantiere, e il coordinatore dei lavori di allestimento effettuati unitamente a varie imprese subappaltatrici per conto della s.p.a. costruttrice appaltatrice dell'armatore, furono condannati per l'infortunio mortale subito da un membro dell'equipaggio intento ad eseguire attività di manutenzione sull'imbarcazione e precipitato a terra dalla prua della nave. Il primo, in particolare, per ``aver dato disposizioni ai membri dell'equipaggio circa le opere di manutenzione da svolgere sull'imbarcazione senza adottare alcuna precauzione atta ad impedire la caduta dall'alto dell'equipaggio, che si trovava a prua della nave a sette metri da terra''. Nel confermare la condanna, la Sez. IV osserva: ``La posizione di garanzia del comandante è stata correttamente ritenuta operante in virtù del fatto che vi fossero taluni membri dell'equipaggio che prestavano servizio a bordo dell'imbarcazione. Quest'ultima, quale luogo di lavoro, costituiva l'ambito spaziale entro il quale il datore di lavoro era tenuto a garantire i lavoratori dal rischio di cadute dall'alto. Con specifica replica alla tesi difensiva secondo la quale il comandante facesse affidamento sulle competenze tecniche delle imprese che operavano nel cantiere, si è evidenziata l'esigibilità di una condotta alternativa da parte del datore di lavoro della vittima. Il principio dell'affidamento trova un temperamento nell'opposto principio secondo il quale il soggetto garante del rischio è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purché questo rientri nel limite della `ragionevole' prevedibilità in base alle circostanze del caso concreto. Si sostiene che, non essendo l'imputato in servizio alla data dell'infortunio, il passaggio di consegne all'ufficiale in servizio a quella data avrebbe escluso la posizione di garanzia. La questione concerne il profilo causale dell'addebito di responsabilità secondo la clausola di equivalenza prevista dall'art. 40, comma 2, c.p.; in altre parole, la questione se all'omissione addebitata all'imputato potesse collegarsi l'evento della perdita della vita della vittima. In tal senso, può ascriversi efficienza causale all'essere rimasto inerte, o all'aver agito altrimenti, laddove si sarebbe dovuto agire in modo da impedire che il marinaio precipitasse nel varco, addebitandosi all'imputato di non aver contrastato adeguatamente fattori di rischio già presenti nella situazione esistente o di non averli contrastati con i provvedimenti adeguati richiesti dal caso. Si tratta, sotto il profilo funzionale, della categoria degli obblighi di controllo, che impone di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare il bene protetto''.
Nell'affrontare ``gli accadimenti antecedenti, concomitanti e successivi all'impatto fra la nave Costa Concordia e il fondale roccioso prospiciente l'Isola del Giglio, impatto che cagionò l'apertura di una falla di grandi dimensioni sullo scafo della nave e il suo progressivo affondamento sulla fiancata destra'', con ``il decesso di 32 persone (nella quasi totalità per asfissia da annegamento), mentre altre 193 persone riportavano conseguenze lesive'', la Sez. IV non condivide ``l'assunto difensivo secondo cui l'aggravante riferibile alla violazione delle norme inserite nelle leggi antinfortunistiche ed in quelle direttamente o indirettamente perseguenti il fine, nel corso delle attività lavorative svolte sulla nave, di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali, non sarebbe applicabile in una situazione di emergenza eccezionale quale quella verificatasi nel caso in esame''. E ciò perché ``si tratta di una un'affermazione meramente assertiva che cozza contro principi di logica prima ancora che di diritto, laddove si intende sostenere che la normativa a tutela della sicurezza dei lavoratori a bordo della nave non va rispettata proprio nelle situazioni emergenziali in cui tale sicurezza viene messa a repentaglio''. Né l'aggravante in questione può essere esclusa ``perché la s.p.a. aveva nominato un responsabile per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, così esonerando l'imputato da ogni profilo di responsabilità''. In proposito, la Sez. IV sottolinea che ``la nomina del responsabile del servizio di protezione e prevenzione non esonera il comandante della nave dalla responsabilità di adottare, in caso di incidente, ogni misura atta a rimuovere l'evento negativo e, comunque, a ridurre al minimo i rischi per i lavoratori, trattandosi di un ruolo non delegabile ad altri''. Ricorda che, ``in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, gli obblighi di vigilanza e di controllo gravanti sul datore di lavoro non vengono meno con la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, il quale ha una funzione di ausilio diretta a supportare e non a sostituire il datore di lavoro nell'individuazione dei fattori di rischio nella lavorazione, nella scelta delle procedure di sicurezza e nelle pratiche di formazione e informazione dei dipendenti''. Non senza contare che, ``fra le vittime ed i soggetti lesi, vi sono anche membri dell'equipaggio e, in ogni caso, con riguardo ai reati colposi di omicidio e lesioni personali, l'aggravante della violazione delle norme antinfortunistiche ricorre anche quando le vittime sono persone estranee all'impresa, in quanto la posizione di garanzia in ordine alla sicurezza degli impianti opera non solo nei confronti dei lavoratori subordinati o dei soggetti a questi equiparati, ma altresì nei riguardi di tutti coloro che possono comunque venire a contatto o trovarsi nella relativa area di operatività''. (Con riguardo all'ulteriore ipotesi di alterazione delle bellezze naturali e dei luoghi soggetti alla speciale protezione dell'autorità di cui all'art. 734 c.p. v. Cass. 8 luglio 2019, n. 29508; per il rigetto della richiesta di revisione Cass. 21 marzo 2023 n. 11780).
La Sez. III annulla l'assoluzione di un datore di lavoro che ``aveva messo nella disponibilità di un dipendente un'imbarcazione per il cui utilizzo occorreva una patente nautica che il dipendente non aveva'', e sottolinea ``gli effetti dell'assenza sull'imbarcazione di un'altra persona, quella dotata di patente''.
Il comandante di una motobarca da pesca battente bandiera spagnola fu imputato di omicidio colposo in danno di un cuciniere e assistente dei subacquei, per ``avergli ordinato o comunque consentito di immergersi da solo per effettuare la pesca del corallo pur essendo privo del brevetto di immersione, non adottando la pratica del `sistema di coppia' in un sito a lui non familiare, in una zona di mare aperto battuta da forti e variabili correnti, in un orario (18 circa) in cui la luminosità sul fondo cominciava a scarseggiare e dove vi è una profondità fino a 70 metri''. La Sez. IV annulla la sentenza della Corte d'Appello che aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti dell'imputato per difetto di giurisdizione dello Stato: ``L'art. 6 c.p. è stato interpretato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione nel senso che, per affermare la giurisdizione italiana, è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato anche solo un frammento della condotta, che, seppur privo dei requisiti di idoneità e di inequivocità richiesti per il tentativo, sia apprezzabile in modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia a quella realizzata in territorio estero''. ``La peculiarità dei poteri-doveri propri del comandante della nave, dalla definizione normativa di `lavoratore marittimo' contenuta nell'art. 2, lett. e), D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 298, recante norme di `Attuazione della direttiva 93/103/CE relativa alle prescrizioni minime di sicurezza e di salute per il lavoro a bordo delle navi da pesca', e nell'art. 3, lett. n), D.Lgs. 27 luglio 1999, n. 271, nonché dalla distinzione tra servizi di bordo e servizi complementari di bordo ricavabile dall'art. 36 D.Lgs. 18 luglio 2005, n.171. In generale, con riferimento ai doveri del comandante di nave in relazione alla salute dei passeggeri, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente sottolineato che si tratta di un soggetto che, in base all'ordinamento della navigazione marittima di cui al codice della navigazione (art. 186 cod. nav., integrato per l'attività di pesca dall'art. 7 D.Lgs. n. 271/1999 e dall'art. 2, lett. g), D.Lgs. n. 298/1999), ha l'obbligo di sovraintendere a tutte le funzioni che attengono alla salvaguardia delle persone imbarcate. Rispetto a problematiche di salute riguardanti le persone imbarcate, il comandante può ben trovarsi ad interagire, in determinate contingenze, con le valutazioni e le iniziative di diverse figure professionali, assumendo una posizione di garanzia qualificata di natura concorrente (Sez. IV, n. 9897/2015). Secondo l'art. 2. lett. e), decreto cit., poi, lavoratore marittimo è `qualsiasi persona che svolga un'attività professionale a bordo di una nave, nonché i tirocinanti e gli apprendisti, ad esclusione del personale a terra che effettua lavori a bordo di una nave all'ormeggio e dei piloti portuali'. Il comandante della nave è tenuto, a norma dell'art. 1 del medesimo decreto legislativo, ad osservare nei confronti dei lavoratori marittimi la `vigente legislazione in materia di prevenzione infortuni e di igiene del lavoro'. Il generale potere-dovere del comandante di nave di sovraintendere alla salute dei passeggeri e l'ampio spettro delle attività che confluiscono nella definizione di lavoratore marittimo, rinvenibile nel testo normativo citato, costituiscono la chiave di lettura del caso concreto. Non può, infatti, ignorarsi che la normativa in vigore indichi la specificità del lavoro marittimo e la specialità delle regole di gestione dei rischi connessi all'attività di pesca, non solo nel corso della navigazione ma sin dal momento dell'imbarco, rispetto alla normativa che disciplina il rapporto di lavoro subordinato. L'indeterminatezza della figura datoriale desumibile in relazione alla nozione di lavoratore marittimo comporta che il comandante della nave, in quanto tale, assuma una posizione di garanzia nei confronti di coloro che prestano forza lavoro a bordo della nave, con obblighi di natura prevenzionistica, indipendentemente dall'accertamento della gestione professionale di un'attività di lavoro organizzata, in ragione della sua naturale posizione gerarchica rispetto a coloro che sono imbarcati. Negare la sussistenza degli obblighi funzionali alla prevenzione di infortuni sul lavoro sul presupposto che non sia emerso che la vittima ricevesse una paga mensile o che lavorasse a bordo della barca risulta frutto di un'erronea applicazione della normativa concernente gli obblighi del comandante della nave nei confronti dei lavoratori marittimi. Si è, infatti, inteso il rapporto di lavoro di fatto in un'accezione civilistica; ma l'elaborazione giurisprudenziale della disciplina dettata dall'art. 2126 c.c. è funzionale a definire i criteri distintivi della prestazione di fatto lecita da quella illecita, ancorché non trasfusa in un contratto scritto, al fine di affermare l'obbligazione retributiva e contributiva del datore di lavoro. Tale accezione si rivela inadeguata a definire l'ambito della posizione di garanzia del comandante della nave nei confronti dei lavoratori marittimi, necessariamente correlata ad un rapporto di lavoro in senso ampio, comprensivo di ogni mansione che venga svolta quantomeno sotto il controllo del comandante, in ragione della finalità di proteggere la vita e l'incolumità dei lavoratori in relazione ai particolari rischi che connotano tale settore di attività. A ciò si aggiunga che l'art. D.Lgs. 18 luglio 2005, n. 171 (si tratta di una norma dettata in materia di nautica da diporto che riprende una categoria generale in precedenza disciplinata dall'art. 216 cod. nav. sotto la rubrica `Personale di camera e famiglia'), stabilisce che i servizi complementari di bordo, di camera e di cucina possono essere svolti dalle persone imbarcate sulle navi da diporto in qualità di ospiti, così ammettendo che sulla nave talune mansioni (diverse dai servizi tecnici di bordo) possano essere svolte anche da chi non sia iscritto nelle matricole della gente di mare. Tale distinzione viene evidenziata in questa sede al fine di sottolineare ulteriormente la posizione gerarchica del comandante della motobarca da pesca sia in merito alla scelta delle persone da imbarcare sia in relazione alle attività che si svolgono sull'imbarcazione. Applicando tali principi alla questione di giurisdizione, se ne trae la conclusione che la corte d'appello ha erroneamente limitato la propria cognizione all'accertamento dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato in senso civilistico tra l'imputato e la vittima, quale imprescindibile antecedente dell'azione successivamente svoltasi sulla nave straniera. In ragione della specialità della disciplina che regola il lavoro marittimo sulle imbarcazioni che praticano la pesca (D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 298) e dell'ampiezza dei compiti di controllo del comandante di nave ai sensi dell'art. 186 cod. nav., la parte dell'azione che, a norma dell'art. 6 c.p., consentiva di affermare la giurisdizione italiana, consiste nell'omissione di un obbligo antinfortunistico gravante sul comandante della nave indipendentemente dall'obbligo di corrispondere al lavoratore una retribuzione, dunque indipendentemente dall'accertamento di un lavoro subordinato `di fatto'. Nel caso concreto, la scelta di imbarcare un passeggero che avrebbe svolto funzioni di cuciniere e si sarebbe altresì dedicato alla pesca del corallo, sufficiente a far sorgere l'obbligo antinfortunistico la cui violazione è qui contestata, è stata correttamente posta dal giudice di primo grado, ai soli fini dell'accertamento della giurisdizione, quale necessario antecedente logico e fattuale di quanto si sarebbe svolto a bordo. Risulta, pertanto, che la condotta di imbarco del deceduto sulla motonave diretta alla pesca del corallo senza alcun previo accertamento di natura medica, posta in essere dall'imputato nel territorio italiano, possa qualificarsi come parte iniziale dell'azione delittuosa contestata nel capo d'imputazione''.
V. pure Cass. 12 luglio 2023 n. 30386 sulla collisione di un’imbarcazione adibita al trasporto passeggeri con imbarcazione da diporto; Cass. 30 marzo 2023 n. 13286 sul naufragio di una unità navale per impatto contro un promontorio; Cass. 20 febbraio 2023 n. 7205 sulla condanna di un sindaco per i reati cui all’artt. 328 e 586 c.p. in relazione alla morte di due minorenni introdottisi nella tarda sera in un’autovettura che il proprietario aveva lasciato, parcheggiata, con le chiavi all'interno, nell'area portuale; Cass. 27 giugno 2019, n. 28103; Cass. 21 dicembre 2020 n. 36740 e Cass. 1° marzo 2021 n. 7592, riguardanti un incidente nautico sul Canal Grande di Venezia in prossimità del ponte di Rialto con collisione tra un motobattello e una gondola; Cass. 30 aprile 2020 n. 13497, su un incidente mortale durante un'attività di rafting sul corso del fiume; Cass. 27 marzo 2020 n. 10677, sull'investimento di un sub da parte di un natante, nonché Cass. 20 luglio 2022 n. 28634 e Cass. 15 luglio 2022 n. 27584; Cass. 7 febbraio 2020 n. 5113, sull'infortunio a lavoratore rimasto carbonizzato nell'incendio verificatosi all'interno del doppio fondo di una nave in costruzione per la presenza di ossigeno e di scintille causate dalla smerigliatrice usata per eliminare le vernici ed effettuare un taglio a mezza luna; Cass. 15 maggio 2019, n. 20821, relativa a un infortunio accaduto durante il varo non riuscito di una nave; Cass. 12 marzo 2019, n. 19859, concernente la collisione tra un natante e un'altra imbarcazione sul lago Maggiore; Cass. 7 giugno 2018, n. 25816, concernente due vittime di infortunio nell'esecuzione dei lavori di revisione e manutenzione straordinaria dei corpi illuminanti di un molo appaltati dall'autorità portuale.
Nel quadro della riforma del lavoro sportivo, sull'onda del D.Lgs. 29 agosto 2023 n. 120, contenente ``disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi 28 febbraio 2021, nn. 36, 37, 38, 39 e 40'', occorre chiedersi come siano tutelate la sicurezza e la salute dei lavoratori sportivi (in argomento v. Guariniello, Sicurezza del lavoro sportivo, in Dir.prat.lav., 2023, 38, 2223). L'attuale art. 33, comma 1, D.Lgs. n. 36/2021 dispone che, ``per tutto quanto non regolato dal presente decreto, ai lavoratori sportivi si applicano le vigenti disposizioni in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, in quanto compatibili con le modalità della prestazione sportiva''. Compatibilità già più volte in passato evocata dalla giurisprudenza con accenti peraltro non univoci:
Il gestore di un circuito motociclistico fu condannato per omicidio colposo in danno di un motociclista per aver ``mantenuto aperto l'impianto, da considerare insicuro perché privo delle idonee misure di sicurezza che impedissero la fuoriuscita dei motociclisti dall'area'', e aver ``consentito che ivi circolassero motociclisti dilettanti''. La Sez. IV annulla la condanna perché il fatto non sussiste: ``Colui che ha la disponibilità di impianti ed attrezzature per l'esercizio delle discipline sportive è titolare di una posizione di garanzia, ai sensi dell'art. 40, comma 2, c.p., ed è tenuto a garantire l'incolumità fisica degli utenti e ad adottare quelle cautele idonee ad impedire il superamento dei limiti di rischio connaturati alla normale pratica sportiva. Però, il dovere di garanzia non può essere generico ed illimitato e fonte di responsabilità per qualsiasi evento dannoso occorso agli utenti dell'impianto, ma deve comunque essere ricollegabile ad una concreta rimproverabilità della condotta a titolo di colpa, e, quindi, ad una violazione o di una regola cautelare specifica atta a scongiurare il rischio di evento in concreto verificatosi, ovvero, se il rimprovero colposo è mosso a titolo di colpa generica, deve comunque trattarsi di una condotta effettivamente esigibile da parte dell'agente. L'obbligo di adottare le cautele atte ad eliminare situazioni di pericolo deve essere concretamente esigibile da parte del gestore''. ``Il contenuto dell'obbligo giuridico del gestore di un impianto sportivo si individua nella vigilanza sul rispetto delle regole di utilizzo interno dell'impianto (nella specie, nessuna violazione in tal senso è venuta in considerazione), o delle specifiche regole previste da normative speciali e dai regolamenti emanati dalle Federazioni sportive. Non è sostenibile che il gestore dell'impianto sia tenuto ad intervenire con un comportamento attivo che superi le previsioni regolamentari: ciò comporterebbe, invero, ipotizzare un generale dovere di verifica, di volta in volta, dell'idoneità di specifiche previsioni dei regolamenti delle Federazioni a scongiurare o meno eventuali rischi nello svolgimento delle attività sportive, ponendo in capo al gestore un obbligo di fatto inesigibile per ampiezza e genericità''. ``La motivazione della Corte d'Appello si palesa viziata da manifesta illogicità, per aver ritenuto che l'imputato avrebbe dovuto effettuare uno studio sulla sicurezza non previsto dalla normativa di settore. Né vale il richiamo al D.Lgs. n. 81/2008, pacificamente riguardante la prevenzione degli infortuni sul lavoro, del tutto esulanti dal caso di specie''.
La Sez. IV annulla per prescrizione la condanna di una giocatrice di rugby per lesione personale colposa in danno di altra giocatrice: ``Nell'analisi dell'eventuale responsabilità dell'atleta per fatti dannosi commessi durante l'attività sportiva deve essere abbandonato l'orizzonte del cd. `rischio consentito' e dell'agente modello, foriero di eccessive incertezze nell'applicazione giudiziale, per approdare ai consueti criteri di accertamento della responsabilità penale nei reati caratterizzati dall'evento: verifica oggettiva del fatto dannoso (azione e nesso causale) e configurabilità della colpevolezza dell'agente, sotto il profilo della sussistenza del dolo o della colpa. L'attività sportiva, così come altre attività umane potenzialmente pericolose, ma consentite per evidenti ragioni di utilità sociale (si pensi all'attività medicochirurgica), non si sottrae all'indagine di responsabilità colposa (o dolosa) in caso di eventi lesivi della vita o in occasione del suo esercizio. In tale prospettiva, non serve ragionare in termini di scriminante, atteso che l'attività sportiva costituisce di per sé un'attività lecita, rispetto alla quale i partecipanti accettano di correre determinati rischi, sempre che la loro integrità fisica non sia da altri deliberatamente lesa o danneggiata colposamente a seguito della violazione di predeterminate regole cautelari. Per la colpa generica in particolare - ma anche per la colpa specifica, in caso di regole cautelari c.d. elastiche, in cui cioè la regola non è dettagliata ma è determinata in base a circostanze contingenti - si tratta di applicare i consueti principi che caratterizzano la valutazione della colpevolezza colposa. La verifica della colpa sportiva non potrà prescindere dagli ordinari criteri stabiliti dall'art. 43 c.p., in particolare riscontrando l'eventuale violazione della regola cautelare, generica o specifica, non corrispondente alla regola tecnico-sportiva in astratto applicabile. Ne discende che sono, per contro, illeciti quei comportamenti che non sono riconducibili al gioco, pur nelle sue espressioni pericolose, o perché intenzionalmente diretti a procurare danno alla persona oppure perché, siccome in contrasto con il principio di lealtà sportiva, sono estranei all'ambito di applicazione delle regole del gioco - che quel principio presuppongono e sono quindi disciplinati dalle ordinarie regole di diligenza, dei quali costituiscono violazione. È evidente, infatti, che per ciascun contesto indicato i singoli atleti faranno affidamento su atti degli avversari aventi caratteristiche e intensità diverse (maggiore per i professionisti rispetto ai dilettanti, minore per gli allenamenti rispetto alle gare ecc.), cui potrà conseguire l'operatività di una diversa regola cautelare pertinente alla situazione sportiva obiettivamente acclarata. Fondamentale è la regola generale che impone agli atleti di improntare il proprio comportamento ai doveri di lealtà e correttezza sportiva nonché di rispetto dell'avversario, che va però coordinata ai principi della colpevolezza colposa. Nell'accertamento della sussistenza della colpa non ha rilievo la entità del danno procurato, poiché oggetto della valutazione non sono le conseguenze dannose in quanto tali, bensì le specifiche e obiettive modalità della condotta dell'atleta, avuto riguardo alle caratteristiche dell'azione nell'ambito del contesto agonistico di riferimento. Nella valutazione della colpa sportiva assume centralità l'analisi della situazione di fatto in rapporto al contesto e allo sviluppo dinamico dell'azione sportiva lesiva'' ha appena segnalato che ``l'attività sportiva, così come altre attività umane potenzialmente pericolose, ma consentite per evidenti ragioni di utilità sociale, non si sottrae all'indagine di responsabilità colposa (o dolosa) in caso di eventi lesivi della vita o in occasione del suo esercizio''.
Durante una partita di calcio nell'ambito di un campionato amatoriale, un attaccante di una squadra e un difensore dell'altra squadra correvano lungo la fascia sinistra del campo per recuperare la palla: il difensore era riuscito ad affiancare l'attaccante, facendogli allungare la palla in modo che egli non riuscisse più a recuperarla, per poi porsi tra l'attaccante e la linea di fondo, per impedirgli il recupero della palla che stava uscendo dal campo da gioco; nella parte finale di questa azione, l'attaccante entrava in scivolata per cercare di tenere il pallone in gioco, ma colpiva la gamba dell'avversario. La Corte d'Appello condanna l'attaccante al risarcimento dei danni per il reato di lesione personale colposa ormai prescritto, sul presupposto che il fallo di gioco era avvenuto quando la palla era ormai irraggiungibile, e, quindi, il tentativo dell'attaccante di recuperare il pallone risultava inutile, oltre che foriero di un rischio gratuito, avuto riguardo al contesto amatoriale e dilettantistico dell'incontro. La Sez. IV annulla la condanna con rinvio al giudice civile. Afferma che, ``nell'analisi dell'eventuale responsabilità dell'atleta per fatti dannosi commessi durante l'attività sportiva debba essere abbandonato l'orizzonte del c.d. `rischio consentito' e dell'agente modello, foriero di eccessive incertezze nell'applicazione giudiziale, per approdare ai consueti criteri di accertamento della responsabilità penale nei reati caratterizzati dall'evento: verifica oggettiva del fatto dannoso (azione e nesso causale) e configurabilità della colpevolezza dell'agente, sotto il profilo delta sussistenza del dolo o della colpa''. E delinea ``due diverse aree, quella sportiva e quella penale, coperte da regole diverse, perché dirette a gestire `rischi' diversi: quelli sportivi, conosciuti e accettati dagli atleti, i quali in tale ambito sono consapevoli della potenziale lesività di determinate azioni di gioco, quale conseguenza possibile della pratica sportiva svolta; quelli penali, quale conseguenza dannosa di azioni che esorbitano dall'ordinario sviluppo del gioco o della pratica sportiva interessata, aventi cioè un `quid pluris' che le rende perseguibili penalmente in quanto caratterizzate da dolo ovvero da colpa''.
Anche questa sentenza ritiene ``non pienamente soddisfacente l'impostazione che fonda il limite fra illecito sportivo ed illecito penale sull'operatività della scriminante del rischio consentito''. Sostiene ``la diversità fra l'illecito sportivo, il cui rilievo spetta all'arbitro, e quello penale, di competenza del giudice il quale deve rifarsi ai criteri ordinari della colpa, fissati dall'art. 43 c.p., individuando non solo la regola cautelare preesistente, che impone la condotta doverosa di astensione nei limiti propri della disciplina lecita, ma anche i limiti della sua applicazione in termini di prevedibilità dell'evento, essendo al contempo imposto al giudice di verificare se l'azione, che rientri nel lecito sportivo, in quanto non violante alcuna regola, sia posta in essere nei limiti della prudenza, in modo da non cagionare, per l'eccesso nella gestione del gesto atletico o per l'eccessività ed inutilità al fine sportivo del contrasto opposto, un danno prevedibile all'altrui integrità fisica''. In questa prospettiva, sostiene che ``non è l'entità del danno cagionato a discriminare l'azione illecita, ma la travalicazione della norma cautelare prestabilita che renda prevedibile l'evento, sia perché disapplicata, sia perché inutilmente trascesa, al fine del raggiungimento del risultato''. (Nel caso di specie, durante una partita amatoriale di calcio a cinque un atleta aveva con un takle cagionato ad altro atleta una frattura. La Sez. V nota che i magistrati di merito fanno ``derivare ex post la violazione della regola cautelare proprio dall'entità della lesione cagionata dall'imputato all'avversario, affermando che la scriminante del rischio consentito - condizione che conviene abbandonare - non copre il gesto atletico della scivolata (tackle), in quanto vietato nel football a cinque, senza valutare se, in concreto, in quelle specifiche condizioni di gioco fosse prevedibile che quell'atto, ancorché non consentito dal regolamento, cagionasse all'avversario una lesione di qualunque tipo, indipendentemente dalla sua gravità'').
Al presidente di un'associazione sportiva si addebitò di ``non avere adeguatamente ripristinato il manto erboso di un campo, sul quale si era venuto a creare un avvallamento del terreno di gioco nascosto dalla presenza di una pozzanghera d'acqua'', e in questo punto, ``in occasione di una partita di calcio a sette scivolava un giocatore''. Nel confermare la condanna, la Sez. IV considera ``inconferente il richiamo all'art. 2050 c.c., atteso che l'obbligo di protezione che è proiezione della posizione di garanzia riguarda non solo le attività pericolose (dovendosi intendere per tali non solo quelle così identificate dalle leggi di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, bensì ogni attività che per sua stessa natura o per le caratteristiche di esercizio comporti una rilevante possibilità del verificarsi di un danno), ma anche i pericoli atipici, cioè quelli che - benché prevedibili - siano tuttavia diversi da quelli connaturati alla pericolosità insita nell'attività sportiva in corso di svolgimento, tant'è che la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire che il responsabile di attrezzature sportive o ricreative è titolare di una posizione di garanzia a tutela dell'incolumità di coloro che le utilizzano, anche a titolo gratuito, sia in forza del principio del neminem laedere, sia nella sua qualità di `custode' delle stesse attrezzature, come tale civilmente responsabile, fuori dall'ipotesi del caso fortuito, dei danni provocati dalla cosa ex art. 2051 c.c., sia quando l'uso delle attrezzature dia luogo a un'attività da qualificarsi pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c., rispetto alle quali egli è obbligato ad adottare tutte le misure idonee ad evitare l'evento; dunque, non è solo la natura `intrinsecamente' pericolosa dell'attività sportiva a fondare la posizione di garanzia del soggetto che abbia in custodia un impianto utilizzato da terzi, ma più in generale il possibile verificarsi, in dipendenza dell'utilizzo dell'impianto medesimo, di danni che rientrino nell'area della prevedibilità (e che non siano perciò qualificabili come `caso fortuito'). In ragione di siffatti principi, il responsabile di una società sportiva, che ha la disponibilità di impianti ed attrezzature per l'esercizio delle attività e discipline sportive, è titolare di una posizione di garanzia, ai sensi dell'art. 40, comma 2, c.p., ed è tenuto, anche per il disposto di cui all'art. 2051 c.c., a garantire l'incolumità fisica degli utenti e ad adottare quelle cautele idonee ad impedire il superamento dei limiti di rischio connaturati alla normale pratica sportiva, con la conseguente affermazione del nesso di causalità tra l'omessa adozione di dette cautele e l'evento lesivo occorso ad un utente dell'impianto sportivo. Più specificamente, in tema di lesioni colpose patite da un calciatore, si è affermato che il gestore di un centro sportivo è titolare di una posizione di garanzia, che gli impone di adottare le necessarie cautele per preservare l'incolumità fisica degli utilizzatori, provvedendo alla manutenzione delle infrastrutture e delle attrezzature. A nulla rileva che l'imputato, in qualità di presidente, avesse ceduto in affitto all'UISP, in occasione del campionato che vi si stava disputando, il campo sportivo a fondo sintetico ove si verificò l'incidente: l'assunzione dell'associazione sportiva, disponibilità del campo da parte dell'UISP, limitatamente alla durata del torneo organizzato dalla stessa UISP, non significava in alcun modo che l'imputato avesse cessato dalle sue responsabilità di gestore dell'impianto e, in specie, dall'obbligo di mantenere il campo sportivo in buone condizioni d'uso: è appena il caso di rammentare che, sulla scorta del riparto di responsabilità tra titolare del bene e conduttore ex art. 2051 c.c., deve attribuirsi al primo la responsabilità per danni cagionati dalla cosa a terzi che dipendano da caratteristiche strutturali dell'impianto; e, dunque, come nella specie, anche da difetti di manutenzione dell'impianto medesimo tali da impedirne od ostacolarne l'utilizzo in sicurezza. Invero, nella fattispecie considerata, era l'imputato a dover governare i rischi connessi alle caratteristiche del campo sportivo e, nella specie, a dover impedire che esso presentasse rischi nell'utilizzo in condizioni meteorologiche avverse: non costituiva certo un'eventualità imprevedibile il fatto che, su un campo di calcio all'aperto ove erano presenti avvallamenti, si raccogliesse l'acqua piovana in occasione di eventi atmosferici; con la conseguenza che egli ben poteva rappresentarsi che sul campo si potessero formare pozzanghere d'acqua (caratterizzate da infiltrazioni d'acqua sotto la moquette presente sul campo, in modo tale da occultare i dislivelli presenti sul terreno di gioco, con i rischi che ciò comportava) ed era quindi tenuto ad attivarsi per impedire che ciò si verificasse. Da ultimo, va sgombrato il campo dalle asserzioni del ricorrente circa l'attribuibilità all'arbitro di una posizione di garanzia e, conseguentemente, di una qualche responsabilità per l'incidente oggetto del processo. Ed invero, la lettura degli artt. 60 e 64 delle Norme organizzative interne federali conclama con evidenza che l'esercizio, demandato all'arbitro, della facoltà di disporre la sospensione o il rinvio della partita (art. 60) non è riferibile a obblighi di garanzia dell'arbitro stesso per ragioni di incolumità e sicurezza dei giocatori, ma alla valutazione circa la possibilità di disputare o meno la partita stessa in condizioni di praticabilità del campo, in occasione di eventi atmosferici che possano ostacolare o impedire il regolare svolgimento delle azioni di gioco: ciò che Io stesso arbitro aveva dichiarato di avere fatto, verificando se il pallone rimbalzasse, all'evidente scopo di accertare se la partita si potesse disputare regolarmente. È invece palesemente inconferente il richiamo all'art. 64 delle NOIF, che fa bensì riferimento alle responsabilità e ai compiti dell'arbitro in ordine all'incolumità propria, dei giocatori e dei guardalinee, ma non già per le conseguenze di eventi atmosferici, ma per ragioni di ordine pubblico (si fa infatti riferimento, nella norma citata, a situazioni come il lancio di oggetti o di materiale pirotecnico). Del resto, quand'anche siffatta posizione di garanzia fosse stata astrattamente ipotizzabile, essa non avrebbe comportato ex se l'esclusione degli obblighi di garanzia gravanti sull'imputato (riferiti al mantenimento in idonee condizioni di sicurezza dell'impianto sportivo da lui gestito e locato), atteso il pacifico orientamento giurisprudenziale in base ai quali, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia'' afferma che ``il responsabile di una società sportiva, che ha la disponibilità di impianti ed attrezzature per l'esercizio delle attività e discipline sportive, è tenuto a garantire l'incolumità fisica degli utenti e ad adottare quelle cautele idonee ad impedire il superamento dei limiti di rischio connaturati alla normale pratica sportiva.
Basilare in questa prospettiva un obbligo come la valutazione dei rischi:
La Sez. IV annulla con rinvio la condanna dell'amministratore delegato di una s.p.a. esercente piste da sci per il delitto di omicidio colposo per un infortunio mortale accaduto su una pista di slittino. In sede di rinvio, la corte d'appello conferma la condanna dell'amministratore delegato, e la Sez. III rigetta il ricorso proposto dall'imputato. Sottolinea ``un duplice e concorrente profilo di colpa, che si radica sia nella sottovalutazione del rischio concernente la pericolosità della pista, sia nell'assenza dell'esercizio di poteri sostitutivi da parte del delegante, stante la colposa inerzia del delegato''. Al primo riguardo, rileva che ``l'iniziale valutazione dei rischi rappresenta un adempimento doveroso e non delegabile, come logicamente si evince dall'art. 17, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008, il quale, sebbene espressamente previsto nell'ambito della sicurezza dei luoghi di lavoro, notoriamente connotati da una pluralità di fonti di pericolo, è estensibile, per identità di ratio, anche al caso in esame, stante l'intrinseca pericolosità della messa in esercizio di una pista di slittino''. Ne trae che ``il gestore avrebbe dovuto valutare il rischio connesso all'esercizio della pista di slittino, senza possibilità di delega, proprio perché tale valutazione rappresenta un prius logico rispetto alla possibilità di conferire a un soggetto terzo la responsabilità in tema di sicurezza della pista''. Spiega che ``il gestore ha l'obbligo di analizzare e individuare con il massimo grado di specificità, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti sulla pista di slittino, avuto riguardo ai luoghi in cui essa è ubicata e alla casistica concretamente verificabile in relazione all'utilizzo della pista medesima, e deve adottare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione per tutelare la salute e la sicurezza degli utenti'', e che, ``in particolare, il gestore avrebbe dovuto identificare il rischio di fuoriuscita dal tracciato, in relazione ai tratti connotati da una particolare pendenza e dalla ripidezza del declivio del lato a valle, tenendo conto della conformazione della pista e dell'eventuale presenza di ghiaccio, e quindi predisporre un adeguato sistema di protezione per fronteggiare detto rischio''. Afferma, pertanto, ``il principio secondo cui il gestore di una pista di slittino ha l'obbligo, non delegabile, di valutare tutti i rischi connessi all'esercizio della pista medesima, sicché egli risponde, a titolo di colpa, della morte di un utente della pista, deceduto a causa di un incidente provocato da una situazione di pericolo - quale l'uscita dal tracciato a causa del fondo ghiacciato e lo schianto contro un ostacolo ubicato nelle immediate vicinanze che non era stato valutato dal gestore medesimo prima della messa in esercizio della pista''. Quanto all'ulteriore profilo di colpa costituito dall'assenza di un intervento sostitutivo da parte del gestore in caso di colpevole inerzia del delegato, la Sez. III ricorda che, ``nell'ambito degli infortuni sul lavoro, il datore di lavoro può assolvere all'obbligo di vigilare sull'osservanza delle misure di prevenzione adottate attraverso la preposizione di soggetti a ciò deputati e la previsione di procedure che assicurino la conoscenza da parte sua delle attività lavorative effettivamente compiute e delle loro concrete modalità esecutive, in modo da garantire la persistente efficacia delle misure di prevenzione scelte a seguito della valutazione dei rischi''. Sostiene che ``un principio del genere è applicabile, per identità della ratio, anche al caso in esame'', in quanto ``il delegante rimane titolare di una posizione di garanzia, il cui contenuto precettivo muta proprio per effetto della delega validamente conferita, e che si concretizza nel dovere di vigilanza sull'attività del delegato''. Considera in proposito ``indispensabile che il delegante sia informato dei principali eventi lesivi che si verifichino sulla pista e delle conseguenti azioni di contrasto intraprese dal delegato'', e ne desume che ``il delegante, all'atto di conferimento della delega deve predisporre adeguati processi che garantiscano un flusso informativo, in modo da acquisire le notizie più rilevanti in tema di sicurezza delle pista al fine di verificare il puntuale adempimento dei doveri a cui il delegato è preposto e, in caso di inerzia di costui, provvedere in sua vece''. Nota ancora che, ``pochi giorni prima del fatto per cui è processo, sulla medesima pista si era verificato un incidente con modalità del tutto analoghe'', e che ``un fatto del genere, per la sua gravità, non solo avrebbe dovuto comportare l'immediata reazione da parte del delegato, ma avrebbe dovuto essere comunicato al delegante, il quale, al fine di esercitare il doveroso controllo sull'attività del delegato, avrebbe dovuto informarsi in ordine alle iniziative assunte per eliminare i rischi all'origine di quel sinistro e che poi si sono replicate con riguardo all'infortunio mortale per cui è processo''. Là dove il delegato, ``dopo l'incidente occorso dieci giorni prima, non aveva provveduto autonomamente a eliminare il rischio di fuoriuscita dalla pista, né segnalato la necessità di un intervento, e ha perciò ravvisato la colpa nell'imputato nel mancato esercizio della vigilanza `alta' da attuare per il tramite di riunioni, interpello dei responsabili e quant'altro necessario - al fine di attivare un potere sostitutivo, adottando quei provvedimenti in materia di sicurezza che il delegato aveva trascurato di prendere''.
Illuminanti sotto ulteriori aspetti:
Morte per asfissia da annegamento di quattro subacquei in una cavità marina sommersa. La Sez. IV conferma la condanna del rappresentante legale della s.r.l. organizzatrice per omicidio colposo e della stessa s.r.l. per il connesso illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies D.Lgs. n. 231/2001: ``Le norme di cui al D.Lgs. n. 81/2008, che presuppongono necessariamente l'esistenza di un rapporto di lavoro, come quelle concernenti l'informazione e la formazione dei lavoratori, si applicano anche in caso di insussistenza di un formale contratto di assunzione. Uno dei deceduti veniva abitualmente impiegato dall'imputato per mansioni strettamente attinenti all'attività imprenditoriale, aventi ad oggetto non soltanto l'accompagnamento dei clienti del diving durante le immersioni, come guida subacquea, ma anche lo svolgimento di una serie di prestazioni accessorie, quali il rimessaggio delle barche e la preparazione delle attrezzature. L'imputato riteneva conveniente affidarsi a collaboratori estemporanei retribuiti in forma precaria, piuttosto che procedere alla formale assunzione dei dipendenti di cui avrebbe avuto bisogno per svolgere adeguatamente la lucrosa attività imprenditoriale, operazione che lo avrebbe obbligato anche a sostenere le spese necessarie per la formazione, a tutela della salute degli stessi lavoratori e dei clienti. Tanto è sufficiente a dimostrare, a prescindere da ogni accertamento in ordine alla natura ed all'entità della retribuzione pattuita, che sull'imputato, certamente identificabile come datore di lavoro, alla luce della normativa richiamata, incombesse una specifica posizione di garanzia nei confronti del lavoratore, che lo obbligava al rispetto di tutte le prescrizioni in materia antinfortunistica. Le peculiari caratteristiche delle cavità sommerse, di regola costituite da ambienti complessi, irregolari, poco illuminati e ricchi di deviazioni e restringimenti, specie quelle più ampie ed articolate, rendono necessario, per chi voglia svolgere il ruolo di guida, un livello di conoscenza che ben difficilmente può essere raggiunto effettuando due o tre escursioni all'interno del sito, per l'elementare rilievo che non basta essere informati del percorso da seguire o dell'eventuale esistenza di aree pericolose ed occorre invece acquisire una concreta capacità di muoversi con disinvoltura all'interno dell'ambiente, nelle più svariate condizioni di visibilità, che può derivare solo da ripetute esperienze, utili ad assimilare i passaggi da seguire, anche attraverso l'individuazione e la memorizzazione di specifici punti di riferimento. La guida non aveva ricevuto una formazione adeguata allo svolgimento delle mansioni affidategli dall'imputato e fu proprio tale mancanza a causare il tragico esito dell'immersione, nella quale persero la vita la stessa guida ed altri tre subacquei. L'imputato, nella sua qualità di datore di lavoro, era gravato da una posizione di garanzia, che lo obbligava al rigoroso rispetto della normativa antinfortunistica ed in particolare all'osservanza delle disposizioni che impongono di tener conto delle capacità dei lavoratori, al momento dell'assegnazione dei compiti, nonché di provvedere al loro adeguato addestramento, prima di consentirne l'accesso alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico (art. 18, comma 1, lettere b ed e, del D.Lgs. n. 81/2008). Le norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non soltanto dei lavoratori nell'esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che si trovino nell'ambiente di lavoro, indipendentemente dall'esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell'impresa, di talché, ove in tali luoghi si verifichino a danno del terzo i reati di lesioni o di omicidio colposi, è ravvisabile la colpa per violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, purché sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale e la norma violata miri a prevenire l'incidente verificatosi, e sempre che la presenza di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell'infortunio, non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità tali da fare ritenere interrotto il nesso eziologico''.
Addebito a un pilota automobilistico di aver cagionato lesioni colpose ad altro pilota in una competizione sportiva all'interno di un circuito, eseguendo ``una manovra di sorpasso in prossimità di una curva a sinistra con modalità non consentite in quanto era stata realizzata con superamento dei margini della pista, sormontando un cordolo di delimitazione, che aveva comportato da un lato il taglio della pista e dall'altro un rimbalzo contro un avvallamento del terreno che ne aveva determinato il rientro nel tracciato con perdita di controllo del mezzo, che aveva finito per tamponare l'auto del conducente antagonista che era finito in testa coda e si era poi ribaltato, da cui conseguivano le lesioni personali''. La Sez. IV conferma l'assoluzione del pilota perché il fatto non costituisce reato: ``Le regole del gioco non sono necessariamente regole cautelari dalla cui inosservanza consegua automaticamente un addebito di colpa penale in presenza di eventi dannosi collegati eziologicamente al gesto sportivo, laddove la violazione di una regola del gioco che sanziona un fallo di gioco non può al contempo dar luogo a colpa penale perché quelle regole definiscono comportamenti resi leciti dalla accettazione da parte di tutti i partecipanti, e dalla loro inosservanza consegue una sanzione sportiva o disciplinare che assume rilevanza nell'ambito della stessa gara in cui è intervenuta la violazione, mediante l'applicazione di una punizione, una penalità o una squalifica, che potrebbe avere conseguenze anche nelle gare successive. Si vengono così a delineare due diverse aree, quella sportiva e quella penale, coperte da regole diverse, perché dirette a gestire rischi diversi: quelli sportivi, conosciuti e accettati dagli atleti, i quali in tale ambito sono consapevoli della potenziale lesività di determinate azioni di gioco, quale conseguenza possibile della pratica sportiva svolta; quelli penali, quale conseguenza dannosa di azioni che esorbitano dall'ordinario sviluppo del gioco o della pratica sportiva interessata, aventi cioè un quid pluris che le rende perseguibili penalmente in quanto caratterizzate da dolo, allorquando siano volontariamente rivolte a procurare nocumento all'avversario, ovvero da colpa allorquando si travalichi, per colpa appunto, il confine della lealtà sportiva tradendo l'affidamento serbato degli altri partecipanti alla competizione sul rispetto dei limiti della stessa. In ogni caso, ne consegue che la verifica della colpevolezza nei delitti colposi di evento nell'ambito delle competizioni sportive non si esaurisce nell'accertamento della inosservanza da parte dell'atleta ad una specifica prescrizione del regolamento sportivo, ma deve estendersi alla individuazione di una regola cautelare che assuma rilievo ai fini penali, idonea a definire il comportamento doveroso secondo standard di prudenza e di diligenza che non esorbitino dalle regole del gioco e non si pongano in contrasto con il naturale sviluppo della pratica sportiva, confliggendo al contempo con i principi di correttezza e di lealtà che sovraintendono la competizione sportiva, valutazione questa rimessa al giudice di merito, tenuto conto delle peculiarità del caso concreto, che non risulta suscettibile di sindacato da parte del giudice di legittimità se sorretta da motivazione non contraddittoria e non caratterizzata da manifesta illogicità''.
Il direttore generale, il direttore tecnico e l'istruttore di calcio di un'associazione sportiva sono condannati per il reato di cui all'art. 590 c.p. per avere cagionato lesioni personali a un minore: ``il piccolo veniva condotto dalla madre alla scuola di calcio, per partecipare all'allenamento; essendo giunto in anticipo, insieme ad altri compagni, entrava sul campo di gioco e, in assenza dell'allenatore, aggrappandosi ad una delle porte in metallo, non ancorata al suolo, ne causava la caduta, rimanendo ferito''. Nel confermare la condanna, la Sez. IV osserva: ``Il responsabile di una società sportiva, che ha la disponibilità di impianti ed attrezzature per l'esercizio delle attività e discipline sportive, è titolare di una posizione di garanzia, ai sensi dell'art. 40, comma 2, c.p., ed è tenuto, anche per il disposto di cui all'art. 2051 c.c., a garantire l'incolumità fisica degli utenti e ad adottare quelle cautele idonee ad impedire il superamento dei limiti di rischio connaturati alla normale pratica sportiva, con la conseguente affermazione del nesso di causalità tra l'omessa adozione di dette cautele e l'evento lesivo occorso ad un utente dell'impianto sportivo. Ne consegue, in via generale, che l'omessa adozione di accorgimenti e cautele idonei al suddetto scopo, in presenza dei quali l'incidente non si sarebbe verificato od avrebbe cagionato pregiudizio meno grave per l'incolumità fisica dell'utente, costituisce violazione di un obbligo di protezione gravante su tale soggetto. Posto che il gioco del calcio implica rischi per l'incolumità fisica dei giocatori anche derivanti dalla struttura in cui l'attività sportiva si svolge, il titolare o responsabile dell'impianto è investito della posizione di garante nei confronti di coloro che la esercitano, ed è tenuto ad impedire il verificarsi di eventi lesivi per coloro che praticano lo sport, previa utilizzazione dell'impianto e delle connesse attrezzature. La porta su cui si è infortunato il minore non era ancorata al suolo, come invece prescritto dall'art. 36 del regolamento del settore per l'attività giovanile e dall'art. 49 del regolamento della Lega nazionale dilettanti e dall'art. 2 dello Statuto, ma non è risultato che le porte fossero munite del fermo. Ed anzi, non erano state predisposte cautele per fissare temporaneamente l'attrezzatura''.
Sull'attività di gokart Cass. 12 gennaio 2017, n. 1321; Cass. 27 luglio 2019 n. 36010; Cass. 26 febbraio 2020, n. 7557. Su un caso di caduta durante una prova di arrampicata in un centro sportivo Cass. 5 maggio 2014 n. 18516. Per un'ipotesi di decesso di due sub durante un'immersione in mare all'interno di una grotta a nove metri di profondità Cass. 27 giugno 2014 n. 27964, ove si chiarisce la posizione di garanzia della guida degli escursionisti. Altra ipotesi di decesso durante un'immersione in un lago in Cass. 24 maggio 2021 n. 20378. Ulteriori casi: campo di calcetto gonfiabile (Cass. 16 gennaio 2019 n. 1763); partita o allenamento di calcio (Cass. 28 febbraio 2018 n. 9160; Cass. 17 gennaio 2018 n. 1864); taekwondo (Cass. 2 dicembre 2015 n. 47752); gara motoristica (Cass. 29 settembre 2022 n. 36783).
Morte di un minore dovuta ad asfissia da annegamento in piscina nel corso del buffet all'aperto organizzato dal legale rappresentante di una s.r.l. incaricata della ristorazione in occasione di una festa di compleanno senza la presenza di bagnino addetto al controllo ed all'eventuale salvataggio: ``l'imputato si era fatto specificamente carico, in maniera inadeguata, della sicurezza dei luoghi in occasione della festa, aveva solo raccomandato di non fare il bagno in piscina, omettendo di predisporre anche dissuasori fisici o un servizio di sorveglianza atto ad impedire che gli ospiti, tutti molto giovani, al pari della vittima, si comportassero come era prevedibile e come lui stesso temeva potesse accadere''. (Il decesso di un minore in piscina fu addebitato al bagnino in Cass. 7 maggio 2020, n. 13848, e ai dirigenti di un'associazione sportiva dilettantistica in Cass. 5 febbraio 2020, n. 4890).
Condannato per il decesso di un bagnante in piscina, il legale rappresentante della s.a.s. esercente tale piscina lamenta l'applicazione di una disposizione abrogata, contenuta nell'atto d'intesa del 1992 tra Stato e Regioni relativo alla costruzione, manutenzione e vigilanza delle piscine, sostituito dal d.m. del 18 marzo 1996 (norme di sicurezza per la costruzione e l'esercizio degli impianti sportivi). La Sez. IV ribatte: ``L'intesa Stato-Regioni, pubblicata nella gazzetta ufficiale n. 39 del 1995, è stata sostituita dalla Conferenza Stato-Regioni del 16 gennaio 2003, avente ad oggetto l'accordo tra il Ministro della salute, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano relativo agli aspetti igienico-sanitari per la costruzione, la manutenzione e la vigilanza delle piscine a uso natatorio, il cui punto 4 prevede che `l'assistenza ai bagnanti deve essere assicurata durante tutto l'orario di funzionamento della piscina; l'assistente bagnanti abilitato alle operazioni di salvataggio e di primo soccorso ai sensi della normativa vigente, vigila ai fini della sicurezza, sulle attività che si svolgono in vasca e negli spazi perimetrali intorno alla vasca; in ogni piscina dovrà essere assicurata la presenza continua di assistenti bagnanti'. Invero, a prescindere dalla corretta individuazione della fonte della regola cautelare, il contenuto dell'intesa e del successivo accordo della conferenza è identico, differenziandosi solo per il riferimento della prima ad un numero minimo di due assistenti bagnanti, mentre il secondo si limita a usare il termine assistenti bagnanti al plurale, senza specificare il numero, che, comunque, deve essere adeguato al numero dei frequentatori ed alle dimensioni dell'impianto. Il decreto ministeriale e gli accordi tra Amministrazioni sono atti tra di loro eterogenei, tra cui non si pone un rapporto di successione di leggi nel tempo, sicché il successivo atto normativo non potrebbe comportare la caducazione degli impegni presi dalle Amministrazioni in virtù di specifiche intese, salvo verificare la loro sufficienza ed adeguatezza al fine di assicurare lo standard di sicurezza fissato con il d.m. Inoltre, l'art. 1 del citato d.m. 18 marzo 1996 limita il proprio ambito applicativo ai complessi e agli impianti sportivi di nuova costruzione e a quelli esistenti, già adibiti a tale uso anche se inseriti in complessi non sportivi, nei quali si intendono realizzare variazioni distributive e/o funzionali, eccetto gli interventi di manutenzione ordinaria di cui all'art. 31 lettera a) della legge del 5 agosto 1978, n.457, nei quali si svolgono manifestazioni e/o attività sportive regolate dal C.O.N.I. e dalle Federazioni Sportive Nazionali riconosciute dal C.O.N.I., riportate nell'allegato, ove è prevista la presenza di spettatori in numero superiore a 100''.
Il legale rappresentante di una s.r.l. esercente un impianto di piscine e acquascivoli fu assolto dal reato di lesioni personali colpose in danno di un dipendente con mansioni di assistenza bagnanti, inciampato e caduto lungo uno scivolo, e ciò perché ``l'insufficiente materiale probatorio non consentiva di affermare con certezza che se anche l'impianto avesse rispettato i requisiti di sicurezza dettati dalla norma UNI EN 1069-1, garantendo una distanza di 10 metri liberi di fronte allo sbocco dello scivolo, l'infortunio non si sarebbe verificato o si sarebbe verificato con modalità diverse e meno gravi per la persona offesa''. La Sez. IV annulla la sentenza impugnata dalla parte civile, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello, ritenendo necessario valutare ``se ed in quale misura l'omessa predisposizione del documento di valutazione dei rischi da parte del datore di lavoro e, dunque, l'omessa preventiva individuazione degli specifici fattori di pericolo concretamente ricollegabili all'attività lavorativa o all'ambiente di lavoro con conseguente omessa adozione delle misure precauzionali e dei dispositivi idonei per la prevenzione degli infortuni nonché, infine, l'omessa formazione dei lavoratori possa avere avuto efficienza causale nella determinazione dell'evento lesivo''.
``Erano annegate in una piscina due minori. La vasca era una pertinenza annessa all'abitazione concessa in locazione ai genitori. La concessione dell'immobile trovava causa giustificativa nell'attività di bracciante agricolo che l'uomo svolgeva presso l'azienda agricola, limitrofa all'abitazione, dell'imputata. Nel cortile antistante l'abitazione vi era una piscina da sempre utilizzata per l'irrigazione dei campi di pertinenza dell'azienda agricola; tramite un sistema di tubi l'acqua (melmosa) raccolta al suo interno veniva fatta confluire nei terreni limitrofi posti fuori dalla recinzione della villetta. I bordi della piscina non risultavano in alcun modo protetti da parapetti (o strutture simili) volti ad impedire l'accidentale caduta di persone al suo interno. Si riteneva sussistente in capo alla proprietaria dell'immobile e nel contempo datrice di lavoro del padre delle minori una posizione di garanzia, nella veste di datrice di lavoro, in relazione ad una vasca piena di acqua fangosa sino all'altezza massima di 2,50 metri, utilizzata per innaffiare, tramite un motore elettrico, i campi circostanti, posizione di garanzia operante nei confronti di tutti coloro, non necessariamente lavoratori dipendenti ma anche terzi, che potessero comunque venire in contatto o trovarsi nell'area adita all'attività lavorativa. I profili di colpa ritenuti sussistenti erano di tipo sia specifico (violazione delle norme antinfortunistiche poste in relazione alla presenza di vasche di irrigazione, che devono essere necessariamente difese da parapetti) che generico (art. 2087 c.c.), attese le dimensioni della vasca, la mancanza di protezioni e la presenza di figli minori del proprio dipendente, che l'imputata sapeva abitare nella villetta di campagna, per accedere alla quale, peraltro, occorreva attraversare il piazzale in cui insisteva la piscina, in ogni caso raggiungibile, dall'interno dell'abitazione, tramite la porta a vetri della veranda''.
(Per un caso di decesso di un bagnino recatosi a nuoto con mare mosso verso una boa posizionata a circa 45 m da riva per tagliare i cavi di trattenuta della boa Cass. 8 settembre 2017, n. 41171; sulla condanna di una domestica per il decesso di una bambina nella piscina di una villa Cass. 2 aprile 2019, n. 14284).
Per un caso di rinuncia alla priorità dell'esercizio della giurisdizione dello Stato italiano in procedimento a carico di militare appartenente alle forze statunitensi della NATO per il delitto di lesioni personali colpose v. Cass. 2 gennaio 2018, n. 36.
Approfondita in tema di responsabilità nel settore della pianificazione idrogeologica:
``Dalla parete rocciosa di Cala Rossano nell'isola di Ventotene, si è staccato all'improvviso un masso sporgente che è caduto sulla spiaggia, nel punto in cui si trovava una scolaresca in gita, schiacciando due adolescenti e provocandone la morte''. La Sez. IV ne trae spunto per affermare molteplici principi di diritto:
- ``Il corretto svolgimento da parte della Regione e del Comune di funzioni amministrative inerenti alla pianificazione idrogeologica ed alla materia turistico-ricettiva e l'attribuzione al Sindaco di funzioni amministrative in materia di protezione civile comportano a carico degli amministratori degli Enti locali obblighi di controllo circa il sicuro accesso alla spiaggia dalla terraferma, non elisi dalla riserva allo Stato di funzioni amministrative sulle aree destinate ad uso pubblico inerente ai distinti interessi di difesa e sicurezza nazionale, identificate con D.P.C.M. 21 dicembre 1995''.
- ``Nell'ambito della pianificazione si riscontra la presenza di molteplici figure di garanti, la cui individuazione non può, tuttavia, prescindere da un'accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all'interno di ciascun Ufficio, con residuale rilievo a poteri di gestione e controllo di matrice prettamente fattuale''.
- ``In una materia quale la pianificazione idrogeologica, che amplia le maglie dell'obbligo impeditivo fino ad includervi norme procedimentali contenenti doveri di comunicazione e d'informazione che lambiscono il confine della cosiddetta soft law laddove non abbiano contenuto espressamente precettivo, l'attribuzione di posizioni di garanzia senza che ne sia stata indicata la fonte si riverbera in carenza del percorso motivazionale, che deve sempre essere improntato all'attribuzione della responsabilità per colpa omissiva nel rispetto del principio di legalità enunciato dall'art. 25 Cost., tanto più nel settore della pubblica amministrazione connotato da una predeterminata ripartizione di funzioni, competenze e poteri''.
- ``Nella determinazione del nesso causale, il succedersi di garanti deve valutarsi alla stregua di una successione di aree di garanzia, per cui solo un errore nuovo, idoneo ad aprire nuovi scenari, nuove aree di rischio rispetto a quella innescata nello scenario di rischio in cui operava il primo garante, potrebbe sollevare dubbi sull'idoneità del comportamento alternativo corretto ad impedire l'evento''.
- ``Il dato di riferimento dell'agente modello - al fine dell'adeguamento della sua condotta all'osservanza delle regole cautelari in materia di prevenzione di danni conseguenti ad eventi calamitosi da rischio idrogeologico - non è il percepito ma il percepibile con l'osservanza del livello di diligenza richiesto per il medesimo agente, al quale non si chiedono specifiche competenze in materia idrogeologica ma si chiede di segnalare la necessità che l'area interessata da precedenti frane sia sottoposta ad osservazione da parte di specialisti del settore ed interdetta al pubblico fino ad una compiuta valutazione del rischio; in altre parole, di non adagiarsi su fatti già avvenuti in assenza di elementi di conoscenza che consentano di escludere ulteriori, più gravi, fenomeni''. (Su questa vicenda v., successivamente, Cass. 17 aprile 2021, n. 15671 che annulla con rinvio al giudice civile).
Nel trarre spunto dall'infortunio durante un'esercitazione di enduro sportivo, la Sez. IV ripropone il tema della volontaria esposizione a pericolo della persona offesa: ``Sin da epoca risalente la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha ritenuto che la volontaria esposizione al pericolo da parte della vittima, pienamente capace di intendere e volere, fosse interruttiva del nesso causale tra l'evento e la condotta eventualmente colposa addebitata all'imputato. Questa Corte, più recentemente, ha anche chiarito che, ai fini dell'apprezzamento dell'eventuale interruzione del nesso causale tra la condotta e l'evento, il concetto di causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento si riferisce non solo al caso di un processo causale del tutto autonomo ma anche all'ipotesi di un processo non completamente avulso dall'antecedente e tuttavia sufficiente a determinare l'evento. Tali principi sono stati recepiti da Sez. IV n. 36920/2014 [richiamata al paragrafo 15], che è arrivata ad escludere la responsabilità del gestore di un impianto sciistico, rilevando che la dinamica dell'incidente escludeva l'evento come conseguenza della pericolosità in sé della cosa, ascrivendolo alla condotta consapevolmente e volontariamente rischiosa della vittima. In tale pronuncia viene sancito il principio di `libera autodeterminazione della vittima' che `impone di considerare l'evento come effetto della scelta da parte di un soggetto, che esclude la riferibilità anche ad altro agente' in quanto `la decisione di autoesporsi al pericolo oltrepassa la condotta del primo agente esonerandolo in linea di principio dall'accollo dell'evento''. Con l'avvertenza, però, che occorre confrontarsi anche con altri principi quale quello per cui ``il responsabile di attrezzature sportive o ricreative è titolare di una posizione di garanzia a tutela dell'incolumità di coloro che le utilizzano, anche a titolo gratuito, sia in forza del principio del `neminem laedere', sia nella qualità di `custode' delle stesse attrezzature, come tale civilmente responsabile, fuori dall'ipotesi del caso fortuito, dei danni provocati dalla cosa ex art. 2051 c.c., sia quando l'uso delle attrezzature dia luogo a un'attività da qualificarsi come pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c., rispetto alle quali egli è obbligato ad adottare tutte le misure idonee ad evitare l'evento dannoso'', o quello per cui ``il gestore di un centro sportivo è titolare di una posizione di garanzia, che gli impone di adottare le necessarie cautele per preservare l'incolumità fisica degli utilizzatori, provvedendo alla manutenzione delle infrastrutture e delle attrezzature''.
Sempre più diffusa e avvincente sta diventando la riflessione della Corte Suprema in merito al delitto di cui all'art. 603-bis c.p., a conferma del rilievo ormai assunto dal fenomeno che contrariamente alle comuni opinioni appare in pericolosa espansione al Sud come al Nord e al Centro Italia, per giunta anche in settori diversi dall'agricoltura quali i cantieri navali, gli autotrasporti, gli autolavaggi, l'abbigliamento, persino i centri estetici (v. l'e-book Guariniello, Il caporalato commentato con la giurisprudenza, Wolters Kluver, 2023; nonché Guariniello, Immigrati clandestini nel mondo del lavoro tra caporalato e schiavitù, in Dir.prat.lav., 2023, 25, 1551). Tra gli indici di sfruttamento fa spicco ``la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro''.
Per sfruttamento continuato del lavoro di una pluralità di cittadini stranieri per lo più di origine pakistana, la Sez. IV conferma la condanna senza il beneficio della condizionale della pena del responsabile e del suo collaboratore di una s.r.l. subappaltatrice di lavori di fine produzione (confezione/imballaggio merce e attività di fine linea) appaltati da una s.p.a. operante nel settore della rilegatoria di libri. Tra gli indici di sfruttamento, viene sottolineata la ``manifestata indifferenza alle difficoltà e all'incolumità dei lavoratori, ai quali erano pure negati i presidi per lavorare in condizioni di sicurezza con i macchinari''.
Sequestro preventivo della somma di 53.460,00 euro disposto nei confronti degli indagati per il reato di cui all'art. 603-bis c.p., per avere, quali titolari di fatto e di diritto di un'impresa commerciale, impiegato manodopera in condizioni di sfruttamento. Tra gli indici di sfruttamento ``la sistematica violazione delle norme a tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro'': ``nei locali erano risultati presenti impalcature espositive e di altro genere traballanti; i lavoratori non erano stati sottoposti a visita medica, se non dopo l'assunzione''.
Condanna del proprietario di una masseria e di un gregge di ovini e caprini ``per aver assunto e impiegato alle proprie dipendenze un pastore in condizioni di assoluta povertà, in precarie condizioni familiari e affetta anche da deficit intellettivi, sottoponendolo a condizioni di sfruttamento''. Era emerso che ``al pastore veniva corrisposta una retribuzione di gran lunga inferiore a quelle previste dalla contrattazione collettiva di settore e, comunque, sproporzionata rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato, con una paga oraria di 1,19 euro per una giornata lavorativa dalle ore 5.30 alle ore 18.00 in assenza di riposi settimanali''; che ``era stato avviato ai lavori della pastorizia in violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro (art. 18, comma 1, lett. c, 36 e 37, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008), ovvero in assenza di verifica del suo stato di salute e senza fornire le informazioni obbligatorie in materia di sicurezza''; che ``gli era stata fornita ospitalità in azienda in situazione alloggiativa degradante, ovvero all'interno di una roulotte collocata alle spalle dell'ovile, priva di energia elettrica, di riscaldamento, di acqua potabile, di attrezzatura per cucinare e conservare il cibo, con servizio igienico guasto e colmo di liquame''. A sua discolpa, l'imputato, anzitutto, deduce le proprie difficoltà economiche, e lamenta, inoltre, che i giudici avrebbero ravvisato la condizione di sfruttamento nella mera inosservanza della normativa concernente l'igiene e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Ma la Sez. IV non accoglie queste argomentazioni. Sotto il primo profilo, rileva che ``le condizioni economiche del datore di lavoro non possono mai dare ragione del trattamento miserevole e degradante del lavoratore''. Sotto il secondo profilo, osserva che ``lo sfruttamento può essere integrato dalla presenza anche di uno solo degli indici elencati nell'art. 603-bis, comma 3, c.p.'', e prende atto che comunque, nel caso di specie, ``a prescindere dal rilievo che anche solo la riscontrata violazione delle norme in materia di igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro, se accompagnata dall'approfittamento dello stato di bisogno, può integrare in astratto la fattispecie incriminatrice'', si riscontra ``una complessiva situazione di sfruttamento in cui tutti gli indici su indicati erano compresenti e si era realizzato un asservimento del lavoratore, costretto in una situazione, inumana, di totale degrado''.
``La mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario ne/ territorio nazionale, accompagnata da situazione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non può di per sé costituire elemento valevole da solo ad integrare il reato di cui all'art. 603-bis c.p. caratterizzato, al contrario, dallo sfruttamento del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono ad una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rapporto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio. Nel caso di specie, i giudici di merito non si sono `accontentati' della mera condizione del cittadino extracomunitario presente nel territorio nazionale, accompagnata da una situazione di disagio e dal bisogno di accedere al lavoro, ma hanno posto in luce la situazione di vero e proprio sfruttamento del lavoratore, in posizione non già di mera disparità contrattuale ma di vera e propria soggezione rispetto al datore di lavoro, soggezione dimostrata dai profili retributivi (paga quasi sempre inferiore al minimo sindacale e decurtata per pretese spese sostenute dal datore di lavoro), dalla violazione delle norme in materia di igiene sul lavoro, svolto anche per nove o dieci ore al giorno, senza contratto, senza busta paga ed anche la domenica, dalla sottoposizione a penose condizioni di lavoro e a degradanti condizioni di alloggio, in veri e propri tuguri con materassi a terra uno accanto all'altro in situazione di promiscuità''.
Sequestro in origine probatorio, ma poi convertito in preventivo, di 61 macchine da cucire a Prato in relazione al reato di caporalato. A propria discolpa, l'indagato lamenta che ``il Tribunale avrebbe affermato la (sua) consapevolezza dello stato di bisogno in cui versavano i dipendenti, essendo questa implicata dal ruolo apicale da lui rivestito nell'amministrazione dell'impresa e dalle modalità dello sfruttamento dei lavoratori'', e che ``tale metodica avrebbe comportato il disconoscimento della rilevanza autonoma dell'approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori quale elemento necessario ai fini della punibilità, ai sensi della fattispecie incriminatrice, distinto da quello dello sfruttamento ed integrato dalla conoscenza dello stato esistenziale della persona unita al vantaggio che consapevolmente se ne trae'', tanto è vero che ``nessuno dei lavoratori escussi a sommarie informazioni aveva dichiarato che egli fosse consapevole delle loro condizioni socio-familiari''. Inoltre, l'indagato nega ``la ritenuta sussistenza del periculum in mora, individuato nel rischio di alienazione, da parte dell'indagato, dei beni oggetto della richiesta di sequestro preventivo'', e al riguardo rileva che egli ``aveva richiesto al PM ed ottenuto di poter utilizzare i macchinari già oggetto di sequestro probatorio'', ``circostanza che deporrebbe in senso contrario rispetto alla volontà di compiere una cessione di azienda al fine di alienarli''. La Sez. III disattende queste argomentazioni difensive. Quanto allo stato di bisogno, rileva che ``la struttura del reato contestato prevede la rilevanza penale della condotta di impiego di manodopera, sottoposta a sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno in cui quella versa'', e che ``il consapevole approfittamento dello stato di bisogno in cui versavano i lavoratori utilizzati dall'indagato era stato plausibilmente tratto dalla circostanza che era stato lo stesso indagato, evidentemente messo al corrente della condizione in cui i lavoratori si trovavano, a reperire per loro le precarie sistemazioni abitative nelle quali essi avevano alloggio e dovendosi ritenere che il bisogno abitativo, così da lui precariamente soddisfatto, sia da ricomprendere fra le condizioni integranti lo stato di bisogno necessario ai fini della sussistenza del reato''. Per ciò che attiene al requisito dello sfruttamento, sottolinea, ``quali indici inequivocabili'', ``la plurima violazione della normativa in materia di sicurezza ed igiene sui luoghi di lavoro, la sorveglianza, tramite strumenti di ripresa televisiva, cui faceva seguito, in caso di errori nello svolgimento dei compiti assegnati, l'obbligo di riparare ad essi in orari esulanti rispetto a quello ordinari di lavoro, la mancata retribuzione in caso di malattie brevi o di riposi, oltre ai pesantissimi ritmi di lavoro imposti alle maestranze''. Circa il periculum in mora, la Sez. III premette che ``l'art. 603-bis.2. c.p. prevede, in caso di condanna, la confisca obbligatoria delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, categoria in cui indubbiamente rientrano i macchinari al cui funzionamento erano destinate le persone offese del reato''. Precisa che, ``trattandosi di cose mobili, l'esistenza del pericolo di una loro dispersione è sostanzialmente immanente, dato l'agile regime di trasferimento della proprietà dei beni tale, fra l'altro, da rendere assai arduo il recupero del bene ove ceduto a terzi'', e che non ``si può ritenere che il pericolo in questione sia escluso dal fatto che l'indagato abbia ottenuto il permesso di proseguire nello svolgimento della sua attività imprenditoriale, potendo, evidentemente, la stessa essere svolta anche con macchine diverse da quelle che, ad oggi, costituiscono il corpo del reato''. Considera poi ``la circostanza che in ogni caso la florida condizione patrimoniale del prevenuto consentirebbe, anche ove fosse perduta la disponibilità dei macchinari in questione, il ricorso alla forma sussidiaria di confisca per equivalente, il che renderebbe del tutto evanescente il periculum in mora''. Ma ribatte che ``proprio la natura sussidiaria della confisca per equivalente la rende una ipotesi subordinata alla impossibilità di provvedere alla confisca diretta, impossibilità che, nei limiti del consentito, deve essere scongiurata onde perseguire la forma elettiva di confisca diretta e non, solamente, quella ad essa logicamente subordinata''.
Al centro di queste tre sentenze una complessa vicenda avente per oggetto la misura del sequestro preventivo in relazione al reato di cui all'art. 603-bis c.p. contestato agli amministratori, all'addetto alla sorveglianza dei braccianti e all'addetta alle buste paga di una s.r.l. esercente la produzione e la vendita di fragole, nonché al connesso illecito amministrativo di cui all'art. 25-quinquies ascritto alla s.r.l. Nell'annullare con rinvio il provvedimento impugnato dagli amministratori e dalla s.r.l., la Sez. IV si sofferma, in particolare, sul ``principio di proporzionalità che, in tema di sequestro preventivo impeditivo, impone al giudice cautelare di motivare sull'impossibilità di fronteggiare il pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero di agevolazione della commissione di altri reati ricorrendo a misure cautelari meno invasive oppure limitando l'oggetto del sequestro o il vincolo posto dallo stesso in termini tali da ridurne l'incidenza sui diritti del destinatario della misura reale''. E osserva: ``Del tema della proporzionalità, concetto centrale del costituzionalismo contemporaneo, si è più volte occupato il giudice delle leggi, che ha definito il test di proporzionalità, utilizzato da molte delle giurisdizioni costituzionali europee, spesso insieme con quello di ragionevolezza, ed essenziale strumento della Corte di giustizia dell'Unione europea per il controllo giurisdizionale di legittimità degli atti dell'Unione e degli Stati membri, come volto a `valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi' (così Corte Cost., sentenza n. 1 del 2014)''. Pertanto, ``in caso di sequestro preventivo dell'intero compendio aziendale, i principi di adeguatezza e proporzionalità impongono al giudice della cautela di verificare il valore preponderante, o quanto meno il significativo rilievo, dell'utilizzo strumentale della impresa alla consumazione dei reati per cui è stata richiesta la misura, rispetto alla operatività lecita della impresa stessa, onde evitare che il vincolo coercitivo determini una esasperata compressione dei diritti di proprietà e di libertà di iniziativa economica privata'', e ``ciò vale sia per il sequestro preventivo impeditivo di cui all'art. 321, comma 1, che per quello finalizzato alla confisca di cui all'art. 321, comma 2, c.p.p.''. (Da notare che lo sfruttamento contestato sarebbe consistito anche ``nella violazione della normativa in materia di igiene e sicurezza del lavoro, atteso che nell'azienda agricola non vi erano servizi igienici, lavabi, refettorio e luogo per riposare a disposizione dei lavoratori e che venivano fatti utilizzare prodotti fitosanitari a lavoratori non abilitati, non avendo frequentato i corsi professionali previsti dalla normativa di settore'').
``I datori di lavoro erano consapevoli del mancato riconoscimento ai braccianti dei diritti e delle garanzie proprie della posizione di lavoratore dipendenti (mancanza di adeguati DPI, assenza di formazione professionale nonostante la complessità di alcune lavorazioni, la carenza di protezioni o garanzie in caso di infortunio)''.
Nel ricorrere contro la sentenza di patteggiamento per il reato di cui all'art. 603-bis, c.p., gli imputati sollevano eccezione di legittimità costituzionale di tale norma in relazione agli artt. 3, 25, 27, comma 3, e 117, comma 1, Cost., con riferimento all'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, per disparità di trattamento sanzionatorio fra la fattispecie impugnata e quella di cui all'art. 22, comma 12-bis, D.Lgs. n. 286/1998. E in particolare sostengono che ``l'abbassamento della soglia di significatività penale emerge dalla modifica apportata all'indice di cui all'art. 603-bis, comma 3, n. 3) c.p., che in precedenza richiedeva che la violazione della normativa antinfortunistica implicasse l'esposizione del lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l'incolumità personale, laddove ora è richiesta la semplice sussistenza di violazioni in materia di sicurezza ed igiene dei luoghi di lavoro, tanto da costituire `sfruttamento' anche la mancata predisposizione di cartelli o l'omessa redazione di documenti, con l'effetto di dilatare i comportamenti meritevoli di sanzione penale, senza alcuna selezione''. La Sez. IV rileva la manifesta infondatezza della questione: ``La formulazione dell'art. 603-bis c.p. non viola il principio della tipicità penale, perché la condotta punita è chiaramente definita nello sfruttamento lavorativo con approfittamento dello stato di bisogno. La condizione di sfruttamento che non si avvantaggi dello stato di bisogno non integra il reato di cui all'art. 603-bis c.p., avendo il legislatore scelto di punire non lo sfruttamento in sé, ma solo l'approfittamento di una situazione di grave inferiorità del lavoratore, sia essa economica, che di altro genere, che lo induca a svilire la sua volontà contrattuale sino ad accettare condizioni proposte dal reclutatore o dall'utilizzatore, cui altrimenti non avrebbe acconsentito. Non basta, dunque, che ricorrano i sintomi dello sfruttamento, come indicati dal comma 3 dell'art. 603-bis c.p., ma occorre l'abuso della condizione esistenziale della persona, che non coincide solo con la sua conoscenza, ma proprio con il vantaggio che da quella volontariamente si trae''.
``La condotta di cui all'art. 603-bis c.p. configura un'area nella quale la condotta del datore di lavoro non possa essere liquidata come una violazione meramente formale della normativa giuslavoristica, il che accade ogni volta in cui la condotta sia tale da incidere, almeno potenzialmente, su beni afferenti la persona del lavoratore, in tutte le ipotesi in cui il datore di lavoro dia priorità al proprio vantaggio economico rispetto alla tutela di beni individuali essenziali, così determinando una strumentalizzazione della persona, in cui si verifica un sacrificio dei diritti fondamentali di questa per ragioni meramente economiche''.
``Si è sottolineata l'insussistenza dell'indice inerente alla violazione della normativa sulla sicurezza e sull'igiene dei luoghi di lavoro, ricorrendo nella fattispecie una mera attività di raccolta di fragole, per la quale non erano previsti particolari dispositivi di protezione ad eccezione dei guanti, i quali effettivamente non erano in dotazione ai lavoratori, ma erano comunque finalizzati ad evitare il deterioramento del frutto e non a salvaguardare la salute dei dipendenti. All'indicazione dell'ordinanza impugnata circa l'inesistenza di rischi che imponessero l'utilizzo di presidi con caratteristiche particolari, la Procura ricorrente, peraltro, non ha opposto l'enunciazione di diversi mezzi di tutela dell'incolumità dei braccianti a loro non distribuiti dal datore di lavoro né, tantomeno, ha spiegato il rischio (meccanico, fisico, chimico, termico ecc.) derivante dall'attività di raccolta di frutta''.
La Sez. IV conferma l'obbligo di dimora per il reato di cui all'art. 603-bis c.p. nei confronti dell'RLS di un'azienda agricola che esercitava ``la funzione di collegamento interno all'azienda e di referente principale per i caporali per rifornire di manodopera la società''. In particolare, l'indagato teneva i contatti necessari ``sia per il reclutamento dei braccianti, sia per la raccolta della documentazione formale assemblata per consegnarla all'azienda, ciò al fine di predisporre una copertura formale dell'attività lavorativa prestata''; non svolgeva ``il ruolo di mero recettore della manodopera portata presso l'azienda agricola, ma era preposto alla vigilanza sui lavoratori, alla gestione degli stessi e al collegamento per la distribuzione ai braccianti del modesto importo retributivo''. Da notare, nel caso di specie, ``la totale assenza di osservanza delle norme in materia di sicurezza del lavoro, ad esempio senza dispositivi di protezione individuale''.
La Sez. IV rigetta il ricorso del P.M. avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame che annulla il sequestro preventivo di un'impresa individuale per il reato di cui all'art. 603-bis c.p.: ``Ciò che l'ordinanza sostiene è che nella raccolta delle fragole, in serra o in campo, non sono presenti rischi che impongano l'utilizzo di calzature con caratteristiche particolari. Rispetto a questa affermazione, con cui si esclude la presenza di un rischio specifico implicante la necessità dell'adozione di un determinato tipo di calzatura, il P.M. non oppone l'identificazione del rischio che rende necessaria l'adozione del dispositivo individuale di protezione, ancorché per aversi violazione della normativa antinfortunistica sia necessario che esso sia individuato e che sia previsto uno specifico dispositivo di contenimento. Non spetta a questa Corte valutare direttamente `se' e `quale' tipo di rischio (meccanico, fisico, chimico, termico ecc.) comporti un certo genere di attività, tanto più in assenza di qualsiasi allegazione. Ancora nessun difetto di motivazione si appalesa in ordine alla contestata sussistenza di condizioni di lavoro degradanti. Anche su questo punto il giudice del riesame spiega come non possa tenersi in considerazione quale indice di sfruttamento l'avere i lavoratori dovuto operare a `schiena piegata', posto che il lavoro di raccolta in campo di fragole e piselli non conosce modalità alternative''.
``Al di là della vaghezza della contestazione introdotta dal P.M. ricorrente - che si limita a dolersi del fatto che il Tribunale per il Riesame non si sia fatto carico di spiegare perché, nonostante il D.Lgs. n. 81/2008 si estenda anche ai lavori agricoli, possa ritenersi non necessario l'utilizzo dei presidi nelle operazioni di raccolta di frutta - vi è che i dispositivi di protezione individuali sono prescritti al fine di evitare rischi specifici derivanti dalla lavorazione, suscettibili di minare la salute del lavoratore. Ed invero, l'art. 79 D.Lgs. n. 81/2008 rimanda - per l'individuazione dei dispositivi necessari per le singole lavorazioni - all'Allegato VIII contenente le indicazioni generali relative a protezioni particolari, laddove si prevede che `Per la protezione dei piedi nelle lavorazioni in cui esistono specifici pericoli di ustioni, di causticazione, di punture o di schiacciamento, i lavoratori devono essere provvisti di calzature resistenti ed adatte alla particolare natura del rischio. Tali calzature devono potersi sfilare rapidamente' e che `Qualora sia necessario proteggere talune parti del corpo contro rischi particolari, i lavoratori devono avere a disposizione idonei mezzi di difesa, quali schermi adeguati, grembiuli, pettorali, gambali o uose'. Nell'elenco indicativo contenuto nello stesso allegato si distinguono diversi tipi di protezioni dei piedi e delle gambe, a seconda del tipo di rischio da contenere, sia esso meccanico, chimico, fisico o biologico (punto 2), mentre nell'elenco indicativo delle attività (punto 3.2) si specifica quale caratteristica debba avere la calzatura (con o senza suola imperforabile, con o senza tacco ecc.) per ciascun tipo di attività, cui è connesso il rischio. Ciò che l'ordinanza del Tribunale del Riesame sostiene, pur senza fare cenno al contenuto delle disposizioni appena richiamate, così come peraltro il P.M. ricorrente, è che nella raccolta delle fragole, in serra o in campo, non sono presenti rischi che impongano l'utilizzo di calzature con caratteristiche particolari. Rispetto a questa affermazione, con cui si esclude la presenza di un rischio specifico implicante la necessità dell'adozione di un determinato tipo di calzatura, il P.M. ricorrente non oppone l'identificazione del rischio che rende necessaria l'adozione del dispositivo individuale di protezione, ancorché per aversi violazione della normativa antinfortunistica sia necessario che esso sia individuato e che sia previsto uno specifico dispositivo di contenimento. Manca, in buona sostanza, a fronte dell'assunto del giudice secondo cui non sussiste un rischio da proteggere, un'efficace contestazione sulla sua esistenza e natura, che consenta di valutare se non fornire calzature specifiche possa costituire violazione della normativa antinfortunistica, mentre non spetta a questa Corte valutare direttamente `se' e `quale' tipo di rischio (meccanico, fisico, chimico, termico ecc.) comporti un certo genere di attività, quando nulla sia allegato in proposito''.
``L'impiego della manodopera avveniva violando la normativa in materia di sicurezza e igiene sul lavoro, in quanto si impiegavano i lavoratori senza fornire loro dispositivi per la prevenzione degli infortuni (guanti, scarpe, abbigliamento ecc.) necessari allo svolgimento delle mansioni cui venivano adibiti e, anzi, li si costringevano, ove necessari, ad acquistarli a loro spese''.
``Non pare dirimente il tema del tipo di scarpe che i lavoratori utilizzavano per l'attività di raccolta delle fragole. Evidentemente, lo stesso viene posto in relazione al dato che si fa riferimento alla `sussistenza di violazione delle norme in materia di igiene e sicurezza del lavoro' e che si contesta, quale aggravante, di avere esposto i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo per la loro incolumità, e tanto avuto riguardo alle caratteristiche della prestazione da svolgere (trattandosi di lavoro agricolo) e delle condizioni di lavoro (in particolare, essendo i lavoratori impiegati sui campi, senza alcun dispositivo di protezione individuale). Ebbene, detto che vale anche per la violazione di norme prevenzionistiche il principio che devono essere sistematiche, nel senso che devono essere plurime per ciascun lavoratore, non potendo sommarsi quelle relative a più lavoratori, va aggiunto che appare indimostrato che, in relazione a quel tipo di lavoro agricolo, fossero necessarie scarpe antinfortunistiche''.
``Persistenza di situazioni di pericolosità, in particolare per la presenza di un impianto elettrico non a norma; omessa formazione''.
Sentenza di patteggiamento in relazione al reato di cui all'art. 603-bis c.p. contestato al rappresentante legale e datore di lavoro di una cooperativa di trasporti con sede nella zona di Busto Arsizio in particolare perché ``reiteratamente violava la normativa in materia di orario di lavoro, riposo e ferie, imponendo agli autisti di guidare gli autoarticolati per moltissime ore consecutive, in contrasto con la disciplina degli orari massimi di guida e dei riposi obbligatori, e di ricorrere ad artifici per eludere eventuali controlli di polizia; non rispettava la normativa in materia di sicurezza sul lavoro, omettendo del tutto la informazione e formazione dei lavoratori, esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro''.
``La violazione delle disposizioni in tema di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro non è di per sé capace di integrare la condotta del delitto, occorrendo comunque che il lavoratore risulti sfruttato e che del suo stato di bisogno il datore di lavoro abbia profittato''. Nel caso di specie, la Sez. IV sottolinea, in particolare, ``l'assunzione di un lavoratore senza una visita medica preventiva, in assenza di dispositivi di protezione individuale e in spregio delle norme di sicurezza e igiene sul lavoro, lo sfruttamento dello stato di bisogno di un lavoratore''.
``L'indice di sfruttamento lavorativo consistente nella sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro è stato modificato nella sostanza dalla L. n. 199/2016 che ha espunto il requisito per cui la situazione di sfruttamento poteva essere accertata solo quando le violazioni della normativa in materia di sicurezza fossero tali da esporre il lavoratore ad un pericolo per la sua salute o la sua sicurezza o incolumità personale. Abbassata la soglia di significatività penale del comportamento, è ora sufficiente l'offesa alla dignità della persona''.
Tra le ``situazioni di sfruttamento'' evocate da questa sentenza, fa spicco la ``violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene sul lavoro (presenza di vermi, insetti, roditori e rifiuti organici in stato di avanzata decomposizione)''. ``Nel corso di un sopralluogo all'impianto di rifiuti non pericolosi gestito dalla società venivano riscontrate diverse violazioni in materia ambientale e della normativa antincendio. Risultava che i locali erano infestati da vermi, topi, blatte ed odori nauseabondi, tanto che anche d'inverno venivano aperte le finestre e le porte per poter respirare, la pausa pranzo aveva luogo in un locale vicino alle macchinette del caffè ed era sporco ed inadeguato, mancava qualsiasi dispositivo di protezione, non venivano effettuate visite mediche''.
La Sez. IV fornisce utili chiarimenti in merito alla configurabilità del reato di cui all'art. 603-bis sotto il profilo inerente alla sicurezza del lavoro. Premette che, ``essendo elementi costitutivi della fattispecie di impiego illecito di manodopera ipotizzata nel caso in esame la sottoposizione dei lavoratori ad un regime di sfruttamento e l'approfittamento dello stato di bisogno degli stessi, il comma 3 del citato art. 603-bis prevede espressamente quale indice di sfruttamento la presenza di anche solo una delle condizioni descritte nella sproporzione delle retribuzioni rispetto al lavoro prestato, nella reiterata violazione della normativa in materia di orari di lavoro, riposo, ferie e aspettativa, nell'infrazione alle norme in materia di sicurezza e igiene del luogo di lavoro e nell'imposizione di modalità di lavoro degradanti''. Prende atto, in particolare, che ``il contrasto con le norme in materia di sicurezza e igiene del lavoro emergeva dalle stesse dichiarazioni con riguardo alla precarietà dei servizi igienici ed all'assenza dei requisiti minimi di sicurezza alle serre ove si svolgeva l'attività lavorativa, costituiti da passerelle in legno consunte e malferme'', e, quanto all'approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori, richiama ``la situazione di clandestinità dei predetti, che li rendeva disposti a lavorare in condizioni disagevoli''.
(Per il riferimento all'assenza di un documento di valutazione dei rischi Cass. 23 luglio 2021 n. 28735, nel paragrafo n. 16, A).
Da notare che la violazione delle norme sul caporalato può condurre alla condanna per omicidio colposo in danno del lavoratore:
Nell'ipotesi affrontata dalla presente sentenza, due fratelli contitolari di un'impresa edile affidarono l'incarico di assumere lavoratori ``a giornata'' ad altra persona priva dei requisiti imprenditoriali minimi per assumere lavoratori in quanto non titolare di impresa né munita di propria organizzazione aziendale. Il mattino stesso dell'assunzione, uno dei lavoratori reclutati morì per ischemia cardiaca acuta e shock cariogeno determinato dal grave sforzo fisico cui fu sottoposto nel corso dell'attività lavorativa di intonacatura, perché, al pari degli altri, era stato reclutato ``senza alcuna valutazione delle condizioni di salute, nonché dei rischi connessi all'attività da svolgere, ed in totale spregio delle misure di prevenzione inerenti alla prestazione lavorativa''. Addebito di omicidio colposo ai contitolari dell'impresa edile per non aver sottoposto il lavoratore ``agli accertamenti sanitari previsti dalla legge'', per ``averlo adibito ad un'attività del tutto incompatibile con le patologie dallo stesso sofferte'', ``omettendo di fornirgli adeguata formazione ed informazione dei rischi derivanti dall'attività lavorativa cui lo stesso era adibito''. Nel confermare la condanna, la Sez. IV osserva che gli imputati ``rispondono del reato non in ragione della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, ma in funzione della loro posizione di committenti subappaltanti'', e considera irrilevante che ``il lavoratore non fosse formalmente un dipendente della ditta, in quanto i giudici di merito addebitano agli imputati, quali committenti subappaltanti dell'opera, di non essersi assicurati che gli operai utilizzati (o meglio, procurati) dal subappaltatore fossero quantomeno nelle condizioni minime per svolgere il lavoro loro demandato''. Prende atto che ``si trattava di lavoratori assunti `a giornata' per mezzo della intermediazione'' di altra persona, e che in tale prospettiva, si è ricondotta ``l'attività dell'intermediario in quella del c.d. `caporalato' (impiego di manodopera assunta dall'appaltatore ma di fatto operante alle dipendenze del committente), idonea a realizzare la posizione di garanzia in capo ai prevenuti proprio per la loro posizione di committenti subappaltanti, che imponeva loro di verificare che l'attività fosse svolta in maniera da tutelare i soggetti chiamati ad eseguirla''. Precisa che ``la responsabilità dell'appaltante titolare di impresa edile esecutrice dei lavori può essere esclusa solo in presenza di affidamento ad impresa competente e che fornisca ogni garanzia in ordine all'arruolamento dei lavoratori ed all'esecuzione dell'attività, condizioni la cui insussistenza era ben nota agli imputati sia per le modalità del tutto informali con cui fu affidato l'incarico, sia perché nessuna verifica fu effettuata sulla consistenza imprenditoriale dell'intermediario, sia per la condotta successiva all'evento, laddove si richiese agli altri operai di riferire che il lavoratore era deceduto durante un'escursione alla ricerca di funghi''. Quanto al nesso causale tra l'attività lavorativa e il decesso, sottolinea che ``un altro operaio presente nel cantiere aveva evidenziato che l'attività di scarico delle pedane di miscelato, cui fu adibito nel pomeriggio il deceduto, richiedeva un considerevole sforzo fisico per posizionare le pedane cariche del materiale al fine di essere agganciate alla gru'', e che ``subito dopo lo spostamento della prima pedana il deceduto manifestò un momento di abbattimento, venendo sollecitato dal collega a proseguire per poi perdere conoscenza dopo poco tempo''. Per giunta, ``gli esperti medici avevano riscontrato nella vittima, a causa delle patologie da cui era affetto, un elevato rischio di morte cardiaca improvvisa e ischemia miocardica acuta, soprattutto se il soggetto affetto è esposto a condizioni che richiedono un aumento del `lavoro cardiaco': sforzi fisici intensi, stress emotivi, anemia, ipossia, etc.''.
Non mancano gli infortuni in danno di tirocinanti nella scuola-lavoro:
In un'azienda agricola annessa a un istituto tecnico agrario, il direttore - in concorso con un assistente tecnico e un operatore interno - viene condannato per l'infortunio in danno di uno studente incaricato di svolgere lavori di pulizia di un terreno con un decespugliatore a lame rotanti e attinto al polso della mano sinistra da una lama rotante nel tentativo di aiutare un altro studente scivolato. Gli imputati sono condannati, in solido tra loro e con il responsabile civile (Ministero per l'istruzione, l'università e la ricerca), pure al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita. Addebito di colpa: ``gli studenti furono incaricati di utilizzare il decespugliatore senza avere ricevuto alcuna istruzione o formazione preventiva rispetto all'utilizzo di un attrezzo così pericoloso e senza che il personale addetto all'azienda agricola fosse presente e fornisse loro assistenza''. La Sez. IV prende atto che, ``la mattina dei fatti, il direttore telefonò all'operatore interno, gli impartì istruzioni sull'attività da far svolgere ai ragazzi, gli disse di adibirli alla pulizia del terreno e di consegnare loro i decespugliatori presenti in azienda'', e che, ``avendo impartito tali specifiche disposizioni, era perfettamente consapevole delle attività che gli studenti sarebbero stati chiamati a svolgere''. Aggiunge che, ``quale responsabile della azienda agricola e del progetto formativo al quale gli studenti avevano aderito, egli aveva l'obbligo giuridico di impartire istruzioni adeguate in merito alle attività che gli alunni dovevano svolgere, alle attrezzature che dovevano essere loro affidate, ed era tenuto a formarli nell'utilizzo di macchinari pericolosi, quale è un decespugliatore''. Quanto poi all'assistente tecnico addetto all'azienda agricola, precisa che, «secondo la migliore giurisprudenza di legittimità, l'agente che, trovandosi a operare in una situazione di pericolo immediatamente percepibile, contribuisce con la propria condotta cooperativa all'aggravamento del rischio, fornendo un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell'evento è responsabile ai sensi dell'art. 113 c.p., a prescindere dalla posizione di garanzia concretamente ricoperta».
La titolare di un'azienda agricola viene condannata per il reato di lesione personale colposa in danno di una studentessa dell'università di agraria in tirocinio formativo, incaricata della pulitura di un tino alto circa 2 metri e mezzo insieme al cantiniere tutor della tirocinante. Si accerta che ``la giovane, apprestandosi a compiere l'operazione, era salita su una scala appoggiata alla vasca con in mano un tubo di gomma collegato al rubinetto dell'acqua'', ``il cantiniere nel frattempo sollevava il pesante coperchio metallico della vasca con l'ausilio di una carrucola, appoggiandolo in equilibrio sul bordo e lasciando uno spazio di apertura che consentisse di eseguire il lavaggio con la pompa'', e ``durante il lavaggio il coperchio rovinava sulla studentessa, colpendone la mano destra''. Colpa addebitata all'imputata: ``avere disposto che l'attività di lavaggio della vasca venisse eseguita senza alcuna preventiva valutazione del rischio, in carenza assoluta di una precipua formazione e senza munire la tirocinante dei necessari dispositivi di protezione''. Nel confermare la condanna, la Sez. IV, anzitutto, osserva che ``dalla definizione fornita dall'art. 2, comma 1, lett. a) D.Lgs. n. 81/2008, si evince che al lavoratore è equiparato, ai fini dell'applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, anche chi svolge attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere nonché il soggetto beneficiario delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24 giugno 1997, n. 196, e di cui a specifiche disposizioni delle leggi regionali promosse al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro o di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro''. Ne desume che, ``nella specifica ipotesi in cui presso un'azienda siano presenti soggetti che svolgano tirocini formativi, il datore di lavoro sarà tenuto ad osservare tutti gli obblighi previsti dal TUSL al fine di garantire la salute e la sicurezza degli stessi''. Aggiunge che ``non fa eccezione il caso del tirocinio svolto dalla persona offesa nella fattispecie in esame, disciplinato dalla `Convenzione quadro per l'attivazione di tirocini di formazione ed orientamento curriculari e non curriculari', stipulato tra l'Università degli Studi e l'azienda agricola, che prevede obblighi a carico del soggetto promotore ed obblighi a carico dell'ospitante, del tutto negletti dall'imputata''. A questo punto, la Sez. IV osserva che ``la circolare INAIL n. 16 del 4 marzo 2014, il cui oggetto riguarda l'obbligo assicurativo dei tirocinanti e relativa determinazione del premio, non ha attinenza con la sicurezza sui luoghi di lavoro''. Spiega che, stando alla premessa della circolare, ``l'approvazione, in data 24 gennaio 2013, delle Linee guida in materia di tirocini nell'ambito dell'accordo della Conferenza unificata Stato/Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano e il susseguirsi delle discipline regionali in materia pongono l'esigenza di dettare uniformi indirizzi alle sedi, specie con riferimento alla vigenza o meno della disciplina prevista dall'art. 3 del D.M. n. 142/1998 contenente il regolamento di attuazione dell'art. 18 della legge n. 196/1997 in tema di classificazione tariffaria e retribuzione imponibile ai fini del calcolo del premio assicurativo dovuto per le lavorazioni svolte dai tirocinanti''. Precisa che ``nell'art. 4 è disciplinato il regime assicurativo riguardante i tirocini formativi''. Ne ricava ``come non possa validamente sostenersi la esistenza di una fonte di esonero da responsabilità del datore di lavoro nei confronti dei tirocinanti, partecipanti a stage formativi in un'azienda, nella disciplina e nella convenzione''. Con riguardo al caso di specie, la Sez. IV pone in risalto ``le regole cautelari violate dal datore di lavoro, riconducibili alla omessa previsione del rischio a cui era esposta la persona offesa nella lavorazione a cui era stata adibita (artt. 28 e 17 D.Lgs. n. 81/2008), alla omessa formazione e informazione della tirocinante (artt. 36, 37 D.Lgs. n. 81/2008), alla omessa fornitura di idonei dispositivi di protezione (art. 77 D.Lgs. n. 81/2008)''. Nota che ``la qualità datoriale in capo all'imputata imponeva la previa valutazione del rischio a cui era esposta la tirocinante, la cui posizione è equiparata al lavoratore, e l'adozione delle necessarie misure di sicurezza''. Né ``rileva la circostanza che la titolare dell'azienda si fosse avvalsa della collaborazione di un professionista incaricato di risolvere ogni problematica in materia di sicurezza'', poiché ``la valutazione del rischio, ai sensi dell'art. 17 D.Lgs. n. 81/2008, è compito affidato al datore di lavoro, non delegabile''.
Infortunio occorso a un tirocinante impegnato su una macchina rettificatrice priva di un dispositivo di protezione delle mani e ammesso sulla base di un protocollo d'intesa stipulato tra l'Associazione degli Industriali della Provincia, il Comune e la Provincia per lo svolgimento di tirocini formativi di giovani studenti presso le aziende aderenti all'iniziativa. La Sez. IV osserva: ``Pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, non può negarsi che il tirocinante infortunato doveva ritenersi di fatto pienamente inserito nella struttura produttiva dell'azienda per lo svolgimento di un'attività certamente equiparata, sotto il profilo della sicurezza, a quella dei lavoratori dipendenti''.
Da segnalare che Cass. pen. 2 maggio 2022 n. 16959 ordina ai giudici della Corte d'Appello di approfondire il caso di un datore di lavoro accusato di molestie sessuali in danno di una minore che stava svolgendo un periodo di alternanza scuola-lavoro.