1. Le disposizioni contenute nel presente decreto legislativo costituiscono attuazione dell'articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, per il riassetto e la riforma delle norme vigenti in materia di salute e sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori nei luoghi di lavoro, mediante il riordino e il coordinamento delle medesime in un unico testo normativo. Il presente decreto legislativo persegue le finalità di cui al presente comma nel rispetto delle normative comunitarie e delle convenzioni internazionali in materia, nonché in conformità all'articolo 117 della Costituzione e agli statuti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano, e alle relative norme di attuazione, garantendo l'uniformità della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere, di età e alla condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati.
2. In relazione a quanto disposto dall'articolo 117, quinto comma, della Costituzione e dall'articolo 16, comma 3, della legge 4 febbraio 2005, n. 11, le disposizioni del presente decreto legislativo, riguardanti ambiti di competenza legislativa delle regioni e province autonome, si applicano, nell'esercizio del potere sostitutivo dello Stato e con carattere di cedevolezza, nelle regioni e nelle province autonome nelle quali ancora non sia stata adottata la normativa regionale e provinciale e perdono comunque efficacia dalla data di entrata in vigore di quest'ultima, fermi restando i principi fondamentali ai sensi dell'articolo 117, terzo comma, della Costituzione.
3. Gli atti, i provvedimenti e gli adempimenti attuativi del presente decreto sono effettuati nel rispetto dei principi del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
Sommario: 1. Testo Unico e Accordi Stato-Regioni - 2. Normative regionali e legislazione statuale - 3. Norme di sicurezza sul lavoro e norme edilizie - 4. Infortunio sul lavoro e mafia - 5. Privacy e sicurezza del lavoro - 6. Controlli a distanza sui lavoratori e sicurezza del lavoro - 7. Norme sugli impianti al servizio degli edifici - 8. Norme emergenziali anti-Covid e TUSL .
In più norme del TUSL, assumono un ruolo di rilievo gli Accordi Stato-Regioni. Utili, quindi, appaiono le analisi svolte da:
Esamina l'Accordo Stato-Regioni 22 febbraio 2012 a cui l'art. 73, comma 5, D.Lgs. n. 81/2008 demanda l'individuazione delle ``attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori nonché le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione, i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi ed i requisiti minimi di validità della formazione e le condizioni considerate equivalenti alla specifica abilitazione''. Il titolare di un'azienda agricola fu condannato per l'infortunio mortale occorso a un operaio incaricato dell'esecuzione di lavori di aratura con impiego di un trattore cingolato ``senza aver previamente informato e formato il lavoratore sui rischi specifici cui era esposto in relazione all'attività svolta e alle condizioni di impiego del mezzo in rapporto alle situazioni anormali prevedibili, trattore peraltro non conforme ai requisiti di sicurezza indicati dalla legge e non sottoposto ad idonea manutenzione''. Si era, infatti, accertato che l'infortunato, ``dopo aver arrestato il trattore, privo di un efficace sistema frenante di stazionamento, su terreno in pendenza, ed essere sceso dalla posizione di guida, era stato travolto dal mezzo in arretramento e schiacciato tra il cingolo dello stesso ed il rimorchio agricolo ad esso agganciato''. Nel confermare la condanna, la Sez. IV ritiene irrilevante ``la circostanza che l'Accordo Stato-Regioni a cui l'art. 73, comma 5, D.Lgs. n. 81/2008 demanda l'individuazione delle attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori nonché delle modalità per il suo riconoscimento, sia stato raggiunto successivamente alla data del sinistro, con conseguente insussistenza, a dire della difesa, di qualunque obbligo inadempiuto da parte datoriale''. E spiega utilmente che le regole contenute negli artt. 36, 37, 71 e 73, D.Lgs. n. 81/2008 prevedono ``obblighi immediatamente cogenti, che nulla hanno a che vedere con le specifiche abilitazioni ovvero le condizioni considerate equivalenti''.
``Non assume alcun rilievo, ed anzi conferma ulteriormente le particolari esigenze formative sottese all'uso del trattore agricolo, il fatto che in epoca successiva all'incidente i trattori siano stati formalmente catalogati come mezzi per i quali è necessaria una specifica abilitazione e formazione (in sede di Conferenza Stato-Regioni ex art. 73, comma 5, D.Lgs. n. 81/2008). È appena il caso di rilevare, invero, che tale catalogazione ha unicamente un valore ricognitivo, a fronte del fatto che le specifiche e peculiari esigenze formative riguardanti l'impiego dei trattori, che hanno giustificato la suddetta catalogazione, preesistevano necessariamente, sul piano sostanziale, all'accordo Stato-Regioni del 2012, e che il formale riconoscimento di tali esigenze formative operato con tale accordo non può valere come elemento integrativo della fattispecie''.
``Le fattispecie di reato che configurano gli illeciti in materia di inosservanza degli obblighi informativi e formativi nei confronti dei lavoratori non possono rientrare tout court nella categoria delle norme penali in bianco'', perché l'Accordo, al quale si riferisce l'articolo 37, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008 [Accordo tra il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro della salute, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano del 21 dicembre 2011] non costituisce un atto normativo extrapenale integrativo del precetto. Il testo unico n. 81/2008 ha carattere innovativo/compilativo, nel senso che, in conformità alla legge delega, poteva introdurre nuove norme giuridiche perseguendo, al tempo stesso, lo scopo di procedere al riassetto e alla riforma delle norme vigenti in materia di salute e sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori nei luoghi di lavoro, mediante il riordino e il coordinamento delle medesime in un unico testo normativo. Ne consegue che l'abrogazione di interi testi di legge (exempli causa, il D.Lgs. n. 626/1994 per effetto dell'art. 304, D.Lgs. n. 81/2008) si spiega nel senso che è stata anche assicurata, attraverso il trasferimento delle relative disposizioni, una continuità normativa tra la legislazione previgente e il D.Lgs. n. 81/2008. Infatti, l'art. 22 del D.Lgs. n. 626/1994 - oltre a disporre, tra l'altro, che fosse erogata ai lavoratori una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e di salute e a prevedere che la formazione dovesse essere reiterata e fornita in occasione di eventi particolari - stabiliva che i ministri del lavoro e della previdenza sociale e della sanità, sentita la commissione consultiva permanente, potessero stabilire i contenuti minimi della formazione dei lavoratori, tenendo anche conto delle dimensioni e della tipologia delle imprese. Fu varato quindi il decreto ministeriale 16 gennaio 1997 che individuava i contenuti minimi della formazione dei lavoratori, prevedendo (art. 4) che fosse rilasciata l'attestazione dell'avvenuta formazione con onere di conservazione della stessa da parte del datore di lavoro. Allo stesso modo, l'art. 37 - dopo aver tipizzato, al comma 1, il fatto di reato con le note descrittive che valgono a precisarlo, consistendo la condotta vietata nel non assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con particolare riferimento ai concetti di rischio, danno, prevenzione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo, assistenza nonché con riferimento a rischi riferiti alle mansioni e ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell'azienda - ha previsto che la durata, i contenuti minimi e le modalità della formazione siano definiti mediante accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano da adottare, previa consultazione delle parti sociali, entro il termine di dodici mesi dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 81 del 2008. La previsione del comma 2 dell'art. 37, D.Lgs. n. 81/2008 non si presta ad essere interpretata come funzionale ad integrare il precetto penale, già da ritenersi pienamente precisato dal comma 1, quanto piuttosto a richiedere che, attraverso l'attuazione del principio di leale collaborazione tra Stato - Regioni e Province autonome, con la collaborazione delle parti sociali (datoriali e sindacali) e quindi con il coinvolgimento di tutte le componenti interessate, fossero determinati gli standard minimi ed uniformi su tutto il territorio nazionale della formazione dei lavoratori e degli altri soggetti qualificati indicati dal D.Lgs. n. 81/2008 ed in ciò risolvendosi, di regola, la natura giuridica degli accordi in sede di conferenza permanente tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, ossia in intese dirette a favorire la cooperazione tra l'attività dello Stato e quella delle Regioni e Province Autonome, costituendo la `sede privilegiata' della negoziazione politica tra le Amministrazioni centrali e il sistema delle autonomie regionali. La ragione di precostituire modelli di formazione, uniformi sull'intero territorio nazionale, fonda sulla medesima ratio che informava l'art. 22, D.Lgs. n. 626/1994, il quale perseguiva la medesima finalità attraverso il raggiungimento di intese interministeriali che stabilissero i contenuti minimi della formazione dei lavoratori, tenendo anche conto delle dimensioni e della tipologia delle imprese. La funzione di tali `intese' è dunque quella di assicurare un livello minimo di affidabilità della formazione in maniera da salvaguardare in concreto la sicurezza nei luoghi di lavoro con una presunzione di adeguatezza e sufficienza dell'offerta formativa in tal modo garantita, cosicché il datore di lavoro che avesse impartito una formazione secondo le linee tracciate dal decreto ministeriale, prima, e dall'accordo, poi, può ritenersi esonerato, salvo prova contraria, da qualsiasi responsabilità al riguardo. L'Accordo, di cui al comma 2 dell'art. 37, svolge pertanto una funzione meramente processuale riservata al piano probatorio, fermo restando che, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, non rileva la mera ottemperanza di obblighi formali, incombendo sui titolari di una posizione di garanzia a tutela dell'incolumità dei lavoratori di impedire, purché il garante abbia i necessari poteri d'intervento, qualsiasi evento lesivo in concreto verificatosi, in quanto gli obblighi informativi e formativi non si esauriscono nell'informazione e nell'addestramento, in merito ai rischi derivanti dalle mansioni esercitate dal lavoratore, venendo così detti obblighi relegati ad una fase meramente statica del rapporto di lavoro, ma implicano che si tenga conto, per espressa previsione normativa, della fase dinamica del rapporto e perciò anche dei rischi derivanti dalla diretta esecuzione delle operazioni di lavoro. A questo punto è il caso di chiarire come la tesi secondo la quale l'Accordo fungerebbe da normativa (secondaria) extrapenale integratrice del precetto tale da sterilizzare il precetto stesso sino alla entrata in vigore della stipulazione, sia ampiamente smentita dall'Accordo stesso che, all'allegato A punto 10 che detta le norme transitorie, precisa che `in fase di prima applicazione, non sono tenuti a frequentare i corsi di formazione di cui ai punti 4, 5 e 6 i lavoratori, i dirigenti e i preposti che abbiano frequentato - entro e non oltre dodici mesi dalla entrata in vigore del presente accordo - corsi di formazione formalmente e documentalmente approvati alla data di entrata in vigore del presente accordo, rispettosi delle previsioni normative e delle indicazioni previste nei contratti collettivi di lavoro per quanto riguarda durata, contenuti e modalità di svolgimento dei corsi'. Ciò, da un lato, conferma la preesistenza di una disciplina sostanzialmente sovrapponibile nella ratio a quella varata con il comma 2 dell'art. 37 ma soprattutto rende chiara, dall'altro, l'autosufficienza del precetto penale in materia di repressione dell'inosservanza degli obblighi informativi e formativi rispetto a fonti extrapenali (peraltro di dubbia valenza normativa), con la conseguenza che la norma penale precettiva non aveva e non ha alcuna necessità di essere ab externo integrata, risolvendosi sul piano probatorio la questione dell'adeguatezza e sufficienza o meno degli obblighi informativi e formativi impartiti. Certo la Corte non ignora alcune critiche che, sotto il profilo della precisione e determinatezza della fattispecie, sono state mosse nei confronti della formulazione della norma incriminatrice, laddove sono utilizzati i segni linguistici della sufficienza e dell'adeguatezza. Tuttavia le note descrittive dell'illecito non si risolvono nei soli concetti di adeguatezza e/o sufficienza dell'informazione o della formazione ma tanto la prima (informazione che deve essere adeguata) quanto la seconda (formazione che deve essere adeguata e sufficiente) sono parametrate rispetto a una serie di indici precisi e dettagliatamente descritti, di settori, di eventi pericolosi, di rischi derivanti dall'espletamento dell'attività lavorativa da parte del lavoratore stesso o di altri lavoratori in maniera che, essendo l'apparato normativo finalizzato a prevenire gli infortuni nell'espletamento del lavoro, la legge penale consente di distinguere chiaramente la sfera del lecito da quella dell'illecito, ponendo un'indicazione normativa che, attraverso l'impiego di termini intellegibili e precisi, consente di orientare la condotta dei destinatari, descrivendo fatti che sono suscettibili di essere provati ed accertati nel processo attraverso i criteri messi a disposizione dalla scienza e dalle regole di esperienza, essendo tale ultimo aspetto facilitato dalla formulazione di Accordi istituzionali finalizzati a realizzare linee guida da seguire quanto a durata, contenuti minimi e modalità della formazione, la cui esatta osservanza rende, sulla base di una presunzione iuris tantum, conforme a diritto l'offerta e l'obbligo formativo a carico del datore di lavoro.
(Sul rapporto tra Accordi Stato-Regioni e decreti ministeriali v. Cass. n. 39139 del 29 agosto 2018, sub art. 2, paragrafo 46).
«La normativa antinfortunistica statuale non è cedevole rispetto a normative amministrative (regionali) dettate a fini di settore senza possibilità alcuna di abrogazione (della) o di deroga alla legislazione statuale dettata per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori».
``Le disposizioni normative volte a tutelare la sicurezza dei lavoratori e la pubblica incolumità non sono un sottoinsieme della normativa edilizia, attendendo a campi diversi. Che il committente rivesta una posizione di garanzia rispetto all'osservanza della normativa edilizia da parte dell'esecutore dei lavori è affermazione certamente esatta, rinvenendo la propria fonte nel disposto di cui all'art. 29, comma 1, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. Tenendo anche conto della sedes materiae, detta norma fonda la responsabilità primariamente per gli illeciti amministrativi e penali previsti dal testo unico in materia edilizia rispetto alla conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano, al permesso di costruire ed alle prescrizioni relative alle modalità esecutive nel medesimo contenute. Salvo che quest'ultimo preveda un obbligo di tutela della pubblica incolumità e dei lavoratori addetti alla realizzazione dell'opera, la disposizione non può dunque essere utilizzata per fondare una posizione di garanzia rispetto alla protezione dei suddetti beni. La fonte di tale obbligo, poi, non può essere individuata''.
Nel quadro di un procedimento penale avente per oggetto una ``associazione mafiosa'' esercente ``l'attività di controllo del mercato locale del calcestruzzo'', un imputato fu ritenuto ``responsabile di falso'', in quanto ``si attivava per sopprimere un referto dell'ospedale e redigerne un altro in cui un operaio in nero modificava le dichiarazioni sulle lesioni riportate, fatto commesso in concorso con il medico re- sponsabile''. In particolare, l'operaio ``aveva riportato un infortunio sul lavoro e, al pronto soccorso, aveva dichiarato come era realmente avvenuto l'incidente'', ma poi ``si preoccupava per tale dichiarazione che poteva avere conseguenze negative per la ditta che aveva formalmente licenziato l'operaio infortunato continuando a farlo lavorare''. E allora ``si era rivolto all'imputato poi condannato per falso che lo aveva accompagnato in ospedale ed aveva parlato con il medico che aveva redatto il referto; questi aveva accettato di distruggere il referto originario facendone uno diverso in cui il paziente dichiarava di aver subito un incidente stradale''.
Un filo conduttore del D.Lgs. n. 81/2008 è il rispetto della privacy. Emblematica la vicenda esaminata da:
Il dirigente e due preposti di uno stabilimento industriale esercito da una s.p.a. sono accusati di avere cagionato la morte di un lavoratore affetto da epilessia e destinatario di prescrizioni del medico competente inerenti al divieto di lavoro in ambienti confinati o in solitario. La Sez. IV si chiede, in particolare, se fosse, o no, possibile ``per il datore di lavoro esigere da altri lavoratori di assicurare la sorveglianza sul lavoratore affetto da patologie, che quando si manifestino impongano un pronto intervento''. Sottolinea che, ad avviso della parte civile, ``siffatto dovere sia una declinazione dell'obbligo di non adibire il lavoratore ad attività in `ambiente confinato' arrivando ad ipotizzare la necessità del suo affiancamento continuo, o della necessità di affidare il reparto nel quale il medesimo operava ad un `team leader'''. Precisa che ``la predisposizione di una simile organizzazione lavorativa richiede, in primo luogo, che terzi soggetti, i colleghi di lavoro appunto, siano messi a parte, proprio dal datore di lavoro delle informazioni sullo stato di salute del lavoratore'', e che ``ciò, nondimeno, implica, ai sensi dell'art. 26 del c.d. Codice della Privacy, che l'interessato esprima per iscritto il suo consenso alla diffusione dei dati sanitari in possesso del datore di lavoro, non essendo a questi consentito diffonderli autonomamente, neppure ai sensi dell'art. 24 del medesimo codice, nella versione vigente all'epoca del fatto, secondo cui la diffusione per la salvaguardia dell'incolumità del soggetto interessato è consentita solo con il suo consenso, o nell'impossibilità di ottenerlo, con il consenso di soggetti quali l'esercente legale della potestà o un prossimo congiunto''. Ne trae conferma dall'art. 51 delle linee guida emesse dal Garante della privacy, vigenti all'epoca, secondo cui ``la conoscenza dei dati personali relativi ad un lavoratore da parte di terzi è ammessa se l'interessato vi acconsente'' rimanendo impregiudicata la facoltà del datore di lavoro di disciplinare le modalità del proprio trattamento designando i soggetti, interni o esterni, incaricati o responsabili del trattamento, che possono acquisire conoscenza dei dati inerenti alla gestione del rapporto di lavoro, in relazione alle funzioni svolte e a idonee istruzioni scritte alle quali attenersi (artt. 4, comma 1, lett. g) e h), 29 e 30)''. Ma sostiene che ``nulla autorizza a diffondere notizie sulla salute del lavoratore ai colleghi che operino con il medesimo''. Esclude che ``la `sorveglianza' su un collega rientri fra gli obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di lavoro, sicché non è possibile da parte del datore di lavoro neppure richiedere una simile prestazione''. Ritiene, dunque, ``del tutto fuorviante l'assunto della parte civile, secondo il quale il datore di lavoro avrebbe dovuto informare i colleghi che operavano con l'infortunato, affinché lo sorvegliassero adeguatamente, e pretendere da loro siffatto costante controllo''. (Questa sentenza è riportata più ampiamente sub art. 42, al paragrafo 2).
Rigorosa è la Corte Suprema nell'interpretazione dell'art. 4 Statuto dei Lavoratori:
La titolare di un bar - condannata per il reato di cui all'art. 4 L. n. 300/1970 per aver installato un impianto di videosorveglianza senza la preventiva autorizzazione richiesta dalla legge - deduce, in particolare, che ``non sono fornite indicazioni su due elementi centrali della fattispecie, perché non si dà conto se l'impianto fosse preposto alla registrazione, né se l'imputata fosse datrice di lavoro di qualcuno'', e che ``anzi, l'impianto è a circuito chiuso e non implica alcuna registrazione, e che l'azienda non ha dipendenti''. Nell'annullare con rinvio la condanna, la Sez. III sviluppa due precisazioni di ordine generale. La prima è che ``la presenza di lavoratori nel luogo ripreso dagli impianti di videosorveglianza è requisito imprescindibile per la configurabilità del reato in contestazione'', e che ``detto reato, sulla base di quanto previsto dall'art. 15 D.Lgs. 10 agosto 2018 n. 101, che costituisce la disposizione incriminatrice, è integrato dalla violazione dell'art. 4, comma 1, L. 20 maggio 1970 n. 300, previsione a sua volta diretta a regolamentare l'uso, da parte del datore di lavoro, degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti `dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori'''. Secondo chiarimento: ``non è configurabile la violazione della disciplina di cui agli artt. 4 e 38 L. n. 300/1970 - tuttora penalmente sanzionata in forza dell'art. 171 D.Lgs. n. 196/2003, come modificato dalla L. n. 101/2018 - quando l'impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti o resti necessariamente `riservato' per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite degli stessi''.
La Sez. I non condivide l'argomentazione difensiva alla stregua della quale risulterebbe violata la disciplina che regola le intercettazioni delle comunicazioni (artt. 266 e ss. c.p.p.), e ``ciò perché, da un lato, si tratta di registrazioni operate secondo uno statuto diverso da quello del codice di rito, ossia secondo le prescrizioni della legge n. 300/1970, e, per altro verso, perché le riprese sono relative a immagini non comunicative e non possono essere annoverate tra le intercettazioni in senso stretto''. Precisa che ``sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all'interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro, per esercitare un controllo in funzione della tutela del patrimonio aziendale, messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto le norme dello Statuto dei lavoratori, poste a presidio della loro riservatezza, non proibiscono i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano, pertanto, l'esistenza di un divieto probatorio''. Aggiunge che ``non è configurabile la violazione della disciplina di cui agli artt. 4 e 38 legge n. 300/1970 - tuttora penalmente sanzionata in forza dell'art. 171 D.Lgs. n. 196/2003, come modificato dalla legge n. 101/2018 - quando l'impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti o resti necessariamente `riservato' per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite degli stessi''.
``Il testo dell'art. 4 della legge n. 300/1970, è stato modificato nel tempo. Sembra ragionevole ritenere che la successione di discipline normative non ha apportato variazioni significative alla fattispecie incriminatrice. La condotta vietata consisteva e consiste nella installazione degli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori che possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro''.
La Sez. III esamina un caso in cui il datore di lavoro installò un impianto di videosorveglianza in difetto delle condizioni di cui all'art. 4, L. n. 300/1070, previo accordo scritto con i dipendenti. Osserva che ``tale accordo non costituisce esimente dalla responsabilità penale''. Spiega che, ``secondo quanto prescritto dall'art. 4 L. n. 300/1970, l'installazione di apparecchiature (da impiegare esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale ma dalle quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori) deve essere sempre preceduta da una forma di codeterminazione (accordo) tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori, con la conseguenza che se l'accordo (collettivo) non è raggiunto, il datore di lavoro deve far precedere l'installazione dalla richiesta di un provvedimento autorizzativo da parte dell'autorità amministrativa (Direzione territoriale del lavoro) che faccia luogo del mancato accordo con le rappresentanze sindacali dei lavoratori, cosicché, in mancanza di accordo o del provvedimento alternativo di autorizzazione, l'installazione dell'apparecchiatura è illegittima e penalmente sanzionata''. Aggiunge che ``questa procedura trova la sua ratio nella considerazione dei lavoratori come soggetti deboli del rapporto di lavoro subordinato'', e che ``la diseguaglianza di fatto, e quindi l'indiscutibile e maggiore forza economico-sociale dell'imprenditore, rispetto a quella del lavoratore, rappresenta la ragione per la quale la procedura codeterminativa sia da ritenersi inderogabile, potendo essere sostituita dall'autorizzazione della direzione territoriale del lavoro solo nel solo di mancato accordo tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali, non già dal consenso dei singoli lavoratori''.
La Sez. III ritiene che ``il consenso in qualsiasi forma (scritta od orale, preventiva o successiva) prestato dai singoli lavoratori non valga a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato i predetti impianti in violazione delle prescrizioni dettate dalla fattispecie incriminatrice''. Spiega che ``la condotta datoriale, che pretermette l'interlocuzione con le rappresentanze sindacali unitarie o aziendali procedendo all'installazione degli impianti dai quali possa derivare un controllo a distanza dei lavoratori, produce l'oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici, in quanto deputate a riscontrare, essendo titolari ex lege del relativo diritto, se gli impianti audiovisivi, dei quali il datore di lavoro intende avvalersi, abbiano o meno, da un lato, l'idoneità a ledere la dignità dei lavoratori per la loro potenziale finalizzazione al controllo a distanza dello svolgimento dell'attività lavorativa, e di verificare, dall'altro, l'effettiva rispondenza di detti impianti alle esigenze tecnico-produttive o di sicurezza in modo da disciplinarne, attraverso l'accordo collettivo, le modalità e le condizioni d'uso e così liberare l'imprenditore dall'impedimento alla loro installazione''. Sottolinea che ``sia l'accordo con le rappresentanze sindacali che l'eventuale provvedimento autorizzativo di fonte pubblica devono rispettare i principi e le regole stabiliti dall'interpretazione prevalente della normativa lavoristica in tema di controllo nonché dalla disciplina sul trattamento dei dati personali (si tratta del D.Lgs. n. 196/2003 e successive modificazioni)''. dall'art. 28 dello Statuto dei lavoratori (Cass., Sezione lavoro, 16 settembre 1997, n. 9211)''. In questo quadro, la Sez. III considera irrilevante ``la circostanza secondo la quale l'impianto di registrazione visiva era stato installato onde garantire la sicurezza degli stessi dipendenti, posto che la finalità di garantire la sicurezza sul lavoro è uno dei fattori che, in linea astratta, rendono possibile l'attivazione di tale tipo di impianti, salva, tuttavia, la realizzazione anche delle successive forme di garanzia a tutela dei lavoratori previste dalle norme precettive dianzi ricordate''. Così come reputa irrilevante ``la circostanza che l'imputato non abbia avuto personalmente accesso al contenuto delle videoriprese essendo l'impianto attraverso il quale esse vengono effettuate gestito da un soggetto terzo rispetto al datore di lavoro''.
Peraltro, la Corte Suprema ha richiamato l'attenzione sull'art. 131-bis c.p. con riguardo alla violazione dell'artt. 4 Statuto Lavoratori (oltre che per reati in materia di sicurezza del lavoro nella prospettiva aperta dalla Riforma Cartabia: v. sub art. 61, paragrafo 35):
``Il nuovo art. 131-bis c.p., come modificato dall'art. 1, comma 1, lett. c), n. 1), D.Lgs. n. 150/2022, prevede non solo l'applicabilità generalizzata dell'istituto a tutti i reati puniti con pena minima pari o inferiore a due anni, ma, con specifico riferimento ai parametri di valutazione, introduce la condotta susseguente al reato. La norma è entrata in vigore il 30 dicembre 2022, giusto disposto dell'art. 6 del D.L. n. 162/2022 e tenuto conto della natura sostanziale, essa è applicabile, per i fatti commessi prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015 n. 28, anche ai procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione, situazione che rende giuridicamente corretta ad oggi la decisione. Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto la particolare tenuità per avere, l'imputata, eliminato le conseguenze del reato avendo ottenuto l'autorizzazione all'impiego dei mezzi di controllo dei lavoratori e corrisposto la sanzioni amministrativa seppur tardivamente''.
Per un incendio in edifici di civile abitazione innescato in corrispondenza della canna fumaria del camino esistente in un appartamento, viene condannato il legale rappresentante di un'impresa che aveva provveduto all'accensione e al collaudo di un camino in ghisa inserito in un preesistente camino in muratura in un appartamento senza aver controllato (come previsto dalla norma UNI EN 15287-1 in materia di progettazione, installazione e messa in servizio dei camini) che la distanza tra gli elementi caldi della canna fumaria e i materiali combustibili presenti nel soffitto e nel tetto non fosse inferiore ai 500 millimetri. La Sez. IV annulla con rinvio la condanna: ``La Legge n. 46/1990 recante `norme in materia di sicurezza degli impianti' cui sono soggette, ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett. c), le imprese che svolgono attività di installazione, trasformazione, ampliamento e manutenzione di impianti di riscaldamento installati in edifici di civile abitazione, stabilisce all'art. 2, comma 2, che l'esercizio di tali attività sia «subordinato al possesso», da parte dell'imprenditore, dei necessari `requisiti tecnico-professionali'. Prevede, tuttavia, che, qualora l'imprenditore non abbia tali requisiti, possa nominare quale `preposto all'esercizio delle attività' un responsabile tecnico in possesso di quei requisiti. Disposizioni di contenuto analogo sono state introdotte dal D.M. 22 gennaio 2008 n. 37 col quale è stata data attuazione all'art. 11-quaterdecies, comma 13, del D.L. 30 settembre 2005, n. 203 (convertito dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248) il cui fine era quello di consentire il riordino delle `disposizioni in materia di attività e di installazione degli impianti all'interno degli edifici' e `definire un reale sistema di verifiche' di tali impianti. Ai sensi dell'art. 3 del D.M. n. 37/2008, per essere abilitate ad esercitare attività relative agli impianti di riscaldamento [art. 1, comma 2, lett. c), del decreto], le imprese devono essere in possesso dei requisiti tecnico-professionali richiesti per quel tipo di lavoro e questo può avvenire se l'imprenditore individuale o il legale rappresentante, ovvero il responsabile tecnico da essi preposto con atto formale, è in possesso di tali requisiti professionali. Tale essendo l'assetto normativo, il titolare dell'impresa esecutrice che non sia in possesso dei requisiti tecnico-professionali per realizzare modificare o fare manutenzione su un impianto di riscaldamento è legittimato a delegare ad un preposto, tecnicamente qualificato, la progettazione dei lavori e la concreta attuazione degli stessi in conformità alle regole di buona tecnica che disciplinano la materia. È autorizzato, quindi, a trasferire sul preposto tecnicamente competente l'obbligo di rispettare queste regole cautelari. In questi casi, grava sul titolare dell'impresa l'obbligo di scegliere un preposto capace e di accertarsi che egli svolga il proprio compito, ma non può esigersi dal titolare dell'impresa la verifica del rispetto di regole tecniche per applicare le quali non ha la necessaria competenza e che non è giuridicamente obbligato a conoscere. Non v'è dubbio che l'imprenditore risponda sotto il profilo civilistico del regolare adempimento del contratto. Dal punto di vista penale, tuttavia, la responsabilità a titolo di colpa non può essere individuata nella mera sottoscrizione della dichiarazione di conformità. Se è vero, infatti, che tale sottoscrizione non può essere ridotta ad un mero adempimento formale, è pur vero che da essa non può discendere automaticamente una corresponsabilità in ordine alla funzionalità e sicurezza dell'opera eseguita per affermare la quale occorre affrontare il tema della concreta esigibilità del rispetto della regola cautelare da parte del titolare dell'impresa. Con riferimento a casi nei quali l'obbligo giuridico trova la propria fonte nell'assunzione di un incarico, è necessario valutare la situazione di fatto per accertare che il titolare della posizione di garanzia abbia avuto la concreta possibilità di rispettare la regola violata. In questa prospettiva i tempi e i modi di apprensione delle informazioni connesse al ruolo rilevano ai fini del giudizio sull'esigibilità del comportamento dovuto e della rimproverabilità dell'atteggiamento antidoveroso. Il legislatore consente che il titolare di un'impresa autorizzata alla realizzazione di impianti di riscaldamento - soggetto tenuto alla sottoscrizione della dichiarazione di `conformità dell'impianto alla regola d'arte' - possa essere un soggetto privo delle necessarie competenze e stabilisce che, in questo caso, egli debba nominare un preposto conferendogli la qualifica di responsabile tecnico. Al preposto competono la redazione del progetto, con l'indicazione delle tipologie dei materiali utilizzati, e la verifica della funzionalità dell'impianto, documenti che devono essere allegati alla dichiarazione di conformità e ne costituiscono `parte integrante' (artt. 7 D.M. n. 7/2008 e 9 Legge n. 46/1990). Quando la nomina del responsabile tecnico consegue all'inidoneità tecnico professionale del responsabile dell'impresa, questi non può essere chiamato a rispondere di errori che riguardano la progettazione dell'impianto o la sua realizzazione non essendo concretamente esigibile questo tipo di controllo da parte di chi non ne abbia le necessarie competenze. In questi casi, al titolare dell'impresa può essere ascritta una `culpa in eligendo', per aver incaricato dell'esecuzione dei lavori maestranze non qualificate o per aver nominato un preposto privo dei necessari requisiti professionali, oppure una `culpa in vigilando', per non aver verificato che i lavori siano stati eseguiti sotto la sorveglianza del responsabile tecnico, sulla base di un progetto da lui predisposto e con l'utilizzo di materiali dotati dei prescritti requisiti di sicurezza. La responsabilità del titolare dell'impresa non può essere desunta però dalla mera sottoscrizione della dichiarazione di conformità, salvo che il titolare dell'impresa risulti avere la competenza professionale necessaria a verificare in prima persona tale conformità anche dal punto di vista tecnico oltre che da quello documentale; oppure che risulti essersi ingerito in concreto nell'attività del tecnico preposto sostituendosi a lui o interferendo nelle sue scelte''.
Per il crollo parziale di un edificio, con morte di una persona e lesioni di un'altra, furono condannati sia il presidente e il responsabile tecnico di una s.r.l., ``per avere accettato un incarico di distacco dalla rete distributiva di metano e successivo riallaccio, per il quale la società non era abilitata ai sensi del D.M. n. 37/2008'', sia l'idraulico dipendente della s.r.l., ``per avere eseguito tale intervento ed essersi provvisoriamente allontanato dall'edificio, omettendo di dotare il punto terminale dell'impianto di distribuzione del gas di un rubinetto di intercettazione e di un tappo filettato in uscita, in violazione delle norme UNI-CIG 7129/2008 (punto 4.4.1.15), in questo modo consentendo che il deceduto (o altri) distrattamente, riaprisse la valvola del gas e che la cospicua fuoriuscita del metano determinasse la deflagrazione della miscela esplosiva e il crollo del palazzo''. La Sez. IV annulla con rinvio la condanna, stante, in particolare, ``l'erroneo collegamento della responsabilità penale al dato meramente formale della mancata presentazione della denuncia di inizio attività relativa agli impianti di cui alla lett. e) dell'art. 1 del D.M. n. 37/2008, senza alcuna effettiva verifica della concreta violazione di una norma cautelare'': ``Non è stata svolta alcuna indagine sulla natura cautelare della norma amministrativa di cui si è accertata la violazione, che impone la presentazione della denuncia di inizio di attività, e sul nesso causale tra tale violazione ed il crollo della palazzina, aspetti che necessitavano un adeguato approfondimento alla luce delle puntuali deduzioni difensive, in base a cui l'a s.r.l. aveva già tutti i requisiti tecnico-professionali di cui all'art. 4 del D.M. n. 37/2008 per eseguire l'intervento de quo ed ha ottenuto pochi giorni dopo il fatto l'iscrizione nel registro delle imprese della Camera di Commercio anche in ordine alle attività riferite agli impianti di cui alla lett. e) del D.M. n. 37/2008. Laddove i requisiti di cui all'art. 4 del D.M. n. 37/2008 fossero stati presenti già prima del crollo, la mancata presentazione della denuncia di inizio attività non avrebbe avuto alcun rilievo causale sull'evento, in quanto l'attivazione dei poteri di controllo della Pubblica Amministrazione, che ne sarebbe derivata ove fosse stato eseguito l'adempimento amministrativo, non avrebbe avuto alcun esito''.
Dopo aver rilevato che ``Il d.m. 22.1.2008 n. 37 reca prescrizioni che intendono garantire la sicurezza dei lavori attinenti agli impianti da esso menzionati [`impianti posti al servizio degli edifici, indipendentemente dalla destinazione d'uso, collocati all'interno degli stessi o delle relative pertinenze'], sia per chi attende ad essi - e quindi i lavoratori impegnati nelle attività sugli impianti - che per gli .utilizzatori'', la Sez. IV osserva: ``La disciplina dettata dal d.m. n. 37/2008 non solo contempla l'espressa previsione che l'imprenditore individuale o il legale rappresentante ovvero il responsabile tecnico da essi preposto con atto formale abbia i requisiti tecnico-professionali indicati dall'art. 4 del d.m. n. 37/2008; ovvero il possesso di un diploma di laurea in materia tecnica specifica conseguito presso una università statale o legalmente riconosciuta (lett. a) o in alternativa di un diploma o una qualifica conseguita al termine di scuola secondaria del secondo ciclo con specializzazione relativa al settore delle attività pertinenti presso un istituto statale o legalmente riconosciuto ma seguiti da un periodo di inserimento, di almeno due anni continuativi, alle dirette dipendenze di una impresa del settore (lett. b); ovvero di un titolo o un attestato conseguito ai sensi della legislazione vigente in materia di formazione professionale, previo un periodo di inserimento, di almeno quattro anni consecutivi, alle dirette dipendenze di una impresa del settore (lett. c); ed infine, sempre in alternativa, che abbia svolto una prestazione lavorativa alle dirette dipendenze di una impresa abilitata nel ramo di attività cui si riferisce la prestazione dell'operaio installatore per un periodo non inferiore a tre anni (escluso quello computato ai fini dell'apprendistato e quello svolto come operaio qualificato), in qualità di operaio installatore con qualifica di specializzato nelle attività di installazione, di trasformazione, di ampliamento e di manutenzione degli impianti di cui all'articolo 1 (lett. d). Ma prevede altresì che questi requisiti possano essere certificati. Certificazione di estremo rilievo perché è grazie ad essa che il committente può essere certo di adempiere alla previsione dell'art. 8 del decreto, che gli impone di affidare i lavori di installazione, di trasformazione, di ampliamento e di manutenzione straordinaria degli impianti ad imprese abilitate. In assenza di tale certificazione il committente assume consapevolmente o almeno con colpa il rischio della inadeguatezza dell'impresa esecutrice affidataria. Che nel caso di specie il soggetto affidatario fosse realmente privo della necessaria competenza tecnica è spiegato non solo con il richiamo all'assenza delta certificazione ma anche segnalando le gravi anomalie dell'opera realizzata, la sua non conformità alle regole dell'arte ed obiettiva pericolosità. Lungi dal poter fare affidamento sulla `fama' in paese, il committente avrebbe dovuto pretendere che l'affidatario gli documentasse il possesso dei requisiti tecnico-professionali richiesti; tale comportamento risulta certamente esigibile dal committente, che non aveva alcuna difficoltà ad accertare l'effettiva competenza del soggetto cui affidava i lavori. Neppure coglie il segno il rilievo secondo il quale si sarebbe trattato di lavori per i quali non è prescritta la redazione di un progetto e la attestazione di collaudo. E non coglie il segno perché non si è ascritto al committente di non aver preteso tali documenti ma piuttosto di non aver richiesto la certificazione di conformità; ebbene, l'art. 10, comma 2, d.m. n. 37/2008, nel prevedere che `sono esclusi dagli obblighi della redazione del progetto e dell'attestazione di collaudo le installazioni per apparecchi per usi domestici e la fornitura provvisoria di energia elettrica per gli impianti di cantiere e similari' ribadisce la necessità del rilascio di quella certificazione: fermo restando l'obbligo del rilascio della dichiarazione di conformità''. Nel caso di specie, l'affidatario, ``venuto a contatto con parti dell'impianto di alimentazione idrica dell'abitazione del committente, era rimasto vittima di elettrocuzione a causa della mancanza di un dispositivo di sicurezza quale il dispositivo di protezione differenziale (cd. salvavita), perdendo la vita''. (Su questa sentenza v. pure sub art. 61, paragrafo 27).
Difficile dimenticare con quanto entusiasmo fu salutata da taluni la nota dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro del 13 marzo 2020, n. 89 che ammise l'applicabilità del Testo Unico della sicurezza sul lavoro in tempo di Covid-19, ma solo negli ``ambienti di lavoro sanitario o socio-sanitario o qualora il rischio biologico sia un rischio di natura professionale, già presente nel contesto espositivo dell'azienda''. E con quanto entusiasmo si evocò un distinguo tra il Covid-19 come rischio ``specifico'' e il Covid-19 come rischio ``generico''. Basti por mente alla puntuale disciplina dettata dal Titolo X del D.Lgs. n. 81/2008, a maggior ragione dopo le modifiche apportate dalle leggi del 2020 di recepimento della Direttiva UE n. 739 del 3 giugno 2020 appositamente emanata contro il Covid-19. Ne emergono a carico del datore di lavoro e del medico competente obblighi ben precisi (e penalmente sanzionati), dalla valutazione del rischio Covid-19 in azienda alla sorveglianza sanitaria mirata su tale rischio e alle vaccinazioni dei lavoratori. Ma fu agevole dimostrare che, in forza dell'art. 28, D.Lgs. n. 81/2008, debbono essere valutati tutti i rischi che possono profilarsi, non necessariamente a causa dell'attività lavorativa, bensì durante l'attività lavorativa: come può essere appunto il Covid-19. Tanto è vero che poi tutte le Istituzioni disattesero la tesi dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro: per prima l'INAIL il 23 aprile 2020, indi Ministero della Salute, Ministero della Giustizia, Ministero dell'Interno, alla fine lo stesso Ministero del Lavoro. A maggior ragione dopo che il TUSL è da leggere ormai alla luce di quella Direttiva (UE) 2020/739 del 3 giugno 2020, già recepita dagli artt. 4, D.L. 7 ottobre 2020, n. 125 e 17, D.L. 9 novembre 2020, n. 149 inserito nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, che classifica la SARSCoV-2 come patogeno per l'uomo del gruppo di rischio 3. In argomento:
La Sez. III conferma l'assoluzione del presidente del consiglio di amministrazione di una società cooperativa di consumo da più violazioni antinfortunistiche: ``mancata adozione di strutture idonee a garantire una distanza interpersonale superiore al metro tra gli addetti alle casse e la clientela, mancata indicazione nel D.V.R. delle misure preventive e protettive del personale predetto, mancata fornitura ai dipendenti di dispositivi di protezione individuale conformi e adeguati al rischio derivante dal virus Covid-19''. Premette che ``la verifica della fondatezza delle contestazioni rivolte al datore di lavoro impone di esaminare i rapporti esistenti tra le disposizioni emergenziali progressivamente introdotte nell'ordinamento, al fine di contrastare il diffondersi del virus Covid-19, e le norme poste a tutela della sicurezza dei lavoratori, penalmente sanzionate ai sensi del D.Lgs. n. 81/2008'', e che, ``in particolare, è necessario stabilire se debba riconoscersi, alle prime, una valenza derogatoria rispetto alla ordinaria portata applicativa delle seconde, sia con riferimento a disposizioni di dettaglio (quali, per quanto qui specificamente rileva, l'adozione di misure idonee a garantire il rispetto della distanza interpersonale minima di un metro, ovvero - in caso di impossibilità - l'utilizzo, da parte del lavoratore, di dispositivi di protezione individuali di una determinata tipologia); sia, più in generale ed anzitutto, con riferimento al principio di massima tutela del lavoratore, elaborato e costantemente applicato - accanto ed oltre alle specifiche disposizioni gravanti sul datore di lavoro dalla giurisprudenza attraverso l'interpretazione, ormai pienamente consolidata, dell'art. 2087 c.c.''. Rileva che, in forza dell'art. 16 D.L. n. 18/2020, al comma 1, `per contenere il diffondersi del virus COVID-19, fino al termine dello stato di emergenza di cui alla delibera del Consiglio dei ministri in data 31 gennaio 2020, sull'intero territorio nazionale, per tutti i lavoratori e i volontari, sanitari e no, che nello svolgimento della loro attività sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la distanza interpersonale di un metro, sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI), di cui all'articolo 74, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, le mascherine chirurgiche reperibili in commercio, il cui uso è disciplinato dall'articolo 5-bis, comma 3, del presente decreto', e ``le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche ai lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari', e al comma 2, si autorizza altresì l'utilizzo - `fino al termine dello stato di emergenza di cui alla delibera del Consiglio dei ministri in data 31 gennaio 2020' - di mascherine prive del marchio CE prodotte in deroga alle vigenti disposizioni sull'immissione in commercio''. Osserva che ``tali disposizioni legislative sono state interpretate secondo il loro significato letterale, ovvero nel senso di consentire, ove risultasse impossibile garantire la distanza interpersonale di un metro, l'utilizzo delle mascherine chirurgiche: interpretazione confermata dal fatto che il medesimo legislatore aveva invece `preteso' l'utilizzo dei dispositivi FFP2, in caso di contatto prolungato del lavoratore con l'utenza (si fa l'esempio del tatuatore)''. Richiama l'art. 29-bis del D.L. n. 23/2020, ai sensi del quale, ``Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'articolo 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste'', e ``qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale''. Esclude che ``tale disposizione possa essere considerata uno `scudo', un `salvacondotto' implicante un generico esonero da responsabilità del datore di lavoro, dal momento che i protocolli generali e quelli per specifici settori, richiamati nell'art. 29-bis e soggetti a successivi aggiornamenti, avevano proprio la funzione di individuare e specificare le misure necessarie per la tutela dei lavoratori contro il rischio da contagio COVID, tenendo conto degli aspetti peculiari delle attività lavorative, e dell'esperienza fino a quel momento maturata con riferimento ad un grave fattore di rischio di assoluta novità''; e nota che, ``con la normativa emergenziale introdotta dal legislatore ordinario, si era per un verso proceduto alla temporanea individuazione delle misure di prevenzione e delle regole di cautela da osservarsi nei luoghi di lavoro, correlata all'eccezionalità dell'emergenza e a fattori di rischio sconosciuti'', e che, in tale contesto, ``non pare possibile ricercare al di fuori delle norme emergenziali le misure dovute dal datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. perché non si può individuare ex post un diverso catalogo di misure applicabili al fine di attribuire `in maniera retroattiva' una `antidoverosità' della condotta del debitore di sicurezza''. Per altro verso, ``il richiamo ai protocolli contenuto nell'art. 29-bis doveva interpretarsi nel senso del temporaneo discostamento dalla `regola giurisprudenziale della massima sicurezza (tecnologicamente) possibile', proprio perché doveva essere l'adozione dei protocolli ad assicurare alle persone che lavorano livelli di sicurezza `adeguati' e non quindi un generico livello `massimo' della sicurezza tecnologicamente possibile (che, nel caso del rischio COVID, sarebbe sostanzialmente indefinibile)''. In tal guisa riassunti i rilievi svolti dal Tribunale, la Sez. III afferma che ``la valorizzazione dei protocolli, da parte del legislatore dell'emergenza, non è stata effettuata in termini generici o astratti, ma attraverso una diretta, indiscutibile correlazione con gli obblighi gravanti sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c., nel senso appunto che, per ciò che riguarda i rischi da contagio COVID, i datori di lavoro pubblici e privati `adempiono all'obbligo di cui all'art. 2087 del codice civile' applicando le prescrizioni e adottando le misure contenute nei protocolli''. Sottolinea che ``l'interpretazione del P.M. ricorrente, che vorrebbe circoscrivere la portata di tale disposizione alla dinamica del rapporto civilistico intercorrente tra datore di lavoro e lavoratore, non trova alcun riscontro nella lettera dell'art. 29-bis, e appare poco convincente anche da un punto di vista sistematico, essendo chiara la portata eccezionale delle disposizioni in questione, volte a rimodulare, durante l'emergenza pandemica - e per la non controversa impossibilità di individuare concretamente, ex ante, un livello di `massima tutela' perseguibile - i profili della valutazione dei rischi e della individuazione delle misure da adottare da parte datoriale''. Aggiunge che - con specifico riferimento alla necessità sia di far rispettare la distanza di un metro, sia di individuare le misure da adottare in caso di impossibilità - la soluzione era stata offerta direttamente da un altro intervento legislativo, ovvero dal già citato art. 16 d.l. n. 18, significativamente rubricato ``ulteriori misure di protezione a favore dei lavoratori e della collettività'', e che ``l'interpretazione volta a ridurre quelle disposizioni ad un mero ambito prettamente civilistico, ovvero alla limitazione delle ipotesi di inadempimento del datore di lavoro nei confronti della controparte, ed a sostenere, al contempo, la persistente efficacia ed operatività anche ai fini penali del principio di massima tutela codificato nell'art. 2087 c.c., costituisce operazione ermeneutica non condivisibile''.
(Tutta da leggere in compenso, della stessa Sez. III, Cass. 17 marzo 2022 n. 9028, sub art. 28, paragrafo 44).
(Per un'analisi critica del tema v. l'e-book Guariniello, Il Covid-19 tra TU sicurezza, codice penale e giurisprudenza della Cassazione-Nuove prospettive dopo la Direttiva UE 739, 3 giugno 2020, 2020, Wolters Kluwer, 1 s., 11 s., 28 s., 59 s.).