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    Questo volume non è incluso nella tua sottoscrizione. Il primo capitolo è comunque interamente consultabile.

    Informazioni sul volume

    Autore:

    Blasizza Erica, AA.VV.

    Editore:

    Wolters Kluwer

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    AMBIENTE 2024

    Capitolo 1

    La normativa ambientale

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    Successivo Capitolo 2 Economia circolare: le nuove sfide e l’impatto sulla normativa
    Mostra tutte le note

    1.1 Considerazioni preliminari

    1.1Considerazioni preliminari

    La normativa “ambientale” è concetto amplissimo che, anche per l’operatore del settore più accorto, impone un esercizio ricognitivo non solo delle norme di legge, interne ed internazionali, che si occupano di disciplinare un determinato settore ambientale, ma anche delle decisioni della giurisprudenza, ancora una volta interna ed europea, che riguardano la materia. È questo, un compito reso difficile soprattutto dall’intersecarsi di questioni, giuridico-tecniche, che rendono complesso un inquadramento sistematico.

    Per poter affrontare in maniera organica la materia è necessario, anzitutto, comprendere cosa si intende per “ambiente”, cercando di attribuire a questa nozione di carattere teorico un significato tecnico-giuridico, verificando poi l’interpretazione che la giurisprudenza, interna ed europea, hanno attribuito a questo concetto, al fine di meglio comprendere il significato inteso soprattutto dalla normativa sovranazionale.

    La “nostra” normativa ambientale, peraltro, si caratterizza per una sua sostanziale organicità, grazie alla stessa articolazione strutturale del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (meglio noto come TUA, e da qui in avanti così descritto con tale acronimo).

    STRUTTURA DEL TESTO UNICO AMBIENTALE (TUA)
    Parte I TUA Disposizioni comuni e principi generali
    Parte II TUA Procedure per la valutazione ambientale strategica (VAS), per la valutazione dell’impatto ambientale (VIA) e per l’autorizzazione integrata ambientale (IPPC)
    Parte III TUA Norme in materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione, di tutela delle acque dall’inquinamento e di gestione delle risorse idriche
    Parte IV TUA Norme in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati
    Parte V TUA Norme in materia di tutela dell’aria e di riduzione delle emissioni in atmosfera
    Parte V-bis TUA Disposizioni per particolari installazioni
    Parte VI TUA Norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente
    Parte VI-bis Disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale

    Nota: la Parte VI è probabilmente la più innovativa dell’intero TUA in quanto si occupa per la prima volta di dare una sistemazione organica ad una materia che, fino ad allora, era stata affidata a poche, sparse, disposizioni normative, la più importante delle quali costituita dal celeberrimo art. 18 della Legge n. 349/1986, istitutiva del Ministero dell’Ambiente, che tuttavia si limitava a fissare un principio di legittimazione risarcitoria rispetto ai fenomeni produttivi di danno ambientale, senza specificare in cosa esso consistesse e affidando sostanzialmente al personale gusto del giudice il compito di liquidare tale danno.

    Si tratta, tuttavia, di un intervento non del tutto soddisfacente, considerato che restano fuori dal “fuoco” della disciplina del TUA fenomeni di inquinamento ambientale che avrebbero meritato la loro inclusione in un testo che, per come espressamente evidenziato dalla stessa rubrica (il TUA, infatti, contiene semplicemente “norme in materia ambientale”), non aveva alcuna pretesa di essere considerato un vero e proprio testo unico in materia di ambiente, ma solo di disciplinare, accorpandole con opera di sistemazione organica, previgenti normative in campo ambientale (dal Decreto Ronchi in materia di rifiuti, al D.Lgs. n. 152/1999 in materia di acque, fino al D.P.R. n. 203/1988 in materia di inquinamento atmosferico), rendendone più semplice il reperimento e la consultazione.

    Restano, infatti, non disciplinati dal TUA, alcuni fenomeni di aggressione al bene ambiente di non poca importanza, quali:

    • l’inquinamento acustico (che trova ancora oggi la sua disciplina nella Legge quadro n. 447/1995 e nei decreti ministeriali settoriali),

    • quella dell’inquinamento elettromagnetico (che trova la sua disciplina in altra Legge quadro, la Legge n. 36/2001 e nei consueti decreti settoriali di dettaglio)

    • e, soprattutto, quella forma di inquinamento che rappresenta l’ultima frontiera in campo ambientale, costituita dal c.d. inquinamento luminoso (ad oggi priva di una normativa nazionale, salve alcune sparse indicazioni ricavabili dal Codice della Strada, e completamente fondata sulla normativa regionale, con previsione di mere sanzioni amministrative in caso di violazione).

    A ciò deve essere aggiunta un’ulteriore precisazione. La normativa ambientale, come intesa nel nostro ordinamento, soprattutto sotto il versante sanzionatorio, si caratterizza per un deficit di tutela (almeno con riferimento alle fattispecie di tipo contravvenzionale previste dal c.d. Testo Unico ambientale varato dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152), in quanto articolata su reati di tipo formale, di pericolo e dotati di scarsa afflittività sotto il profilo sanzionatorio, in quanto sono previste sanzioni modeste (arresto o ammenda, nei casi più gravi applicate congiuntamente), per di più soggette a termini di prescrizione assai brevi che rendono difficile il perseguimento dei loro autori.

    Nota: la Legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, ha modificato la disciplina della prescrizione con disposizioni immediatamente prescrittive, in vigore dal 19 ottobre 2021. La legge conferma la scelta della Legge 9 gennaio 2019, n. 3, di bloccare il corso della prescrizione al momento della pronuncia della sentenza di primo grado. La pronuncia della sentenza non è però più qualificata quale causa di sospensione della prescrizione fino alla sua irrevocabilità, bensì di cessazione definitiva del corso della prescrizione (art. 161-bis, c.p.). Il decreto penale di condanna, invece, a differenza di quanto era stato previsto dalla Legge del 2019, viene individuato quale causa di interruzione del corso della prescrizione, ai sensi dell’art. 160, comma 1, c.p. Al contempo, con riferimento ai successivi gradi di giudizio, la legge di riforma ha introdotto nel codice di rito, all’art. 344-bis c.p.p., una nuova causa di improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione.

    Unico, esile, baluardo in materia è costituito dalla disciplina dettata dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ossia dalla normativa sulla c.d. responsabilità degli Enti, che, inizialmente grazie al D.Lgs. n. 121 del 2011, ha consentito di sanzionare anche gli Enti, persone giuridiche, per fatti di inquinamento posti in essere dai soggetti/persone fisiche, agenti per conto e nell’interesse dell’Ente, ma riconducibili ad una politica aziendale di scarsa attenzione verso la tutela dei beni ambientali.

    La risposta statale è poi divenuta adeguata, tanto sul versante della reazione ai comportamenti aggressivi del bene ambiente posti in essere dalle persone fisiche quanto sul versante dei medesimi comportamenti riconducibili ad atteggiamenti irresponsabili delle imprese (dunque dalle persone giuridiche), attraverso l’introduzione nel nostro c.p. dei delitti contro l’ambiente, grazie alla Legge n. 68 del 2015, che ha finalmente previsto quali fattispecie autonome di reato, sanzionate penalmente come “delitto”, con pene di grande afflittività e dotate quindi di adeguata deterrenza, alcuni dei fenomeni più pericolosi per l’ambiente, ad esempio i nuovi delitti di inquinamento ambientale e di disastro ambientale, prevedendone anche la sanzionabilità in chiave colposa oltre che dolosa, e provvedendo a rivisitare in tal senso, adeguandolo alle nuove fattispecie, il catalogo dei c.d. reati presupposto della responsabilità dell’Ente in materia ambientale, originariamente contemplato dall’art. 25-undecies del “Decreto 231” nella versione scaturita dall’attuazione della Direttiva n. 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente per mano del già richiamato D.Lgs. n. 121 del 2011.

    SINTESI DELLA NORMATIVA AMBIENTALE
    D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 È il c.d. Testo Unico ambientale; contiene i principi fondamentali del diritto ambientale (Parte I), disciplina le procedure di VIA, VAS ed AIA (Parte II), le principali fonti di inquinamento (acqua, rifiuti, suolo ed aria: parti, III, IV e V), le disposizioni afferenti all’attività di produzione di biossido di titanio e solfati di calcio (Parte V-bis) nonché il danno ambientale (Parte VI) e la disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale (Parte VI-bis).
    Legge 26 ottobre 1995, n. 447 Legge quadro sull’inquinamento acustico.
    Legge 22 febbraio 2001, n. 36 Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici.
    D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’art. 11 della Legge 29 settembre 2000, n. 300: è la c.d. Legge 231 ed ha introdotto nell’ordinamento giuridico la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche.

    SINTESI DELLA NORMATIVA AMBIENTALE
    D.Lgs. 7 luglio 2011, n. 121 Attuazione della Direttiva n. 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente, nonché della Direttiva n. 2009/123/CE che modifica la Direttiva n. 2005/35/CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni; ha introdotto nel catalogo dei c.d. reati presupposto della responsabilità dell’Ente ex “Legge 231” l’art. 25-undecies, dedicato appunto ai Reati ambientali.
    Legge 22 maggio 2015, n. 68 Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente; ha introdotto nel c.p. i delitti ambientali, ha riordinato il catalogo dei c.d. reati presupposto della responsabilità dell’Ente, ampliando la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per i nuovi delitti contro l’ambiente.

    Infine, in tale contesto, particolare importanza spetta all’attività di vigilanza in materia ambientale, attraverso l’azione preziosa e costante degli organi di polizia che si occupano di garantire la salvaguardia del bene ambiente in tutta la sua multiforme consistenza, di recente arricchita anche dalla estensione di una previsione contemplata nell’affine materia della prevenzione degli infortuni sul lavoro, costituita dalla possibilità di definire attraverso una procedura amministrativa/penale le violazioni contravvenzionali in materia ambientale, introdotta dalla citata Legge n. 68 del 2015, che ha inserito una Parte sesta-bis nel TUA dedicata alla “Disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale”, estendendo in sostanza, con qualche differenza, il meccanismo del D.Lgs. n. 758 del 1994 (previsto in materia di reati in materia di prevenzione infortuni sul lavoro) anche ai reati contravvenzionali ambientali.

    Nel presente capitolo è riportata una ricognizione della normativa ambientale, interna ed europea, per orientare il lettore a districarsi nella complessa materia del diritto dell’ambiente, così da rendere più semplici gli approfondimenti tematici, di natura tecnico/giuridica, in relazione alle diverse fonti inquinanti, cui sono dedicati i capitoli successivi.

    1.2 Concetto di ambiente

    1.2Concetto di ambiente

    Per individuare quale sia la normativa ambientale occorre rispondere a queste domande:

    • cosa si intende per ambiente?

    • e, in particolare, cosa il nostro ordinamento intende per ambiente?

    La risposta però non è facile. Infatti, non c’è nessuna norma che stabilisce espressamente cosa si intende per “ambiente” ai fini giuridici.

    L’omissione costituisce la conferma della fondatezza della tesi sostenuta in un noto saggio da Massimo Severo Giannini secondo il quale «in realtà nel linguaggio normativo l’ambiente, per quanto di continuo evocato, non è definito né definibile, non ne sono precisate le condizioni d’uso, né è riducibile in enunciati prescrittivi» (M.S. Giannini, Ambiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 15).

    Tuttavia, tale risposta ancorché difficile, deve essere cercata ad ogni costo. Infatti, sono ormai troppe le norme che fanno riferimento a “norme ambientali”, a “sanzioni ambientali”, a “competenze ambientali”, a “danno ambientale” per poterla eludere. Parimenti queste norme fanno ritenere che una nozione di ambiente nel nostro ordinamento, anche se non esplicitamente accolta, sia per lo meno sottintesa.

    Nella risoluzione della questione definitoria si sono contrapposti due distinti orientamenti: quello «pluralista» che enuncia la nozione di ambiente attraverso la descrizione, o meglio la elencazione, delle sue componenti possibili oggetti della tutela ambientale, e quello «monista» tendente a costruire una nozione omnicomprensiva. La teoria pluralista per la prima volta enunciata da Massimo Severo Giannini (M.S. Giannini, Ambiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, cit., 15) attribuisce alla nozione di ambiente tre distinti significati all’interno di ambiti disciplinari tra loro difformi per finalità e strutture: quello riferito al paesaggio, quello relativo alla difesa del suolo, dell’acqua e dell’aria, quello, infine, utilizzato nella normativa urbanistica. Alla tripartizione gianniniana, parte della dottrina ha contrapposto una bipartizione tra la nozione di ambiente che contraddistingue la disciplina del paesaggio e quella desumibile dalle norme sulla difesa dell’acqua, dell’aria e del suolo, finalizzate tutte alla tutela della salute ex art. 32 Cost. (A. Predieri, voce Paesaggio, in Enc. Dir., XXXI, Milano, 1981, 503 s. e G Pericu, voce Ambiente (tutela dell’) nel diritto amministrativo, in Dig. Disc. Pubbl., Torino, 1987, 190), oppure una bipartizione fondata sulle due distinte aree di funzioni omogenee (gestione sanitaria e gestione territoriale-urbanistica) connesse rispettivamente alla disciplina del diritto ad un ambiente salubre e a quella relativa alle forme ed all’assetto del territorio (B. Cavallo, Profili amministrativi della tutela dell’ambiente: il bene ambientale tra tutela del paesaggio e gestione del territorio, in Riv. trim. dir. pubbl., 1990, 397 s.).

    Vi sono, peraltro, alcuni “indici” interpretativi che aiutano a dare una risposta a tale fondamentale domanda:

    • la Direttiva n. 2011/92/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, pubblicata nella G.U.U.E. 28 gennaio 2012, n. L 26, modificata dalla Direttiva n. 2014/52/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014, pubblicata nella G.U.U.E. 25 aprile 2014, n. L 124 e recepita con Legge 6 agosto 2013, n. 97;

    • nonché il D.Lgs. 16 giugno 2017, n. 104, recante Attuazione della Direttiva n. 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, che modifica la Direttiva n. 2011/92/UE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, ai sensi degli artt. 1 e 14 della Legge 9 luglio 2015, n. 114.

    Tali indici fanno riferimento ad una nozione particolarmente ampia di ambiente secondo la quale esso comprende tutte le “componenti naturalistiche ed antropiche interessate, le interazioni tra queste e il sistema ambientale preso nella sua globalità” (Allegato I al D.P.C.M. 27 dicembre 1988, abrogato dall’art. 26, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 104/2017).

    Secondo la Direttiva n. 2011/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011, recepita con Legge 6 agosto 2013, n. 97 (per l’applicazione di tale direttiva concernente la valutazione dell’impatto ambientale, si v. la Comunicazione 3 dicembre 2021, n. 2021/C486/01), concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, la “valutazione dell’impatto ambientale” individua, descrive e valuta, in modo appropriato, per ciascun caso particolare, gli effetti significativi, diretti e indiretti, di un progetto sui seguenti fattori (art. 3):

    • popolazione e salute umana;

    • biodiversità, con particolare attenzione alle specie e agli habitat protetti in virtù della Direttiva n. 92/43/CEE e della Direttiva n. 2009/147/CE;

    • territorio, suolo, acqua, aria e clima;

    • beni materiali, patrimonio culturale, paesaggio;

    • interazione tra i fattori di cui alle lett. da a) a d).

    Secondo l’Allegato I al D.P.C.M. 27 dicembre 1988 (abrogato, ma i cui principi conservano validità esegetica) le componenti e i fattori ambientali sono da intendersi, ai fini della valutazione dell’impatto ambientale:

    • atmosfera: qualità dell’aria e caratterizzazione meteoclimatica;

    • ambiente idrico: acque sotterranee e acque superficiali (dolci, salmastre e marine), considerate come componenti, come ambienti e come risorse;

    • suolo e sottosuolo: intesi sotto il profilo geologico, geomorfologico e pedologico, nel quadro dell’ambiente in esame, e anche come risorse non rinnovabili;

    • vegetazione, flora, fauna: formazioni vegetali ed associazioni animali, emergenze più significative, specie protette ed equilibri naturali;

    • ecosistemi: complessi di componenti e fattori fisici, chimici e biologici tra loro interagenti ed interdipendenti, che formano un sistema unitario e identificabile (quali un lago, un bosco, un fiume, il mare) per propria struttura, funzionamento ed evoluzione temporale;

    • salute pubblica: come individui e comunità;

    • rumore e vibrazioni: considerati in rapporto all’ambiente sia naturale che umano;

    • radiazioni ionizzanti e non ionizzanti: considerati in rapporto all’ambiente sia naturale, che umano;

    • paesaggio: aspetti morfologici e culturali del paesaggio, identità delle comunità umane interessate e relativi beni culturali.

    Ci si chiede, a questo punto, cosa sia il diritto dell’ambiente.

    Diritto dell’ambiente è il complesso di norme che limita e guida le attività umane affinché esse non arrechino danni alle varie potenzialità che l’ambiente offre alle generazioni attuali e a quelle future. Si devono tuttavia subito evidenziare due circostanze.

    In primo luogo, tale nozione non è univoca dal momento che non sono poche le trattazioni che negano un autonomo concetto di ambiente o che sembrano accoglierne nozioni più ristrette, di volta in volta incentrate sulle bellezze naturalistiche, piuttosto che sull’inquinamento o sullo sviluppo urbanistico.

    In secondo luogo, la presente trattazione si incentra sulle norme che limitano e guidano le attività produttive per evitare o limitare fenomeni di inquinamento.

    Rimangono defilati gli argomenti, che pure possono ritenersi parte del diritto dell’ambiente in senso lato, relativi alla tutela della biodiversità (cioè alla varietà e al numero di specie viventi sulla terra), sulla caccia, sulla pesca e sulla tutela del paesaggio e delle aree naturali. L’estensione dell’ambiente (e quindi la sua qualificazione) appare peraltro in continua rimodulazione ed espansione: si pensi a come i rifiuti radioattivi o gli organismi geneticamente modificati siano considerati oggetto del diritto dell’ambiente (Conv. Aarhus, 25 giugno 1998).

    1.3 Le fonti del diritto ambientale in generale

    1.3Le fonti del diritto ambientale in generale

    Le fonti che regolano il diritto ambientale sono numerosissime e di ogni natura. Norme costituzionali, norme di legge ordinaria e regolamenti. Leggi statali, regionali e atti normativi di altre autorità.

    Assumono una particolare rilevanza le norme comunitarie.

    Come previsto dall’art. 288 TFUE (ex art. 249 TCE) solo i regolamenti sono immediatamente applicabili nel nostro ordinamento, mentre le Direttive lo sono attraverso la loro attuazione da parte degli ordinamenti degli Stati membri.

    Mentre i regolamenti sono atti normativi comunitari a portata generale ed astratti, direttamente applicabili negli ordinamenti di tutti gli Stati membri a tutti i soggetti, le Direttive - pur condividendo con i regolamenti la natura normativa - sono atti che vincolano gli stati membri al raggiungimento dei risultati per i quali sono state emanate, lasciando a questi la scelta dei mezzi giuridici più idonei con i quali raggiungerli.

    Le Direttive, in genere, non sono direttamente applicabili e obbligatorie negli stati membri.

    Esistono comunque dei casi in cui si ritiene che ciò avvenga:

    • quando impongano un obbligo meramente negativo e non necessitino, quindi, di norme applicative;

    • quando si limitino a chiarire norme già presenti nei Trattati;

    • quando impongano obblighi chiari, precisi ed incondizionati (Direttive dettagliate o self executing) ossia lascino agli Stati uno spazio discrezionale minimo o nullo nella scelta delle modalità per raggiungere il risultato voluto.

    Si ritiene che, nel caso delle Direttive dettagliate non tempestivamente recepite, l’efficacia diretta si manifesti solo in senso verticale, ossia nei rapporti tra soggetti privati ed amministrazioni pubbliche, comportando un obbligo risarcitorio da parte dello Stato nei confronti del singolo, persona fisica o persona giuridica, che abbia subito danni a causa della mancata attuazione della Direttiva.

    La giurisprudenza comunitaria riconosce alle Direttive:

    • un’efficacia diretta, quando sono chiare, precise e incondizionate, nei rapporti tra pubblici poteri e cittadini dei vari Stati (c.d. “efficacia verticale”);

    • un’efficacia indiretta, tale cioè da spiegare comunque rilevanza ai fini interpretativi, anche tra cittadini (c.d. “efficacia orizzontale”).

    La giurisprudenza comunitaria esclude, dunque, un’applicabilità orizzontale, nei rapporti tra privati (il tema, tuttavia, è tutt’altro che pacifico e non mancano casi in cui si è data applicazione orizzontale ad alcune Direttive non attuate, ad es. in materia di pari opportunità o di sicurezza sul lavoro).

    In ogni caso, le Direttive influenzano notevolmente l’interpretazione delle norme italiane anche in considerazione del fatto che le norme del diritto ambientale sono prevalentemente atti del Governo ad esso delegati dal Parlamento, così che le norme italiane che violassero le Direttive comunitarie finirebbero col violare la delega legislativa ed essere, perciò, incostituzionali (v., per i parametri costituzionali, gli artt. 11 e 117, comma 1, Cost.). In questi casi le Direttive comunitarie influenzano le norme interne perché, in caso di dubbio, deve essere preferita l’interpretazione rispondente alla Costituzione e quindi, indirettamente, anche alla Direttiva. Tuttavia, è notorio come si sia svolta, in proposito, una vicenda giuridico-politica di assoluta peculiarità e interesse, in cui un ruolo fondamentale e decisivo ha svolto la Corte di Giustizia UE.

    GIURISPRUDENZA

    In sintesi, la giurisprudenza della Corte di Giustizia, già da tempo tutta tesa ad affermare, con la primazia del diritto comunitario, il c.d. “effetto diretto”, ha elaborato il principio in forza del quale, ove le prescrizioni di una data Direttiva si presentino come incondizionate e sufficientemente precise e ove sia trascorso il termine per la trasposizione, la Direttiva diviene direttamente vincolante e applicabile:

    • v., ad es., Corte Giust., 17 dicembre 1970, in causa C-33/70, SACE

    L’elaborazione della Corte di Giustizia è tuttavia opera, per così dire, progressiva, affermata e perfezionata, cioè, nel corpo di varie sentenze che si sono succedute nel tempo, partendo dalla sentenza Van Gend & Loos. In verità, la sentenza Van Gend & Loos affermava la diretta applicazione del TCE, anche quanto ai diritti degli individui (c.d. “effetto utile”):

    • Corte Giust., 5 febbraio 1963, in causa C-26/62, Van Gend & Loos

    In seguito, con le sentenze Costa-ENEL, Simmenthal e specialmente F.lli Costanzo, la Corte di Giustizia ebbe modo di affermare decisamente l’efficacia del diritto comunitario, grazie alla teoria della primauté sul diritto statuale, e specificare in quali fattispecie debba farsi luogo alla disapplicazione (e da parte di quali organi nazionali):

    • Corte Giust., 15 luglio 1964, in causa C-6/64, Costa-ENEL

    • Corte Giust., 9 marzo 1978, in causa C-106/77, Simmenthal e specialmente

    • Corte Giust., 22 giugno 1989, in causa C-103/88, F.lli Costanzo

    Il tema è stato anche di recente ripreso dalla stessa Corte, affermando nella sentenza David Smith c. Patrick Meade e altri, che l’obbligo per gli Stati membri, derivante da una Direttiva, di conseguire il risultato previsto da quest’ultima così come il loro dovere di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo s’impongono a tutte le autorità degli Stati membri, comprese, nell’ambito delle loro competenze, quelle giurisdizionali. Ne consegue che, nell’applicare il diritto nazionale, i giudici nazionali chiamati a interpretarlo sono tenuti a prendere in considerazione l’insieme delle norme di tale diritto e ad applicare i criteri ermeneutici riconosciuti dallo stesso al fine di interpretarlo quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della Direttiva di cui trattasi, onde conseguire il risultato fissato da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 288, comma 3, TFUE:

    • Corte Giust., 7 agosto 2018, in causa 122/17, David Smith c. Patrick Meade e altri

    Ultime in ordine di tempo, ma di assoluto rilievo:

    a) la sentenza con cui la Grande Sezione della Corte di Giustizia ha affermato che ai sensi dell’articolo 288, quarto comma, TFUE, una decisione di adeguatezza della Commissione ha carattere vincolante, in tutti i suoi elementi, per tutti gli Stati membri destinatari e si impone quindi a tutti i loro organi, in quanto constata che il paese terzo interessato garantisce un livello di protezione adeguato e produce l’effetto di autorizzare tali trasferimenti di dati:

    • Corte Giust., Grande Sezione, 16 luglio 2020, in causa n. 311/18, D.P.C. c. F.I. Ltd e altri

    b) la sentenza con cui la Corte di Giustizia ha puntualizzato che anche se taluni atti di diritto derivato dell’Unione, quali le decisioni quadro, nonché in talune circostanze le direttive, non abbiano efficacia diretta, il loro carattere vincolante comporta tuttavia in capo ai giudici nazionali un obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale. Per contro, ai sensi dell’articolo 288, secondo comma, TFUE, un regolamento dell’Unione è direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri. Orbene, da una giurisprudenza costante risulta che qualsiasi giudice nazionale, adito nell’ambito della sua competenza, in quanto organo di uno Stato membro e in applicazione del principio di cooperazione previsto dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE, ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto dell’Unione direttamente applicabile e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai privati, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge nazionale, sia anteriore sia successiva alla norma dell’Unione:

    • Corte Giust., 21 gennaio 2021, in causa 308/19, Consiliul Concurenței c. Whiteland Import Export s.r.l.

    c) la sentenza che ha affermato il principio secondo cui è vero che, ai sensi dell’art. 288, par. 5, TFUE, le raccomandazioni non sono intese a produrre effetti vincolanti e non sono in grado di creare diritti che i singoli possono invocare dinanzi a un giudice nazionale. Esse fanno tuttavia parte degli atti giuridici dell’Unione, cosicché la Corte può prenderle in considerazione quando forniscono elementi utili per l’interpretazione delle disposizioni pertinenti del diritto dell’Unione:

    • Corte Giust., Grande Sezione, 26 gennaio 2021, n. 422/19 Johannes Dietrich e altri c. Hessischer Rundfunk

    d) la sentenza che ha affermato il principio secondo cui, ai sensi dell’art. 288, comma 2, TFUE, il regolamento ha portata generale ed è direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri:

    • Corte Giust., Grande Sezione, 21 dicembre 2021, n. 124/20B.M.I. c. T.D. GmbH.

    e) l’importante sentenza che ha riaffermato alcuni significativi principi sul punto:

    1) in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, le persone possono invocarle dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato membro interessato, quando quest’ultimo ha omesso di recepire la direttiva nell’ordinamento nazionale entro i termini oppure quando l’ha recepita in modo scorretto;

    2) poiché l’obbligo per uno Stato membro di adottare tutti i provvedimenti necessari per raggiungere il risultato prescritto da una direttiva è un obbligo cogente, imposto dall’art. 288, comma 3, TFUE nonché dalla stessa direttiva, e il cui rispetto incombe a tutti gli enti indicati al punto precedente, le controversie tra tali enti sono controversie che coinvolgono parti tenute ad applicare la direttiva di cui trattasi e alle quali, di conseguenza, sono opponibili le disposizioni incondizionate e sufficientemente precise di tale direttiva. Ne consegue che tali disposizioni di detta direttiva possono essere invocate nell’ambito di tali controversie, a prescindere dal fatto che si tratti, per detti enti, di far rispettare gli obblighi che essi impongono o di far valere i diritti che essi concedono loro;

    3) ai sensi dell’art. 288, comma 3, TFUE, il carattere vincolante di una direttiva su cui si fonda la possibilità di farla valere sussiste solo nei confronti dello «Stato membro cui è rivolta». Ne consegue che una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti di tale persona dinanzi a un giudice nazionale;

    4) gli amministrati, qualora siano in grado di far valere una direttiva non nei confronti di un singolo, ma di uno Stato membro, possono farlo indipendentemente dalla veste nella quale questo agisce. È opportuno evitare, infatti, che lo Stato membro possa trarre vantaggio dalla sua inosservanza del diritto dell’Unione. Pertanto, le disposizioni incondizionate e sufficientemente precise di una direttiva possono essere invocate dagli amministrati non solo nei confronti di uno Stato membro e di tutti i suoi organi amministrativi, ma anche nei confronti di organismi o entità, anche se disciplinati dal diritto privato, che sono soggetti all’autorità o al controllo di un’autorità pubblica o che sono stati incaricati da uno Stato membro di svolgere un compito di interesse pubblico e che, a tal fine, dispongono di poteri eccezionali rispetto a quelli derivanti dalle norme applicabili nei rapporti tra privati.

    • Corte Giust., Sez. V, 22 dicembre 2022, causa n. 383/21

    f) non meno rilevante il principio secondo cui, in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiono, dal punto di vista del loro contenuto, incondizionate e sufficientemente precise, i privati possono farle valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti di uno Stato membro, sia qualora esso abbia omesso di trasporre la direttiva in diritto nazionale entro i termini, che qualora l’abbia recepita in modo scorretto, affermazione cui si aggiunge, l’ulteriore, di assoluto rilievo, secondo cui l’amministrazione, anche comunale, è tenuta, al pari del giudice nazionale, ad applicare le disposizioni incondizionate e sufficientemente precise di una direttiva e a disapplicare le norme del diritto nazionale non conformi a tali disposizioni.

    • Corte Giust., Sez. III, 20 aprile 2023, n. 348/22

    In altri termini, il meccanismo individuato dalla Corte di Giustizia - che in tal modo ha inteso affermare decisamente e vigorosamente la teoria dell’effetto utile, dell’efficacia e vincolatività del diritto comunitario - è stato quello della disapplicazione della norma nazionale contrastante con disposizioni di Direttive UE, in favore di queste ultime.

    In tal senso appare orientata anche la più recente giurisprudenza di legittimità.

    La Corte di cassazione ha precisato che “Il potere-dovere del giudice di disapplicare la normativa nazionale in contrasto con la normativa comunitaria sussiste solo laddove tale ultima normativa sia dotata di efficacia diretta nell’ordinamento interno”:

    • Cass., sez. III, 30 settembre 2008, n. 41839

    • conf. Cass., sez. III, 12 febbraio 2008, n. 13816

    aggiungendo, inoltre, quanto all’efficacia delle sentenze del giudice comunitario, che “Le sentenze della Corte di Giustizia CE, quale interprete qualificato del diritto comunitario, di cui definisce autoritativamente il significato a norma dell’art. 164 del Trattato CE, hanno efficacia vincolante, anche ‘ultra partes’, nei procedimenti dinanzi alle autorità, giurisdizionali o amministrative, dei singoli Stati membri”:

    • Cass., sez. III, 12 febbraio 2008, n. 13810

    • conf. Cass., sez. VII, 6 marzo 2008, n. 21579

    Analoga efficacia vincolante per il giudice nazionale è stata riconosciuta alle decisioni adottate dalla Commissione europea - e non più impugnabili né dallo Stato membro designato come destinatario, né dalla parte direttamente ed individualmente interessata, per il decorso del termine di due mesi dal giorno in cui questa ha avuto conoscenza del provvedimento -, atteso il principio desumibile dagli artt. 288, comma 4, e 263 del TFUE (già, rispettivamente, artt. 249 e 230, e, prima ancora, 173 del TCE):

    • Cass. civ., sez. V, 11 maggio 2012, n. 7319

    • Cass. civ., sez. L, 22 novembre 2021, n. 35984, ord.

    Fondamentale, poi, quanto al tema dei rapporti tra Direttive comunitarie e legislazione nazionale in materia ambientale è quanto affermato dalla:

    • Corte cost., 28 gennaio 2010, n. 28

    La Corte, con tale sentenza, ebbe a dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 183, comma 1, lett. n), D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 nel testo antecedente alle modiche introdotte dall’art. 2, comma 20, D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, nella parte in cui prevedeva: “rientrano altresì tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente Decreto le ceneri di pirite, polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte a procedimento di bonifica o di ripristino ambientale”.

    La norma censurata - in contrasto con la definizione comunitaria, che qualifica rifiuto ogni sostanza di cui il produttore si disfi - escludeva dalla categoria dei rifiuti un materiale - introducendo così una presunzione assoluta - le ceneri di pirite, indipendentemente dal fatto che l’impresa produttrice se ne sia disfatta. Tale preclusione si poneva in contrasto con l’esigenza, derivante dalla disciplina comunitaria, di verificare in concreto l’esistenza di un rifiuto o di un sottoprodotto.

    La sentenza, al di là della declaratoria di incostituzionalità, assume importanza sul tema dei rapporti tra norma nazionale difforme da quella comunitaria in quanto la Corte considera non implausibile la motivazione con cui il giudice rimettente esclude di poter fare diretta applicazione delle Direttive comunitarie, disapplicando di conseguenza la norma censurata, in quanto ritenuta in conflitto con le prime, ciò in quanto - osserva la Corte costituzionale - gli effetti diretti sono esclusi se dall’applicazione della Direttiva deriva una responsabilità penale.

    Tra le altre:

    • Corte Giust., 24 ottobre 2002, ord., in causa C-233/01, RAS

    • Corte Giust., 29 aprile 2004, in causa C-102/02, Beuttenmüller

    • Corte Giust., 3 maggio 2005, in cause C-387, 391, 403/02, Berlusconi e altri

    • Cass., 7 novembre 2008, n. 41839

    • Cass. pen., SS.UU., 8 giugno 2012, Micheli, in CED Cass. 252454

    In alcuni casi, peraltro, la giurisprudenza, anche di recente, è pervenuta alla disapplicazione della normativa interna per contrasto con Direttive europee dotate di efficacia self executing. Ciò è avvenuto, ad esempio, in tema di occupazione abusiva di beni del demanio marittimo, avendo la Corte di cassazione disapplicato la normativa di cui all’art. 24, comma 3-septies, D.L. 24 giugno 2016, n. 113, conv. in Legge 7 agosto 2016, n. 160, in quanto la stessa, stabilizzando gli effetti della proroga automatica delle concessioni demaniali marittime prevista dall’art. 1, comma 18, D.L. 30 dicembre 2009, n. 194, conv. in Legge 26 febbraio 2010, n. 25, contrasta con l’art. 12, parr. 1 e 2, Direttiva n. 2006/123/CE del 12 dicembre 2006 (c.d. Direttiva Bolkestein) e, comunque, con l’art. 49 TFUE.

    Si veda, in tal senso, nella giurisprudenza penale:

    • Cass. pen., sez. III, 14 maggio 2018, n. 21281, Ragusi, in Ced Cass. 273222.

    In senso conforme anche la giurisprudenza amministrativa, secondo cui va disapplicata la normativa interna che prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime, con finalità turistico-ricreative, ivi comprese le concessioni destinate ad approdi e porti turistici, per il contrasto della stessa con l’art. 12, parr. 1 e 2, Direttiva n. 2006/123/CE del 12 dicembre 2006 (c.d. Direttiva Bolkestein) e, comunque, anche con l’art. 49 TFUE:

    • Consiglio di Stato, sez. VI, 12 febbraio 2018, n. 873

    • Corte cost., 20 maggio 2020, n. 180 (relativa alla declaratoria di incostituzionalità di leggi regionali dispositive di proroga o rinnovo automatico)

    • Consiglio di Stato, sez. VI, 18 novembre 2019, n. 7874

    • Tar Lecce, sez. I, 27 novembre 2020, n. 1321 (che ha tuttavia precisato che la norma nazionale, ancorché in conflitto con quella euro-unionale, è vincolante per la Pubblica amministrazione, essendo il potere di disapplicazione attribuito al giudice dall’ordinamento interno e dall’ordinamento euro-unionale)

    Trattasi di principio ulteriormente ribadito dalla stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, sul punto, ha affermato che le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative - compresa la moratoria introdotta in correlazione con l’emergenza epidemiologica da Covid-19 dall’art. 182, comma 2, D.L. n. 34/2020, convertito in Legge n. 77/2020 - sono in contrasto con il diritto eurounitario, segnatamente con l’art. 49 TFUE e con l’art. 12 della Direttiva 2006/123/CE. Tali norme, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione. Il supremo organo di giustizia amministrativa ha, peraltro, puntualizzato che al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere, di tener conto dei tempi tecnici perché le amministrazioni predispongano le procedure di gara richieste e, altresì, nell’auspicio che il legislatore intervenga a riordinare la materia in conformità ai principi di derivazione europea, le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’U.E.:

    • Cons. Stato, Ad. Plen., 9 novembre 2021, n. 17

    • Cons. Stato, Ad. Plen., 9 novembre 2021, n. 18

    Sul punto va, tuttavia, ricordato l’art. 3, Legge 5 agosto 2022, n. 118 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021, in GU n. 188 del 12 agosto 2022), che ha disciplinato l’annosa questione delle concessioni demaniali marittime, introducendo - a seguito di quanto disposto dall’art. 12, comma 6-sexies, lett. a), D.L. 29 dicembre 2022, n. 198, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 febbraio 2023, n. 14 - un inciso al comma 3 che impedisce di ritenere configurabile, fino al 31 dicembre 2024 ed a determinate condizioni, fino al 31 dicembre 2025, il reato di cui all’art. 1161 Cod. nav. (“Fino a tale data l’occupazione dell’area demaniale da parte del concessionario uscente è comunque legittima anche in relazione all’articolo 1161 del codice della navigazione”).

    Si noti, peraltro, che, secondo la giurisprudenza, l’impossibilità di non applicare la legge interna in contrasto con una Direttiva comunitaria non munita di efficacia diretta non significa tuttavia che la prima sia immune dal controllo di conformità al diritto comunitario, che spetta alla Corte di cassazione, davanti alla quale il giudice può sollevare questione di legittimità costituzionale, per asserita violazione dell’art. 11 e oggi anche dell’art. 117, comma 1, Cost.

    Tra le altre:

    • Corte cost., n. 170 del 1984, sent.

    • Corte cost., n. 317 del 1996, sent.

    • Corte cost., n. 284 del 2007, sent.

    • Corte cost., n. 48 del 2017, ord.

    In secondo luogo, passaggio interpretativo importante, precisa la Corte di cassazione come il rinvio pregiudiziale non è necessario quando il significato della norma comunitaria sia evidente, anche per essere stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, e si impone soltanto quando occorra risolvere un dubbio interpretativo. In presenza di argomenti che impediscono l’insorgenza di dubbi circa la corretta esegesi della normativa europea, non sussistono dunque gli estremi per un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE.

    La questione di compatibilità comunitaria (oggi con il diritto dell’UE) costituisce infatti un prius logico e giuridico rispetto alla questione di legittimità costituzionale in via incidentale, poiché investe la stessa applicabilità della norma censurata nel giudizio principale e, pertanto, la rilevanza della questione di costituzionalità.

    Tra le altre:

    • Corte Giust., 27 marzo 1963, in causa C-28-30/62, Da Costa

    • Corte cost., n. 103 del 2008, ord.

    • Corte cost., n. 48 del 2017, ord.

    • Corte cost., n. 114 del 2017, sent.

    Ciò significa, in altri termini, che la Corte costituzionale diventa giudice unico della conformità a Costituzione di una legge interna contrastante con una norma comunitaria solo quando, da un lato, non essendo necessario risolvere un dubbio interpretativo e, dall’altro, non essendo possibile disapplicare la norma interna contrastante, l’unica soluzione per il giudice è quella di rimetterne la questione di costituzionalità alla Consulta per violazione degli artt. 11 e 117 Cost.

    Per tale ragione, chiarisce la giurisprudenza di legittimità, è inammissibile la richiesta di rinvio pregiudiziale su questione di interpretazione del diritto UE, che implichi in realtà la devoluzione al giudice dell’Unione europea del compito di decidere la controversia oggetto di lite, in quanto il giudice nazionale con il rinvio non si spoglia in alcun modo del proprio potere giurisdizionale, ma lo esercita “pleno iure”, formulando, ove ritenuto necessario ai fini della decisione, la richiesta incidentale alla Corte UE, in esito alla quale avrà il compito di applicare l’interpretazione del diritto fornita appunto da quel giudice:

    • Cass. civ., Sez. U., ord. n. 31311 del 3 novembre 2021, in CED Cass. 662651-02

    Ciò comporta, pertanto, che, in presenza di una declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione, non è accoglibile la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia in quanto viene in rilievo un difetto di rilevanza della questione, potendo infatti il giudice unionale rifiutarsi di statuire su domande in via pregiudiziale se è manifesto che l’interpretazione richiesta non ha rapporto con l’effettività o l’oggetto del giudizio principale:

    • Cass. civ., Sez. U., n. 10107 del 16 aprile 2021, in CED Cass. 661209-02

    • Cass. civ., Sez.VI - III, ord. n. 35499 del 19 novembre 2021, in CED Cass. 663227-01

    • Cass. pen., Sez. 3, n. 42156 del 18 novembre 2021, in CED Cass. 282461

    1.4 La costituzione e l’ambiente

    1.4La costituzione e l’ambiente

    Nella seduta dell’8 febbraio 2022 la Camera dei deputati ha approvato in via definitiva, in seconda deliberazione, con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, la proposta di legge costituzionale A.C. 3156-B recante “Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente”. In seguito all’avvenuta approvazione da parte di entrambe le Camere nella seconda votazione con la maggioranza qualificata dei due terzi dei loro componenti, la legge costituzionale è stata promulgata, non essendo possibile in tale ipotesi presentare richieste di referendum confermativo, ai sensi dell’art. 138, comma 3, della Legge costituzionale.

    La Legge costituzionale n. 1 dell’11 febbraio 2022, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 44 del 22 febbraio 2022 (che, per il presente contributo, si avvale del Dossier dell’Ufficio Studi delle Camere del 18 gennaio 2022) inserisce nella Carta costituzionale un espresso riferimento alla tutela dell’ambiente e degli animali, recando modifiche agli artt. 9 e 41 della Costituzione. In particolare, integrando l’art. 9 della Costituzione, il disegno di legge introduce tra i principi fondamentali la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. Stabilisce, altresì, che la legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali. Modifica, inoltre, l’art. 41 della Costituzione, prevedendo che l’iniziativa economica non possa svolgersi in modo da recare danno alla salute e all’ambiente e che la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini ambientali. Infine, il disegno di legge reca una clausola di salvaguardia delle competenze legislative riconosciute alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano dai rispettivi statuti.

    L’ambiente è dunque inteso nella sua accezione più estesa e ‘sistemica’: quale ambiente, ecosistema, biodiversità. La formulazione della norma costituzionale dà svolgimento e sviluppo ad orientamenti di tutela affermati dalla Corte costituzionale in via interpretativa, allorché rilevassero ai fini delle disposizioni costituzionali vigenti. La Costituzione della Repubblica non trattava infatti dell’ambiente nel suo complesso e, anche per questo, vi erano studiosi che negavano l’autonomia logico-giuridica del concetto di ambiente.

    Vi erano però alcuni principi riguardanti alcuni aspetti dell’ambiente (anche se non l’ambiente nel suo complesso) e un diffuso anche se non univoco orientamento giurisprudenziale che dal combinato disposto di una serie di principi costituzionali letti in chiave “evolutiva” già ravvisava un principio costituzionale di tutela dell’ambiente.

    GIURISPRUDENZA

    Alcune sentenze della Corte di cassazione ravvisavano nella Costituzione, considerata come diritto vigente e vivente attraverso il combinato disposto degli artt. 2, 3, 9, comma 1, 41 e 42, che concernono l’individuo e la collettività nel loro habitat economico, sociale ed ambientale” e “elevano l’ambiente a interesse pubblico fondamentale, primario e assoluto”, il principio della tutela dell’ambiente:

    • Cass., 25 settembre 1996, in Foro it., 1996, I, 3062

    • Cass., 1° settembre 1995, n. 2911, in Corr. Giur., 1995, 1146

    • Cass., 3 febbraio 1998, n. 1087

    • Cass., 19 giugno 1996, n. 5650

    Tra le più significative decisioni non può non ricordarsi la nota:

    • Cass., sez. III, 15 giugno 1993, n. 9727, in Cass. pen., 1995, 1936, in Riv. giur. amb., 1995, 481, e in CdS, 1995, II, 805

    • Secondo la Cass. n. 9727/1993 per ambiente “deve intendersi il contesto delle risorse naturali e delle stesse opere più significative dell’uomo protette dall’ordinamento perché la loro conservazione è ritenuta fondamentale per il pieno sviluppo della persona. L’ambiente è una nozione, oltreché unitaria, anche generale, comprensiva delle risorse naturali e culturali, veicolata nell’ordinamento italiano dal diritto comunitario”.

    • Il principio affermato è stato recentemente ripreso da Cassazione n. 29901/2018, che, pronunciandosi in relazione ai nuovi delitti ambientali introdotti dalla Legge n. 68/2015, ha ribadito che per “ambiente” deve intendersi, secondo una concezione unitaria, non solo il contesto delle risorse naturali, ma anche l’insieme delle opere di trasformazioni operate dall’uomo e meritevoli di tutela:

    • Cass. pen., sez. III, 3 luglio 2018, n. 29901, in CED Cass. 273211

    APPROFONDIMENTI

    • Nota a Cass, sez. III, 15 giugno 1993, n. 9727, in CdS, 1995, II, 805, di A. Milone “Concetto giuridico di ambiente”

    • Nota a Cass. pen., sez. III, 3 luglio 2018, n. 29901, in Diritto penale contemporaneo, 2018, di E. Mazzanti “Primi chiarimenti (e nuove questioni) in materia di disastro ambientale con offesa alla pubblica incolumità”

    • Nota a Cass. pen., sez. III, 3 luglio 2018, n. 29901, in Arch. pen., 2019, 1, di S. Rizzato “Il nuovo delitto di disastro ambientale: un’importante sentenza in tema di rapporti tra l’art. 452-quater c.p. e 434 c.p.”

    • Nota a Cass. pen., sez. III, 3 luglio 2018, n. 29901, in Lex ambiente, 2018, 4, 60, di G. Ripa “Disastro ambientale e pubblica incolumità: la Corte di cassazione circoscrive il campo di applicazione della fattispecie”

    GIURISPRUDENZA

    Anche la giurisprudenza civilistica si è conformata a tale principio, affermando che il bene pubblico “ambiente” (che comprende l’assetto del territorio, la ricchezza di risorse naturali, il paesaggio come valore estetico e culturale e come condizione di vita salubre in tutte le sue componenti) deve essere considerato unitariamente per il valore d’uso da parte della collettività quale elemento determinante della qualità della vita della persona, quale singolo e nella sua aggregazione sociale:

    • Cass., sez. III, 10 ottobre 2008, n. 25010

    Per tale ragione, dunque, l’alterazione del bene ambiente consiste nella modificazione definitiva dell’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio con una visibile modificazione degli assetti precedenti, senza che assuma rilievo la realizzazione di un intervento migliorativo della situazione antecedente:

    • Cass., sez. III, 4 aprile 2017, n. 8662, in CED Cass. 643837

    APPROFONDIMENTI

    • Nota a Cass., sez. III, 4 aprile 2017, n. 8662, in Danno e resp., 2017, 4, p. 487, di C. Baldassarre e P. Pardolesi “Campi da golf e natura: sulla parabola del risarcimento da danno ambientale”

    • Nota a Cass., sez. III, 4 aprile 2017, n. 8662, in Urb. ed app., 2018, 1, p. 39, di G. Lo Sapio “La responsabilità per danno ambientale e la chimera della calcolabilità del diritto”

    • Nota a Cass., sez. III, 4 aprile 2017, n. 8662, in Corr. giur., 2018, 1, p. 31, di U. Salanitro “Ius superveniens e danno ambientale: una nuova prospettiva nella giurisprudenza di legittimità?”

    GIURISPRUDENZA

    Del resto, che l’integrità ambientale sia un bene unitario è stato più volte riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale:

    • Corte cost., 22 luglio 1998, n. 316, ord.

    che ha anche chiarito come nel conflitto tra tre diversi interessi quali il mercato, l’ambiente e la persona è ammessa una compressione dell’integrità ambientale “in ragione degli interessi economici delle imprese”, ma in nessun caso potrebbe venire compromesso “l’interesse fondamentale della persona alla difesa della salubrità dell’ambiente”:

    • Corte cost., 16 marzo 1990, n. 127

    Nel senso, peraltro, che “la disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale primario e assoluto come tale inderogabile da altre discipline di settore” e sull’ambiente come bene unitario e valore trasversale, ricavabile già prima della riforma del 2001 dagli artt. 9 e 32 Cost.:

    • Corte cost., 20 luglio 2021, n. 158

    • Corte cost., 30 marzo 2018, n. 66

    • Corte cost., 16 luglio 2014, n. 199

    • Corte cost., 20 giugno 2013, n. 145

    • Corte cost., 6 novembre 2012, n. 278

    • Corte cost., 20 dicembre 2002, n. 536

    • Corte cost., 5 febbraio 1992, n. 67

    • Corte cost., 7 ottobre 2021, n. 189

    A ciò si aggiunga, puntualizza la Corte costituzionale nel delimitare gli ambiti di competenza statale da quelli regionali, che la materia della tutela dell’ambiente ha un contenuto allo stesso tempo oggettivo, in quanto riferito ad un bene, l’ambiente, e finalistico, perché tende alla migliore conservazione del bene stesso.

    L’individuazione nei termini suddetti della materia tutela dell’ambiente pone in evidenza un dato di rilevante importanza: sullo stesso bene (l’ambiente) concorrono diverse competenze, le quali, tuttavia, restano distinte tra loro, perseguendo autonomamente le loro specifiche finalità attraverso la previsione di diverse discipline. Pertanto, secondo il disegno del legislatore costituzionale, da una parte sono affidate allo Stato la tutela e la conservazione dell’ambiente, mediante la fissazione di livelli “adeguati e non riducibili di tutela” e dall’altra compete alle Regioni, nel rispetto dei livelli di tutela fissati dalla disciplina statale, di esercitare le proprie competenze, dirette essenzialmente a regolare la fruizione dell’ambiente, evitando compromissioni o alterazioni dell’ambiente stesso.

    In questo senso può dirsi che la competenza statale, quando è espressione della tutela dell’ambiente, costituisce “limite” all’esercizio delle competenze regionali.

    Peraltro, è necessario precisare che, se è vero che le Regioni, nell’esercizio delle loro competenze, non debbono violare i livelli di tutela dell’ambiente posti dallo Stato, è altrettanto vero, che, una volta che questi ultimi siano stati fissati dallo Stato medesimo, le Regioni stesse, purché restino nell’ambito dell’esercizio delle loro competenze, possono pervenire a livelli di tutela più elevati, così incidendo, in modo indiretto sulla tutela dell’ambiente.

    Strettamente collegata alla tutela dell’ambiente è la tutela della salute, poiché è indubbio che la salubrità dell’ambiente condiziona la salute dell’uomo.

    Le due competenze hanno, comunque, oggetti diversi: per l’appunto, l’ambiente e la salute, e che la fissazione, da parte delle Regioni, di livelli più elevati di tutela ambientale ai fini della tutela della salute umana solo indirettamente produce effetti sull’ambiente, che è già adeguatamente tutelato dalle norme statali.

    Tale possibilità è, peraltro, esclusa nei casi in cui la legge statale debba ritenersi inderogabile, essendo frutto di un bilanciamento tra più interessi eventualmente tra loro in contrasto.

    Per quanto in particolare riguarda l’incidenza del principio di leale collaborazione, l’art. 118 Cost., nell’eliminare il principio del parallelismo tra competenza legislativa ed amministrativa ai fini del riparto delle funzioni amministrative tra Stato e Regioni ordinarie e nell’imporre un livello dell’azione amministrativa verso il basso, ha stabilito, comunque, che, nel rispetto del principio di legalità, una diversa distribuzione della funzione amministrativa possa avvenire, quando occorra assicurarne l’esercizio unitario, con legge statale o regionale, secondo le competenze legislative previste dall’art. 117 Cost. e nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza:

    • Corte cost., n. 303 del 2003 e n. 172 del 2004

    Dunque, secondo la Consulta, i principi di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale riparto di competenze legislative contenuto nel Titolo V della Costituzione e possono giustificarne una deroga soltanto se la valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità, e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata:

    • Corte cost., 19 luglio 2022, n. 179

    Ne consegue che, nel caso della tutela ambientale, lo Stato, in quanto titolare di una competenza esclusiva, ai sensi dell’art. 118 Cost., nel rispetto dei suddetti principi, può conferire a sé le relative funzioni amministrative, ovvero conferirle alle Regioni o ad altri enti territoriali, ovvero ancora prevedere che la funzione amministrativa sia esercitata mediante il coinvolgimento di organi statali ed organi regionali o degli enti locali:

    • Corte cost., 22 luglio 2009, n. 225, sent.

    Non meno rilevante il principio affermato dalla Corte costituzionale, secondo cui la collocazione - con la riforma del Titolo V della Costituzione - della materia “tutela dell’ambiente” e “dell’ecosistema” tra quelle di esclusiva competenza statale (art. 117, comma 2, lett. s, Cost.), non comporta che la disciplina statale vincoli in ogni caso l’autonomia delle Regioni, poiché il carattere trasversale della materia, e quindi la sua potenzialità di estendersi anche nell’ambito delle competenze regionali, mantiene salva la facoltà delle Regioni di adottare, nell’esercizio delle loro competenze legislative, norme di tutela più elevate:

    • Corte cost., sentenza 17 gennaio 2019, n. 7

    Nel modello delineato dalla riforma costituzionale del 2001, in linea con il principio di sussidiarietà, peraltro, la valutazione di adeguatezza informa di sé l’individuazione, ad opera del legislatore statale o regionale, dell’ente presso il quale allocare, in termini di titolarità, la competenza all’esercizio delle relative funzioni amministrative. Infatti, muovendo dalla preferenza accordata ai comuni, cui sono attribuite, in via generale, le funzioni amministrative, la Costituzione demanda al legislatore statale e regionale, nell’ambito delle rispettive competenze, la facoltà di diversa allocazione di dette funzioni, per assicurarne l’esercizio unitario, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. La potestà legislativa esclusiva statale ex art. 117, comma 2, lett. s), Cost. esprime pertanto ineludibili esigenze di protezione di un bene, quale l’ambiente, unitario e di valore primario, che sarebbero vanificate ove si attribuisse alla regione la facoltà di rimetterne indiscriminatamente la cura a un ente territoriale di dimensioni minori, in deroga alla valutazione di adeguatezza compiuta dal legislatore statale con l’individuazione del livello regionale. Ad una siffatta iniziativa si accompagnerebbe una modifica, attraverso un atto legislativo regionale, dell’assetto di competenze inderogabilmente stabilito dalla legge nazionale all’esito di una ragionevole valutazione di congruità del livello regionale come il più adeguato alla cura della materia.

    • Corte cost., 24 luglio 2023, n. 160

    1.4.1. Le norme costituzionali inequivocabilmente riferibili ad aspetti ambientali

    1.4.1.Le norme costituzionali inequivocabilmente riferibili ad aspetti ambientali

    La Costituzione, a seguito della modifica degli artt. 9 e 41 Cost. attuata con la Legge Cost. n. 1 del 2022, per il cui commento ci si avvale del Dossier dell’Ufficio Studi delle Camere del 18 gennaio 2022, riguarda oggi espressamente l’ambiente nel suo complesso.

    Già il testo precedente, però, si riferiva esplicitamente o almeno inequivocabilmente ad aspetti ambientali (artt. 9, 32, 41, commi 2 e 117, comma 2, lett. s).

    L’art. 9, comma 2, stabilisce che “la Repubblica tutela il … paesaggio”, ciò che, come si è visto, è una delle componenti dell’ambiente.

    Il nuovo art. 9, comma 3, stabilisce che “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”.

    L’art. 32 stabilisce che la salute è diritto dell’individuo e interesse della collettività. Pertanto, l’ambiente deve essere salvaguardato da modifiche che possono danneggiare la salute. Da tali norme un diffuso orientamento giurisprudenziale ha fatto derivare l’esistenza del diritto soggettivo ad un ambiente salubre.

    L’art. 41, comma 2, novellato stabilisce che l’iniziativa economica “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, e, quindi non può finire col minacciarne la salute e pregiudicarne la qualità di vita.

    L’art. 117, infine, prevede che lo Stato ha legislazione esclusiva in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Tale ultima disposizione, oggetto di modifica a seguito della Legge costituzionale n. 3/2001, comporta la soluzione del delicato problema del riparto di competenze tra Stato, Regioni e Province autonome in materia di ambiente.

    In particolare, nella giurisprudenza costituzionale, la tutela del “paesaggio” costituzionalmente sancita dall’art. 9 è stata declinata dalla giurisprudenza costituzionale come tutela paesaggistico-ambientale con una lettura ‘espansiva’. In tale prospettiva l’ambiente si configura non come mero bene o materia competenziale bensì come valore primario e sistemico. La Corte costituzionale ha altresì fatto riferimento (Corte cost., n. 179/2019, sent.) ad un “processo evolutivo diretto a riconoscere una nuova relazione tra la comunità territoriale e l’ambiente che la circonda, all’interno della quale si è consolidata la consapevolezza del suolo [di questo si trattava, in quel giudizio, ndr] quale risorsa naturale eco-sistemica non rinnovabile, essenziale ai fini dell’equilibrio ambientale, capace di esprimere una funzione sociale e di incorporare una pluralità di interessi e utilità collettive, anche di natura intergenerazionale”. “In questa prospettiva la cura del paesaggio riguarda l’intero territorio, anche quando degradato o apparentemente privo di pregio” - aggiunge Corte cost., sentenza n. 71/2020 - la quale sottolinea altresì che “la tutela paesistico ambientale non è più una disciplina confinata nell’ambito nazionale”, soprattutto in considerazione della Convenzione europea del paesaggio (adottata a Strasburgo dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 19 luglio 2000 e ratificata con Legge n. 14/2006), secondo la quale “il concetto di tutela collega indissolubilmente la gestione del territorio all’apporto delle popolazioni” (donde “il passaggio da una tutela meramente conservativa alla necessità di valorizzare gli interessi pubblici e delle collettività locali con interventi articolati”, tra i quali, in quel caso, l’acquisizione e il recupero delle terre degradate). Su questa evoluzione interpretativa della tutela, da paesaggistica (dunque morfologica, visiva, culturale) ad ambientale (costitutiva, valoriale, comunitaria), è intervenuta altresì la riforma del Titolo V, modificativa dell’art. 117, comma 2 della Costituzione. In tale ambito è stata introdotta la previsione della “tutela” dell’ambiente e dell’ecosistema, tra le materie riservate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato (con attribuzione invece della “valorizzazione” dei beni ambientali alla potestà concorrente delle Regioni). La Corte costituzionale ha avuto modo di ribadire in proposito (Corte cost., n. 407/2002, sent.) come “l’evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad escludere che possa identificarsi una ‘materia’ in senso tecnico, qualificabile come ‘tutela dell’ambiente’, dal momento che non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze”. Donde “una configurazione dell’ambiente come ‘valore’ costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia ‘trasversale’, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale”. L’ambiente come valore costituzionalmente protetto (e come entità organica complessa: Corte cost., n. 378/2007, sent.) fuoriesce da una visuale esclusivamente ‘antropocentrica’. Nella formulazione dell’art. 117, comma 2, lett. s), ambiente ed ecosistema non si risolvono in un’endiadi, in quanto, “col primo termine si vuole, soprattutto, fare riferimento a ciò che riguarda l’habitat degli esseri umani, mentre con il secondo a ciò che riguarda la conservazione della natura come valore in sé” (Corte cost., n. 12/2009, sent.).

    In questa più ampia prospettiva si pone il secondo periodo del comma aggiuntivo previsto dalla Legge costituzionale che ha ad oggetto la tutela degli animali, attraverso l’introduzione di una riserva di legge statale che ne disciplini forme e modi. Per la prima volta è così introdotto nella Costituzione il riferimento agli animali, prevedendo una legge che ne definisca le forme e i modi di tutela. L’espressione “legge dello Stato” ricorre infatti nella Carta costituzionale esclusivamente nel Titolo V della sua Parte II, relativo ai rapporti tra lo Stato e gli enti territoriali. Nelle disposizioni concernenti i principi fondamentali, così come nei quattro Titoli che compongono la Parte I e nei Titoli I, II, III, IV e VI che compongono la Parte II della Costituzione, figura, ove compaia, l’espressione “legge”. A sua volta, l’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione riserva la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. Ma la Corte costituzionale, nella definizione dell’assetto delle competenze tracciato dal riformato Titolo V, ha chiarito più profili riguardo a tale riparto, tali da rendere più articolato il quadro (e richiamare il principio di leale collaborazione).

    Secondo la Corte, infatti, l’ambiente come valore costituzionalmente protetto “non esclude la titolarità in capo alle Regioni di competenze legislative su materie (governo del territorio, tutela della salute, ecc.) per le quali quel valore costituzionale assume rilievo (sentenza n. 407 del 2002)” (così, Corte cost., n. 536/2002, sent.). Da un lato dunque, “in funzione di quel valore, lo Stato può dettare standards di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale anche incidenti sulle competenze legislative regionali ex articolo 117 della Costituzione” (ha rilevato la medesima sentenza ultima citata); e tale disciplina legislativa statale di tutela agisce come “limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per cui queste ultime non possono in alcun modo derogare o peggiorare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato” (Corte cost., n. 378/2007, sent.). Tale limite vale anche per le Regioni ad autonomia speciale, per le quali la disciplina statale di tutela ambientale è da ritenersi espressione di riforme economiche-sociali (può menzionarsi Corte cost., n. 51/2006, sent.). Dall’altro lato, la ‘trasversalità’ dell’ambiente’ legittima interventi normativi delle Regioni le quali, nell’esercizio delle loro competenze, curino interessi all’ambiente funzionalmente collegati, ancorché si tratti di un esercizio regionale ‘condizionato’, ossia tenuto a non diminuire la tutela ambientale stabilita dallo Stato. Come ha evidenziato la recente Corte cost., n. 63/2020, sent., la normativa regionale “deve garantire il rispetto dei livelli minimi uniformi posti dal legislatore nazionale in materia ambientale”. “L’esercizio della competenza legislativa regionale, dunque, trova un limite nella disciplina statale della tutela ambientale, salva la facoltà delle Regioni di prescrivere livelli di tutela ambientale più elevati di quelli previsti dallo Stato”. E Corte cost., n. 88/2020, sent., ha ribadito che “in materia ambientale, il potere di fissare livelli di tutela uniforme sull’intero territorio nazionale è riservato allo Stato, ferma restando la competenza delle Regioni alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali”. Quanto a tali interventi regionali, “la Corte ha affermato che la collocazione della materia ‘tutela dell’ambiente e dell’ecosistema’ tra quelle di esclusiva competenza statale non comporta che la disciplina statale vincoli in ogni caso l’autonomia delle Regioni, poiché il carattere trasversale della materia, e quindi la sua potenzialità di estendersi anche nell’ambito delle competenze regionali, mantiene salva la facoltà delle Regioni di adottare, nell’esercizio delle loro competenze legislative, norme di tutela più elevate”.

    Il nuovo comma 3, art. 9 Cost., il quale stabilisce che la legge statale disciplina le forme e i modi della tutela degli animali, si applica alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome nei limiti delle competenze legislative ad esse riconosciute dai rispettivi statuti. In particolare, per quanto riguarda le Regioni a statuto speciale:

    • lo statuto speciale del Trentino-Alto Adige (D.P.R. n. 670/1972) riconosce alle Province la potestà di emanare norme legislative entro i limiti indicati dall’art. 41 nelle materie “caccia e pesca” e “alpicoltura e parchi per la protezione della flora e della fauna” (rispettivamente nn. 15 e 16, art. 8, comma 1);

    • lo statuto speciale del Friuli-Venezia Giulia (Legge cost. n. 1/1963) attribuisce alla regione potestà legislativa nella materia “caccia e pesca” (art. 4, comma 1, n. 32) e prevede che la Regione possa adeguare alle sue particolari esigenze le disposizioni delle leggi della Repubblica, emanando norme di integrazione e di attuazione (tra l’altro) nella materia “fauna” (art. 6, comma 1, n. 3);

    • lo statuto speciale della Valle d’Aosta (Legge cost. n. 4/1948) attribuisce alla Regione potestà legislativa nelle materie “agricoltura e foreste, zootecnia, flora e fauna” e “caccia e pesca” (rispettivamente lett. d) e l), art. 2, comma 1);

    • lo statuto speciale della Sicilia (Legge cost. n. 2/1948) dispone che l’Assemblea, nell’ambito della Regione e nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato, senza pregiudizio delle riforme agrarie e industriali deliberate dalla Costituente del popolo italiano, ha la legislazione esclusiva nella materia “pesca e caccia” (lett. l), art. 14, comma 1);

    • lo statuto speciale della Sardegna (Legge cost. n. 3/1948) attribuisce alla Regione potestà legislativa nella materia “caccia e pesca” (lett. i), art. 3, comma 1).

    Quanto, poi, alla modifica dell’art. 41 Cost., si interviene sul comma 2, aggiungendo all’attuale previsione - in base alla quale l’iniziativa economica privata è libera e non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana - l’ulteriore vincolo che essa non possa svolgersi in modo tale da recare danno alla salute e all’ambiente. Orbene, premettendo questi ulteriori due limiti a quelli, già vigenti, della sicurezza, della libertà e della dignità umana, si è inteso dare sostanza al nuovo dettato dell’art. 9, elevando al rango costituzionale princìpi già previsti dalle norme ordinarie e affiancando altresì la salute all’ambiente per la stretta correlazione tra i due aspetti. Con altra modifica, si è prevista l’aggiunta, al comma 3 dell’art. 41, della possibile destinazione e coordinamento dell’attività economica pubblica e privata anche ai fini ambientali. In base al testo (pre)vigente del comma 3 dell’art. 41 Cost., la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Con la modifica prevista viene dunque aggiunto, a tale previsione, il riferimento ai fini ambientali accanto a quelli sociali.

    La Corte costituzionale si è pronunciata sul rapporto tra il diritto costituzionalmente tutelato dall’art. 41 della Costituzione e altri diritti costituzionalmente rilevanti, anche con riferimento ai profili dell’ambiente e della salute. Con una importante sentenza (Corte cost., n. 58/2018, sent.), in riferimento alla materia dell’industria e degli stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale, la Corte costituzionale affronta il tema dei vincoli all’iniziativa economica, affrontando la vicenda delle acciaierie Ilva di Taranto, dopo la pronuncia della nota sentenza n. 85/2013 (su cui si veda infra). Già con altra sentenza (Corte cost., n. 182/2017, sent.) la Corte aveva vagliato la legittimità di uno dei numerosi c.d. decreti Ilva (il D.L. n. 98/2016, conv. in Legge n. 151/2016), respingendo il ricorso della Regione Puglia volto a censurare la carenza di adeguate forme di partecipazione della medesima alla revisione del “Piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria” di cui al D.L. n. 61/2013 (conv. in Legge n. 89/2013). Nella decisione, come in quelle precedenti, è al centro dell’attenzione il bilanciamento tra beni e diritti costituzionali, in particolare, in questo caso, iniziativa economica, lavoro e salute; con la pronuncia, veniva sottolineato come non possa ritenersi astrattamente precluso al legislatore di intervenire per salvaguardare la continuità produttiva in settori strategici per l’economia nazionale (e per garantire i correlati livelli di occupazione). Come noto, il caso di specie inerente allo stabilimento dell’Ilva di Taranto aveva visto la adozione di previsioni legislative in base a cui - anche in presenza di sequestri preventivi disposti dall’autorità giudiziaria nel corso di processi penali - non risultava impedita la prosecuzione dell’attività d’impresa, purché a tale previsione pervenisse attraverso un ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco. Secondo la giurisprudenza costituzionale, tale bilanciamento deve essere condotto ‘senza consentire l’illimitata espansione di uno dei diritti’, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. La Corte ha al riguardo affermato come il bilanciamento debba rispondere a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati. (in tal senso, si citano i precedenti: Corte cost., sentenza n. 85/2013, già richiamata; Corte cost., nn. 63/2016 e 264/2012, sentt.). “Appare chiaro - conclude la Corte in pronuncia - che, a differenza di quanto avvenuto nel 2012, il legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (artt. 4 e 35 Cost.). Il sacrificio di tali fondamentali valori tutelati dalla Costituzione porta a ritenere che la normativa impugnata non rispetti i limiti che la Costituzione impone all’attività d’impresa la quale, ai sensi dell’art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce infatti condizione minima e indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona”. Secondo la giurisprudenza costituzionale in parola, le norme di cui agli artt. 32 e 41 Cost. impongono - nel quadro costituzionale (pre)vigente - la massima attenzione per la protezione della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori, prefigurando dei limiti alla tutela dell’iniziativa economica privata, enucleandosi così già dei limiti alla tutela dell’iniziativa economica privata, in ragione di una ‘tenuta sistemica’ dei diritti costituzionali in rilievo. In una precedente sentenza sull’Ilva (Corte cost., n. 85/2013, cit.), la Corte aveva risolto il conflitto tra diritti parlando di “un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso”, precisando, subito dopo, che “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. Già in base a tale pronuncia, si afferma come la tutela debba essere sempre ‘sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro’: se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe ‘tiranno’ nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona”. Occorre, invece, secondo la Corte, garantire un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. Nella pronuncia di allora, la qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato - dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo - secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale.

    Sul tema è peraltro di recente intervenuto il Governo con il decreto-legge 5 gennaio 2023, n. 2, recante Misure urgenti per impianti di interesse strategico nazionale convertito, con modificazioni dalla L. 3 marzo 2023, n. 17. Viene in rilievo in particolare: a) l’art. 5, recante modifiche al D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica), in materia di sanzioni interdittive, misure cautelari e sequestro preventivo, al fine di limitare l’applicazione alle imprese di interesse strategico nazionale di misure che impediscano la prosecuzione dell’attività delle imprese medesime; b) l’art. 6 che integra l’art. 104-bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, introducendo due nuovi commi, i quali specificano gli effetti del provvedimento di sequestro che abbia ad oggetto stabilimenti industriali o parti di essi dichiarati di interesse strategico nazionale ai sensi dell’art. 1 del decreto-legge n. 207 del 2012; c) l’art. 7, che prevede la non punibilità della condotta dei soggetti che agiscono al fine di dare esecuzione a provvedimenti che autorizzano la prosecuzione dell’attività produttiva di uno stabilimento industriale dichiarato di interesse strategico nazionale. Detta causa di non punibilità è stata estesa dal decreto-legge 13 giugno 2023, n. 69, convertito con modificazioni dalla L. 10 agosto 2023, n. 103, anche alla realizzazione degli interventi di decarbonizzazione del ciclo produttivo dell'acciaio presso lo stabilimento siderurgico di Taranto approvati dai commissari straordinari di ILVA S.p.A.

    Sul punto, numerose, oltre quelle già citate, sono le pronunce della Corte costituzionale.

    GIURISPRUDENZA

    Le decisioni della Consulta muovono dal rilievo che sovente l’ambiente è stato considerato come “bene immateriale”. In particolare, la Corte afferma senza mezzi termini che l’ambiente è un bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell’insieme, sono riconducibili ad unità. Esso non è certamente possibile oggetto di una situazione soggettiva di tipo appropriativo: ma, appartenendo alla categoria dei c.d. beni liberi, è fruibile dalla collettività e dai singoli. Alle varie forme di godimento è accordata una tutela civilistica la quale trova ulteriore supporto nel precetto costituzionale che circoscrive l’iniziativa economica privata (art. 41, Cost.) ed in quello che riconosce il diritto di proprietà, ma con i limiti della utilità e della funzione sociale (art. 42, Cost.):

    • Corte cost., 30 dicembre 1987, n. 641

    Principio più tardi ribadito affermando che l’ambiente, pur essendo un bene materiale unitario, ha varie componenti, ciascuna delle quali può costituire, anche isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela (come per esempio il paesaggio). Sennonché, quando si guarda all’ambiente come ad una “materia” di riparto della competenza legislativa tra Stato e Regioni, è necessario tener presente che si tratta di un bene della vita, materiale e complesso, la cui disciplina comprende anche la tutela e la salvaguardia delle qualità e degli equilibri delle sue singole componenti:

    • Corte cost., 12 aprile 1990, n. 195, ord.

    In questo senso, del resto, si è già pronunciata la Corte costituzionale per distinguere il reato edilizio da quello ambientale:

    • Corte cost., n. 378/2007

    • Corte cost., n. 144/2007, ord.

    La visione sembra, tuttavia, essere mutata nella più recente giurisprudenza costituzionale, che non ha infatti esitato ad affermare che “Se, originariamente, l’ambiente è stato considerato bene immateriale unitario, in modo che alla rilevanza dei numerosi e diversificati interessi che fanno capo alle Regioni e gli enti locali si aggiungeva l’esigenza di uniformità di tutela, che solo lo Stato può garantire, il quadro normativo è profondamente mutato con la Direttiva 21 aprile 2004, n. 2004/35/CE”.

    È dunque in questo scenario normativo che appare non più implausibile l’esigenza di assicurare che l’esercizio dei compiti di prevenzione e riparazione del danno ambientale risponda a criteri di uniformità e unitarietà, atteso che il livello di tutela ambientale non può variare da zona a zona e considerato anche il carattere diffusivo e transfrontaliero dei problemi ecologici, in ragione del quale gli effetti del danno ambientale sono difficilmente circoscrivibili entro un preciso e limitato ambito territoriale:

    • Corte cost., 1° giugno 2016, n. 126

    Oggetto di tutela, come si evince anche dalla Dichiarazione di Stoccolma del 1972, è la biosfera, che viene presa in considerazione, non solo per le sue varie componenti, ma anche per le interazioni fra queste ultime, i loro equilibri, la loro qualità, la circolazione dei loro elementi, e così via. Occorre, in altri termini, guardare all’ambiente come “sistema”, considerato cioè nel suo aspetto dinamico, quale realmente è, e non soltanto da un punto di vista statico ed astratto.

    La potestà di disciplinare l’ambiente nella sua interezza è stata affidata, in riferimento al riparto delle competenze tra Stato e Regioni, in via esclusiva allo Stato, dall’art. 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, il quale, come è noto, parla di “ambiente” in termini generali e onnicomprensivi. E non è da trascurare che la norma costituzionale pone accanto alla parola “ambiente” la parola “ecosistema”.

    Ne consegue - secondo la Consulta - che spetta allo Stato disciplinare l’ambiente come una entità organica, dettare cioè delle norme di tutela che hanno ad oggetto il tutto e le singole componenti considerate come parti del tutto.

    Ed è da notare, a questo proposito, che la disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale primario ed assoluto e deve garantire, (come prescrive il diritto comunitario) un elevato livello di tutela, come tale inderogabile da altre discipline di settore:

    • Corte cost., n. 151/1986

    • Corte cost., n. 210/1987

    Si deve sottolineare, tuttavia, che, accanto al bene giuridico ambiente in senso unitario, possano coesistere altri beni giuridici, aventi ad oggetto componenti o aspetti del bene ambiente, ma concernenti interessi diversi giuridicamente tutelati. Si parla, in proposito, dell’ambiente come “materia trasversale”, nel senso che sullo stesso oggetto insistono interessi diversi: quello alla conservazione dell’ambiente e quelli inerenti alle sue utilizzazioni. In questi casi, la disciplina unitaria del bene complessivo ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato, viene a prevalere su quella dettata dalle Regioni o dalle Province autonome, in materie di competenza propria, ed in riferimento ad altri interessi. Ciò comporta che la disciplina ambientale, che scaturisce dall’esercizio di una competenza esclusiva dello Stato, investendo l’ambiente nel suo complesso, e quindi anche in ciascuna sua parte, viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per cui queste ultime non possono in alcun modo derogare o peggiorare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato. Si veda:

    • Corte cost., n. 246/2006

    secondo la quale la giurisprudenza costituzionale è costante nel senso di ritenere che la circostanza che una determinata disciplina sia ascrivibile alla materia “tutela dell’ambiente” di cui all’art. 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, se certamente comporta il potere dello Stato di dettare standard di protezione uniformi validi su tutto il territorio nazionale e non derogabili in senso peggiorativo da parte delle Regioni, non esclude affatto che le leggi regionali emanate nell’esercizio della potestà concorrente di cui all’art. 117, comma 3, della Costituzione, o di quella “residuale” di cui all’art. 117, comma 4, possano assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale:

    • Corte cost., nn. 183/2006, 336 e 232/2005, 259/2004 e 407/2002

    Conclusivamente - secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale (Corte cost n. 225/2009) - la materia “tutela dell’ambiente” ha un contenuto allo stesso tempo oggettivo, in quanto riferito ad un bene, “l’ambiente” (Corte cost. nn. 367 e 378 del 2007; n. 12/2009), e finalistico, perché tende alla migliore conservazione del bene stesso:

    • Corte cost., nn. 104 del 2008, 10, 30 e 220 del 2009

    Per l’affermazione che la ratio dell’introduzione di vincoli paesaggistici generalizzati, in base a tipologie di beni, risiede nella valutazione che l’integrità ambientale è un bene unitario, che può risultare compromesso anche da interventi minori e che va, dunque, salvaguardato nella sua interezza, v.:

    • Corte cost., nn. 247/1997, 67/1992 e 151/1986, sent.

    • Corte cost., nn. 68/1998 e 431/1991, ord.

    In ragione di ciò, sullo stesso bene “ambiente” concorrono diverse competenze, che restano distinte fra loro perseguendo, autonomamente, le loro specifiche finalità attraverso la previsione di diverse discipline. Infatti, da una parte sono affidate allo Stato la tutela e la conservazione dell’ambiente, mediante la fissazione di livelli “adeguati e non riducibili di tutela”:

    • Corte cost., n. 61/2009

    dall’altra, compete alle Regioni, nel rispetto dei livelli di tutela fissati dalla disciplina statale di esercitare le proprie competenze, dirette essenzialmente a regolare la fruizione dell’ambiente, evitando compromissioni o alterazioni dell’ambiente stesso:

    • Corte cost., nn. 62 e 214 del 2008

    In questo senso è stato affermato che la competenza statale, allorché sia espressione della tutela dell’ambiente, costituisce “limite” all’esercizio delle competenze regionali:

    • Corte cost., nn. 180 e 437 del 2008, nonché n. 164/2009

    In sostanza, alle Regioni non è consentito apportare deroghe in peius ai parametri di tutela dell’ambiente fissati dalla normativa statale, ma soltanto eventualmente incrementare i livelli di tale tutela, senza però compromettere il punto di equilibrio tra esigenze contrapposte espressamente individuato dalle disposizioni legislative dello Stato, le quali fungono, pertanto, da limite alla disciplina che le Regioni, anche a statuto speciale, dettano nei settori di loro competenza:

    • Corte cost., n. 77/2017, sent.

    È stato altresì precisato che le Regioni non devono violare i livelli di tutela dell’ambiente posti dallo Stato; tuttavia, nell’esercizio delle loro competenze, possono fissare livelli di tutela più elevati, così incidendo, in modo indiretto, sulla tutela dell’ambiente:

    • Corte cost., nn. 225/2009, 104/2008, 12, 30 e 61 del 2009, 267 del 2016

    In altri termini, proprio in base al carattere di trasversalità e primazia, quando si verificano contesti di sovrapposizione tra la materia di cui all’art. 117, comma 2, lett. s), Cost. e quelle di competenza regionale o provinciale, le Regioni e le Province autonome conservano - negli ambiti in cui si verifica detta sovrapposizione e relativamente alla materia di propria competenza - poteri di scelta, purché questi siano esercitati in senso più rigoroso di quanto previsto dalla normativa statale di tutela ambientale e dell’ecosistema:

    • Corte cost., 12 dicembre 2012, n. 278

    • Corte cost., 7 ottobre 2021, n. 189

    Ciò significa, però, che in mancanza di una disciplina statale di carattere unitario riferita alla tutela del bene ambiente sull’intero territorio nazionale, alle Regioni non è precluso esercitare la propria potestà legislativa concorrente in materia di valorizzazione dei beni ambientali e di governo del territorio, così come non è precluso, in presenza di una legge statale dettante standard minimi ed uniformi di tutela dell’ambiente sull’intero territorio nazionale, di prevedere una tutela più rigorosa rispetto a quest’ultima:

    • TAR Piemonte, 26 settembre 2018, n. 1060, P.M.P. c. Comune di Alagna Valsesia e altri.

    Resta fermo, in ogni caso, che la tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene [quale il territorio] complesso ed unitario, considerato un valore primario ed assoluto, e rientrando nella competenza esclusiva dello Stato, precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali. In sostanza, vengono a trovarsi di fronte due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni:

    • Corte cost., 22 luglio 2021, n. 164.

    1.4.2 Diritto alla salute e alla qualità della vita

    1.4.2Diritto alla salute e alla qualità della vita

    I principi costituzionali riguardanti la salute vanno letti tenendo conto che il concetto di salute non è più limitato alla sola inesistenza di stati patologici, ma si è via via esteso fino a comprendere il benessere psicofisico. Di conseguenza si sta affacciando la categoria del c.d. “danno esistenziale” come danno alla qualità della vita che prescinde e va risarcito anche in assenza di una lesione o di una malattia del corpo del danneggiato. Si tratta, peraltro, di una categoria controversa in giurisprudenza.

    GIURISPRUDENZA

    La Suprema Corte di cassazione, dopo averne riconosciuto l’autonoma risarcibilità (sia con numerose decisioni sia delle sezioni semplici, che delle Sezioni Unite)

    • cfr., per tutte, Cass., SS.UU., 24 marzo 2006, n. 6572, in CED Cass. 587370

    • e., da ultimo, Cass., sez. I, 5 dicembre 2017, n. 29047, in CED Cass. 646390

    in due successive decisioni, rese sempre a Sezioni Unite, ne ha invece negato l’autonomia, affermando, da un lato, che “Non è ammissibile nel nostro ordinamento l’autonoma categoria di ‘danno esistenziale’, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che: ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fattireato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria; ove nel ‘danno esistenziale’ si intendesse includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all’art. 2059 c.c.”:

    • Cass., SS.UU., 11 novembre 2008, n. 26972, in CED Cass. 605492

    e, dall’altro, che “Il danno c.d. esistenziale non costituendo una categoria autonoma di pregiudizio, ma rientrando nel danno non patrimoniale, non può essere liquidato separatamente solo perché diversamente denominato, richiedendosi, nei casi in cui sia risarcibile come danno non patrimoniale, che sussista da parte del richiedente la allegazione degli elementi di fatto dai quali desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio”:

    • Cass., SS.UU., 16 febbraio 2009, n. 3677, in CED Cass. 608130 e conf.:

    • Cass., sez. III, 25 settembre 2009, n. 20684, in Nuova giur. civ. comm. 2010, I, 144

    • Cass., sez. III, 2 marzo 2010, n. 4952, in CED Cass., n. 611706

    • Cass., sez. III, 12 febbraio 2013, n. 3290, in CED Cass., n. 625015

    • Cass., sez. III, 23 settembre 2013, n. 21716, in CED Cass., n. 628100

    • Cass., sez. III, 13 gennaio 2016, n. 336, in CED Cass., n. 638611

    • Cass., sez. III, ordinanza 30 novembre 2018, n. 30997, in CED Cass. 651667

    • Cass., sez. VI - L, ordinanza 12 novembre 2019, n. 29206, in CED Cass. 655757

    • Cass., sez. III, ord. n. 33276 del 29 novembre 2023, in CED Cass. 669573 (che, ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla lesione dei diritti inviolabili della persona, richiede la concorrenza di quattro condizioni: 1) che l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale; 2) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale; 3) che il danno non sia futile, e, cioè, non consista in meri disagi o fastidi; 4) che, infine, vi sia specifica allegazione del pregiudizio, non potendo assumersi la sussistenza del danno in re ipsa).

    Cosa diversa, ovviamente, è la risarcibilità del c.d. danno morale, il quale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari del danno biologico, non è ricompreso in quest’ultimo e va liquidato a parte, con criterio equitativo che tenga debito conto di tutte le circostanze del caso concreto:

    • Cass., sez. III, 16 febbraio 2012, n. 2228, in CED Cass. 621460

    • Cass., sez. III, 19 febbraio 2013, n. 4043, in CED Cass. 625455

    • Cass., sez. lav., 15 gennaio 2014, n. 687, in CED Cass., n. 629252

    • Cass, sez. Iav., 16 ottobre 2014, n. 21917, in CED Cass. 632667

    Contra, però, da ultimo, si è affermato che nel caso di lesioni di non lieve entità e, dunque, al di fuori dell’ambito applicativo delle lesioni c.d. micro permanenti di cui all’art. 139 del D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, il danno morale costituisce una voce di pregiudizio non patrimoniale, ricollegabile alla violazione di un interesse costituzionalmente tutelato, da tenere distinta dal danno biologico e dal danno nei suoi aspetti dinamico relazionali presi in considerazione dall’art. 138 del menzionato D.Lgs. n. 209 del 2005, con la conseguenza che va risarcito autonomamente, ove provato, senza che ciò comporti alcuna duplicazione risarcitoria:

    • Cass., sez. III, 9 giugno 2015, n. 11851, in CED Cass. 635701

    • Cass., sez. lav., 20 novembre 2015, n. 23793, in CED Cass. 637826

    • Cass., sez. III, 20 aprile 2016, n. 7766, in CED Cass. 639582

    APPROFONDIMENTI

    • Nota a Cass., sez. III, 25 settembre 2009, n. 20684, in Nuova giur. civ. comm. 2010, I, 144, di R. Foffa “Un nuovo stop della Cassazione ai danni bagatellari”

    1.5 Le norme di principio del diritto internazionale. Il principio dello sviluppo sostenibile

    1.5Le norme di principio del diritto internazionale. Il principio dello sviluppo sostenibile

    La prima definizione in ordine temporale è stata quella contenuta nel “rapporto Brundtland” (dal nome della presidente della Commissione, la norvegese Gro Harlem Brundtland) del 1987 e poi ripresa dalla Conferenza mondiale sull’ambiente e lo sviluppo dell’ONU (World Commission on Environment and Development, WCED): “lo Sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. Sebbene questa dichiarazione sintetizzi, in maniera molto semplificata, alcuni aspetti importanti del rapporto tra sviluppo economico, equità sociale, rispetto dell’ambiente, non può essere operabile. È la c.d. regola dell’equilibrio delle tre “E”: ecologia, equità, economia.

    Tale definizione parte da una visione antropocentrica, infatti al centro della questione non è tanto l’ecosistema, e quindi la sopravvivenza e il benessere di tutte le specie viventi, ma piuttosto le generazioni umane. Ecco perché la sola definizione che può essere accettabile è quella che definisce come “sviluppo sostenibile” un processo socio-ecologico caratterizzato per un comportamento alla ricerca di ideali.

    Una successiva definizione di sviluppo sostenibile, in cui è inclusa invece una visione più globale, è stata fornita, nel 1991, dalla World Conservation Union, UN Environment Programme and World Wide Fund for Nature, che lo identifica come “... un miglioramento della qualità della vita, senza eccedere la capacità di carico degli ecosistemi di supporto, dai quali essa dipende”. Nello stesso anno Hermann Daly ricondusse lo sviluppo sostenibile a tre condizioni generali concernenti l’uso delle risorse naturali da parte dell’uomo:

    • il tasso di utilizzazione delle risorse rinnovabili non deve essere superiore al loro tasso di rigenerazione;

    • l’immissione di sostanze inquinanti e di scorie nell’ambiente non deve superare la capacità di carico dell’ambiente stesso;

    • lo stock di risorse non rinnovabili deve restare costante nel tempo.

    In tale definizione, viene introdotto anche un concetto di “equilibrio” auspicabile tra uomo ed ecosistema. Nel 1994, l’ICLEI (International Council for Local Environmental Initiatives) ha fornito un’ulteriore definizione di sviluppo sostenibile: “Sviluppo che offre servizi ambientali, sociali ed economici di base a tutti i membri di una comunità, senza minacciare l’operabilità dei sistemi naturali, edificato e sociale da cui dipende la fornitura di tali servizi”. Ciò significa che le tre dimensioni economiche, sociali ed ambientali sono strettamente correlate, e ogni intervento di programmazione deve tenere conto delle reciproche interrelazioni.

    L’ICLEI, infatti, definisce lo sviluppo sostenibile come lo sviluppo che fornisce elementi ecologici, sociali e opportunità economiche a tutti gli abitanti di una comunità, senza creare una minaccia alla vitalità del sistema naturale, urbano e sociale che da queste opportunità dipendono.

    Nel 2001, l’UNESCO ha ampliato il concetto di sviluppo sostenibile indicando che “la diversità culturale è necessaria per l’umanità quanto la biodiversità per la natura [...] la diversità culturale è una delle radici dello sviluppo inteso non solo come crescita economica, ma anche come un mezzo per condurre una esistenza più soddisfacente sul piano intellettuale, emozionale, morale e spirituale”. (artt. 1 e 3, Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale, UNESCO, 2001).

    In questa visione, la diversità culturale diventa il quarto pilastro dello sviluppo sostenibile, accanto al tradizionale equilibrio delle tre “E”.

    Il “rapporto Brundtland” ha ispirato alcune importanti conferenze delle Nazioni Unite, documenti di programmazione economica e legislazioni nazionali ed internazionali. Per favorire lo sviluppo sostenibile sono in atto molteplici attività ricollegabili sia alle politiche ambientali dei singoli stati e delle organizzazioni sovranazionali sia a specifiche attività collegate ai vari settori dell’ambiente naturale. In particolare, il nuovo concetto di sviluppo sostenibile proposto dall’UNESCO ha contribuito a generare approcci multidisciplinari sia nelle iniziative politiche che nella ricerca. Un esempio molto recente è la rete di eccellenza Sviluppo sostenibile in un mondo diverso finanziata dall’U.E. e coordinata dalla Fondazione Eni Enrico Mattei.

    Il concetto di Sviluppo sostenibile è aspramente criticato (Latouche, Pallante, movimenti facenti capo alla teoria della Decrescita). Essi ritengono impossibile pensare uno sviluppo economico basato sui continui incrementi di produzione di merci che sia anche in sintonia con la preservazione dell’ambiente. In particolare, ammoniscono i comportamenti delle società occidentali che, seguendo l’ottica dello sviluppo sostenibile, si trovano ora di fronte al paradossale problema di dover consumare più del necessario pur di non scalfire la crescita dell’economia di mercato, con conseguenti numerosi problemi ambientali: sovrasfruttamento delle risorse naturali, aumento dei rifiuti, mercificazione dei beni. Il tutto, a loro modo di vedere, non è quindi compatibile con la sostenibilità ambientale: ritengono lo sviluppo sostenibile una teoria superata, in ogni caso non più applicabile alle moderne economie mondiali.

    1.5.1 Il principio dello sviluppo sostenibile

    1.5.1Il principio dello sviluppo sostenibile

    Allo stato, è senza alcun dubbio attuale il principio di sviluppo sostenibile elaborato in occasione della Conferenza di Rio del giugno 1992, quando la maggior parte dei Paesi della Terra ha fatto propria una “dichiarazione” che recita il principio dello sviluppo sostenibile, a suo tempo già espresso dalle conclusioni di un gruppo di esperti incaricato dall’ONU (Commissione Brundtland dal nome della personalità norvegese che la presiedeva).

    Tra gli importanti enunciati della Dichiarazione si ricordano i seguenti:

    • “le parti hanno il diritto e il dovere di promuovere uno sviluppo sostenibile”;

    • “nel quadro della realizzazione dello sviluppo sostenibile, la tutela ambientale costituirà parte integrante del processo di sviluppo e non potrà essere considerata separatamente da questo”;

    • le parti si impegnano “a collaborare per promuovere un sistema economico internazionale che porti ad una crescita e ad uno sviluppo economico sostenibili in tutte le parti”;

    • gli Stati sono tenuti alla “conservazione e incremento, se del caso, dei pozzi e dei serbatoi di tutti i gas ad effetto serra, ivi compresi la biomassa, le foreste e gli oceani, nonché altri ecosistemi terrestri, costieri e marini”;

    • “il diritto allo sviluppo deve essere attuato in modo da soddisfare equamente i bisogni di sviluppo e ambientali delle generazioni presenti e future”;

    • ci si deve porre, “a beneficio della generazione presente e di quelle future”, l’obiettivo di “stabilizzare [...] le concentrazioni nell’atmosfera dei gas ad effetto serra a un livello tale da escludere qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico”;

    • la pace, lo sviluppo e la tutela dell’ambiente sono interdipendenti e indivisibili.

    Non deve, da ultimo, essere dimenticato, che l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha adottato all’unanimità il 25 settembre 2015 l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, corredata da una lista di 17 obiettivi di sviluppo sostenibile e 169 sotto-obiettivi che riguardano tutte le dimensioni della vita umana e del pianeta che dovranno essere raggiunti da tutti i paesi del mondo entro il 2030.

    Il principio dello sviluppo sostenibile è sancito espressamente anche dall’ordinamento nazionale (art. 3-quater, D.Lgs. n. 152/2006).

    Nota: A tale ultimo proposito, il concetto di sviluppo sostenibile in Italia, alla luce del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (come modificato dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4) è così definito:

    Art. 3-quater (Principio dello sviluppo sostenibile).

    1. Ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo economicamente sostenibile, al fine di garantire all’uomo che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future.

    2. Anche l’attività della Pubblica amministrazione deve essere finalizzata a consentire la migliore attuazione possibile del principio dello sviluppo sostenibile, per cui nell’ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità gli interessi alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale devono essere oggetto di prioritaria considerazione.

    3. Data la complessità delle relazioni e delle interferenze tra natura e attività umane, il principio dello sviluppo sostenibile deve consentire di individuare un equilibrato rapporto, nell’ambito delle risorse ereditate, tra quelle da risparmiare e quelle da trasmettere, affinché nell’ambito delle dinamiche della produzione e del consumo si inserisca altresì il principio di solidarietà per salvaguardare e per migliorare la qualità dell’ambiente anche futuro.

    4. La risoluzione delle questioni che involgono aspetti ambientali deve essere cercata e trovata nella prospettiva di garanzia dello sviluppo sostenibile, in modo da salvaguardare il corretto funzionamento e l’evoluzione degli ecosistemi naturali dalle modificazioni negative che possono essere prodotte dalle attività umane.

    L’importanza di una strategia di sviluppo sostenibile in materia ambientale è, ad esempio, richiamata nel testo del D.Lgs. 13 ottobre 2010, n. 190 (recante “Attuazione della Direttiva n. 2008/56/CE che istituisce un quadro per l’azione comunitaria nel campo della politica per l’ambiente marino”), che, all’art. 12, comma 5, nell’affidare al Ministero dell’ambiente il compito di elaborare uno o più programmi di misure finalizzati a conseguire o mantenere un buon stato ambientale, puntualizza che nell’istruttoria diretta all’elaborazione dei programmi di misure di cui sopra “si deve tenere in debita considerazione il principio dello sviluppo sostenibile e, in particolare, agli impatti socio-economici delle misure. I programmi devono individuare misure efficaci rispetto ai costi e tecnicamente fattibili, alla luce di un’analisi di impatto che comprenda la valutazione del rapporto costi/benefici di ciascuna misura”.

    Successivamente, poi, il D.M. 22 gennaio 2014, ossia l’Adozione del Piano di azione nazionale per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, ai sensi dell’art. 6 del D.Lgs. 14 agosto 2012, n. 150 recante: “Attuazione della Direttiva n. 2009/128/CE che istituisce un quadro per l’azione comunitaria ai fini dell’utilizzo sostenibile dei pesticidi”, richiama le indicazioni dell’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. secondo cui: “Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”.

    Analogamente, il principio dello sviluppo sostenibile è alla base dell’istituzione, in seno al Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica, di un apposito dipartimento, denominato Dipartimento sviluppo sostenibile (DiSS), che esercita, ai sensi dell’art. 2, comma 4, del D.P.C.M. 29 luglio 2021, n. 128 (Regolamento di organizzazione del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica), le competenze del Ministero in materia di economia circolare, uso sostenibile del suolo e delle risorse idriche, risanamento dei siti contaminati, esercizio dell’azione di risarcimento del danno ambientale, valutazioni e autorizzazioni ambientali, bioeconomia e finanza sostenibile.

    Di valore altamente significativo, è il contenuto della Delibera CIPE (Comitato interministeriale programmazione economica) 22 dicembre 2017, n. 108, recante l’Approvazione della strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile, nonché la Direttiva del Consiglio dei Ministri 16 marzo 2018, recante gli Indirizzi per l’attuazione dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e della Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile.

    Senza alcun dubbio, però, un vero e proprio cambio di passo è stato attuato a livello normativo interno con la Legge 12 dicembre 2019, n. 141 (di conversione del D.L. 14 ottobre 2019, n. 111) che, in un’ottica di coordinamento delle politiche pubbliche per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, indicati dalla risoluzione A/70/L.I adottata dall’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, ha previsto che, a decorrere dal 1° gennaio 2021 il Comitato interministeriale per la programmazione economica assuma la denominazione di Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile (CIPESS).

    Tra gli atti di maggior rilievo adottati in materia, da ultimo, si segnala sia la Direttiva di Stato 16 marzo 2018, recante “Indirizzi per l’attuazione dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e della Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile”, la quale ribadisce che il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile rappresenta un obiettivo prioritario dell’azione del Governo italiano in virtù sia degli impegni presi all’Assemblea generale delle Nazioni unite il 25 settembre 2015, sia della necessità di migliorare il benessere dei cittadini, l’equità e la sostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, sia la Del. 20 luglio 2023, n. 22/2023 del Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile, che ha approvato il Programma di attività per le annualità 2023 e 2024 del Fondo per la promozione dello sviluppo sostenibile.

    1.5.2 Le norme di principio del diritto eurounitario

    1.5.2Le norme di principio del diritto eurounitario

    Le norme che esplicitamente sanciscono il principio di tutela dell’ambiente nel suo complesso si rinvengono nel diritto comunitario. Si tratta in particolare del Trattato di Roma, come modificato dall’Atto Unico Europeo 17 febbraio 1986, dal Trattato di Maastricht, dal Trattato di Amsterdam e da quello di Lisbona.

    A seguito di tali modifiche il Trattato dell’U.E. nella sua versione consolidata - come, del resto, si evince dal preambolo in cui si precisa come gli Stati aderenti siano “determinati a promuovere il progresso economico e sociale dei loro popoli, tenendo conto del principio dello sviluppo sostenibile nel contesto della realizzazione del mercato interno e del rafforzamento della coesione e della protezione dell’ambiente, nonché ad attuare politiche volte a garantire che i progressi compiuti sulla via dell’integrazione economica si accompagnino a paralleli progressi in altri settori” -, contempla:

    • anzitutto, l’art. 3, comma 3, che prevede espressamente come l’UE si “adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente”;

    • l’art. 3, comma 5, [l’UE] “contribuisce … allo sviluppo sostenibile della Terra”;

    • l’art. 21 (dedicato alle “Disposizioni generali sull’azione esterna dell’Unione”) che stabilisce che spetta all’UE definire e attuare politiche comuni e azioni e opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i settori delle relazioni internazionali al fine, in particolare, di:
      • favorire lo sviluppo sostenibile dei paesi in via di sviluppo sul piano economico, sociale e ambientale, con l’obiettivo primo di eliminare la povertà (lett. d);

      • contribuire all’elaborazione di misure internazionali volte a preservare e migliorare la qualità dell’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali mondiali, al fine di assicurare lo sviluppo sostenibile (lett. f).

    Al tema dello sviluppo sostenibile, poi, sono dedicati:

    • l’art. 11 (ex art. 6 del TCE), secondo cui “Le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”;

    • l’art. 37 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’U.E., dedicata alla “Tutela dell’ambiente”, secondo cui “Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”.

    Le norme eurounitarie, oltre a ribadire il principio dello sviluppo sostenibile (per il quale si rinvia a quanto illustrato in precedenza), sanciscono anzitutto il principio “chi inquina paga” e quello di “precauzione”.

    Il principio “chi inquina paga” implica che le “parti coinvolte... accettano di assumersi la responsabilità dell’inquinamento”, ovvero che “al produttore può essere chiesto di assumersi il carico delle misure necessarie per un adeguato riequilibrio ambientale e si può comminare una sanzione o un’eco-tassa per sollecitarlo a ridurre l’inquinamento”.

    Il principio di precauzione consiste in un ammonimento ai vari Paesi a non sottovalutare i cruciali interessi ambientali sulla spinta di istanze economiche; ammonizione giustificata dal fatto che a tali istanze vengono notoriamente riconosciuti quei caratteri di importanza e impellenza raramente attribuiti alle pur vitali questioni ambientali, per il solo fatto che queste si riferiscono talvolta a situazioni destinate a realizzarsi lontano nel tempo. Tale principio non è di facile attuazione: le conoscenze scientifiche da un lato non raggiungono mai la completa certezza in ordine al fatto che un qualche pericolo non possa derivare anche da attività che oggi sembrano essere del tutto innocue; e anche gli alti consessi scientifici sono talvolta non immuni dalle pressioni sociali ed economiche provenienti dal mondo circostante.

    Ne deriva che raramente che il legislatore possa prendere le sue decisioni in situazione di “certezza scientifica” - locuzione che di per sé è approssimativa - mentre accade assai più di frequente che egli si trovi a valutare di volta in volta la gravità e il grado di probabilità dei rischi per l’ambiente. Molto spesso si tratta perciò di decisioni che pur tenendo conto delle conoscenze scientifiche disponibili, sono, in definitiva, politiche.

    1.5.3 Il principio che “chi inquina paga”

    1.5.3Il principio che “chi inquina paga”

    Questo principio è sancito sia nell’ordinamento comunitario che in quello nazionale.

    Anzitutto, il principio “chi inquina paga” compare per la prima volta nella legislazione comunitaria nella OECD Recommendation of the Council, n. C (72) 128 del 26 febbraio 1972 (Guiding principles concerning international economic aspect or enviromental policies), per essere poi ripreso al punto 16 della Dichiarazione di Rio de Janeiro del 5 giugno 1972.

    Secondo il principio “chi inquina paga”, coloro che causano danni all’ambiente devono sostenere i costi per riparare, o rimborsare tali danni. Di conseguenza, nella maggior parte dei casi, la politica ambientale dovrebbe essere finanziata dagli stessi responsabili dell’inquinamento, se identificabili. Tuttavia, nella prima formulazione politica del principio (raccomandazione del Consiglio 75/436/Euratom, CECA, CEE e comunicazione 25 febbraio 2003) la Commissione stabilì una serie di deroghe, previste poi anche dall’art. 175, par. 5, del Trattato.

    A partire dagli anni Settanta, e per più di un decennio, le norme comunitarie recepirono il principio in modo restrittivo, essendo volte a finalità di prevenzione e riduzione del danno e non comprendendo la possibilità di risarcimento del danno arrecato. Verso la metà degli anni Ottanta, il diritto comunitario si aprì ad una lettura meno restrittiva. Con il terzo programma d’azione, entrato in vigore nel 1981, la Comunità affermò che “l’addebito dei costi destinati alla protezione dell’ambiente a chi causa l’inquinamento incita quest’ultimo a ridurre l’inquinamento provocato dalle proprie attività ed a ricercare prodotti e tecnologie meno inquinanti”.

    Con il quarto programma d’azione - risoluzione del Consiglio e dei rappresentanti dei Governi degli stati membri del 19 ottobre 1987 (G.U.C.E., causa C-328 del 7 dicembre 1987, 15) - il principio divenne il riferimento anche per la costruzione di una responsabilità civile in relazione a danni cagionati all’ambiente. “L’imputazione dei costi al soggetto responsabile dell’inquinamento deriva quindi da una esigenza economica, fino a divenire uno strumento giuridico di responsabilità civile e di riparazione del danno causato”.

    Una delle prime applicazioni del principio può essere rinvenuta nell’art. 11, punto a) della Direttiva n. 84/631/CEE in materia di sorveglianza e controllo all’interno della Comunità delle spedizioni transfrontaliere di rifiuti pericolosi, nel quale si afferma che il produttore dei rifiuti è responsabile del loro smaltimento e deve adottare tutte le misure necessarie per la loro eliminazione in maniera da garantire la tutela dell’ambiente.

    Con la riforma dei trattati istitutivi, avvenuta con l’Atto Unico Europeo del 1986, e con la creazione del Titolo VII dedicato all’ambiente, venne introdotto il principio “chi inquina paga” unitamente a quelli di precauzione e prevenzione e di correzione e così la Direttiva n. 2004/35/CE istituisce un quadro per la responsabilità ambientale, basato sul principio chi inquina paga per la prevenzione e la riparazione del danno ambientale.

    Sull’interpretazione del principio “chi inquina paga” di cui alla Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 21 aprile 2004, 2004/35/CE, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale (G.U. L 143, 56), si veda, in particolare, Corte di Giustizia UE (Grande Sezione), 9 marzo 2010, secondo cui la Direttiva n. 2004/35/CE non osta a una normativa nazionale che consente all’autorità competente, in sede di esecuzione della citata Direttiva, di presumere l’esistenza di un nesso di causalità, anche nell’ipotesi di inquinamento a carattere diffuso, tra determinati operatori e un inquinamento accertato, e ciò in base alla vicinanza dei loro impianti alla zona inquinata. Tuttavia, conformemente al principio “chi inquina paga”, per poter presumere secondo tale modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità detta autorità deve disporre di indizi plausibili in grado di dare fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività.

    Nella recente Direttiva n. 2008/98/CE (come da ultimo modificata dalla Direttiva 30 maggio 2018, n. 851, che, in vista della sua trasposizione nell’ordinamento interno, aveva visto determinare i relativi principi e criteri direttivi per il tramite dell’art. 16, Legge 4 ottobre 2019, n. 117, oggetto di recente trasposizione con il D.Lgs. 3 settembre 2020, n. 116), che detta una nuova disciplina in materia di rifiuti, recepita in Italia con il D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205, al “considerato” n. 26 si rimarca che “il principio ‘chi inquina paga’ è un principio guida a livello europeo e internazionale. Il produttore di rifiuti e il detentore di rifiuti dovrebbero gestire gli stessi in modo da garantire un livello elevato di protezione dell’ambiente e della salute umana”. Più di recente nel Regolamento CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 dicembre 2013, n. 1303/2013 (recante disposizioni comuni sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione, sul Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca e disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca, e che abroga il Regolamento CE n. 1083/2006 del Consiglio), si puntualizza (art. 8) che “gli obiettivi dei fondi SIE sono perseguiti in linea con il principio dello sviluppo sostenibile e della promozione, da parte dell’Unione, dell’obiettivo di preservare, tutelare e migliorare la qualità dell’ambiente, conformemente all’art. 11 e all’art. 191, par. 1, TFUE, tenendo conto del principio ‘chi inquina paga’”. Sulla stessa linea si pone la Disc. 28 giugno 2014, n. 2014/C200/01 della Commissione UE (Disciplina in materia di aiuti di Stato a favore dell’ambiente e dell’energia 2014-2020, in G.U.U.E. 28 giugno 2014, n. C 200), che, al punto 44, chiarisce come il rispetto del principio “chi inquina paga” (“polluter pays principle”, PPP), possibile grazie alla legislazione ambientale, garantisce, in linea di principio, che il fallimento del mercato legato alle esternalità negative venga corretto. Pertanto, gli aiuti di Stato non sono uno strumento appropriato e non possono essere concessi nella misura in cui il beneficiario degli aiuti rischia di essere ritenuto responsabile dell’inquinamento a norma della legislazione dell’Unione o nazionale in vigore. Ancora, il Reg. Commissione CE 27 novembre 2015, n. 2015/2282 che modifica il Reg. CE n. 794/2004 per quanto riguarda i moduli di notifica e le schede di informazioni (in G.U.U.E. 10 dicembre 2015, n. L 325) che, sempre in materia di “aiuti di Stato”, prevede con riferimento all’adeguatezza dell’aiuto, di spiegare perché, rispetto ad altri strumenti della politica (che non sono aiuti di Stato) e all’effettiva attuazione del principio “chi inquina paga”, l’intervento statale è lo strumento appropriato.

    Inoltre, la Direttiva 30 maggio 2018, n. 2018/851/UE, che modifica la Direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti (in G.U.U.E. 14 giugno 2018, n. L 150), nell’introdurre alcune modifiche all’art. 10 in tema di recupero, richiama alla lett. d) del comma 3 il predetto principio.

    Non meno rilevante, si noti, anche a seguito della c.d. Brexit, è la circostanza che uno dei punti qualificanti delle intese raggiunte tra l’Unione Europea ed il Regno Unito è rappresentato dalla non regressione nel livello di tutela dell’ambiente, stabilendosi in particolare che l’Unione e il Regno Unito rispettano i principi seguenti nelle rispettive normative ambientali: a) principio della precauzione; b) principio dell’azione preventiva; c) principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente; e - appunto - d) principio “chi inquina paga” (si v., ad es. l’art. 2 dell’Acc. CE 25 aprile 2019 n. 2019/C144I/01, ossia l’Accordo sul recesso del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del nord dall’Unione europea e dalla Comunità europea dell’energia atomica, in G.U.U.E. 25 aprile 2019, n. C 144 I).

    L’importanza del principio in esame è stata peraltro ribadita nella recente Decisione del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a un programma generale di azione dell’unione per l’ambiente fino al 2030 («l’Ottavo programma di azione per l’ambiente» o «l’8° PAA»). Tale decisione, in particolare, come stabilisce l’art. 1, comma 5, è fondato sul principio di precauzione, sui principi di azione preventiva e di riduzione dell’inquinamento alla fonte e sul principio «chi inquina paga» (Dec. 6 aprile 2022, n. 2022/591/UE).

    Si noti, però, che secondo l’interpretazione dei giudici eurounitari, l’art. 191, par. 2, TFUE, afferma che la politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela e si basa, segnatamente, sul principio “chi inquina paga”.

    Tale disposizione si limita pertanto a definire gli obiettivi generali dell’Unione in materia ambientale, mentre l’art. 192 TFUE affida al Parlamento europeo e al Consiglio dell’U.E., che deliberano secondo la procedura legislativa ordinaria, il compito di decidere le azioni da intraprendere per raggiungere detti obiettivi. Di conseguenza, dal momento che l’art. 191, par. 2, TFUE, che contiene il principio “chi inquina paga”, è rivolto all’azione dell’Unione, detta disposizione non può essere invocata in quanto tale dai privati al fine di escludere l’applicazione di una normativa nazionale emanata in una materia rientrante nella politica ambientale, quando non sia applicabile nessuna normativa dell’Unione adottata in base all’art. 192 TFUE, che disciplini specificamente l’ipotesi di cui trattasi (CGUE, sez. II, 13 luglio 2017, n. 129/2016, Túrkevei Tejtermelő Kft. c. Országos Környezetvédelmi és Természetvédelmi Főfelügyelőség; in senso conforme, CGUE, Sez. V, 7 novembre 2019, n. 80/18, Asociación Española de la Industria Eléctrica (UNESA) e altri c. Administración General del Estado e altri).

    1.5.4 Il principio che “chi inquina paga” nella normativa italiana

    1.5.4Il principio che “chi inquina paga” nella normativa italiana

    Quanto alla normativa nazionale, il principio “chi inquina paga” è sancito sia a livello generale e astratto dall’art. 3-ter, D.Lgs. n. 152/2006,

    Nota: l’art. 3-ter, D.Lgs. n. 152/2006 è intitolato Principio dell’azione ambientale e così recita: “1. La tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché al principio “chi inquina paga” che, ai sensi dell’art. 174, comma 2, del Trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale”.

    sia nella parte speciale del TUA.

    Vedi ad es., le norme della Parte III, in materia di inquinamento idrico, nelle quali si ravvisa l’attuazione del principio:

    • l’art. 119 che, disciplinando il “principio del recupero dei costi relativi ai servizi idrici”, stabilisce, anzitutto, al comma 1 che “Ai fini del raggiungimento degli obiettivi di qualità di cui al Capo I del Titolo II della Parte Terza del presente Decreto, le Autorità competenti tengono conto del principio del recupero dei costi dei servizi idrici, compresi quelli ambientali e relativi alla risorsa, prendendo in considerazione l’analisi economica effettuata in base all’Allegato 10 alla Parte Terza del presente Decreto e, in particolare, secondo il principio ‘chi inquina paga’” e, in secondo luogo, al comma 3-bis, che “Fino all’emanazione del decreto di cui all’articolo 154, comma 3, il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e le regioni, mediante la stipulazione di accordi di programma ai sensi dell’articolo 34 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, possono determinare, stabilendone l’ammontare, la quota parte delle entrate dei canoni derivanti dalle concessioni del demanio idrico nonché le maggiori entrate derivanti dall’applicazione del principio “chi inquina paga” di cui al comma 1 del presente articolo, e in particolare dal recupero dei costi ambientali e di quelli relativi alla risorsa, da destinare al finanziamento delle misure e delle funzioni previste dall’articolo 116 del presente decreto e delle funzioni di studio e progettazione e tecnico-organizzative attribuite alle Autorità di bacino ai sensi dell’articolo 71 del presente decreto”;

    • l’art. 154 che, in materia di “tariffa del servizio idrico integrato”, prevede al comma 1 che la “tariffa costituisce il corrispettivo del servizio idrico integrato ed è determinata tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere, dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, nonché di una quota parte dei costi di funzionamento dell’ente di governo dell’ambito, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il principio del recupero dei costi e secondo il principio ‘chi inquina paga’”; al comma 2 che “Il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, su proposta dell’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, tenuto conto della necessità di recuperare i costi ambientali anche secondo il principio ‘chi inquina paga’, definisce con Decreto le componenti di costo per la determinazione della tariffa relativa ai servizi idrici per i vari settori di impiego dell’acqua” nonché, ancora, al comma 3, che “Al fine di assicurare un’omogenea disciplina sul territorio nazionale, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro della transizione ecologica e con il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, sono stabiliti i criteri generali per la determinazione, da parte delle regioni, dei canoni di concessione per l’utenza di acqua pubblica, tenendo conto dei costi ambientali e dei costi della risorsa e dell’inquinamento, conformemente al principio ‘chi inquina paga’”;

    • l’art. 155 che, in materia di “tariffa del servizio di fognatura e depurazione”, prevede al comma 5 che “per le utenze industriali la quota tariffaria di cui al presente articolo è determinata sulla base della qualità e della quantità delle acque reflue scaricate e sulla base del principio ‘chi inquina paga’”.

    Ancora, si vedano le norme della Parte IV, in materia di rifiuti, che riguardano detto principio:

    • l’art. 178, dedicato ai “Principi” (così da ultimo modificato dall’ art. 1, comma 2, D.Lgs. 3 settembre 2020, n. 116), prevede espressamente che “La gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai principi di precauzione, di prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nel rispetto del principio di concorrenza nonché del principio chi inquina paga. A tale fine la gestione dei rifiuti è effettuata secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità, trasparenza, fattibilità tecnica ed economica, nonché nel rispetto delle norme vigenti in materia di partecipazione e di accesso alle informazioni ambientali”;

    • l’art. 219, dedicato ai “Criteri informatori dell’attività di gestione dei rifiuti di imballaggio”, che al comma 2, sostituito dall’art. 3, comma 3, lett. b), D.Lgs. 3 settembre 2020, n. 116, stabilisce che “Al fine di favorire la transizione verso un’economia circolare conformemente al principio “chi inquina paga”, gli operatori economici cooperano secondo il principio di responsabilità condivisa, promuovendo misure atte a garantire la prevenzione, il riutilizzo, il riciclaggio e il recupero dei rifiuti di imballaggio”;

    • l’art. 239, che detta i “Princìpi e campo di applicazione” in tema di bonifica dei siti contaminati, prevede che “Il presente titolo disciplina gli interventi di bonifica e ripristino ambientale dei siti contaminati e definisce le procedure, i criteri e le modalità per lo svolgimento delle operazioni necessarie per l’eliminazione delle sorgenti dell’inquinamento e comunque per la riduzione delle concentrazioni di sostanze inquinanti, in armonia con i principi e le norme comunitari, con particolare riferimento al principio ‘chi inquina paga’”.

    Infine, in maniera diretta, l’art. 242 (onere di attivazione a carico del responsabile della contaminazione); l’art. 244 (adozione dell’ordinanza di bonifica sempre nei confronti del responsabile); l’art. 253 (chi spontaneamente dà corso agli interventi di bonifica ha poi azione di rivalsa nei confronti del responsabile) e, da ultimo, l’art. 257 (sanzione penale sempre a carico esclusivo di chi ha cagionato l’inquinamento).

    Proprio in relazione a tali ultime disposizioni del TUA, la Corte di Giustizia UE ha affermato (CGUE, sez. III, 4 marzo 2015, n. 534/2013, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e altri c. Fipa Group S.r.l. e altri), che i principi dell’U.E. in materia ambientale sanciti dall’art. 191, par. 2, del Trattato sul funzionamento dell’U.E. e dalla Direttiva n. 2004/35/CEE del 21 aprile 2004 (artt. 1 e 8, n. 3; tredicesimo e ventiquattresimo considerando) in particolare, il principio “chi inquina paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente non ostano alla normativa italiana (artt. 244, 245, 253, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152) che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consente all’autorità amministrativa di imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, ma prevede, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica.

    Alle disposizioni contenute nel TUA, si aggiungono poi numerose disposizioni di legge statale che si riferiscono al principio in esame come principio fondamentale della normativa ambientale (a titolo esemplificativo e non esaustivo, tra i più recenti interventi normativi, v., ad es.: Legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Legge di stabilità 2014) che, in materia di tariffa rifiuti stabilisce che dev’essere determinata dal Comune nel rispetto del principio “chi inquina paga”, sancito dall’art. 14 della Direttiva n. 2008/98/CE (art. 1, comma 652); ancora, il D.L. 31 agosto 2013, n. 102, conv. con modd. in Legge 28 ottobre 2013, n. 124, prevede ad esempio, in materia di TARES che il Comune “può stabilire di applicare la componente del tributo comunale sui rifiuti e sui servizi … tenendo conto dei seguenti criteri e nel rispetto del principio ‘chi inquina paga’...” (art. 5, comma 1); il D.M. 1° marzo 2019, n. 46, che disciplina, in conformità alla parte quarta, titolo V, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, e al principio comunitario “chi inquina paga”, gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e di ripristino ambientale delle aree destinate alla produzione agricola e all’allevamento oggetto di eventi che possono averne cagionato, anche potenzialmente, la contaminazione (art. 1); l’art. 16, della l. 4 ottobre 2019, n. 117, recante la Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea - Legge di delegazione europea 2018, nel dettare i princìpi e criteri direttivi per l’attuazione della direttiva (UE) 2018/851, stabilisce alla lett. d), n. 2, quello di “individuare uno o più sistemi di misurazione puntuale e presuntiva dei rifiuti prodotti che consentano la definizione di una tariffa correlata al principio ‘chi inquina paga’”, come in effetti poi disposto dal D.Lgs. 3 settembre 2020, n. 116; infine, da ultimo, l’art. 16, D.L. 6 novembre 2021, n. 152 (recante Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose), conv. con modd. dalla Legge 29 dicembre 2021, n. 233, che, nel modificare l’art. 154, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006, ha introdotto espressamente il riferimento al principio “chi inquina paga”.

    1.5.5 Il principio che “chi inquina paga” nella giurisprudenza

    1.5.5Il principio che “chi inquina paga” nella giurisprudenza

    L’esegesi del principio è stata, peraltro, oggetto di interventi giurisprudenziali.

    GIURISPRUDENZA

    Nella giurisprudenza penale di legittimità, infatti, si era già fatto strada il principio secondo cui con l’Atto Unico Europeo del 1986, artt. 130R, 130T, recepito in Italia con Legge n. 909/1986 sono stati introdotti nel nostro ordinamento giuridico tre principi relativi all’ambiente, che impegnano direttamente lo Stato italiano verso la Comunità e che devono essere applicati anche dai giudici perché fanno parte dell’ordinamento interno: principio della prevenzione; principio “chi inquina paga”; principio delle possibilità di una protezione giuridica uguale a quella comunitaria o più rigorosa (mai minore). Il nostro sistema giuridico, che si avvale del ruolo positivo delle Regioni, richiede una attuazione coerente dei principi comunitari sopra indicati e delle numerose norme giuridiche attuative (circa 180 Direttive) emanate in tema di ambiente, nel senso che non può essere consentito alle Regioni quello che non è consentito allo Stato: di conseguenza le Regioni possono legiferare in conformità ai principi fondamentali fissati dallo Stato, introducendo una disciplina più severa, mai più permissiva, per due ordini di ragioni: una formale, attinente al rispetto della responsabilità assunta dallo Stato rispetto alla supremazia del diritto comunitario; una sostanziale, in quanto l’ambiente è divenuto un valore primario, di rilievo costituzionale e fa parte quale componente essenziale della costituzione giuridica e politica della Comunità:

    • Cass., sez. III, 4 febbraio 1993, dep. 6 aprile 1993, n. 3148, P.M. in proc. M., in CED Cass. 193640

    Più nello specifico, poi, si era aggiunto che per il principio comunitario “chi inquina paga” la responsabilità primaria di sopportare l’onere anche economico incombe sui singoli soggetti privati, sicché qualora il soggetto pubblico intervenga per “alleviare” questo peso non può spingersi fino a “deresponsabilizzare” i privati, invocando nel contempo una sorta di presunzione di legittimità per la natura pubblica dell’attività espletata: in tal modo il problema dell’inquinamento verrebbe di fatto lasciato senza regola giuridica efficace:

    • Cass., sez. III, 19 maggio 1993, dep. 25 giugno 1993, n. 6422, P.M. in proc. B., in CED Cass. 195125

    Ancora, la Cassazione, più di recente, aveva valorizzato in chiave esegetica il principio, dichiarando manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 165 c.p., in relazione all’art. 3 Cost., laddove subordina il beneficio della sospensione condizionale della pena alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, in quanto non prenderebbe in considerazione la eventuale incapacità economica del condannato ad affrontare gli oneri conseguenti, atteso che rientrano nel potere discrezionale del legislatore opzioni normative di tale genere (si trattava, in particolare, di una fattispecie in materia ambientale, nella quale la Corte ha affermato che l’istituto si configura in tale specifico settore quale proiezione del principio comunitario “chi inquina paga”, e che, essendo la portata economica della reintegrazione ambientale generalmente proporzionata a quella dell’inquinamento, si presuppone nel soggetto che inquina una capacità economica tale da consentirgli di affrontare le spese del ripristino e/o risanamento ambientale:

    • Cass. pen., sez. III, 30 maggio 2003, dep. 16 settembre 2003, n. 35501, S., in CED Cass. 225880

    A ciò si è aggiunto che l’incapacità finanziaria non è di per sé idonea a integrare una autonoma causa di forza maggiore tale da giustificare l’inadempimento dell’obbligo di ripristino ambientale e la violazione del principio: “chi inquina paga” (D.Lgs. n. 152/2006, art. 3-ter), cui è informata l’intera legislazione ambientale:

    • Cass., sez. III, 15 febbraio 2017, n. 7168, in www.iusexplorer.it

    Di rilievo, infine, l’affermazione contenuta in quella sentenza che ha affermato come il principio della responsabilità condivisa nella gestione dei rifiuti, comporta che la responsabilità per la corretta gestione dei rifiuti grava su tutti i soggetti coinvolti nella loro produzione, detenzione, trasporto e smaltimento, essendo detti soggetti investiti di una posizione di garanzia in ordine al corretto smaltimento dei rifiuti stessi. Sicché, occorre tener conto dei principi generali di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nel ciclo afferente alla gestione dei rifiuti, ai sensi del combinato disposto di cui agli art. 178 e 188, d.lgs. n. 152/2006, e più in generale dei principi dell’ordinamento nazionale e comunitario, con particolare riferimento al principio comunitario “chi inquina paga”, di cui all’art. 174, par. 2, del trattato, e alla necessità di assicurare un elevato livello di tutela dell’ambiente, esigenza su cui si fonda, appunto, l’estensione della posizione di garanzia in capo ai soggetti coinvolti:

    • Cass., Sez. III, 11 dicembre 2019, n. 5912, in Riv. Trim. Dir. Pen. Economia, 2020, 1-2, 396.

    GIURISPRUDENZA

    Il tema è stato anche affrontato nella giurisprudenza civilistica. In particolare, si è affermato in tema di TARSU, che la disciplina contenuta nel D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507 sulla individuazione dei presupposti della tassa e sui criteri per la sua quantificazione non contrasta con il principio comunitario “chi inquina paga”, sia perché è consentita la quantificazione del costo di smaltimento sulla base della superficie dell’immobile posseduto, sia perché la detta disciplina non fa applicazione di regimi presuntivi che non consentano un’ampia prova contraria, ma contiene previsioni (v. artt. 65 e 66) che commisurano la tassa ad una serie di presupposti variabili o a particolari condizioni. In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza della Commissione tributaria regionale che aveva disapplicato la disciplina nazionale sulla TARSU, ritenendola in contrasto con il principio comunitario “chi inquina paga”, nella parte in cui prevedeva il pagamento del tributo per un box adibito ad autorimessa:

    • Cass., sez. trib., 31 gennaio 2011, n. 2202, in CED Cass. 616604; conforme:

    • Cass., sez. trib., 3 dicembre 2019, n. 31461, in CED Cass. 656024

    Nello stesso senso, sempre in materia di TARSU, si è chiarito che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’U.E. presuppone il dubbio interpretativo su una norma comunitaria, che non ricorre allorché l’interpretazione sia autoevidente oppure il senso della norma sia già stato chiarito da precedenti pronunce della Corte, non rilevando, peraltro, il profilo applicativo di fatto, che è rimesso al giudice nazionale a meno che non involga un’interpretazione generale ed astratta (Nella specie, la S.C., cassando la sentenza impugnata, ha ritenuto che la delibera del Comune di Palermo la quale, in tema di TARSU, aveva differenziato la tariffa degli esercizi alberghieri da quella delle civili abitazioni, era legittima perché conforme al principio “chi inquina paga”, espresso nell’art. 15 della Direttiva 2006/12/CE e nell’art. 14 della Direttiva 2008/98/CE, che, nell’osservanza del principio di proporzionalità, consentono al diritto nazionale di differenziare il calcolo della tassa di smaltimento per categorie di utenti):

    • Cass., sez. trib., 16 giugno 2017, n. 15041, ord. in CED Cass. 644553

    Ancora, il richiamo al principio è presente nella giurisprudenza civile in tema di tributo speciale per il deposito in discarica (cd. ecotassa), avendo precisato la S.C. come, sebbene il presupposto impositivo sia il conferimento in discarica dei rifiuti solidi, soggetto passivo dell’obbligazione tributaria è il gestore dell’impianto di stoccaggio, fermo il diritto di rivalsa dello stesso nei confronti del conferente che ha integrato il predetto presupposto, in virtù del principio “chi inquina paga”:

    • Cass., Sez. V, 22 maggio 2019, n. 13784, in CED Cass. 653998

    Altro intervento interessante, ha riguardato la tariffa integrata ambientale (c.d. TIA2), essendosi stabilito in particolare che la delibera comunale, che attribuisca una tariffa maggiore per le aree produttive rispetto alle abitazioni sulla base del cd. metodo normalizzato ex d.P.R. n. 158 del 1999, non è illegittima perché viziata per eccesso di potere o per violazione di legge, né si pone in contrasto con il principio comunitario del “chi inquina paga”, in quanto funzionale alla finalità di agevolare le utenze domestiche, perseguita dagli artt. 49, comma 10, del d.lgs. n. 22 del 1997 e 238, comma 7, del d.lgs. 152 del 2006, attraverso l’addebito a quelle non domestiche dei costi ad esse non imputati, in applicazione del principio dell’integrale copertura dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani:

    • Cass., Sez. V, 16 dicembre 2019, n. 33221 in CED Cass. 656375

    Nello stesso senso, la giurisprudenza ha chiarito che in materia di imposta sui rifiuti (TARI e TARSU), i Comuni, in armonia con il principio comunitario “chi inquina paga” e con gli artt. 62 e 70 del d.lgs. n. 507 del 1993, possono prevedere che gli edifici adibiti a culto religioso siano esenti dal pagamento di imposta e come tali indicati nella denuncia o nella successiva variazione, non essendo sufficiente la mera classificazione catastale, né, se il contribuente non assolve all’onere di preventiva informazione tramite denuncia, la circostanza della destinazione a culto può essere fatta valere nel giudizio di impugnazione dell’atto impositivo; ai fini del godimento del beneficio fiscale, risulta poi irrilevante che la confessione religiosa non abbia stipulato le intese di cui all’art. 8, comma 3, Cost., potendo il giudice riconoscere la sua esistenza sulla base di indici presuntivi quali, esemplificativamente, il riconoscimento ai sensi dell’art. 2 della l. n. 1159 del 1929, o la circostanza che sia in fase di perfezionamento l’intesa di cui all’art. 8 Cost., oppure operare detto accertamento tramite l’esame dello statuto, che ne esprima chiaramente i caratteri:

    • Cass. civ., Sez. 5, n. 16645 del 23 maggio 2022, CED Cass. 664858

    Rilevante è la decisione delle Sezioni Unite civili, che hanno affermato come le prescrizioni che, nell’ambito della procedura di valutazione di impatto ambientale finalizzata al rilascio di una concessione di derivazione di acque ad uso irriguo, impongano, in caso di rilevato superamento dei limiti di concentrazione, di adottare tecniche di rimozione degli inquinanti e di attivare procedure di abbattimento dei contaminanti, anche laddove esse si rivelino solo successivamente, in caso di rilevato superamento, necessarie al ripristino delle soglie massime di contaminazione, non possono avere come destinatario il concessionario richiedente, poiché, in quanto implicanti misure di riparazione primaria, debbono far carico unicamente al responsabile della contaminazione, qualora individuato, in forza del principio “chi inquina paga”:

    • Cass. civ., SS.UU., 16 settembre 2021, n. 25039, ord., in CED Cass. 662247

    Nello stesso senso si pongono le Sezioni Unite con una interessante decisione in materia di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati, le quali hanno affermato il principio secondo cui l’obbligo di adottare le misure idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento è a carico di colui che di essa sia responsabile per avervi dato causa, in base al principio “chi inquina paga”; pertanto, l’obbligo di eseguire le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica non può essere imposto al proprietario del sito contaminato incolpevole dell’inquinamento, perché gli effetti a suo carico restano limitati a quanto previsto dall’art. 253 d.lgs. n. 152 del 2006 (codice dell’ambiente) con riguardo a oneri reali e privilegi speciali immobiliari per il rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente e nei limiti del valore di mercato del sito determinato dopo l’esecuzione degli interventi stessi:

    • Cass. civ., SS.UU., n. 3077 del 1° febbraio 2023, CED Cass. 667187

    GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA

    Altrettanta attenzione è dedicata dalla giurisprudenza amministrativa. Tra i più recenti, ad es., si segnala nella giurisprudenza amministrativa l’affermazione secondo cui “Il principio comunitario del ‘chi inquina paga’ non individua una fattispecie di illecito integrata dall’elemento soggettivo e dall’elemento materiale, ma imputa il (costo del) danno a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi, cioè al soggetto che ha la possibilità della cost-benefit analysis, per cui si trova nella situazione più adeguata per evitare nel modo più conveniente il danno prima del suo verificarsi”:

    • TAR Piemonte, sez. II, sentenza 23 aprile 2008, n. 767

    Più di recente ha ribadito che trova applicazione, nel nostro ordinamento, il principio comunitario chi inquina paga (D.Lgs. n. 152/2006, Codice dell’ambiente):

    • Consiglio di Stato, sez. VI, 10 settembre 2015, n. 4225, Pfizer Italia s.r.l. e altri c. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e altri

    Più chiaramente, di recente, si è precisato che il complesso della disciplina, di cui al D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, conforme al diritto comunitario, appare ispirato al c.d. “principio del chi inquina paga”, da intendersi in senso sostanzialistico, secondo il principio di effettività come criterio giuda nell’interpretazione del diritto comunitario ambientale, sancito con sentenza della Corte di Giustizia CE 15 giugno 2000. Detto principio del “chi inquina paga” consiste, in definitiva, nell’imputazione dei costi ambientali (ovvero i costi sociali estranei alla contabilità ordinaria dell’impresa) al soggetto che ha causato la compromissione ecologica illecita, poiché esiste una compromissione ecologica lecita data dall’attività di trasformazione industriale dell’ambiente che non supera gli standards legali. Ciò sia nel quadro di una logica risarcitoria “ex post factum”, che nel quadro di una logica preventiva dei fatti dannosi, poiché il principio esprime anche il tentativo di internalizzare detti costi sociali e di incentivare per effetto del calcolo dei rischi di impresa la loro generalizzata incorporazione nei prezzi delle merci e, quindi, nelle dinamiche di mercato dei costi di alterazione dell’ambiente:

    • TAR Catanzaro, Calabria, sez. I, 18 settembre 2012, n. 954, Anas c. Com. Falerna, in Foro amm. TAR 2012, 9, 2903

    • TAR Trieste, F.V.G., sez. I, 9 aprile 2013, n. 227, P.Z. s.p.a. c. Ministero ambiente e tutela del territorio, Ministero salute ed altri, S.I.A.P. s.p.a. ed altri, in Red. amm. TAR, 2013, 4

    Importante, inoltre, è quella decisione del massimo organo di Giustizia Amministrativa secondo cui l’illecito ambientale, in coerenza con il principio chi inquina paga, può essere qualificato come illecito di natura permanente, poiché l’evento (cioè la compromissione dell’ambiente) continua a sussistere fin quando viene meno l’inquinamento:

    • Consiglio di Stato, sez. V, 23 settembre 2015, n. 4466, Comune di Napoli c. S.p.A. Fintecna e altri)

    Tra le decisioni più significative, infine, quella che ha ritenuto sussistente la compatibilità comunitaria delle norme rilevanti della nostra legislazione nazionale secondo le quali in sostanza, ed in coerente applicazione della più logica delle applicazioni possibili del principio sovranazionale “chi inquina paga”, giammai può essere posto direttamente a carico di chi non è l’autore di un inquinamento (e che non si offra spontaneamente per anticiparne i costi di contenimento ed eliminazione) il costo di interventi, anche solo emergenziali, volti ad impedire l’aggravamento e, anzi, a favorire la regressione di uno stato di inquinamento:

    • Consiglio di Stato, sez. VI, 17 maggio 2018, n. 2991, Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare c. Società A.L.I.P. S.r.l. e altri

    Diversamente, in epoca successiva però la giurisprudenza amministrativa si è espressa nel senso di ritenere che il proprietario incolpevole può essere destinatario, in base all’art. 245, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, dell’ordine di eseguire misure di prevenzione. La categoria delle misure di prevenzione si estende fino a comprendere la messa in sicurezza di emergenza ex art. 240, comma 1, lett. m-t), D.Lgs. n. 152/2006. Questa interpretazione, per tale giurisprudenza, è coerente con il principio chi inquina paga:

    • TAR Brescia, Lombardia, sez. I, 25 settembre 2019, n.831, in Foro Amministrativo (Il), 2019, 9, 1503

    Sul tema, importantissima è la decisione che aveva rimesso - ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’U.E. (TFUE) - all’esame della Corte di Giustizia dell’U.E. la seguente questione pregiudiziale di corretta interpretazione: “se i principi dell’U.E. in materia ambientale sanciti dall’art. 191, par. 2, del Trattato sul funzionamento dell’U.E. e dalla Direttiva n. 2004/35/CE del 21 aprile 2004 (artt. 1 e 8, n. 3; tredicesimo e ventiquattresimo considerando) - in particolare, il principio ‘chi inquina paga’, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente - ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli artt. 244, 245, 253 del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa di imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica”:

    • Consiglio di Stato, Ad. Plen., 25 settembre 2013, n. 21, ord., in Giur. It. 2014, 4, 947, con nota di P. Vipiana

    La Corte di Giustizia UE, nel decidere la questione pregiudiziale, ha affermato che “La Direttiva n. 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi”:

    • Corte Giust., sez. III, 4 marzo 2015, n. 534, in D&G, 2015

    Tra le ultime decisioni in materia, si segnalano:

    • Cons. Stato, Sez. V, 12 marzo 2020, n. 1759, Fallimento B. s.r.l. c. Comune di Maltignano e altri (secondo cui in tema di obblighi del curatore fallimentare, e fatto salvo quanto a proposito degli obblighi specificamente posti a carico dei proprietari degli edifici dalla normativa in tema di amianto, è, intanto, da escludere che un ordine di ripristino e bonifica dell’intero sito inquinato possa essere imposto alla curatela fallimentare in forza della mera responsabilità di posizione, in assenza dell’individuazione di una univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore stesso. Si è infatti considerato che la curatela fallimentare non può essere destinataria di ordinanze sindacali dirette alla bonifica dei siti inquinati, atteso che la legittimazione passiva della stessa in tema di ordinanze sindacali di bonifica determinerebbe un sovvertimento del principio “chi inquina paga”, facendo gravare i costi della bonifica sui creditori che non hanno alcun collegamento con l’inquinamento)

    • Cons. Stato, Sez. II, 6 aprile 2020, n. 2248, Società M.T. S.p.A. c. Regione Lazio e altri (secondo cui in materia di inquinamento la gestione dei rifiuti deve essere effettuata nel rispetto dei principi di precauzione, di prevenzione, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, con particolare riferimento al principio comunitario “chi inquina paga”)

    • Cons. Stato, Sez. IV, 15 settembre 2020, n. 5447, Società B. s.r.l. e altri c. Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e altri (secondo cui alla stregua del principio “chi inquina paga”, l’Amministrazione non può imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza e bonifica, di cui all’art. 240, comma 1, lett. m) e p), D.Lgs. n. 152 del 2006, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto dall’art. 253, stesso D.Lgs. n. 152 del 2006, in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare. Le disposizioni contenute nel Titolo V della Parte IV, del D.Lgs. n. 152 del 2006 operano, infatti, una chiara e netta distinzione tra la figura del responsabile dell’inquinamento e quella del proprietario del sito, che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione; conf. Cons. Stato, Sez. IV, 7 settembre 2020, n. 5372, Società C. S.p.A. c. Presidenza del Consiglio dei Ministri e altri)

    • Cons. Stato, Sez. IV, 7 gennaio 2021, n. 172, Comune di Torino c. F.C.A. e altri (secondo cui l’obbligo di messa in sicurezza e di successiva bonifica è la semplice conseguenza oggettiva dell’aver cagionato l’inquinamento e il complesso delle norme in tema di bonifica non sono altro che l’applicazione della norma generale dell’art. 2043 c.c., che, d’altronde, è a sua volta espressione del principio, ancor più generale, di responsabilità, in base al quale ciascuno risponde delle proprie azioni ed omissioni, risultando dunque il c.d. principio comunitario del chi inquina paga un’ulteriore specificazione in materia ambientale, con la conseguenza che laddove il danno sia scoperto a distanza di anni o decenni ciò non impedisce di attivare la norma dell’art. 2043 c.c. né evita l’applicazione del principio di responsabilità)

    • Cons. Stato, Sez. IV, 26 luglio 2021, n. 5542, I.P. s.r.l. c. Comune di Arese e altri (secondo cui il principio generale di matrice eurounitaria - sinteticamente espresso nella formula “chi inquina paga” di cui all’art. 191, TFUE e alla Dir. 2004/35/Ce (e recepito nell’ordinamento interno dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, artt. 239-253) - è mitigato, ai sensi dell’art. 245, nell’ipotesi di assunzione volontaria degli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale, assunzione che peraltro è avvenuta nel caso in esame nella vigenza del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, e del D.M. 25 ottobre 1999, n. 471. In questo caso, il proprietario, seppur non obbligato, assume spontaneamente l’impegno di eseguire un complessivo intervento di bonifica, presumibilmente motivato dalla necessità di evitare le conseguenze derivanti dai vincoli che gravano sull’area sub specie di onere reale e di privilegio speciale immobiliare ovvero, più in generale, di tutelarsi contro una situazione di incertezza giuridica, prevenendo eventuali responsabilità penali o risarcitorie. Ad ogni modo, nel caso di bonifica spontanea di un sito inquinato, il proprietario avrà diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese sostenute, “a condizione che sia stata rispettata la procedura amministrativa prevista dalla legge ed indipendentemente dall’identificazione del responsabile dell’inquinamento da parte della competente autorità amministrativa, senza che, in presenza di altri responsabili, trovi applicazione il principio della solidarietà”);

    • Cons. Stato, Sez. IV, 2 dicembre 2021, n. 8032, Società S.N. c. Città Metropolitana di Torino (secondo cui posta la trasmissibilità mortis causa dell’obbligo di bonifica dei siti inquinati, gli eredi subentrano nella posizione del de cujus in universum jus, sì che non rileva la circostanza che essi non abbiano mai avuto un collegamento con l’area di cava destinata al deposito di rifiuti inquinanti, né abbiano tratto benefici economici dall’utilizzo di detta cava. Infatti, pur non potendo essere loro direttamente imputato un comportamento commissivo od omissivo in relazione all’inquinamento del sito, per non avere mai compiuto attività potenzialmente inquinanti sul terreno, l’ampiezza della responsabilità debitoria degli eredi non è limitata dalla conoscenza o conoscibilità dei debiti del de cujus e, dunque, proprio secondo il principio comunitario “chi inquina paga”, se ad inquinare è stato anche il de cujus, coloro che gli sono subentrati in universum jus sono personalmente tenuti alla bonifica);

    • Cons. Stato, Sez. IV, 14 marzo 2022, n. 1763, Fallimento S. S.p.A. c. Comune di Berzo Demo e l’Unione dei Comuni della Valsaviore e altri (secondo cui Il principio generale del “chi inquina paga” che regola la materia della responsabilità per danno ambientale si declina nel senso di seguito indicato: a) la tutela dell’ambiente ruota intorno al fondamentale cardine della responsabilità del proprietario in chiave dinamica, ossia nel senso di ritenere responsabile degli oneri di bonifica e di riduzione in pristino anche il soggetto non direttamente responsabile della produzione del rifiuto, il quale sia tuttavia divenuto proprietario e detentore dell’area o del sito in cui è presente, per esservi stato in precedenza depositato, stoccato o anche semplicemente abbandonato, il rifiuto in questione; b) la responsabilità del proprietario del sito, in tal caso, non rinviene necessariamente la propria causa nel cd. fattore della produzione, bensì anche, eventualmente, in quello della detenzione o del possesso (corrispondenti, rispettivamente, al contenuto di un diritto personale o reale di godimento) dell’area sulla quale è oggettivamente presente il rifiuto, dal momento che grava su colui che è in relazione con la cosa l’obbligo di attivarsi per fare in modo che la cosa medesima non rappresenti più un danno o un pericolo di danno (o anche di aggravamento di un danno già prodotto); c) la responsabilità in questione è pur sempre ascrivibile secondo i canoni classici, comuni alle tradizioni costituzionali degli Stati, della responsabilità per il proprio fatto personale colpevole, dal momento che la personalità e la rimproverabilità dell’illecito risiedono nel comportamento del soggetto che volontariamente sceglie di sottrarsi o, il che è lo stesso, di non attivarsi anche per mera negligenza, per ripristinare l’ambiente; d) in particolare, l’accertamento del nesso di causalità si fonda non sulla regola probatoria penalistica basata sul principio dell’accertamento della responsabilità “al di là di ogni ragionevole dubbio” ma sul principio civilistico del “più probabile che non”; e) “l’ignoranza delle condizioni oggettive di inquinamento in cui versa il bene non esclude la responsabilità di chi ne è successivamente divenuto proprietario”; f) la responsabilità dell’autore materiale del fatto originario generatore del danno ambientale non costituisce un’esimente, né elide, tantomeno in via successiva, la responsabilità di coloro che divengono proprietari del bene o che vantano diritti o relazioni di fatto col bene medesimo);

    • Cons. Stato, Sez. V, 16 gennaio 2023, n. 528, Provincia di Brescia c. -(Omissis) S.p.A. e altri (secondo cui nel nostro ordinamento vige il principio del “chi inquina paga”, dalla cui cogenza teleologica e assiologica si ricava l’assunto in forza del quale la scoperta del danno a distanza di anni o decenni non impedisce di attivare la norma dell’art. 2043 c.c. né evita la doverosa applicazione del primario principio di responsabilità);

    • Cons. Stato, Sez. IV, 2 febbraio 2023, n. 1168, A. S.p.A. c. Comune di Salerno (secondo cui in tema di inquinamento, è necessario - affinché possa affermarsi la responsabilità per suolo contaminato del proprietario - dimostrare il suo apporto causale colpevole al danno ambientale riscontrato, giusta anche principio di matrice eurounitaria in materia ambientale per cui chi inquina paga).

    1.6 Il principio di precauzione

    1.6Il principio di precauzione

    Quanto al “principio di precauzione” s’intende una politica di condotta cautelativa per quanto riguarda le decisioni politiche ed economiche sulla gestione delle questioni scientificamente controverse. Il moderno dibattito sul principio di precauzione è nato durante gli anni ‘70, promosso dai primi movimenti ambientalisti ed ecologisti. Il concetto è stato successivamente analizzato in termini economici (relazioni causa-effetto, incertezza, rischi, irreversibilità delle decisioni) da autori come Epstein (1980), Arrow e Fischer (1974), Gollier (2000).

    Sotto il profilo ambientale, rilevante in questa sede, si ricorda che a seguito della Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite (Earth Summit) di Rio de Janeiro del 1992, a cui parteciparono più di centottanta delegazioni governative da tutto il mondo, venne ratificata la Dichiarazione di Rio, una serie di principi non impegnativi riguardanti le responsabilità ed i diritti degli Stati, per cercare di mettere insieme le esigenze dello sviluppo con quelle della salvaguardia ambientale.

    Il principio di precauzione venne definito dal principio 15 come segue: “In order to protect the environment, the precautionary approach shall be widely applied by States according to their capabilities. Where there are threats of serious or irreversible damage, lack of full scientific certainty shall not be used as a reason for postponing cost-effective measures to prevent environmental degradation”, ovvero “Al fine di proteggere l’ambiente, un approccio cautelativo dovrebbe essere ampiamente utilizzato dagli Stati in funzione delle proprie capacità. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale”.

    Il testo parla esplicitamente solo della protezione dell’ambiente, ma con il tempo e nella pratica il campo di applicazione si è allargato alla politica di tutela dei consumatori, della salute umana, animale e vegetale. Tale punto di vista è stato promosso dall’U.E., ratificando la Convenzione sulla diversità biologica di Rio de Janeiro (93/626/CEE), ed esplicitando la politica comunitaria con la Comunicazione COM (2000)1 (2 febbraio 2000).

    In tale documento si legge: “Il principio di precauzione non è definito dal trattato che ne parla esplicitamente solo in riferimento alla protezione dell’ambiente, ma la Commissione ritiene che la sua portata sia, in pratica, molto più ampia e si estenda anche alla tutela della salute umana, animale e vegetale. La Commissione sottolinea che il principio di precauzione dovrebbe essere considerato nell’ambito di una strategia strutturata di analisi dei rischi, comprendente valutazione, gestione e comunicazione del rischio stesso, ed intende alimentare la riflessione in corso in questo settore a livello sia comunitario che internazionale.

    Il ricorso al principio di precauzione trova applicazione qualora i dati scientifici siano insufficienti, inconcludenti o incerti e la valutazione scientifica indichi che possibili effetti possano essere inaccettabili e incoerenti con l’elevato livello di protezione prescelto dall’U.E.”. In aggiunta, il testo della Costituzione Europea, richiama il principio di precauzione all’art. III-233. La sopracitata Comunicazione COM (2000)1 della Commissione Europea esplicita i termini in cui il principio di precauzione deve essere adottato come approccio per prendere delle decisioni su specifiche materie.

    Il Trattato di Maastricht ha introdotto il principio di precauzione (poi ripreso dalla Costituzione Europea art. III-233) attualmente enunciato all’art. 191 del Trattato sul funzionamento dell’U.E., dove si sostiene che la politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed “è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente e sul principio ‘chi inquina paga’”.

    Il principio di precauzione viene definito come una strategia di gestione del rischio nei casi in cui si evidenzino indicazioni di effetti negativi sull’ambiente o sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante, ma i dati disponibili non consentano una valutazione completa del rischio.

    L’applicazione del principio di precauzione richiede tre elementi chiave:

    • l’identificazione dei potenziali rischi;

    • una valutazione scientifica, realizzata in modo rigoroso e completo sulla base di tutti i dati esistenti;

    • la mancanza di una certezza scientifica che permetta di escludere ragionevolmente la presenza dei rischi identificati.

    Nel caso venga applicato il principio di precauzione, essendo stati identificati rischi per i quali non sia possibile avere una valutazione scientifica conclusiva, le misure adottate possono essere diverse, tuttavia esse devono rispettare determinati criteri, in particolare, tali misure devono essere proporzionali al livello di protezione ricercato e dovrebbero essere prese a seguito dell’esame dei vantaggi e oneri derivati, anche in termini di una analisi economica costi/benefici.

    Inoltre, tali misure possono essere mantenute finché i dati scientifici rimangono insufficienti, e sono da considerarsi provvisorie e sottoposte a modifica in funzione dei dati resisi successivamente disponibili.

    A livello europeo il principio di precauzione è stato ufficialmente adottato come uno strumento di decisione nell’ambito della gestione del rischio in campo di salute umana, animale e ambientale.

    Nonostante il principio sia stato principalmente applicato per questioni ambientali, la Commissione Europea ha specificato che il campo di applicazione non è limitato a questo tipo di questioni, ma comprende tutte le situazioni in cui si identifichi un rischio ma non vi siano prove scientifiche sufficienti a dimostrarne la presenza o assenza, o a determinare adeguati livelli di protezione.

    Tra le più importanti applicazioni c’è quella della sicurezza alimentare, concetto visto nel contesto ampio di protezione della salute. La Legge quadro in materia di sicurezza alimentare (Reg. CE n. 178/2002) riporta il principio di precauzione come uno degli strumenti da utilizzare per assicurare un elevato livello di protezione dei consumatori.

    A livello internazionale, il principio è riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), in particolare nell’Accordo sulle misure sanitarie e fitosanitarie (SPS) e nell’Accordo sugli ostacoli tecnici al commercio (TBT). Nell’ambito di questi accordi, uno Stato membro dell’OMC ha il diritto di porre delle barriere all’importazione basandosi sul principio di precauzione allorquando siano identificati rischi ambientali o sanitari su cui non c’è certezza scientifica. Gli accordi, tuttavia, ribadiscono il principio che tali misure debbano considerarsi provvisorie e che lo Stato che le attua deve fare lo sforzo di ottenere tutte le informazioni necessarie per completare la valutazione del rischio entro un termine ragionevole.

    1.6.1 Il principio di precauzione nel TUA e nella giurisprudenza

    1.6.1Il principio di precauzione nel TUA e nella giurisprudenza

    Anche il principio di precauzione, come visto, è entrato a far parte della legislazione italiana in materia ambientale con l’art. 3-ter, D.Lgs. n. 152/2006.

    Nota: L’art. 3-ter, D.Lgs. n. 152/2006 infatti stabilisce che “La tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita … mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione […]“.

    Nonché con una serie di articoli disseminati nel TUA, tra cui, segnatamente:

    • l’art. 178, in tema di rifiuti, dedicato ai “Principi” (da ultimo modificato dall’art. 1, comma 2, D.Lgs. 3 settembre 2020, n. 116), secondo cui “La gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai principi di precauzione […]“;

    • l’art. 179, comma 3 che, nel fissare i “Criteri di priorità nella gestione dei rifiuti” (come modificato dall’art. 1, comma 5, lett. a), D.Lgs. 3 settembre 2020, n. 116), prevede che “Con riferimento a flussi di rifiuti specifici è consentito discostarsi, in via eccezionale, dall’ordine di priorità di cui al comma 1 qualora ciò sia previsto nella pianificazione nazionale e regionale e consentito dall’autorità che rilascia l’autorizzazione ai sensi del Titolo III-bis della Parte II o del Titolo I, Capo IV, della Parte IV del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, nel rispetto del principio di precauzione e sostenibilità, …”;

    • l’art. 144, comma 4-bis (inserito dall’art. 38, comma 11-quater, D.L. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11 novembre 2014, n. 164), prevede che “Ai fini della tutela delle acque sotterranee dall’inquinamento e per promuovere un razionale utilizzo del patrimonio idrico nazionale, tenuto anche conto del principio di precauzione per quanto attiene al rischio sismico e alla prevenzione di incidenti rilevanti, nelle attività di ricerca o coltivazione di idrocarburi rilasciate dallo Stato sono vietati la ricerca e l’estrazione di shale gas e di shale oil e il rilascio dei relativi titoli minerari”;

    • soprattutto, l’art. 301, in materia di danno ambientale, che detta espressamente la disciplina in tema di “Attuazione del principio di precauzione”, attribuendo al comma 4 al Ministro dell’ambiente, in applicazione di tale principio, la facoltà di adottare in qualsiasi momento misure di prevenzione e, da ultimo, l’espresso riferimento al predetto principio nell’Allegato XI alla Parte Seconda del TUA, recante le “Considerazioni da tenere presenti in generale o in un caso particolare nella determinazione delle migliori tecniche disponibili, secondo quanto definito all’art. 5, comma 1, lett. 1-ter), tenuto conto dei costi e dei benefici che possono risultare da un’azione e del principio di precauzione e prevenzione” nonché nell’Allegato 1 “Criteri generali per l’analisi di rischio sanitario ambientale sito-specifica”, al Titolo V della parte Quarta, che, nel definire gli elementi necessari per la redazione dell’analisi di rischio sanitario ambientale sito-specifica da utilizzarsi per la definizione degli obiettivi di bonifica, prevede che “in attuazione del principio generale di precauzione, il punto di conformità deve essere di norma fissato non oltre i confini del sito contaminato oggetto di bonifica e la relativa CSR per ciascun contaminante deve essere fissata equivalente alle CSC di cui all’Allegato 5 della parte quarta del presente decreto”.

    Dopo essere stato riconosciuto a livello comunitario come principio fondamentale in materia ambientale è assurto a chiave interpretativa centrale anzitutto nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’U.E. con una serie di importanti decisioni.

    GIURISPRUDENZA

    La decisione secondo cui la normativa comunitaria in materia ambientale è fondata sui principi di precauzione e di azione preventiva:

    • Corte Giust., 14 aprile 2005, n. 6/2003

    La decisione secondo cui in base a tale principio, nel caso in cui la valutazione scientifica non consenta di stabilire con sufficiente certezza l’esistenza del rischio, la scelta di ricorrere o non ricorrere al principio di precauzione dipende generalmente dal livello di protezione scelto dall’autorità competente nell’esercizio del suo potere discrezionale:

    • Tribunale di I grado CE, causa T-74/00 ed altre, sentenza 26 novembre 2002

    La decisione che si pronuncia sulla Direttiva n. 92/43/CEE del Consiglio, del 21 maggio 1992, c.d. Direttiva Habitat richiamando l’applicazione del principio di precauzione:

    • Corte Giust., sez. III, sentenza 11 aprile 2013, n. 258, Peter Sweetman e altri c. An Bord Pleanala

    La decisione che, pronunciandosi sulla Direttiva n. 2004/35/CE, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, afferma che non osta a una normativa nazionale, la quale consenta all’autorità competente di subordinare l’esercizio del diritto degli operatori all’utilizzo dei loro terreni alla condizione che essi realizzino i lavori imposti, e ciò persino quando detti terreni non siano interessati da tali misure perché sono già stati oggetto di precedenti misure di bonifica o non sono mai stati inquinati, puntualizzando, però, che una misura siffatta dev’essere giustificata dallo scopo di impedire il peggioramento della situazione ambientale oppure, in applicazione del principio di precauzione, dallo scopo di prevenire il verificarsi o il ripetersi di altri danni ambientali nei terreni degli operatori, limitrofi all’intero litorale oggetto di dette misure di riparazione:

    • Corte giust, 9 marzo 2010, n. 379

    La decisione secondo cui l’applicazione del principio di precauzione nell’ambito dell’art. 6, par. 3 della Direttiva Habitat (Direttiva n. 92/43/CEE) esige che l’autorità nazionale competente valuti le incidenze del progetto sul sito Natura 2000 considerato alla luce degli obiettivi di conservazione di tale sito e tenendo conto di misure di tutela integrate in detto progetto tendenti ad evitare o a ridurre gli eventuali effetti pregiudizievoli direttamente causati in esso al fine di assicurarsi che esso non pregiudichi l’integrità di detto sito:

    • Corte Giust., sez. II, 15 maggio 2014, n. 521, Minister van Infrastructuur en Milieu, in Foro Amm., Il, 2014, 5, 1364

    La Corte di Giustizia ha ribadito che i principi dell’U.E. in materia ambientale sanciti dall’art. 191, par. 2, del Trattato sul funzionamento dell’U.E. e dalla Direttiva 2004/35/CEE del 21 aprile 2004 (artt. 1 e 8, n. 3; tredicesimo e ventiquattresimo considerando) in particolare, il principio “chi inquina paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente non ostano alla normativa italiana (artt. 244, 245, 253, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152) che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consente all’autorità amministrativa di imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, ma prevede, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica; ultima in ordine di tempo, l’importante sentenza resa nella nota vicenda della Xylella fastidiosa (batterio patogeno che colpisce numerose piante provocandone la morte per disseccamento, e la cui presenza purtroppo è stata riscontrata in Europa per la prima volta nel 2013, proprio sul territorio italiano, e per la precisione nella Regione Puglia, ove ha aggredito intere piantagioni di olivo) che ha ribadito come il principio di precauzione, in particolare, viene a giustificare l’adozione di misure di protezione fitosanitaria, come la rimozione di tutte le piante potenzialmente infette, anche se nel caso di specie il parere scientifico espresso dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) del 6 gennaio 2015 non aveva pienamente dimostrato l’esistenza di un sicuro nesso causale tra la presenza del batterio e il disseccamento degli ulivi:

    • Corte Giust., sez. III, 4 marzo 2015, n. 534/13, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e altri c. Fipa Group s.r.l. e altri

    Secondo la Corte di Giustizia n. 78/2016, tuttavia, la presenza di una significativa correlazione tra il batterio e la patologia di cui soffrono le piante infette è sufficiente a giustificare, alla luce del principio di precauzione, la decisione adottata dalla Commissione:

    • Corte Giust., sez. I, 9 giugno 2016, n. 78

    Sul punto si richiamano tra le tante:

    • CGUE, 17 dicembre 2015, Neptune Distribution, causa C-157/14, punti 81 e 82;

    • CGUE, 17 ottobre 2013, Shaible, causa C-101/12, punto 29).

    Rilevante nella esegesi giurisprudenziale della normativa interna, la recente decisione che, nel rispondere ad una questione pregiudiziale sollevata dalla Corte di cassazione in tema di disciplina di rifiuti pericolosi contraddistinti dai c.d. codici a specchio, ha precisato che il principio di precauzione deve essere interpretato nel senso che, qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di un rifiuto che può essere classificato sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere classificato come rifiuto pericoloso:

    • Corte Giust., sez. X, sentenza 28 marzo 2019, n. 487, in causa C-487/17, causa C-488/17 e C-489/17

    Tra le ultime decisioni in materia, che richiamano l’importanza di tale principio, si segnalano:

    • CGUE, Sez. I, 9 settembre 2020, n. 254/19, F.I. Ltd c. A.B. e altri (secondo cui l’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva habitat distingue due fasi della procedura di valutazione da esso prevista; la prima, cui si fa riferimento nella prima frase di tale disposizione, richiede che gli Stati membri effettuino un’opportuna valutazione dell’incidenza di un piano o di un progetto su un sito protetto quando è probabile che tale piano o progetto pregiudichi in maniera significativa detto sito. Tenuto conto, in particolare, del principio di precauzione, si ritiene che un siffatto rischio sussista laddove non si può escludere, sulla base delle migliori conoscenze scientifiche in materia, che il piano o il progetto possa pregiudicare gli obiettivi di conservazione di tale sito. La valutazione del rischio va effettuata, in particolare, alla luce delle caratteristiche e delle condizioni ambientali specifiche del sito interessato da tale piano o progetto)

    • CGUE, Sez. II, 14 ottobre 2020, n. 629/19, Sappi Austria Produktions-GmbH & Co. KG c. Landeshauptmann von Steiermark (secondo cui la qualifica di “rifiuto” deriva anzitutto dal comportamento del detentore e dal significato del termine “disfarsi”. Per quanto riguarda l’espressione “disfarsi”, da una giurisprudenza costante della Corte risulta altresì che tale espressione va interpretata alla luce dell’obiettivo della direttiva 2008/98 che, ai sensi del suo considerando 6, consiste nel ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei rifiuti per la salute umana e l’ambiente, nonché dell’articolo 191, paragrafo 2, TFUE, a tenore del quale la politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata, in particolare, sui principi della precauzione e dell’azione preventiva. Ne consegue che il termine “disfarsi” e dunque la nozione di “rifiuto”, ai sensi dell’articolo 3, punto 1, della direttiva 2008/98, non possono essere interpretati in modo restrittivo. Dalle disposizioni di detta direttiva risulta inoltre che il termine “disfarsi” comprende, al contempo, il “recupero” e lo “smaltimento” di una sostanza o di un oggetto ai sensi dell’articolo 3, punti 15 e 19, di tale direttiva)

    • CGUE, Sez. IV, 19 novembre 2020, n. 663/18, B.S. e altri (secondo cui un’applicazione corretta del principio di precauzione presuppone, in primo luogo, l’individuazione delle conseguenze potenzialmente negative per la salute derivanti dall’impiego del prodotto che viene proposto e, in secondo luogo, una valutazione complessiva del rischio per la salute basata sui dati scientifici disponibili più affidabili e sui risultati più recenti della ricerca internazionale. Qualora risulti impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata del rischio asserito a causa della natura insufficiente, non concludente o imprecisa dei risultati degli studi condotti, ma persista la probabilità di un danno reale per la salute nell’ipotesi in cui il rischio si realizzasse, il principio di precauzione giustifica l’adozione di misure restrittive, purché esse siano non discriminatorie e oggettive)

    • CGUE, Sez. I, 6 maggio 2021, n. 499/18, Bayer CropScience AG e altri c. Association générale des producteurs de maïs et autres céréales cultivées de la sous-famille des panicoïdé e altri (secondo cui il principio di precauzione implica che, quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi, in particolare per l’ambiente, possono essere adottate misure protettive senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità di detti rischi. Qualora risulti impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata del rischio asserito a causa della natura non concludente dei risultati degli studi condotti, ma persista la probabilità di un danno reale per l’ambiente nell’ipotesi in cui il rischio si realizzasse, il principio di precauzione giustifica l’adozione di misure restrittive. Inoltre, il principio di precauzione non richiede che le misure adottate, ai sensi dell’art. 21, par. 3, Regolamento n. 1107/2009, siano differite per il solo motivo che sono in corso studi tali da rimettere in discussione i dati scientifici e tecnici disponibili)

    • CGUE, Sez. I, 14 ottobre 2021, n. 29/20, Biofa AG c. Sikma D. Vertriebs GmbH und Co. KG (che ha osservato che, come emerge dall’art. 1, par. 1, Regolamento n. 528/2012, letto alla luce del suo terzo considerando, esso ha lo scopo di migliorare il funzionamento del mercato interno attraverso l’armonizzazione delle norme relative alla messa a disposizione sul mercato e all’uso dei biocidi, garantendo al contempo un elevato livello di tutela della salute umana e animale e dell’ambiente, laddove le sue disposizioni si fondano sul principio di precauzione, nell’ottica di tutelare la salute umana, la salute animale e l’ambiente. A questo proposito, è la presenza stessa di un principio attivo in quanto tale in un prodotto che può comportare un rischio per l’ambiente);

    • Corte giustizia Unione Europea Sez. I, 24 febbraio 2022, n. 452/20, PJ c. Agenzia delle dogane e dei monopoli - Ufficio dei monopoli per la Toscana e altri (secondo cui il principio di precauzione implica che, quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi, possono essere adottate misure protettive senza dover attendere che siano pienamente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi);

    • Corte giustizia Unione Europea Sez. IV, 16 giugno 2022, n. 65/21, SGL Carbon SE e altri c. Commissione europea e altri (secondo cui sebbene l’articolo 191, paragrafo 2, TFUE preveda segnatamente che sia la politica in materia ambientale a fondarsi sul principio di precauzione, tale principio è applicabile anche nel contesto di altre politiche dell’Unione, in particolare nella politica di protezione della salute pubblica nonché quando le istituzioni dell’Unione adottano, nell’ambito della politica agricola comune o della politica del mercato interno, misure di protezione per la salute umana);

    • Corte giustizia Unione Europea Sez. II, 10 novembre 2022, n. 278/21, D.A. c. M.F. e altri (secondo cui qualsiasi piano o progetto non direttamente connesso o necessario alla gestione di un sito, ma che possa avere incidenze significative su tale sito deve formare oggetto di un’opportuna valutazione dell’incidenza che ha su detto sito, requisito che implica l’identificazione, la valutazione e la presa in considerazione di tutte le incidenze di tale piano o progetto su quest’ultimo. Tale piano o progetto deve essere sottoposto a una tale valutazione qualora esista una probabilità o un rischio che esso possa avere incidenze significative sul sito interessato, condizione che, tenuto conto del principio di precauzione, deve essere considerata soddisfatta qualora l’esistenza di una probabilità o di un rischio di effetti pregiudizievoli significativi su tale sito non possa essere esclusa sulla base delle migliori conoscenze scientifiche in materia, tenuto conto, in particolare, delle caratteristiche e delle condizioni ambientali specifiche di detto sito. Nel caso in cui il piano o il progetto di cui trattasi debba essere sottoposto ad una siffatta valutazione, questa può essere considerata opportuna solo se le constatazioni, le valutazioni e le conclusioni in essa contenute siano, da un lato, complete, precise e definitive e, dall’altro, se esse siano tali da dissipare qualsiasi ragionevole dubbio scientifico in merito agli effetti di tale piano o progetto sul sito interessato);

    • Corte giustizia Unione Europea, Sez. II, 9 marzo 2023, n. 375/21, Sdruzhenie «Za Zemyata - dostap do pravosadie» e altri c. Izpalnitelen director na Izpalnitelna agentsia po okolna sreda e altri (secondo cui in forza del principio di precauzione, se sussistono incertezze quanto al fatto che tali valori limite di emissione meno rigorosi comportino o meno «eventi inquinanti di rilievo», ai sensi dell’art. 15, par. 4, comma 4, della direttiva 2010/75, non può essere concessa una deroga);

    • Corte giustizia Unione Europea, Sez. II, 15 giugno 2023, n. 721/21, E.A.C. c. A.B.P. e altri (secondo cui l’esigenza di un’opportuna valutazione dell’incidenza di un piano o di un progetto prevista all’art. 6, par. 3, della direttiva 92/43 è subordinata alla condizione che sussista una probabilità o un rischio che esso pregiudichi significativamente il sito interessato. Tenuto conto, in particolare, del principio di precauzione, si ritiene che un siffatto rischio sussista in quanto non si può escludere, sulla base delle migliori conoscenze scientifiche in materia, che il piano o il progetto in questione possa pregiudicare gli obiettivi di conservazione di tale sito. La valutazione del rischio va effettuata, in particolare, alla luce delle caratteristiche e delle condizioni ambientali specifiche del sito interessato da tale piano o progetto).

    GIURISPRUDENZA PENALE

    Analogamente è avvenuto nella giurisprudenza penale di legittimità della Corte di cassazione italiana che, in tema di rifiuti, ebbe ad affermare come il deposito temporaneo, inteso quale raggruppamento di rifiuti effettuato prima della raccolta nel luogo in cui sono prodotti, e nel rispetto delle condizioni fissate dall’art. 183, lett. m) del D.Lgs. n. 152/2006, esula dall’attività di gestione dei rifiuti, costituendo una operazione preliminare o preparatoria alla gestione, ma è comunque soggetto al rispetto dei principi di precauzione e di azione preventiva, con il conseguente divieto di miscelazione ed obbligo di tenuta dei registri di carico e scarico; interessante anche l’affermazione recente secondo cui in materia di protezione ambientale il principio di precauzione costituisca una delle declinazioni del principio costituzionale di buon andamento della Pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost., comma 2 e sicuramente esso rappresenta uno dei parametri di valutazione dell’operato dei pubblici poteri, con intuibili ricadute in tema di responsabilità penale, come in materia di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) ove ad es. non dovessero essere rispettate le condizioni che giustificano l’adozione delle misure derivanti dalla sua applicazione:

    • Cass., sez. III, 30 novembre 2006, n. 39544, T. e altro, in CED Cass. 235704

    Più di recente, si è affermato che in tema di rifiuti, la definizione dell’art. 183, comma 1, lett. a), D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, a termini della quale costituisce rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione ovvero l’obbligo di disfarsi, esige - in conformità alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale impone di interpretare l’azione di disfarsi alla luce della finalità della normativa europea, volta ad assicurare un elevato livello di tutela della salute umana e dell’ambiente secondo i principi di precauzione e prevenzione - che la qualificazione alla stregua di rifiuti dei materiali di cui l’agente si disfa consegua a dati obiettivi connaturanti la condotta tipica, anche in rapporto a specifici obblighi di eliminazione, con conseguente esclusione della rilevanza di valutazioni soggettivamente incentrate sulla mancanza di utilità, per il medesimo, dei predetti materiali:

    • Cass., sez. VI, 25 gennaio 2017, n. 3799, in CED Cass. 269527

    Nella fattispecie, relativa all’abbandono in un’area agricola di rifiuti speciali, tra cui materiali di risulta di attività edile, sfabbricidi, pneumatici, fusti, tubi e rocce da scavo, la Corte ha ritenuto che correttamente i giudici di merito ne avessero escluso la destinazione all’utilizzo, come sostenuto dall’imputato, trattandosi di materiali accatastati alla rinfusa e parzialmente ricoperti da vegetazione spontanea:

    • Cass., sez. III, 21 aprile 2017, n. 19206, in CED Cass. 269912

    Infine, si segnala che la giurisprudenza penale successiva alla già richiamata sentenza della CGUE sulla disciplina dei “codici a specchio” (v. supra Corte Giust. UE, sez. X, sentenza 28 marzo 2019, n. 487), ha affermato il principio per cui in tema di gestione di rifiuti, L’Allegato III della Direttiva n. 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, come modificata dal Regolamento UE n. 1357/2014 della Commissione, del 18 dicembre 2014, nonché l’allegato della Decisione 2000/532/CE della Commissione, del 3 maggio 2000, come interpretati dalla Corte di Giustizia dell’U.E. nella sentenza del 29 marzo 2019 (cause riunite da C-487/2017 a C-489/2017), stabiliscono:

    1) che il detentore di un rifiuto classificabile sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi, codice c.d. “a specchio”, la cui composizione non sia immediatamente nota, è tenuto a svolgere le analisi volte a determinare la composizione del rifiuto e ad accertare le sostanze pericolose che possano in esso ragionevolmente trovarvisi, onde stabilire se tale rifiuto presenti caratteristiche di pericolo, utilizzando a tal fine campionamenti, analisi chimiche e prove previsti dal Regolamento CE n. 440/2008 della Commissione, del 30 maggio 2008, o qualsiasi altro campionamento, analisi chimica e prova riconosciuti a livello internazionale;

    2) che se dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa, tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che il rifiuto presenta, per il principio di precauzione, deve qualificare il rifiuto come pericoloso:

    • Cass., sez. III, 21 novembre 2019, n. 47288, in Ambiente e sviluppo, 2020, 1, 17 ss., con nota di Giampietro F., Codici a specchio: la Cassazione interpreta la sentenza della Corte di Giustizia Ue (nota a Cass. pen. n. 47288/2019).

    GIURISPRUDENZA CIVILE

    Vedi ad esempio la Cassazione che, in tema di immissioni di onde elettromagnetiche, ritenne che, in mancanza di un principio codificato di precauzione che consenta una tutela avanzata a fronte di eventi di potenziale ma non provata pericolosità, deve escludersi in questi casi il diritto al risarcimento di un danno del tutto ipotetico:

    • Cass., sez. II, 23 gennaio 2007, n. 1391, in Foro it. 2007, I, comma 2124, con nota di F. Mattassoglio, “Tutela della salute e inquinamento elettromagnetico: quale valore per i limiti legali?”

    Ancora, da ultimo, la Cassazione, pronunciandosi in tema di immissione di onde elettromagnetiche, ha ribadito che il principio di precauzione - sancito dall’ordinamento comunitario come cardine della politica ambientale - è assicurato dallo stesso legislatore statale attraverso la disciplina contenuta nella Legge 22 febbraio 2001, n. 36, e nel D.P.C.M. 8 luglio 2003, che ha fissato i parametri relativi ai limiti di esposizione, ai valori di attenzione e agli obiettivi di qualità, i quali non sono modificabili, neppure in senso restrittivo, dalla normativa delle singole Regioni (Corte cost. n. 307/2003), ed il cui mancato superamento osta alla possibilità di avvalersi della tutela giudiziaria preventiva del diritto alla salute, che è ipotizzabile solo in caso di accertata sussistenza del pericolo della sua compromissione, da ritenersi presuntivamente esclusa quando siano stati rispettati i limiti posti dalla disciplina di settore:

    • Cass., sez. II, 28 luglio 2015, n. 15853, in CED Cass. 636376

    • Cass., sez. II, 14 febbraio 2017, n. 3897

    • Cass., sez. III, ord. 10 giugno 2020, n. 11105, in CED Cass. 658079

    • Cass., sez. II, ord. 11 marzo 2021, n. 6897, in CED Cass. 660786

    Da ultimo, di rilievo, in quanto espressi dalle Sezioni Unite, sono alcuni principi in tema di operatività del principio di precauzione.

    • Anzitutto, rileva l’affermazione secondo cui il principio di precauzione sancito dall’ordinamento eurounitario in materia ambientale - del quale costituisce applicazione l’art. 12-bis, R.D. n. 1775/1933, come sostituito dall’art. 96, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006 -, in quanto sovraordinato al diritto interno, comporta l’obbligo generale per gli Stati membri di astenersi dall’adottare misure che possano compromettere il risultato prescritto da una Direttiva (In applicazione di tale principio la S.C., decidendo nel merito, ha annullato una concessione di derivazione idroelettrica rilasciata dalla Regione in base alla classificazione dello stato ecologico del bacino che, sebbene formalmente in vigore, era stata effettuata secondo metodiche difformi da quelle prescritte dalla Direttiva Quadro Acque 2000/60/CE e recepite con D.M. 8 novembre 2010, n. 260, pur essendo la stessa Regione a conoscenza che la nuova classificazione, eseguita secondo i criteri comunitari, ancorché non ancora definitivamente approvata, comportava il passaggio dello stato ecologico del corso d’acqua da “buono” a “elevato”):

    • Cass., SS.UU., 27 dicembre 2018, n. 33538, in CED Cass. 652095

    In secondo luogo, poi, è stato affermato che in tema di autorizzazione alla realizzazione di un impianto idroelettrico, il “deflusso minimo vitale” (DMV), di cui all’art. 7, D.M. 28 luglio 2004, contenente le linee-guida del Ministero dell’Ambiente in forza del D.Lgs. n. 152/1999 ed in attuazione della Direttiva 2000/60/CE, costituisce un parametro complesso e variabile in relazione a ciascun corso d’acqua a seconda dei suoi diversi tratti, funzionalizzato anzitutto alla tutela della qualità del corpo idrico, oltre che strumento fondamentale per la disciplina delle concessioni di derivazione e di scarico delle acque, sicché dette linee-guida - vincolanti per le Autorità di bacino in quanto, pur contenute in una fonte secondaria atipica, hanno carattere regolamentare - non esauriscono la discrezionalità in fase esecutiva delle P.A. ai fini della determinazione del DMV, potendo essere fissati criteri più rigorosi ove resi necessari dall’esigenza di più elevata tutela della qualità del corpo idrico, siccome imposti dal generale “principio di precauzione” (art. 191 TFUE) e dalla correlativa disciplina sovranazionale e nazionale. (Nella specie, il TSAP aveva illegittimamente sindacato la scelta tecnico-discrezionale dell’Autorità di bacino ritenendo estraneo alla disciplina del DMV il criterio aggiuntivo c.d. “2L” - più restrittivo nel delimitare il tratto di alveo da mantenere esente da derivazioni a monte e a valle dell’impianto da realizzare -, giustificato invece dal notevole incremento dello sfruttamento del bacino dovuto al numero elevato di impianti già in essere):

    • Cass., SS.UU., 10 aprile 2019, n. 10018 in CED Cass. 653786

    • Cass., SS.UU., ord. 21 ottobre 2021, n. 29299, in CED Cass. 662648

    In analogo contesto, sempre le Sezioni Unite hanno affermato che il principio eurounitario di non deterioramento dello stato dei corpi idrici superficiali (previsto dall’art. 4, par. 1, lett. i, della Direttiva 2000/60/CE e recepito dall’art. 76, comma 4, del d.lgs. n. 152/2006, nonché dall’art. 12-bis del r.d. n. 1775/1933) costituisce applicazione del più generale principio di precauzione di cui all’art. 191 TFUE e può essere derogato - ai sensi dell’art. 4, par. 7, della menzionata Direttiva e sempre che ricorrano le condizioni di cui all’art. 10-bis, lett. b, del d.lgs. n. 152/2006 - allorquando l’impossibilità di impedire il deterioramento dei suddetti corpi idrici, da uno stato elevato ad uno buono, discenda dall’esecuzione di attività sostenibili di sviluppo umano (nel caso di specie, quella volta allo sfruttamento delle fonti di energia rinnovabile), ferma restando la necessità di operare un bilanciamento in concreto dei valori protetti dalle fonti sovranazionali suscettibili, di volta in volta, di venire in gioco (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza del TSAP di rigetto del ricorso avverso il decreto con il quale la Regione Veneto aveva negato la compatibilità ambientale del progetto volto alla derivazione delle acque di un torrente sito all’interno del Parco Regionale delle Dolomiti ampezzane, al fine della costruzione ed esercizio di un impianto idroelettrico, sul presupposto che l’interesse al non deterioramento di un corso d’acqua particolarmente fragile, quale quello in questione, dovesse ritenersi prevalente, all’esito del bilanciamento, su quello - parimenti tutelato a livello comunitario e internazionale - alla produzione di energia cd. “pulita”):

    • Cass., SS.UU., ord. n. 35943 del 27 dicembre 2023

    Ancora, in tema di autorizzazione alla realizzazione di un impianto idroelettrico, si è precisato che le linee guida previste dal d.m. 28 luglio 2004 - in forza dell’art. 22, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 1999 - per la predisposizione del bilancio idrico di esercizio, comprensive dei criteri della definizione del deflusso minimo vitale, nonché le determinazioni delle competenti autorità di bacino che le integrano, devono essere applicate anche alle situazioni pregresse ma non ancora definite, in ossequio al principio eurounitario c.d. di precauzione ed in osservanza dell’obbligo, per gli Stati membri, di attuare le misure necessarie per impedire il deterioramento dello stato di tutti i corpi idrici superficiali, stabilito dall’art. 4, comma 1, lett. i), della direttiva 2000/60/CE, recepito dall’art. 76, comma 4, lett. b), del d.lgs. n. 152 del 2006 (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto che ai fini della interpretazione del criterio del c.d. 2L - delimitativo del tratto di alveo da mantenere esente da derivazioni a monte e a valle dell’impianto da realizzare -, previsto con delibera dell’autorità di bacino come requisito complementare al deflusso minimo vitale, occorra tener conto anche delle confluenze nel medesimo corso d’acqua, nonostante eventuali pareri diversi resi in epoca anteriore all’emanazione delle norme secondarie esplicite in tal senso).

    • Cass., SS.UU., 4 febbraio 2020, n. 2502, in CED Cass. 656948

    Infine, si è affermato che il Piano stralcio per l’assetto idrogeologico dei bacini idrografici dei fiumi Isonzo, Tagliamento, Piave e Brenta-Bacchiglione, approvato con d.P.C.M. del 20 novembre 2013 e pubblicato il 28 aprile 2014, ha adottato un criterio di classificazione per aree fluviali, innalzando le soglie di pericolosità non oltrepassabile, senza violare il potere pianificatorio attribuito dal d.P.C.M. del 29 settembre 1998, in quanto fondato sul principio eurounitario di precauzione ritenuto idoneo, all’esito dell’adozione di una valutazione non censurabile perché esclusivamente tecnico-discrezionale, a dare risposte univoche, in termini di sicurezza, in relazione “ai livelli di probabilità delle situazioni di pericolo” e seguendo gli standards tecnico-scientifici di sicurezza più affidabili nell’attualità:

    • Cass., SS.UU., 30 aprile 2020, n. 8436, in CED Cass. 657605.

    APPROFONDIMENTI

    • Nota a Cass., sez. II, 23 gennaio 2007, n. 1391, in Foro it. 2007, I, comma 2124, di F. Mattassoglio “Tutela della salute e inquinamento elettromagnetico: quale valore per i limiti legali?”

    GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA

    Si registrano poi posizioni alterne nella giurisprudenza amministrativa.

    Sul tema - pur chiarendo come il c.d. “principio di precauzione”, di paternità comunitaria, fa obbligo alle Autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire i rischi potenziali per la sanità pubblica, la sicurezza e l’ambiente, ponendo una tutela anticipata rispetto alla fase dell’applicazione delle migliori tecniche proprie del principio di prevenzione; la sua applicazione comporta che ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri deve tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano poco conosciuti o solo potenziali:

    • CDS, sez. IV, 6 maggio 2013, n. 2425, P.P. s.p.a., Com. Torino c. G.I. s.r.l., Min. beni culturali, B.C. e altro, C.I., in Red. amm. CdS, 2013, 5

    • CDS, sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655, in Foro Amministrativo (Il), 2019, 10, 1607

    La giurisprudenza amministrativa ha precisato che se è ben vero che alla stregua del principio di precauzione, che trova origine nei procedimenti comunitari posti a tutela dell’ambiente, è consentito all’amministrazione procedente di adottare i provvedimenti necessari laddove paventi il rischio di una lesione ad un interesse tutelato anche in mancanza di un rischio concreto, è evidente, però, che questo principio deve armonizzarsi, sul versante della concreta applicazione, con quello di proporzionalità, non potendo chiaramente prefigurarsi la prevalenza del primo sul secondo, ma un loro equilibrato bilanciamento in relazione agli interessi pubblici e privati in gioco:

    • TAR Friuli V.G., sez. I, 28 gennaio 2008, n. 90

    Importante, inoltre, anche l’aver affermato che detto principio generale integra un criterio orientativo generale e di larga massima, che deve caratterizzare non soltanto le attività normative, ma prima ancora quelle amministrative, come prevede espressamente l’art. 1, Legge n. 241/1990, ove si stabilisce che “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta (...) dai principi dell’ordinamento comunitario” dovendosi, conseguentemente, riconoscersi all’Amministrazione il potere di adottare ogni provvedimento ritenuto idoneo a prevenire rischi anche solo potenziali alla salute:

    • TAR Parma, Emilia-Romagna, sez. I, 10 febbraio 2015, n. 41, T. S.p.A. ed altro c. Com. Parma ed altro, in Red. Foro amm. 2015, 2

    Importante anche l’affermazione secondo cui la messa in sicurezza del sito costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra, pertanto, nel genus delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al principio dell’azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto l’accertamento del dolo o della colpa:

    • CDS, sez. V, 8 marzo 2017, n. 1089, in www.iusexplorer.it

    Lo stesso massimo organo di Giustizia Amministrativa ha, però, aggiunto che dal principio comunitario di precauzione, previsto dall’art. 191, par. 2, Trattato UE, che fa obbligo alle Autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire i rischi potenziali per la sanità pubblica, la sicurezza e l’ambiente, facendo prevalere la protezione di tali valori sugli interessi economici, indipendentemente dall’accertamento di un effettivo nesso causale tra il fatto dannoso o potenzialmente tale e gli effetti pregiudizievoli che ne derivano, discende che quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, possono essere adottate misure protettive senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi. Tale principio, peraltro, impone che tutte le decisioni assunte dall’Autorità competente debbano essere assistite da un apparato motivazionale particolarmente rigoroso, che tenga conto di un’attività istruttoria parimenti ineccepibile e che deve trovare il proprio equilibrio nel contemperamento con quello di proporzionalità, nella ricerca di un equilibrato bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco e deve essere coordinato con quelli di libera concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi fissati dal Trattato UE, che attribuisce inoltre alla stessa Unione precipui compiti di tutela ambientale e sanitaria della popolazione sull’intero territorio comunitario:

    • CDS, sez. V, 16 aprile 2013, n. 2094, Com. Loria c. Reg. Veneto, F.I. s.r.l. e altro, in Red. amm. CdS, 2013, 4

    • conf. CDS, sez. V, 13 maggio 2014, n. 2452, in www.giustizia-amministrativa.it)

    La stessa giurisprudenza amministrativa ha, peraltro, escluso l’applicazione analogica di tale principio, osservando che tale il principio in esame, finalizzato a prevenire i danni, anche solo potenziali, di attività ritenute lesive per l’ambiente, in mancanza di conoscenze scientifiche certe, deve indirizzare l’azione dei pubblici poteri volta a prevenire eventuali danni: non risulta tuttavia, ammissibile un richiamo generale al principio in questione quando l’attività posta in essere è stata oggetto di puntuale definizione legislativa, donde il divieto di applicazione analogica del principio di precauzione:

    • TAR Piemonte, sez. I, 3 maggio 2010, n. 2294, Soc. O.d.O. c. Prov. Cuneo e altro, in www.dejure.giuffre.it

    Con altra importante decisione, poi, è stato specificato che il principio di precauzione (ribadito anche ex art. 3-ter D.Lgs. n. 152/2006) - che, in tema ambientale, trova immediata applicabilità ogniqualvolta sussistano incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, non occorrendo attendere che siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi - è pacificamente applicabile alla materia del trattamento e dello smaltimento dei rifiuti, dovendo, peraltro, essere armonizzato, nella sua concreta attuazione, con quello di proporzionalità, nella ricerca di un equilibrato bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco: ne discende che tutte le decisioni adottate dalle autorità competenti in materia debbono essere assistite da un apparato motivazionale particolarmente rigoroso, che tenga conto di una attività istruttoria parimenti ineccepibile:

    • TAR Liguria, sez. II, 15 ottobre 2010, n. 9501, B.G. e altro c. Prov. Savona e altro, in Foro amm. TAR, 2010, 10, 3144

    Ancora, sempre nella giurisprudenza amministrativa, si è affermato che per la corretta applicazione del principio di precauzione di cui all’art. 3-ter, D.Lgs. n. 152/2006 occorre che le misure di prevenzione siano adottate in conformità alla migliore tecnica disponibile, che venga esattamente definito il livello di “esposizione”, ossia della misura della tollerabilità dell’inquinamento e del canone di intervento dei pubblici poteri. In altri termini, il principio di precauzione non può essere invocato per fini meramente protezionistici perché, invece, implica la necessità di un’accurata calcolata gestione del rischio in tutti quei casi in cui i dati scientifici disponibili non ne consentono una preventiva completa valutazione. Nello stesso senso, si è ribadito che in forza del c.d. principio di precauzione, in mancanza di certezze in merito all’assenza di rilevanti impatti negativi producibili da un determinato progetto su valori di primaria importanza per la collettività, deve evitarsi in via precauzionale la realizzazione di attività che quegli impatti possano produrre:

    • CDS, sez. V, 21 aprile 2016, n. 1583, s.r.l. Serralonga Energia e altri c. Regione Campania e altri

    Sul piano strettamente giuridico, ciò comporta, in pratica, la necessità di considerare non solo i vantaggi, ma anche gli svantaggi dell’adozione di determinate misure di cautela e di studiare ed applicare misure di cautela proporzionate al rischio:

    • TAR Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 15 dicembre 2011, n. 560, Com. Maniago c. Reg. Friuli-Venezia Giulia, Com. Fanna e altro, in Foro amm. TAR 2011, 12, 3882

    Si segnala, peraltro, che è stata rimessa alla Corte di Giustizia dell’U.E. la questione pregiudiziale relativa a se i principi dell’U.E. in materia ambientale sanciti dall’art. 191, par. 2, del trattato sul funzionamento dell’U.E. e dalla Direttiva 2004/35/CE del 21 aprile 2004 (artt. 1 e 8, n. 3; tredicesimo e ventiquattresimo considerando) - in particolare, il principio “chi inquina paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente - ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli artt. 244, 245, 253, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa di imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica:

    • CDS, ad. plen., 13 novembre 2013, n. 25, Min. ambiente c. Soc. E., in Foro amm. CdS, 2013, 11, 2946

    • CDS, ad. plen., 25 settembre 2013, n. 21, Min. ambiente e altro c. Soc. F.G. e altro, in Foro amm. CdS, 2013, 9, 2296 e Riv. giur. Edilizia, 2013, 5, I, 836

    La Corte di Giustizia UE, nel decidere la questione pregiudiziale, ha affermato che “La Direttiva n. 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi”:

    • Corte Giust., sez. III, 4 marzo 2015, n. 534, in D&G, 2015, 6 marzo

    Tra le ultime decisioni della giurisprudenza amministrativa in materia, si segnalano le seguenti decisioni, alcune delle quali significative soprattutto per la loro rilevanza in quanto intervenute nel corso dell’attuale periodo di emergenza pandemica da virus Covid19:

    • Cons. Stato, Sez. II, 6 aprile 2020, n. 2248, M.T. S.p.A. c. Regione Lazio e altri (che ha statuito come il principio generale di precauzione integra un criterio orientativo generale e di larga massima, che deve caratterizzare non soltanto le attività normative, ma prima ancora quelle amministrative, come prevede espressamente l’art. 1, Legge n. 241/1990, ove si stabilisce che “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta dai principi dell’ordinamento comunitario”)

    • Cons. Stato, Sez. IV, 15 settembre 2020, n. 5447, Società B. s.r.l. e altri c. Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e altri (che ha chiarito come la messa in sicurezza di un sito inquinato non ha di per sé natura sanzionatoria, ma costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra, pertanto, nel genus delle precauzioni, in una col principio di precauzione vero e proprio e col principio dell’azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente, e, non avendo finalità ripristinatoria, non presuppone l’accertamento del dolo o della colpa in capo al proprietario; conf., Cons. Stato, Sez. IV, 7 settembre 2020, n. 5372, Società C. S.p.A. c. Presidenza del Consiglio dei Ministri e altri)

    • Cons. Stato, Sez. IV, 20 ottobre 2020, n. 6349, A.B. S.r.l. e altri c. Regione Campania e altri (secondo cui le disposizioni del D.Lgs. n. 152/2006 hanno consentito allo Stato di ottenere il risarcimento del danno ambientale da parte del responsabile, ma non consentono di ritenere che lo Stato medesimo - o altre pubbliche amministrazioni - di per sé rispondano del danno cagionato ad un singolo proprietario da un illecito cagionato da un terzo: se un soggetto cagiona un danno ad un proprietario, rendendo “inservibile” il fondo con una condotta che ne comporta il suo inquinamento, il proprietario danneggiato può agire solo nei confronti dell’autore della condotta illecita, mentre lo Stato è titolare della pretesa risarcitoria per la lesione arrecata all’ambiente e può agire nei confronti del medesimo autore della condotta illecita, nonché nei confronti del proprietario del fondo inquinato, qualora sussistano i relativi presupposti. Per l’annullamento degli atti e dei provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 152/2006, nonché avverso il silenzio inadempimento del Ministro dell’ambiente e per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell’attivazione, da parte del medesimo Ministro, delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale, ma si tratta pur sempre di azioni volta a stimolare iniziative concrete a tutela dell’interesse generale ambientale che risulta essere stato leso e non di azioni risarcitorie a tutela di singoli beni privati)

    • Cons. Stato, Sez. III, ord., 27 novembre 2020, n. 6832, Ca.Em. e altri c. Ministero dell’Istruzione e altri (che ha ritenuto che non dovesse essere sospesa la pianificazione delle attività scolastiche, educative e formative in tutte le istituzioni del sistema nazionale di istruzione per l’anno scolastico 2020/2021, prevista dai decreti ministeriali 26 giugno 2020, n. 39, 3 agosto 2020, n. 80 e 6 agosto 2020, n. 87, nelle parti in cui hanno previsto (tra l’altro): il possibile e consistente ricorso alla didattica a distanza; la disciplina delle modalità di accesso e uscita da scuola, uscite a orari scaglionati; l’obbligo di rimanere a casa in presenza di temperatura oltre i 37,5°; il divieto di accedere o permanere nei locali scolastici ove si manifestino, anche dopo l’ingresso, condizioni di pericolo (sintomi simil-influenzali, temperatura oltre 37.5°, provenienza da zone a rischio o contatto con persone positive al virus nei 14 giorni precedenti, etc.); l’obbligo di mascherina per gli studenti che si muovano all’interno dei locali scolastici. Non è condivisibile, infatti, l’assunto della mancanza di presupposti epidemiologici di una gravità e diffusività tale da poter creare allarme nella popolazione scolastica. La fase di attuale recrudescenza della diffusione epidemiologica depone oggettivamente in senso opposto e verosimilmente il contenimento del contagio entro una certa soglia è causalmente da ricollegare proprio alle misure di prevenzione adottate, comprese quelle applicate in ambito scolastico. Inoltre, non è ravvisabile la violazione dei precetti costituzionali in materia di libertà personale e di diritto all’istruzione, stante la doverosa applicazione del principio di precauzione, nonché di prevalenza del diritto alla salute, ove gli interventi di prevenzione siano scientificamente supportati e limitati allo stretto indispensabili per il raggiungimento dell’obiettivo),

    Cessata l’emergenza epidemiologica, la giurisprudenza amministrativa è tornata a misurarsi con le consuete questioni in tema di applicazione del principio di precauzione:

    • Cons. Stato, Sez. IV, 26 febbraio 2021, n. 1658, Società S.C. S.p.A. c. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e altri (secondo cui l’impossibilità di imporre le misure di bonifica al proprietario non responsabile della contaminazione si giustifica, in sintesi estrema, per la natura sanzionatoria di questa misura. Diverso discorso si deve fare invece per le misure di messa in sicurezza di emergenza, le quali, così come le misure di prevenzione, non hanno questa natura, ma costituiscono prevenzione dei danni, sono imposte dal principio di precauzione e dal correlato principio dell’azione preventiva, e quindi gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente solo perché egli è tale, senza necessità di accertarne il dolo o la colpa)

    • Cons. Stato, Sez. II, 26 marzo 2021, n. 2561, Provincia di Nuoro c. S. s.r.l. e altri (secondo cui nel D.Lgs. n. 99/1992 che ha attuato la Dir. 86/278/CEE “concernente la protezione dell’ambiente, in particolare del suolo, nell’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura” - con “lo scopo di disciplinare l’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura in modo da evitare effetti nocivi sul suolo, sulla vegetazione, sugli animali e sull’uomo, incoraggiandone nel contempo la corretta utilizzazione” (art. 1). La giurisprudenza ravvisa un criterio di natura sostanziale, “compendiato nella valutazione di “appropriatezza” dell’impiego dei fanghi in agricoltura, sicché il divieto all’impiego debba conseguire ad una valutazione non aprioristica e generale, ma che, suffragata da dati scientifici, ancori il divieto di riutilizzazione dei fanghi alla conclamata dannosità degli stessi” (Cons. Stato, Sez. IV, 6 giugno 2017, n. 2722). Vi è poi l’indirizzo che ascrive alla portata “anticipatoria” del principio di precauzione ambientale, come stregua di riferimento dell’attività amministrativa, “l’obbligo delle autorità amministrative competenti di stabilire una tutela anticipata rispetto alla fase di applicazione delle migliori tecniche proprie del principio di prevenzione. Tale anticipazione è del pari legittima in relazione ad un’attività potenzialmente pericolosa, idonea a determinare rischi che non sono oggetto di conoscenza certa, compresa l’ipotesi di danni che siano poco conosciuti o solo potenziali; rispetto ad una situazione di tal genere, il principio di precauzione impone che l’autorità amministrativa interessata ponga in essere un’azione di prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche” (Cons. Stato, Sez. V, 18 maggio 2015, n. 2495). L’uso agronomico presuppone, infatti, che il fango sia ricondotto al rispetto dei limiti previsti per le matrici ambientali a cui dovrà essere assimilato (e, quindi, anche quelli previsti dalla Tab. 1, colonna A, allegato 5, titolo V, parte IV, D.Lgs. n. 152/2006), salvo siano espressamente previsti, esclusivamente in forza di legge dello Stato, parametri diversi, siano essi più o meno rigorosi, nelle tabelle allegate alla normativa di dettaglio (Decreto n. 99/1992) relativa allo spandimento dei fanghi o in provvedimenti successivamente emanati: non può quindi ammettersi “un uso indiscriminato di sostanze tossiche e nocive, non nominate come pericolose ex positivo iure, ponendosi piuttosto un problema di limiti e di tollerabilità dei fanghi in sintonia con le finalità perseguite di tutela ambientale e di salvaguardia della salute della persona umana”. (Cass. pen., sez. III, 6 giugno 2017, n. 27958). Si pone in continuità con tale indirizzo della Suprema Corte la giurisprudenza di questo Consiglio, secondo la quale “dovendo la gestione di ogni sorta di rifiuto, e quindi anche dei fanghi derivanti da impianti di depurazione, conformarsi ‘ai principi di precauzione, di prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione’ (art. 178 comma 1, d.lgs. n. 152/ 2006), il coordinamento esegetico tra la disciplina concernente l’utilizzazione in agricoltura dei fanghi e quella relativa ai rifiuti, finalizzata alla più ampia protezione dell’ambiente, implica inevitabilmente un’indagine analitica accurata che escluda il rischio di contaminazioni delle matrici ambientali, e segnatamente dei suoli, e verifichi se questi ultimi non siano già, a loro volta, connotati da contaminazioni rilevanti. (...) In tale prospettiva risulta quindi razionale e affatto corretto il riferimento ai valori soglia di concentrazione di cui alla tabella 1, colonna A, allegato 5, alla parte IV del d. lgs. n. 152/2006, perché essi individuano le sostanze e le soglie massime di concentrazione in funzione delle quali la matrice ambientale non può considerarsi idonea a ricevere ulteriori sostanze contaminanti e semmai deve essere assoggettata a bonifica” (Cons. Stato, Sez. IV, 28 agosto 2019, n. 5920)

    • Cons. Stato, Sez. VI, 4 agosto 2021, n. 5742, E. S.p.A. c. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e altri (secondo cui ai sensi dell’art. 245, comma 2, D.Lgs. n. 152/ 2006, la messa in sicurezza di un sito inquinato non ha di per sé natura sanzionatoria, ma costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra, pertanto, nel genus delle precauzioni, in una col principio di precauzione vero e proprio e col principio dell’azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente, e, non avendo finalità ripristinatoria, non presuppone l’accertamento del dolo o della colpa in capo al proprietario)

    • CGARS, 9 agosto 2021, n. 271, G.M. c. Assessorato regionale del territorio e dell’ambiente - Dipartimento regionale dell’ambiente (che ha dichiarato legittimo il decreto dell’Assessore regionale del territorio e dell’ambiente della regione Sicilia con il quale è stato dichiarato concluso con esito negativo il procedimento di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) ai sensi dell’art. 25, D.Lgs. n. 152/2006 relativo ad un progetto di “Prelievo di sabbie relitte profonde” presentato da una società titolare della concessione demaniale marittima che prevede la possibilità, previo positive esperimento della VIA, di estrarre annualmente, direttamente o tramite incaricato, sabbia dal fondo marino ma non anche che l’utilizzo debba essere finalizzato prioritariamente al ripascimento delle coste regionali né vincoli di destinazione per il suo utilizzo; l’esito negative della procedura di VIA è, infatti, frutto di una valutazione altamente discrezionale, effettuata, secondo ragionevolezza ed anche in ossequio al principio di precauzione)

    • Cons. Stato, Sez. IV, 12 agosto 2021, n. 5864, B. S.p.A. c. Provincia di Brescia e altri (secondo cui il c.d. “principio di precauzione” impone che quando sussistono incertezze o un ragionevole dubbio riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, correlate all’ampliamento di una discarica, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi);

    • Cons. Stato, Sez. IV, 2 maggio 2022, n. 3424, Società V. S.p.a. c. Ministeri dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e altri (secondo cui vi è l’impossibilità di imporre le opere di bonifica al proprietario di un terreno inquinato non responsabile del relativo inquinamento che è stata affermata a partire dalla nota sentenza della Corte di Giustizia Ue, sez. III, 4 marzo 2015, causa C 534-13 (su ordinanza di rinvio pregiudiziale dell’Adunanza plenaria 13 novembre 2013, n. 25). La sentenza della Corte in questione, alla lettera, stabilisce che “La direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione”. La successiva giurisprudenza nazionale ha però precisato l’assunto, e afferma che l’impossibilità di imporre le misure di bonifica al proprietario non responsabile della contaminazione si giustifica, in sintesi estrema, per la natura sanzionatoria di questa misura. Diverso discorso si deve fare invece per le misure di messa in sicurezza di emergenza, le quali, così come le misure di prevenzione, non hanno questa natura, ma costituiscono prevenzione dei danni, sono imposte dal principio di precauzione e dal correlato principio dell’azione preventiva, e quindi gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente solo perché egli è tale, senza necessità di accertarne il dolo o la colpa (in questi termini, la costante giurisprudenza, per tutte CDS, sez. IV, 26 febbraio 2021, n. 1658; sez. V, 8 marzo 2017, n. 1089 e 14 aprile 2016, n. 1509; sez. VI, 3 gennaio 2019, n. 81);

    • Cons. Stato, Sez. IV, 2 maggio 2022, n. 3426, Società E.R. S.p.A. e altri c. Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e altri (secondo cui in materia di inquinamento, l’impossibilità di imporre le misure di bonifica al proprietario non responsabile della contaminazione si giustifica, in sintesi estrema, per la natura sanzionatoria di questa misura. Diverso discorso si deve fare invece per le misure di messa in sicurezza di emergenza, le quali, così come le misure di prevenzione, non hanno questa natura, ma costituiscono prevenzione dei danni, sono imposte dal principio di precauzione e dal correlato principio dell’azione preventiva, e quindi gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente solo perché egli è tale senza necessità di accertarne il dolo o la colpa);

    • Cons. Stato, Sez. IV, 12 luglio 2022, n. 5863, Società G. s.r.l. c. Comune di Pavia e altri (secondo cui l’impossibilità di imporre le opere di bonifica al proprietario di un terreno inquinato non responsabile del relativo inquinamento si giustifica per la natura sanzionatoria di questa misura. Ne consegue che diverso discorso deve essere fatto per le misure di messa in sicurezza di emergenza, le quali, così come le misure di prevenzione, non hanno questa natura, ma costituiscono prevenzione dei danni, sono imposte dal principio di precauzione e dal correlato principio dell’azione preventiva, e quindi gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente solo perché egli è tale senza necessità di accertarne il dolo o la colpa);

    • T.A.R. Campania Napoli, Sez. V, 28 settembre 2022, n. 5964, Augustissima Arciconfraternita ed Ospedali della SS Trinità dei Pellegrini e Convalescenti c. Comune di Napoli e altri (secondo cui in materia di inquinamento, ai sensi dell’art. 245, comma 2, del D.Lgs. n. 152 del 2006, la messa in sicurezza di un sito inquinato non ha di per sé natura sanzionatoria, ma costituisce una misura di prevenzione dei anni e rientra, pertanto, nel genus delle precauzioni, in una col principio di precauzione vero e proprio e col principio dell’azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente e, non avendo finalità ripristinatoria, non presuppone l’accertamento del dolo o della colpa in capo al proprietario);

    • Cons. Stato, Sez. IV, 3 marzo 2023, n. 2245, H. S.p.A. c. Regione Molise e altri (secondo cui l’art. 237-duodecies, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 vincola i progettisti, i costruttori e i gestori di impianti di coincenerimento, i quali non possono progettare, costruire, equipaggiare e gestire impianti aventi emissioni superiori ai valori limite. La norma, viceversa, non vieta alle autorità regionali di imporre limiti più rigorosi di emissioni. L’art. 237-quattuordecies, comma 2, riguarda il campionamento e l’analisi delle emissioni in atmosfera degli impianti di incenerimento e di coincenerimento e rimanda agli Allegati per l’individuazione delle soglie dei valori limite. Si tratta, dunque, di una norma che conforma e vincola l’operato dei gestori e delle autorità preposte al campionamento e all’analisi delle emissioni gassose e che vincola altresì le autorità preposte al rilascio delle autorizzazioni regionali, nel senso di vietare loro di prescrivere valori limite superiori a quelle legali. Dal contenuto dell’art. 29-sexies, commi 4-bis e 4-ter, D.Lgs. n. 152/2006 si desume che l’autorità competente può fissare livelli di emissione più rigorosi associabili alle migliori tecnologie disponibili. Costituisce, quindi, scelta ragionevole e non manifestamente sproporzionata, in adesione al principio di precauzione, che l’amministrazione imponga limiti e prescrizioni più rigorosi anche in relazione alla vetustà dell’impianto);

    • Cons. Stato, Sez. V, 2 maggio 2023, n. 4459, Associazione S.C. c. Comune di Senise e altri (secondo cui il c.d. “principio di precauzione” impone che quando sussistono incertezze o un ragionevole dubbio riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi; l’attuazione del principio di precauzione comporta dunque che, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche);

    • Cons. Stato, Sez. IV, 31 agosto 2023, n. 8098, Regione Puglia c. Presidenza del Consiglio dei Ministri e altri (secondo cui la valutazione scientifica del rischio deve essere preceduta - logicamente e cronologicamente - dall’“identificazione di effetti potenzialmente negativi derivanti da un fenomeno” e comprende, essenzialmente, quattro componenti: l’identificazione del pericolo, la caratterizzazione del pericolo, la valutazione dell’esposizione e la caratterizzazione del rischio. Essa consiste, dunque, in un processo scientifico che deve necessariamente spettare a esperti scientifici, cioè agli scienziati. La valutazione scientifica deve fondarsi su “dati scientifici affidabili” e su un ragionamento logico “che porti ad una conclusione, la quale esprima la possibilità del verificarsi e l’eventuale gravità del pericolo sull’ambiente o sulla salute di una popolazione data, compresa la portata dei possibili danni, la persistenza, la reversibilità e gli effetti ritardati”. Il principio di precauzione consente, quindi, di adottare, sulla base di conoscenze scientifiche ancora lacunose, misure di protezione che possono andare a ledere posizioni giuridiche soggettive, sia pure nel rispetto del principio di proporzionalità inteso nella sua triplice dimensione di idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto. Se, dunque, la fase della valutazione del rischio è caratterizzata prevalentemente (anche se non esclusivamente) dalla “scientificità”, la fase di gestione del rischio si connota altrettanto prevalentemente (anche se non esclusivamente) per la sua “politicità”. Ne deriva che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Regione appellante, il principio di precauzione non può legittimare un’interpretazione delle disposizioni normative, tecniche ed amministrative vigenti in un dato settore che ne dilati il senso fino a ricomprendervi vicende non significativamente pregiudizievoli. La sua corretta applicazione non conduce automaticamente a vietare ogni attività che, in via di mera ipotesi, si assuma foriera di eventuali rischi per la salute delle persone e per l’ambiente, in assenza di un riscontro oggettivo e verificabile, richiedendo, di contro, una seria e prudenziale valutazione, alla stregua dell’attuale stato delle conoscenze scientifiche disponibili, dell’attività che potrebbe ipoteticamente presentare dei rischi, valutazione consistente nella formulazione di un giudizio scientificamente attendibile);

    • Cons. giust. amm. Sicilia Parere, 5 settembre 2023, n. 395, Comune di Tremestieri Etneo c. Assessorato regionale del territorio e dell’ambiente (secondo cui dalla disciplina contenuta nel d.lgs. n. 152/2006 si ricava, agevolmente, che la ragione fondamentale che giustifica il procedimento di V.A.S. è il significativo impatto sull’ambiente. Pertanto, nel caso di una precedente procedura di V.A.S., l’obbligo di ripetere il procedimento può ragionevolmente essere giustificato solo nel caso di modificazioni dello strumento urbanistico che determinino un maggiore impatto sull’ambiente e non anche quando, al contrario, si apportino variazioni finalizzate a incrementare le misure di tutela ambientale previste nel piano come, ad esempio, nel caso di riduzione del carico urbanistico indotto e esclusione dall’edificabilità di alcune aree. Il procedimento di verifica di assoggettabilità a V.A.S. del piano modificato non deve essere, pertanto, attivato sempre e comunque, ma solo nei casi in cui emergano solidi e concreti elementi idonei a far presumere, in un’ottica ispirata al principio di precauzione, la possibile futura insorgenza di «impatti significativi sull’ambiente», ulteriori rispetto a quelli già analizzati nella procedura di V.A.S. svolta per il piano originario).

    1.7 L’Ambiente e l’economia circolare

    1.7L’Ambiente e l’economia circolare

    Il concetto di economia circolare risponde al desiderio di crescita sostenibile, nel quadro della pressione crescente a cui produzione e consumi sottopongono le risorse mondiali e l’ambiente. Finora l’economia ha funzionato con un modello “produzione-consumo-smaltimento”, modello lineare dove ogni prodotto è inesorabilmente destinato ad arrivare a “fine vita”. Per produrre il cibo, costruire le case e le infrastrutture, fabbricare beni di consumo o fornire l’energia si usano materiali pregiati. Quando sono stati sfruttati del tutto o non sono più necessari, questi prodotti sono smaltiti come rifiuti. L’aumento della popolazione e la crescente ricchezza, tuttavia, spingono più che mai verso l’alto la domanda di risorse (scarseggianti) e portano al degrado ambientale. Sono saliti i prezzi dei metalli e dei minerali, dei combustibili fossili, degli alimenti per uomo e animali, così come dell’acqua pulita e dei terreni fertili.

    Nell’U.E. ogni anno si usano quasi 15 tonnellate di materiali a persona, mentre ogni cittadino UE genera una media di oltre 4,5 tonnellate di rifiuti l’anno, di cui quasi la metà è smaltita nelle discariche. L’economia lineare, che si affida esclusivamente allo sfruttamento delle risorse, non è più un’opzione praticabile (http: //epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/environment/introduction).

    La transizione verso un’economia circolare sposta l’attenzione sul riutilizzare, aggiustare, rinnovare e riciclare i materiali e i prodotti esistenti. Quel che normalmente si considerava come “rifiuto” può essere trasformato in una risorsa. Si comprende al meglio l’economia circolare osservando i sistemi viventi (biosistemi) naturali, che funzionano in modo ottimale perché ognuno dei loro elementi si inserisce bene nel complesso. I prodotti sono progettati appositamente per inserirsi nei cicli dei materiali: di conseguenza, questi formano un flusso che mantiene il valore aggiunto il più a lungo possibile. I rifiuti residui sono prossimi allo zero. La transizione verso un’economia circolare richiede la partecipazione e l’impegno di diversi gruppi di persone. Il ruolo dei decisori politici è offrire alle imprese condizioni strutturali, prevedibilità e fiducia, valorizzare il ruolo dei consumatori e definire come i cittadini possono beneficiare dei vantaggi dei cambiamenti in corso. Il mondo delle imprese può riprogettare completamente le catene di fornitura, mirando all’efficienza nell’impiego delle risorse e alla circolarità. A questa transizione sistemica sono d’aiuto gli sviluppi delle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) e i cambiamenti sociali. L’economia circolare può quindi aprire nuovi mercati, che rispondano ai cambiamenti dei modelli di consumo: dalla convenzionale proprietà all’utilizzo, riutilizzo e condivisione dei prodotti. Inoltre, può concorrere a creare maggiore e migliore occupazione. Per questo passaggio, l’Europa ha già preparato il campo: un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse, ovvero una delle iniziative faro di Europa 2020, coordina interventi che abbracciano molti settori politici, per garantire una crescita e un’occupazione sostenibili attraverso un uso migliore delle risorse (http: //ec.europa.eu/resource-efficient-europe/).

    Nell’economia circolare il valore dei prodotti, delle materie prime e delle risorse si mantiene lungo il loro di ciclo di vita il più a lungo possibile. Gli scarti e gli sprechi sono ridotti al massimo. La transizione verso un’economia efficiente nell’uso delle risorse, a basse emissioni di carbonio e resiliente ai cambiamenti climatici, costituisce oggi la più importante sfida a livello mondiale per raggiungere una crescita sostenibile ed inclusiva. Con una popolazione mondiale di più di 9 miliardi di persone prevista per il 2050 e la rapida crescita economica dei paesi in via di sviluppo, la domanda di risorse naturali, in particolare di materie prime, continuerà a crescere. Tale tendenza determinerà anche un aumento degli impatti ambientali e climatici qualora non si adottino politiche e misure per un uso più efficiente delle risorse. La diffusione di un nuovo modello “circolare” di produzione e consumo costituisce un elemento di importanza strategica per raggiungere gli obiettivi globali di sostenibilità e rappresenta al contempo un fattore per rilanciare la competitività.

    Al timone del passaggio a un’economia circolare si trova il mondo delle imprese. I prodotti a vita breve sono stati, in passato, un’impostazione chiave per molte aziende, che promuovevano aggiornamenti frequenti e tecnologie all’avanguardia “assolutamente imperdibili”. Adesso il mondo industriale può cogliere l’opportunità di prolungare le vite dei prodotti e di creare prodotti concorrenziali a lunga durata. Un progetto di tipo circolare è il punto di partenza per l’elaborazione di qualsiasi nuovo prodotto o servizio dell’economia circolare. Con l’idea della durata, del riutilizzo, della riparazione, della ricostruzione e del riciclaggio si possono progettare auto, computer, elettrodomestici, imballaggi e molti altri prodotti. Una maggiore cooperazione all’interno delle catene di fornitura e fra le stesse può diminuire costi, rifiuti e danni all’ambiente. I progressi dell’ecoinnovazione offrono nuovi prodotti, processi, tecnologie e strutture organizzative. Alcune aziende scopriranno nuovi mercati passando dalla vendita di prodotti a quella di servizi e svilupperanno modelli imprenditoriali fondati su noleggio, condivisione, riparazione, potenziamento o riciclaggio dei singoli componenti. Da questa nuova impostazione scaturiranno molte opportunità d’affari per le PMI.

    La piattaforma europea sull’efficienza nell’impiego delle risorse (EREP) ha individuato svariati settori di attività promettenti per il mondo delle imprese (http://ec.europa.eu/environment/resource_efficiency/re_platform/index_en.htm), come il miglioramento delle informazioni sulle risorse che un prodotto contiene e su come si possa ripararlo o riciclarlo, nonché nuovi modelli imprenditoriali e principi per i criteri di approvvigionamento sostenibile. Vi è, inoltre, la necessità di nuovi quadri finanziari e contabili per incentivare, più che il consumo caratterizzato da sprechi, l’efficienza nell’impiego delle risorse e la circolarità. Per aiutare gli investitori istituzionali a effettuare maggiori investimenti nell’economia circolare si dovrebbero anche sondare le potenzialità del mercato delle obbligazioni, anche per i progetti di piccole dimensioni e le PMI.

    Compiere scelte sostenibili dovrebbe diventare più facile (più accessibile, allettante e a buon mercato) per tutti i consumatori. Sulle loro decisioni influisce una serie di fattori, fra cui il comportamento delle altre persone, il modo in cui ricevono informazioni o consulenze o i costi e benefici immediati delle loro scelte. Anche i cambiamenti sul luogo di lavoro o nell’infrastruttura circostante - per esempio, agevolare l’uso della bicicletta rispetto a quello dell’auto - e la commercializzazione di stili di vita sostenibili possono influenzare il comportamento della gente. Tali fattori possono essere d’aiuto per un mutamento critico del pensiero (da “consumatore” a “utilizzatore”, da “proprietario” a “condividente”) e per generare una maggiore domanda di servizi legati al noleggio, alla condivisione, allo scambio, alla riparazione e alla ricostruzione di prodotti.

    La promozione dell’economia circolare richiede un ampio sostegno politico sul piano europeo, nazionale, regionale e locale. È determinante, poiché le catene di fornitura si estendono su scala globale, anche la dimensione politica internazionale. Il passaggio a un’economia circolare è un elemento fondamentale della visione definita dall’UE e dai suoi Stati membri nel 7° programma d’azione per l’ambiente(http: //ec.europa.eu/environment/newprg/index.htm): “La nostra prosperità e il nostro ambiente sano sono frutto di un’economia circolare innovativa, dove nulla si spreca, dove le risorse naturali sono gestite in modo sostenibile e dove si tutela, si apprezza e si ripristina la biodiversità con modalità che migliorano la tenuta della nostra società.

    In questa direzione, l’UE ha già adottato provvedimenti. È stata istituita una gerarchia dei rifiuti, dando la priorità alla riduzione e al riciclaggio dei rifiuti stessi. La politica in materia di sostanze chimiche si ripropone di eliminare le sostanze tossiche estremamente preoccupanti in maniera graduale. I progetti legati all’economia circolare sono sostenuti dai Fondi europei. Le iniziative degli enti pubblici per gli appalti pubblici verdi stimolano la domanda di prodotti e servizi più verdi e incoraggiano le imprese a compiere scelte simili. Analogamente, la Direttiva sulla progettazione ecocompatibile dei prodotti connessi all’energia, come gli arredi da cucina e i doppi vetri, è utile alle imprese per elaborare prodotti innovativi a basso impatto ambientale. La Commissione lavorerà per un quadro di agevolazione dell’economia circolare che abbini regolamentazione, strumenti fondati sul mercato, ricerca e innovazione, incentivi, scambio di informazioni e il sostegno agli approcci su base volontaria nei settori chiave. Per riunire tali elementi e collegarli all’agenda per l’efficienza nell’impiego delle risorse, la piattaforma EREP ha invitato l’UE a fissare un obiettivo che garantisca un aumento della produttività delle risorse di ben più del 30% entro il 2030.

    Comprendere rapidamente le opportunità dell’economia circolare e affrontarne le sfide dipende dal sostegno diffuso della società. È essenziale coinvolgere le ONG, le organizzazioni di imprese e di consumatori, i sindacati, il mondo scolastico e universitario, gli istituti di ricerca e le altre parti interessate, a tutti i livelli di governo. Nella transizione verso un’economia circolare, questi soggetti possono operare come soggetti facilitatori, capifila e moltiplicatori. È necessario un intervento anche per comunicare alle persone nella vita di ogni giorno (sul luogo di lavoro, nelle scuole, fra le comunità locali) le idee e i benefici dell’economia circolare. Le reti di socializzazione (social networks) e i mezzi di comunicazione digitale possono convogliare parecchi consumatori verso i nuovi prodotti e servizi circolari.

    Adesso la transizione verso l’economia circolare è sostenuta da un numero sempre maggiore di politiche e iniziative. Tuttavia, persistono ancora delle specifiche barriere politiche, sociali, economiche e tecnologiche a una realizzazione pratica e a un’accettazione più ampie:

    • Alle imprese mancano spesso la consapevolezza, le conoscenze o la capacità di mettere in pratica le soluzioni dell’economia circolare;

    • I sistemi, le infrastrutture, i modelli economici e la tecnologia di oggi possono bloccare l’economia in un modello lineare;

    • Gli investimenti nelle misure di miglioramento dell’efficienza o nei modelli imprenditoriali innovativi restano insufficienti, in quanto percepiti come rischiosi e complessi;

    • La domanda di prodotti e servizi sostenibili può continuare a essere bassa, in particolare se questi implicano modifiche dei comportamenti; e) Spesso i prezzi non rispecchiano il vero costo dell’uso di risorse ed energia per la società; f) I segnali politici per la transizione verso un’economia circolare non sono abbastanza forti e coerenti.

    Le misure come la migliore progettazione ecocompatibile, la prevenzione e il riutilizzo dei rifiuti possono generare, in tutta l’UE, risparmi netti per le imprese fino a 604 miliardi di euro, ovvero l’8% del fatturato annuo, riducendo al tempo stesso le emissioni totali annue di gas a effetto serra del 2-4% (The opportunities to business of improving resource efficiency, 2013: http://ec.europa.eu/environment/enveco/resource_efficiency/pdf/report_opportunities.pdf). In generale, attuare misure aggiuntive per aumentare la produttività delle risorse del 30% entro il 2030 potrebbe far salire il PIL quasi dell’1% e creare oltre 2 milioni di posti di lavoro rispetto a uno scenario economico abituale (Modelling the economic and environmental impacts of change in raw material consumption, 2014, Cambridge Econometrics et al. http://ec.europa.eu/environment/enveco/resource_efficiency/pdf/RMC.pdf).

    I cittadini europei sono convinti dell’esistenza di un solido collegamento positivo fra la crescita, l’occupazione e l’efficienza nell’impiego delle risorse. Un recente sondaggio Eurobarometro (Inchiesta Eurobarometro flash 388: “Opinioni dei cittadini europei sulla gestione dei rifiuti e l’efficienza nell’impiego delle risorse”), ha svelato che una forte maggioranza di persone pensa che l’impatto di un impiego delle risorse più efficiente produrrebbe un effetto positivo sulla qualità della vita nel loro paese (86%), sulla crescita economica (80%), e sulle opportunità di lavoro (78%). Questa maggioranza considera inoltre la riduzione e il riciclaggio dei rifiuti nelle case (51%) e nel settore industriale ed edile (50%) come le misure che maggiormente influiscono sull’efficienza nell’uso delle risorse.

    Per quanto riguarda l’Italia, il tema dell’economia circolare inizia a muovere i primi, rassicuranti, passi. A novembre del 2017 è stato pubblicato il documento “Verso un modello di economia circolare per l’Italia”, redatto, congiuntamente dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM) e dal Ministero dello Sviluppo economico (MISE), con l’obiettivo di fornire un inquadramento generale dell’economia circolare, nonché di definire il posizionamento strategico sul tema (http: //www.minambiente.it/notizie/documento-economia-circolare-ed-uso-efficiente-delle-risorse-indicatori-la-misurazione). In tale quadro di riferimento, e a seguito delle sollecitazioni ricevute da imprese, associazioni di categoria, consorzi, rappresentanti delle Pubbliche amministrazioni, il MATTM e il MISE, con il supporto tecnico e scientifico dell’ENEA, hanno avviato un “Tavolo di Lavoro” tecnico con l’obiettivo di individuare adeguati indicatori per misurare e monitorare la circolarità dell’economia e l’uso efficiente delle risorse a livello macro, meso e micro.

    Il 31 maggio 2018, è stata poi firmata la carta per l’adesione alla Piattaforma italiana degli stakeholder per l’economia circolare (Italian Circular Economy Stakeholder Platform - ICESP). A supporto delle strategie per il Piano di azione sull’Economia circolare e dei futuri finanziamenti sul tema, la Commissione Europea ha lanciato due iniziative di approfondimento e di consultazione degli stakeholder, tra cui la Piattaforma Europea degli stakeholder sull’economia circolare European Circular Economy Stakeholder Platform- ECESP. ENEA, in qualità di rappresentante italiano per ECESP, ha promosso la realizzazione di una interfaccia nazionale - Italian Circular Economy Stakeholder Platform- ICESP che si configura come una piattaforma di convergenza e confronto delle varie iniziative in corso in Italia per rappresentare in Europa, in maniera coordinata e coerente, “the Italian way for circular economy”. ICESP opera, anche, mediante le attività operative e di consultazione dei Gruppi di Lavoro, su diversi temi inerenti all’economia circolare, ai quali partecipano le Direzioni generali del MATTM: CLE, RIN e SVI. Partecipano alla Piattaforme ICESP, in qualità di soggetti fondatori, il MISE, l’Agenzia per la Coesione Territoriale, alcune Regioni, l’Università di Bologna e imprese (cfr., per maggiori approfondimenti:

    • http: //www.minambiente.it/notizie/firmata-la-carta-ladesione-alla-piattaforma-degli-stakeholder-leconomia-circolare;

    • http://www.enea.it/it/seguici/events/icesp_31mag2018/presentazione-e-lancio-icesp-italian-circular-economy-stakeholder-platform).

    Tra I più recenti interventi normativi, ispirati all’esigenza di attuare i principi dell’economia circolare in materia ambientale, un ruolo di primaria importanza è stato svolto dai quattro decreti legislativi di attuazione delle Direttive Europee facenti parte del “Pacchetto Economia Circolare”, adottato dall’Unione Europea a luglio del 2018 con l’obiettivo di aumentare progressivamente il riciclo dei rifiuti urbani al 65% e diminuire l’uso delle discariche a meno del 10% entro il 2035. Nello specifico i decreti legislativi recepiscono le tre normative europee Dir. 2018/849, Dir. 2018/850, Dir. 2018/851 in materia di rifiuti da veicoli fuori uso, pile e accumulatori, discariche e imballaggi. Si tratta: 1) D.Lgs. 118/2020 per Rifiuti di Pile ed Accumulatori (RPA) e Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche (RAEE); 2) D.Lgs. 116/2020 per Rifiuti e gli imballaggi; 3) D.Lgs. 119/2020 per Veicoli fuori uso; 4) D.Lgs. 121/2020 per la riduzione delle Discariche di Rifiuti. Per quanto riguarda i Rifiuti di Pile ed Accumulatori (RPA) ed i Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche (RAEE), il D.Lgs. n. 118/2020 prevede che il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare trasmetta, annualmente e non più ogni tre anni, alla Commissione Europea, una relazione contenente informazioni, comprese stime sulle quantità, in peso, delle apparecchiature elettriche ed elettroniche (AEE) immesse sul mercato e dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE) raccolti separatamente ed esportati ed informazioni riguardanti la raccolta ed il riciclo dei rifiuti di pile e di accumulatori elaborate dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA). Relativamente ai veicoli fuori uso, il D.Lgs. n. 119/2020, si pone l’obiettivo di promuovere e di semplificare il riutilizzo delle parti dei veicoli fuori uso utilizzabili come ricambi, individuare misure per incentivare il riciclo dei rifiuti provenienti da impianti di frantumazione, riducendo lo smaltimento o il recupero energetico solo alle parti non riciclabili. Inoltre, intende rafforzare l’efficacia e l’efficienza dei sistemi di tracciabilità e di contabilità dei veicoli, dei veicoli fuori uso e dei rifiuti derivanti dal loro trattamento. Per quanto riguarda la direttiva relativa alle discariche di rifiuti, l’obiettivo principale è la riduzione del conferimento dei rifiuti urbani a meno del 10% entro il 2035. Il D.Lgs. n. 121/2020, al fine di raggiungere anche l’obiettivo specifico relativo alle percentuali massime di rifiuti urbani conferibili in discarica, intende riformare il sistema dei criteri di ammissibilità dei rifiuti nelle discariche, definendo modalità, criteri ed obiettivi progressivi, anche in coordinamento con le regioni ed adeguare al progresso tecnologico i criteri di realizzazione e di chiusura delle discariche. Infine, il D.Lgs. n. 116/2020 che modifica le direttive riguardanti i rifiuti e gli imballaggi ed i conseguenti rifiuti di imballaggio mira a riformare il sistema di Responsabilità Estesa del Produttore (EPR), per individuare e stabilire esattamente responsabilità, compiti e ruoli, stabilire che i Produttori corrispondono un contributo finanziario per la copertura dei costi della raccolta differenziata, istituire il “Registro nazionale dei Produttori” per consentire il controllo del rispetto degli obblighi in materia di Responsabilità Estesa del Produttore. Inoltre, intende rafforzare il Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti e della loro dispersione in ambiente naturale e alla riduzione dello spreco alimentare. Sulla stessa scia si inserisce il D.Lgs. 8 novembre 2021, n. 196 (recante Attuazione della direttiva (UE) 2019/904, del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 giugno 2019 sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente), che introduce misure volte a prevenire e ridurre l’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente, in particolare l’ambiente acquatico, e sulla salute umana, nonché a promuovere la transizione verso un’economia circolare con modelli imprenditoriali, prodotti e materiali innovativi e sostenibili, contribuendo in tal modo alla riduzione della produzione di rifiuti, al corretto funzionamento del mercato e promuovendo comportamenti responsabili rispetto alla corretta gestione dei rifiuti in plastica (art. 1). Non meno significativo quanto dispongono gli artt. 31-ter, D.L. 31 maggio 2021, n. 77 in tema di misure per la promozione dell’economia circolare nella filiera del biogas e 35-bis in tema di misure di semplificazione e di promozione dell’economia circolare nella filiera foresta-legno (norme introdotte in sede di conversione dalla Legge 29 luglio 2021, n. 108). L’interesse attribuito al tema, del resto, ha giustificato (mediante il D.L. 1° marzo 2021, n. 22, recante Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni dei Ministeri, conv. con modd. in Legge 22 aprile 2021, n. 55), anche la sostituzione del “vecchio” Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, con il “nuovo” Ministero della transizione ecologica, cui sono state attribuite, per quanto qui di interesse, la “gestione, riuso e riciclo dei rifiuti ed economia circolare”, la “promozione di politiche per l’economia circolare e l’uso efficiente delle risorse, fatte salve le competenze del Ministero dello sviluppo economico”, nonché l’attribuzione al neonato Comitato interministeriale per la transizione ecologica (CITE), previsto dall’art. 57-bis, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, del compito di approvare il Piano per la transizione ecologica, al fine di coordinare le politiche, per quanto qui rileva, in materia di “economia circolare” e di “bioeconomia circolare e fiscalità ambientale, ivi compresi i sussidi ambientali e la finanza climatica e sostenibile”. Si rinvia, per maggiori approfondimenti, al Cap. 2.

    1.8 Le norme internazionali ambientali

    1.8Le norme internazionali ambientali

    Notevole rilevanza hanno le norme internazionali diverse da quelle comunitarie (Trattati, Convenzioni, Accordi etc.).

    Esse si segnalano anzitutto perché dettano l’organizzazione e i compiti nonché i modi di funzionamento degli organismi internazionali attivi in campo ambientale.

    Esse hanno grande importanza anche in altri settori di rilievo per il campo ambientale: la tutela del mare, lasciata in buona parte alle norme del diritto internazionale, la protezione di specie animali a rischio, i grandi incidenti in impianti industriali che possono avere effetti oltre confine (“transfrontalieri”, appunto).

    In primo luogo, si ricordano le normative internazionali sulla tutela del mare:

    Convenzione delle Nazioni Unite di Montego Bay del 10 dicembre 1982 e Accordo di applicazione della Parte XI della Convenzione di New York del 29 luglio 1994 contro l’inquinamento marino Ambedue ratificate con la Legge 2 dicembre 1994, n. 689
    Convenzione di Londra 2 novembre 1973 e relativo Protocollo del 17 febbraio 1978 contro l’inquinamento marino derivante da navi Convenzioni Mar/Pol - ratificati con la Legge 29 settembre 1980, n. 662 - dei Protocolli di Londra del 17 febbraio 1978 e della Convenzione aperta alla firma a Città del Messico, Londra, Mosca e Washington il 29 dicembre 1972, ratificata dalla Legge 2 maggio 1983, n. 305 (v., ora, il Protocollo di cui alla Legge 13 febbraio 2006, n. 87)
    Convenzioni internazionali firmate a Londra, rispettivamente, il 12 maggio 1954, il 12-15 settembre 1971 e il 30 novembre 1990;
    Convenzioni di Bruxelles del 29 novembre 1969 e del 18 dicembre 1971 istitutiva di un Fondo internazionale di indennizzo dei relativi danni;
    Protocolli adottati a Londra il 19 novembre 1976 e Convenzioni di Londra il 27 novembre 1992
    contro l’inquinamento marino derivante dall’attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi ratificate con Leggi 23 febbraio 1961, n. 238, 19 dicembre 1975, n. 875 e 15 dicembre 1998, n. 464
    La Convenzione di Helsinki (o Convenzione Acque) adottata il 17 marzo 1992, in vigore dal 6 ottobre 1996 sulla protezione e l’utilizzo dei corsi d’acqua transfrontalieri e dei laghi internazionali ratificata con Legge 12 marzo 1996, n. 171

    In secondo luogo, si ricordano, sulla tutela delle specie a rischio:

    Convenzione sulla conservazione delle specie migratrici degli animali selvatici (CMS), conosciuta come Convenzione di Bonn, entrata in vigore il 23 giugno 1979 per la protezione dei cuccioli di foca, delle balene, delle aree necessarie ai grandi uccelli migratori per i loro spostamenti ratificata con Legge 25 gennaio 1983, n. 42, in vigore dal 1° novembre 1983
    Trattato di Ramsar del 2 febbraio 1971 per la tutela delle zone umide attuato dal D.P.R. 13 marzo 1976, n. 448; v., ora, il D.P.R. 11 febbraio 1987, n. 184 contenente il protocollo di emendamento e il testo riveduto della versione originale francese della Convenzione di Ramsar

    In terzo luogo, si ricordano le norme che regolano situazioni di danni ambientali che possono verificarsi nel territorio di uno Stato in conseguenza di attività compiute in territori di altri Stati (impatti ambientali transfrontalieri e trasporti internazionali dei rifiuti). In particolare:

    Convenzione di Ginevra del 13 novembre 1979 e relativi Protocolli di attuazione sulla riduzione delle emissioni di ossido di zolfo, ossido di azoto, composti organici vitali ed ammoniaca ratificata dall’Italia con Legge 27 aprile 1982, n. 289
    Convenzione di Basilea del 22 marzo 1989 sui trasporti internazionali di rifiuti ratificata dall’Italia con Legge 18 agosto 1993, n. 340
    Trattato multilaterale sottoscritto tra i Governi di Londra, Mosca e Washington, firmato il 27 gennaio 1967, in vigore dal 10 ottobre 1967 sull’inquinamento dello spazio cosmico ratificato dall’Italia con Legge 4 maggio 1972
    Convenzione di Washington del 2 dicembre 1946 sulla caccia alla balena ratificata dall’Italia con Legge 10 novembre 1997, n. 408
    Convenzione di Vienna del 26 settembre 1986 per la difesa dell’atmosfera dalle reazioni nucleari ratificata dall’Italia con Legge 31 ottobre 1989, n. 375
    Convenzione di Bonn del 23 giugno 1979 per la conservazione delle specie migratorie ratificata dall’Italia con Legge 25 gennaio 1983, n. 42
    Convenzione di Berna del 19 settembre 1979 per la salvaguardia della vita selvatica e dell’ambiente naturale ratificata dall’Italia con Legge 5 agosto 1981, n. 503
    Convenzione di Washington del 3 marzo 1973 sul commercio di specie a rischio di estinzione ratificata dall’Italia con Legge 19 dicembre 1975, n. 874
    Convenzione di Helsinki o Convenzione Acque del 17 marzo 1992 sulla protezione e l’utilizzo dei corsi d’acqua transfrontalieri e dei laghi internazionali e l’uso sostenibile delle risorse idriche. ratificata dall’Italia con Legge 12 marzo 1996, n. 171
    Convenzione di Vienna del 5 settembre 1997 in materia di sicurezza dello smaltimento del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi ratificata dall’Italia con Legge 16 dicembre 2005, n. 282

    Nota: Ancora, si segnala l’importante traguardo raggiunto dall’Italia che, nel maggio 2013, è stata ammessa formalmente al Consiglio Artico come paese osservatore, ottenendo così la possibilità di partecipare ai lavori scientifici che fanno capo al Consiglio, ovvero ai 6 Gruppi di Lavoro che si occupano del programma di monitoraggio e valutazione artica (AMAP), di sviluppo sostenibile (SDWG), del programma d’azione su contaminanti artici (ACAP), della conservazione di flora e fauna artica (CAFF), della prevenzione delle emergenze, preparazione e risposta (EPPR), della protezione ambiente marino artico (PAME). Si tratta di un forum internazionale di alto livello istituito nel 1996 per promuovere cooperazione, coordinamento e interazione tra i paesi artici, le comunità indigene e gli altri popoli artici. L’obiettivo del Consiglio è garantire alla Regione artica “uno sviluppo sostenibile ambientale, sociale ed economico”.

    Recentemente, con l’insorgere di problematiche ambientali di ambito planetario e la conferma da parte di alcuni ambienti scientifici della serietà di dette problematiche, la comunità internazionale ha affrontato il tema generale del rapporto tra l’umanità, il suo sviluppo economico e l’ambiente.

    Sono pertanto state adottate:

    Dichiarazione ONU di Stoccolma del 16 giugno 1972 sull’”ambiente umano”
    Convenzione di Vienna del 22 marzo 1985 - con il relativo Protocollo di Montreal del 16 settembre 1987 (ratificata con Legge 4 luglio 1988, n. 277) sul c.d. “buco dell’ozono”
    Convenzione di New York del 9 maggio 1992 (ratificata con Legge 15 gennaio 1994, n. 65) contro i cambiamenti climatici e la riduzione dell’emissione di gas ad effetto serra
    Protocollo di Cartagena del 1999 (ratificata con la l. 15 gennaio 2004, n. 27) sulla prevenzione dei rischi biotecnologici (protocollo relativo alla Convenzione sulla diversità biologica)
    Convenzione di Firenze del 20 ottobre 2000 (ratificata con la l. n. 14 del 9 gennaio 2006) c.d. Convenzione europea sul paesaggio

    Nota: soprattutto, si deve evidenziare la grande importanza della Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro tra il 3 e il 14 giugno 1992, in occasione della quale vennero programmati successivi incontri tra le parti per la soluzione dei problemi ambientali (Agenda XXI, dove “XXI” sta per ventunesimo secolo), vennero stipulati importanti accordi (Convenzione sulla tutela della biodiversità) e rese significative dichiarazioni (Dichiarazione sui rapporti tra ambiente e sviluppo con la formulazione del principio dello sviluppo economico sostenibile con l’ambiente. risoluzione per la lotta alla siccità e alla desertificazione).

    Gli impegni per la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra sono poi stati modificati con il Protocollo di Kyoto del 10 dicembre 1997. Il protocollo di Kyoto è un trattato internazionale in materia ambientale riguardante il riscaldamento globale sottoscritto nella città giapponese di Kyoto l’11 dicembre 1997 da più di 180 Paesi in occasione della Conferenza COP3 della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). Il trattato è entrato in vigore il 16 febbraio 2005, dopo la ratifica anche da parte della Russia. Il 16 febbraio 2007 si è celebrato l’anniversario del secondo anno di adesione al protocollo di Kyoto; con l’accordo di Doha l’estensione del protocollo si è prolungata fino al 2020 anziché alla fine del 2012.

    Numerosi sono poi le Convenzioni ed i trattati internazionali bilaterali tra nazioni confinanti e rivierasche aventi per oggetto l’inquinamento o gli incidenti con effetti transfrontalieri. Di rilievo:

    Convenzione di Roma 2 maggio 1995 Trattato con la Svizzera resa esecutiva con Legge n. 87 del 23 marzo 1998
    Convenzione di Roma 20 aprile 1972 Trattato con la Svizzera resa esecutiva con Legge n. 527 del 24 luglio 1978

    Convenzione di Roma 2 maggio 1995 Trattato con la Svizzera resa esecutiva con Legge n. 87 del 23 marzo 1998
    Accordo di Belgrado del 14 febbraio 1974 Trattato con la Jugoslavia reso esecutivo con D.P.R. 29 maggio 1976, n. 992
    Convenzione delle Alpi del 1991 Trattato internazionale sottoscritto da Austria, Francia, Germania, Italia, Liechtenstein, Principato di Monaco, Slovenia, Svizzera e dall’U.E. Oggetto della Convenzione sono la protezione dell’ambiente alpino e lo sviluppo sostenibile del suo territorio con particolare riferimento a: trasporti, pericoli naturali, connettività ecologica, gestione dell’acqua, grandi predatori, ungulati selvatici e società, strategia macro-regionale, agricoltura di montagna, foreste montane, turismo sostenibile, energia. ratificata dall’Italia con Legge 14 ottobre 1999, n. 403. La legge italiana di ratifica affida al Ministero dell’Ambiente il ruolo di attuatore della Convenzione, in accordo con le Regioni e gli altri Ministeri interessati attraverso la Consulta Stato Regioni dell’arco alpino.
    Convenzione di Helsinki del 17 marzo 1992 sugli effetti transfrontalieri derivanti da incidenti industriali ratificata dall’Italia con la l. 20 febbraio 2002, n. 30
    Protocollo del 4 giugno 1998 sugli inquinanti organici persistenti (POP) ratificato dall’Italia con la l. 6 marzo 2006, n. 125
    Convenzione di Rotterdam del 10 settembre 1998 sulla procedura del consenso informato a priori per l’importazione e l’esportazione di alcuni prodotti chimici e pesticidi pericolosi ratificata dall’Italia con la l. 11 luglio 2002, n. 176

    I trattati che regolano il funzionamento di alcuni importanti organismi internazionali contemplano anche la protezione dell’ambiente (cfr. i programmi dell’U.N.E.S.C.O. o la Carta istitutiva dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura - F.A.O. - con riferimento alla conservazione delle risorse naturali - art. 1, lett. d) dello Statuto del 16 ottobre 1945, approvato con la Legge 16 maggio 1947, n. 546).

    Nota: si tenga presente che l’abrogazione della Legge n. 546/1947 - già prevista ai sensi del combinato disposto dell’art. 2 e della voce n. 27807 dell’Allegato 1, D.L. 22 dicembre 2008, n. 200, a decorrere dal sessantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore dello stesso Decreto - non è più prevista dalla nuova formulazione dell’Allegato I dopo la conversione in legge.

    L’efficacia dei trattati, accordi e convenzioni è generalmente ridotta, sia a conseguenza del contenuto delle loro disposizioni - che molto spesso dettano più principi e scopi da perseguire che non specifici comportamenti da tenere a pena di irrogazione di sanzioni - che a conseguenza del fatto che l’efficacia degli stessi accordi, trattati e convenzioni è generalmente condizionata dal loro recepimento, attuazione o ratifica con atti interni.

    1.9 Atti statali e regionali aventi forza di legge o regolamenti

    1.9Atti statali e regionali aventi forza di legge o regolamenti

    Il diritto ambientale è composto anche da numerose norme statali aventi valore di legge ordinaria (leggi, decreti-legge e, soprattutto, Decreti legislativi delegati) o di Regolamento. Peraltro, la materia dell’ambiente è ormai in larga misura di competenza regionale. Pertanto, rispetto ad altri rami dell’ordinamento, acquistano particolare rilevanza le norme regionali, oltre che, come si è visto, quelle comunitarie e internazionali.

    Le norme regionali, in particolare sono di importanza assoluta per individuare la soluzione delle varie situazioni concrete.

    Sulla Gazzetta Ufficiale del 14 aprile 2006 è stato pubblicato il D.Lgs. n. 152 del 3 aprile 2006 (c.d. “Codice dell’ambiente” o Testo Unico ambientale - TUA), modificato dal D.Lgs. n. 284 dell’8 novembre 2006, dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, dal D.Lgs. 29 giugno 2010, n. 128, dal D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205 e, da ultimo, dai decreti attuativi delle direttive facenti parte del c.d. pacchetto economia circolare, ossia il D.Lgs. 3 settembre 2020, n. 116, il D.Lgs. 3 settembre 2020, n. 118, il D.Lgs. 3 settembre 2020, n. 119 ed il D.Lgs. 3 settembre 2020, n. 121. Sono poi seguite numerose modifiche negli anni 2021, 2022 e 2023.

    Il TUA disciplina pressoché integralmente le seguenti materie:

    • valutazione di impatto ambientale, valutazione ambientale strategica ed autorizzazione integrata ambientale;

    • tutela delle acque sia sotto l’aspetto della tutela dell’assetto idrogeologico (già regolato dalla Legge n. 138/1989), della tutela qualitativa delle acque (già regolata dal D.Lgs. n. 152/1999) e del servizio idrico (già oggetto della Legge n. 36/1994);

    • rifiuti (già disciplinati, per quanto di maggior rilievo, dal D.Lgs. n. 22/1997, ivi compreso l’incenerimento e coincenerimento dei rifiuti, oggetto di disciplina integralmente nuova introdotta agli artt. 237-bis/237-duovicies);

    • qualità dell’aria, compresi gli impianti termici civili e le caratteristiche dei combustibili da impiegare negli impianti fissi (materia già oggetto, tra l’altro del D.P.R. n. 203/1988 e della Legge n. 615/1966);

    • bonifica dei siti inquinati e danno ambientale (già regolati dall’art. 17 del D.Lgs. n. 22/1997, dal D.M. n. 471/1999 e dall’art. 18 della Legge n. 349/1986).

    • Il Decreto legislativo (TUA) abroga inoltre tutte le normative che disciplinano la materia oggetto del Decreto stesso.

    Nota: come si ricorderà, peraltro, l’entrata in vigore della Parte II di tale Decreto - VAS E VIA - era stata differita al 31 luglio 2007 (l’art. 52 che, nel testo originario del D.Lgs. n. 152/2006, stabiliva l’entrata in vigore, era stato modificato dapprima dall’art. 1-septies, comma 1, D.L. 12 maggio 2006, n. 173, successivamente sostituito dall’art. 5, comma 2, D.L. 28 dicembre 2006, n. 300 ed infine abrogato dall’art. 36, comma 1, D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 che integralmente sostituiva la Parte II, oggi profondamente modificata dal D.Lgs. 29 giugno 2010, n. 128), mentre altre Parti (la III e la IV, soprattutto, sulle acque e i rifiuti) hanno subito rilevanti modifiche, dapprima, per effetto del D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 e, da ultimo, dal D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205 in materia di rifiuti, dal D.Lgs. 10 dicembre 2010, n. 219, quanto alla disciplina in materia di acque, dal D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 46, quanto alla disciplina in materia di prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento e, infine, dai quattro decreti legislativi emanati nel 2020, attuativi delle direttive del c.d. pacchetto economia circolare, ossia il D.Lgs. 3 settembre 2020, n. 116, il D.Lgs. 3 settembre 2020, n. 118, il D.Lgs. 3 settembre 2020, n. 119 ed il D.Lgs. 3 settembre 2020, n. 121.

    Infine, va qui ricordata l’importanza dei Regolamenti.

    Nota: L’art. 1 delle disposizioni preliminari al Codice civile pone al secondo posto tra le norme dell’ordinamento i “Regolamenti”. Con tale termine si denominano una pletora di atti, ciascuno dei quali variamente denominato (Decreto ministeriale; Decreto del Presidente della Repubblica, Decreto o atto di varie autorità), contraddistinti dal fatto che, per effetto dell’organo che li ha emanati e del procedimento che a tale emanazione ha dato luogo, hanno forza inferiore alla legge anche se superiore ad altre fonti del diritto (ad esempio superiore agli usi). L’espressa denominazione di “Regolamento” si verifica ordinariamente solo per i Regolamenti del Governo emanati in base al D.P.R. n. 400 del 23 agosto 1988, sulla disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri. Essi sono numerosissimi e la loro elencazione sarebbe uno sforzo inutile per gli autori e per il lettore. Si rinvia pertanto ai vari capitoli dedicati specificamente alla trattazione dei vari argomenti.

    1.10 La responsabilità degli enti per i reati ambientali: Il D.Lgs. 7 luglio 2011, n. 121

    1.10La responsabilità degli enti per i reati ambientali: Il D.Lgs. 7 luglio 2011, n. 121

    La Legge 4 giugno 2010, n. 96 (recante “Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria 2009”, S.O. n. 138 alla G.U. n. 146 del 25 giugno 2010) - che, tra l’altro, recava novità in tema di rumore, energie rinnovabili, recupero rifiuti con modifiche al D.M. 5 febbraio 2008, nitrati da fonti agricole, responsabilità delle aziende, rifiuti inerti, RAEE, caccia e veicoli fuori uso - all’art. 19 delegava il Governo ad adottare, entro il termine di nove mesi dalla data di entrata in vigore della Legge (10 aprile 2011), uno o più Decreti legislativi al fine di recepire le disposizioni della Direttiva n. 2008/99/CE, sulla tutela penale dell’ambiente, e della Direttiva n. 2009/123/CE che modifica la Direttiva n. 2005/35/CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni. La lett. b) dell’art. 19, comma 2, della Legge comunitaria 2009 prendeva in esame i principi di delega rispetto alle sanzioni da infliggere al soggetto collettivo stabilendo di prevedere, nei confronti degli enti nell’interesse o a vantaggio dei quali è stato commesso uno dei reati di cui alla lett. a), adeguate e proporzionate sanzioni amministrative, pecuniarie, di confisca, di pubblicazione della sentenza ed eventualmente anche interdittive, nell’osservanza dei principi di omogeneità ed equivalenza rispetto alle sanzioni già previste per fattispecie simili, e comunque nei limiti massimi previsti dagli artt. 12 e 13 del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, e successive modificazioni. Accanto alle diverse attività che possono determinare un reato, gli stati membri avrebbero dovuto prevedere la punibilità in sede penale delle due condotte di favoreggiamento ed istigazione a commettere intenzionalmente le attività di cui all’art. 3.

    È opportuno operare alcune considerazioni in merito agli effetti delle disposizioni della Direttiva n. 2008/99/CE sulla disciplina nazionale relativa alla responsabilità da reato degli enti, ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, estendendone l’ambito applicativo ai reati ambientali. Si ricorda, infatti, che il citato Decreto n. 231/2001, con cui è stata introdotta nel sistema giuridico italiano la responsabilità da reato delle persone giuridiche, non prevedeva la responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reati ambientali. La delega contenuta nell’art. 11, comma 1, lett. d), della Legge 29 settembre 2000, n. 300, che includeva nell’elenco dei reati - presupposto della responsabilità dell’ente - anche quelli in materia di tutela dell’ambiente e del territorio, non era stata infatti esercitata dal Governo.

    Fino al 2001, invero, l’unica norma in materia ambientale che rinviava alla responsabilità della persona giuridica - e alle previsioni del citato D.Lgs. n. 231/2001 - era contenuta nell’art. 192, comma 4, del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (c.d. Codice ambientale) sull’abbandono dei rifiuti.

    Nota: il citato comma 4 dell’art. 192 così recita: “Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni”.

    Tale disposizione, tuttavia, oltre a limitare il riferimento agli amministratori o rappresentanti delle persone giuridiche, sembrava far espresso riferimento unicamente alla previsione del comma 3 dell’art. 192 citato (abbandono e deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo e immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee). Si trattava, pertanto, di un rinvio generico che, alla luce di una interpretazione della norma e dei principi di tassatività e tipicità cui è ispirato il diritto penale, non poteva che condurre ad escludere l’applicabilità della responsabilità ex Decreto n. 231/2001 agli illeciti ambientali

    Tale interpretazione, si noti, era stata fatta propria dalla stessa giurisprudenza di legittimità.

    GIURISPRUDENZA

    Ed infatti, la Suprema Corte aveva affermato che non è imputabile all’ente ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 la responsabilità amministrativa per il reato di gestione non autorizzata di rifiuti, in quanto, pur essendovi un richiamo a tale responsabilità nell’art. 192, comma 4, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, difettano attualmente sia la tipizzazione degli illeciti che l’indicazione delle sanzioni (Fattispecie nella quale la Corte ha disatteso la doglianza difensiva riguardante la mancata contestazione del reato di trasporto non autorizzato di rifiuti alla società proprietaria del mezzo sottoposto a sequestro preventivo):

    • Cass., sez. III, 7 ottobre 2008, n. 41329, Galipò, in CED Cass. 241528

    Pertanto, il legislatore nazionale avrebbe dovuto prevedere, entro il 26 dicembre 2010 (termine di recepimento della Direttiva), l’estensione della responsabilità penale delle persone giuridiche anche ai reati ambientali colposi da introdursi nel nostro ordinamento giuridico, in quanto la Direttiva impone l’attuazione di un sistema sanzionatorio di natura esclusivamente penale, lasciando, invece, ampia discrezionalità in merito alla tipologia di sanzioni, pecuniarie e/o interdittive (revoca delle autorizzazioni, interdizioni dall’esercizio dell’attività, esclusione da finanziamenti, divieto di contrattazione con la P.A., tanto per citarne alcune), applicabili alle persone giuridiche responsabili di reati ambientali.

    La responsabilità amministrativa degli enti, racchiusa nel D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, aveva parzialmente trovato applicazione anche nel settore dei reati ambientali, come richiesto nella Legge comunitaria 2009.

    Con il D.Lgs. 7 luglio 2011, n. 121 erano state finalmente recepite le Direttive nn. 2008/99 e 2009/123, che danno seguito all’obbligo imposto dall’U.E. di incriminare comportamenti fortemente pericolosi per l’ambiente, sanzionando penalmente condotte illecite individuate dalla Direttiva e fino ad oggi non previste come reati, ed introducendo la responsabilità delle persone giuridiche, attualmente non prevista per i reati ambientali. Due le nuove fattispecie incriminatrici nel c.p., per sanzionare la condotta di “uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette” (art. 727-bis) e, dall’altro, di “distruzione o deterioramento di habitat all’interno di un sito protetto” (art. 733-bis).

    Oltre alle norme sul SISTRI (dal 15 giugno 2023 sostituito dal R.E.N.T.Ri, ossia il Registro elettronico nazionale per la tracciabilità dei rifiuti), tra le novità introdotte spiccava certamente l’estensione a società ed enti della responsabilità determinata dalla commissione di una serie di illeciti ambientali, la limitazione della responsabilità per scarichi di acque reflue industriali ai soli comportamenti più rilevanti, e la già accennata introduzione dei due nuovi eco-reati.

    L’art. 1 è dedicato alle modifiche al c.p. e prevede le predette due nuove fattispecie di reato che recepiscono l’obbligo imposto dall’UE di incriminare comportamenti fortemente pericolosi per l’ambiente, al fine di sanzionare la condotta di chi uccide, distrugge, preleva o possiede, fuori dai casi consentiti, esemplari di specie animali o vegetali selvatiche protette e di chi distrugge o comunque deteriora in modo significativo un habitat all’interno di un sito protetto.

    Ulteriormente - ai cennati fini di dare concreta attuare alle previsioni relative alla responsabilità delle persone giuridiche per la commissione di reati a ambientali - l’art. 2 apporta le opportune modifiche al D.Lgs. n. 231/2001, a partire dall’inserimento dell’art. 25-undecies, per l’appunto rubricato reati ambientali.

    Dopo aver fatto cenno alle specifiche sanzioni previste per le società in caso di commissione dei nuovi reati di cui agli art. 727-bis e 733-bis c.p., vengono elencate le sanzioni pecuniarie previste a carico delle persone giuridiche per una serie di attività illecite già contemplate dal D.Lgs. n. 152/2006 (Codice dell’Ambiente).

    Si noti, peraltro, che già in passato la responsabilità amministrativa degli enti era stata presa in esame con riferimento a reati ambientali.

    GIURISPRUDENZA

    In particolare, la giurisprudenza di legittimità aveva affermato che le società per azioni costituite per svolgere, secondo criteri di economicità, le funzioni in materia di raccolta e smaltimento dei rifiuti, trasferite alle stesse da un ente pubblico territoriale (cosiddette società d’ambito), sono soggette alla normativa in materia di responsabilità da reato degli enti:

    • Cass. pen., sez. II, 26 ottobre 2010, dep. 10 gennaio 2011, n. 234, in CED Cass. 248795

    In sostanza, con tale sentenza, la Corte aveva riconosciuto per la prima volta la responsabilità delle società per i reati che attengono alla raccolta e smaltimento dei rifiuti che siano loro affidate dagli enti pubblici territoriali. A questa decisione, peraltro, si affianca la recente pronuncia (certamente criticabile per il principio affermato) secondo cui nella nozione di ente, prevista dal D.Lgs. n. 231/2001, deve essere ricompresa l’impresa individuale, posto che criterio rilevante ai fini dell’applicabilità del D.Lgs. n. 231/2001 è la circostanza che l’ente sia dotato di personalità giuridica.

    Si tratta di un principio che è stato affermato nell’ambito di un procedimento penale a carico di un’impresa individuale, nei confronti di cui il Tribunale del Riesame, conformemente alle previsioni del D.Lgs. n. 231/2001, aveva comminato la sanzione interdittiva della revoca dell’autorizzazione alla raccolta e al conferimento di rifiuti pericolosi, avendo essa reiterato il reato di associazione per delinquere (reato presupposto ex art. 24-ter) finalizzata alla commissione dei reati in materia di raccolta, smaltimento e traffico illecito di rifiuti pericolosi:

    • Cass. pen., sez. III, 15 dicembre 2010, dep. 20 aprile 2011, n. 15657, in CED Cass. 249320

    Il principio è stato definitivamente abbandonato dalla giurisprudenza di legittimità che ritiene ormai la normativa sulla responsabilità da reato degli enti prevista dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 non si applica alle imprese individuali, in quanto si riferisce ai soli soggetti collettivi:

    • Cass. pen., sez. VI, 23 luglio 2012, n. 30085, in CED Cass. 252995

    Si noti, peraltro, che si è più di recente chiarito che le norme sulla responsabilità da reato degli enti si applicano anche alle società unipersonali, in quanto soggetto di diritto distinto dal soggetto che ne detiene le quote, essendo, a differenza delle imprese individuali, soggetti giuridici autonomi, dotati di un proprio patrimonio e formalmente distinti dalla persona fisica dell’unico socio. Nell’accertamento della responsabilità dell’ente, occorre però verificare se sia individuabile un interesse sociale distinto da quello dell’unico socio, tenendo conto dell’organizzazione della società, dell’attività svolta e delle dimensioni dell’impresa, nonché dei rapporti tra socio unico e società:

    • Cass. pen., Sez. 6, 25 ottobre 2017, n. 49056, CED Cass. 271564

    • Cass. pen., Sez. 6, 6 dicembre 2021, n. 45100, CED Cass. 282291

    L’entrata in vigore del D.Lgs. n. 121/2011 aveva, tuttavia, determinato solo un parziale recepimento della Direttiva n. 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente. Si registrava, infatti, la mancata previsione di “delitti” ambientali nel c.p., che avrebbero dovuto garantire una più efficace risposta sanzionatoria nei confronti dei fenomeni maggiormente aggressivi delle matrici ambientali. Tale lacuna normativa è stata definitivamente colmata con la Legge n. 68/2015, che ha introdotto nel nostro c.p. di c.d. eco-delitti, cui è dedicato l’approfondimento nei paragrafi successivi.

    1.11 I delitti ambientali

    1.11I delitti ambientali

    Con la Legge 22 maggio 2015, n. 68, vengono introdotte nell’ordinamento fattispecie di aggressione all’ambiente costituite sotto forma di eco-delitti. Una innovazione attesa da lungo tempo, nel corso del quale la risposta sanzionatoria a fenomeni criminali di massiccio, quando non irreparabile, inquinamento dell’ecosistema è stata affidata all’utilizzo - sovente discusso e comunque non privo di criticità sia sul piano sostanziale che sotto l’aspetto processuale/probatorio - del c.d. disastro “innominato” previsto dall’art. 434 c.p.

    Proprio in funzione della necessità di uscire dalle difficoltà interpretative ed applicative di una norma indiscutibilmente legata ad altri contesti di “disastro”, più immediatamente percepibili sul piano fenomenico, e allo stesso tempo volendo chiudere il cerchio del catalogo sanzionatorio presidiando penalmente ogni livello di alterazione peggiorativa delle matrici ambientali, il legislatore ha dunque introdotto nel c.p. due nuove figure delittuose (inquinamento ambientale e disastro ambientale), accompagnandole con altre previsioni incriminatrici giudicate necessarie per la tenuta complessiva del sistema e con ulteriori interventi di raccordo con il Codice dell’Ambiente e con la disciplina della responsabilità degli enti.

    Nonostante nell’articolato non vi siano espliciti richiami alle fonti eurounitarie, la novella si collega a quanto richiesto dalla Direttiva dell’UE 2008/99/CE del 19 novembre 2008 sulla protezione dell’ambiente mediante il diritto penale, il cui Preambolo (art. 5) precisa che “attività che danneggiano l’ambiente, le quali generalmente provocano o possono provocare un deterioramento significativo della qualità dell’aria, compresa la stratosfera, del suolo, dell’acqua, della fauna e della flora, compresa la conservazione delle specie” esigono sanzioni penali dotate di maggiore dissuasività. La Direttiva indica dunque gli elementi di offensività dei reati di cui chiede l’introduzione nei sistemi nazionali, al fine di garantire uno standard minimo comunitario di tutela penale dell’ambiente.

    Si tratta però di una indicazione generale che necessita, in sede di traduzione normativa interna, di un livello di specificazione idoneo a soddisfare i principi costituzionali di precisione, tassatività e offensività che presidiano la materia penale.

    Sotto questa angolazione, la lettura della novella legislativa palesa la difficoltà del legislatore nel raggiungere un punto di equilibrio fra istanze apparentemente antagoniste: da una parte, l’esigenza di una definizione quanto più puntuale delle fattispecie, operazione che non pare sempre centrare pienamente l’obiettivo, soprattutto quando vengono introdotti concetti a contenuto “aperto” o connotazioni modali delle condotte la cui portata potrà essere misurata solo nella pratica; dall’altra, la necessità di non imbrigliare l’assetto normativo in una casistica che non può a priori esaurire tutta la possibile gamma delle manifestazioni criminose e che rischierebbe, oltretutto, di vanificare la stessa praticabilità processuale della risposta legislativa.

    In concreto, la Legge n. 68/2015 è composta da tre articoli. Il nucleo fondamentale del provvedimento è costituito dall’art. 1, contenente un complesso di disposizioni che, in particolare, inseriscono nel c.p. un inedito titolo VI-bis (Dei delitti contro l’ambiente), composto da 12 articoli (dal 452-bis al 452-terdecies); all’interno di tale nuovo titolo sono previsti cinque nuovi delitti:

    • inquinamento ambientale,

    • disastro ambientale,

    • traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività,

    • impedimento del controllo,

    • omessa bonifica.

    Il numero dei delitti è poi passato a sei per effetto del D.Lgs. 1° marzo 2018, n. 21 recante “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’art. 1, comma 85, lett. q), della Legge 23 giugno 2017, n. 103”, che, all’art. 3 (“Modifiche in materia di tutela dell’ambiente”) ha inserito l’art. 452-quaterdecies, c.p., dal titolo “Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”, contestualmente abrogando l’art. 260, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152.

    Proseguendo nell’esame del testo della Legge n. 68 /2015, l’articolato contempla altresì una forma di ravvedimento operoso per coloro che collaborano con le autorità prima della definizione del giudizio, ai quali è garantita una attenuazione delle sanzioni previste.

    Tra le altre previsioni, si segnalano:

    • l’obbligo per il condannato al recupero e - ove possibile - al ripristino dello stato dei luoghi, il raddoppio dei termini di prescrizione del reato per i nuovi delitti, nonché apposite misure per confisca e pene accessorie;

    • la revisione della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche in caso di reati ambientali;

    • l’introduzione nel D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (c.d. Codice dell’Ambiente) di un procedimento per l’estinzione delle contravvenzioni ivi previste, collegato all’adempimento da parte del responsabile della violazione di una serie di prescrizioni nonché al pagamento di una somma di denaro;

    • la modifica della disciplina sanzionatoria delle violazioni della Legge n. 150/1992 relativa alla Convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione (art. 2 della Legge).

    Si procederà all’illustrazione delle novità introdotte dalla nuova Legge, avvalendosi integralmente del contributo redatto dall’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione che ha elaborato una pregevole Relazione (Rel. n. III/04/2015 del 29 maggio 2015, su “Novità legislative: Legge n. 68 del 22 maggio 2015, recante ‘Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente’”). La stessa rappresenta, a tutt’oggi, a distanza di quasi dieci anni dall’entrata in vigore della nuova normativa (entrata in vigore, per effetto di quanto disposto dall’art. 3 della medesima Legge, il giorno successivo alla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, dunque il 29 maggio 2015), un fondamentale punto di riferimento per gli interpreti e gli operatori del settore.

    1.11.1 Il delitto di inquinamento ambientale

    1.11.1Il delitto di inquinamento ambientale

    € SANZIONI

    Art. 452-bis, c.p.:

    – reclusione da due a sei anni e multa da euro 10.000 a euro 100.00 per chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: 1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo; 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna.

    Distaccandosi dal modello di illecito costruito sull’esercizio di attività inquinante in difetto di autorizzazione ovvero in superamento dei valori soglia, la previsione risulta costruita come delitto di evento e di danno, dove l’evento di danno è costituito dalla compromissione o dal deterioramento, significativi e misurabili, dei beni ambientali specificamente indicati.

    In quanto concepito come reato a forma libera (“chiunque … cagiona …”), l’inquinamento nella sua materialità può consistere non solo in condotte che attengono al nucleo duro - acque, aria e rifiuti - della materia, ma anche mediante altre forme di inquinamento o di immissione di elementi come ad esempio sostanze chimiche, OGM, materiali radioattivi e, più in generale, in qualsiasi comportamento che provochi una immutazione in senso peggiorativo dell’equilibrio ambientale.

    Inoltre, l’inquinamento potrà essere cagionato sia attraverso una condotta attiva, ossia con la realizzazione di un fatto considerevolmente dannoso o pericoloso, ma anche mediante un comportamento omissivo improprio, cioè con il mancato impedimento dell’evento da parte di chi, secondo la normativa ambientale, è tenuto al rispetto di specifici obblighi di prevenzione rispetto a quel determinato fatto inquinante dannoso o pericoloso.

    Una prima osservazione attiene evidentemente al rapporto e coordinamento fra la definizione di inquinamento data dalla norma e quella, già conosciuta dall’ordinamento, di cui all’art. 5 del Codice dell’Ambiente (D.Lgs. n. 152/2006), che definisce l’inquinamento ambientale come “l’introduzione diretta o indiretta, a seguito di attività umana, di sostanze, vibrazioni, calore o rumore o più in generale di agenti fisici o chimici, nell’aria, nell’acqua o nel suolo, che potrebbero nuocere alla salute umana o alla qualità dell’ambiente, causare il deterioramento dei beni materiali, oppure danni o perturbazioni a valori ricreativi dell’ambiente o ad altri suoi legittimi usi”; nozione che sembra conservare la funzione di canone ermeneutico utile per qualificare, nelle sue concrete estrinsecazioni, ogni forma di alterazione peggiorativa dell’ambiente, laddove alla novella è assegnato il compito di definire il momento in cui una condotta di alterazione assume le connotazioni quali/quantitative del delitto di inquinamento vero e proprio.

    La compromissione o il deterioramento “significativi e misurabili”
    La compromissione o il deterioramento “significativi e misurabili”

    Il risultato della condotta materiale si sostanzia in una “compromissione” o un “deterioramento”. Il discrimine fra le due situazioni non è agevole.

    Dal punto di vista strettamente lessicale, la prima espressione si distingue dalla seconda per una proiezione dinamica degli effetti, nel senso appunto di una situazione tendenzialmente irrimediabile (“compromessa”) che può perciò teoricamente ricomprendere condotte causali al tempo stesso minori o maggiori di un’azione di danneggiamento, ma che rispetto a questo abbiano un maggior contenuto di pregiudizio futuro. In ambito normativo, i due termini si rinvengono insieme, ma in una diversa relazione tra loro (il “deterioramento” inteso come forma di “compromissione”), nella definizione di danno ambientale data dall’art. 18 della Legge 8 luglio 1986, n. 349 (Legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente), individuato in “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”; una formula che corrisponde alla progressione misurabile (secondo parametri scientifici) del danno ambientale, al cui interno il deterioramento coincide in una perdita del grado di usabilità e/o di funzionalità ecologica.

    Nel D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, invece, il termine “compromissione” non è quasi mai utilizzato e, laddove lo è (v. ad es. l’art. 77, D.Lgs. 152/2006, con riferimento alle problematiche concernenti la tutela dei corpi idrici), non è impiegato per indicare una situazione di danno attuale, per la quale si utilizza invece il termine “deterioramento” (art. 300).

    Nell’assenza di inequivoci riscontri testuali, non può anche escludersi un significato dei due lemmi se non identico (interpretando l’espressione come un’endiadi, nonostante la presenza della disgiuntiva “o”) quanto meno largamente sovrapponibile, il cui nucleo comune è rintracciabile in quella situazione fattuale risultante da una condotta che ha determinato un danno all’ambiente.

    Con riferimento al requisito della “significatività” e “misurabilità”, va ricordato che nella lettura definitiva è stata abbandonata una prima formulazione che, nel pretendere un inquinamento “rilevante”, lasciava aperte tutte le perplessità sul rispetto del principio di determinatezza di cui al comma 2 dell’art. 25 Cost.

    Peraltro, anche in rapporto alla previsione finale, sicuramente più puntuale, non pare inutile richiamare l’insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 247 del 15 maggio 1989) che, relativamente a tutt’altra fattispecie (si trattava dell’art. 4, comma 1, n. 7, Legge 7 agosto 1982, n. 516, conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 10 luglio 1982, n. 429, recante norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria. Delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per i reati tributari), ritenne non fondata la questione di legittimità costituzionale prospettata con riferimento all’impiego della nozione “misura rilevante”, sulla base del rilievo che (in quella fattispecie) la misura rilevante non integrava uno degli elementi costitutivi del reato ma soltanto un “filtro selettivo, che non incide sulla dimensione intrinsecamente offensiva del fatto, ma ne connota solo la gravità, contrassegnando il limite a partire dal quale l’intervento punitivo è ritenuto opportuno”, dovendosi pertanto la predetta misura rilevante piuttosto assimilare alla figura della condizione obiettiva di punibilità; ed osservando ancora che nella fattispecie in esame “la ‘misura rilevante’ non può ragionevolmente far parte dell’oggetto del dolo”.

    Venendo allora alla formulazione prescelta, se la “significatività” indica una situazione di chiara evidenza dell’evento di inquinamento in virtù della sua dimensione, la richiesta compresenza di un coefficiente di “misurabilità” rimanda alla necessità - ridondante ovviamente sul piano probatorio - di una oggettiva possibilità di quantificazione, tanto con riferimento alle matrici aggredite che ai parametri scientifici (biologici, chimici, organici, naturalistici, etc.) dell’alterazione; finendo così inevitabilmente per richiamare quella quantificazione e gradazione del danno ambientale, di cui al già citato art. 18 della Legge 8 luglio 1986, n. 349.

    Il concetto di compromissione o deterioramento “significativi e misurabili” riprende peraltro la definizione di danno ambientale di cui all’art. 300 del Codice dell’Ambiente (“qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”) e la stessa nozione comunitaria di “danno ambientale” posta dalla Direttiva n. 2004/35/CE, che usa l’espressione “mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi direttamente o indirettamente”.

    In concreto, il confine sul lato inferiore della condotta dovrebbe essere rappresentato dal mero superamento delle concentrazioni soglie di rischio (CSR) - punito dalla diversa fattispecie di pericolo prevista dall’art. 257 del D.Lgs. 152/2006, ove non seguito dalla bonifica del sito - che non abbia arrecato un evento di notevole inquinamento; mentre sul versante opposto la fattispecie confina, nella progressione immaginata dal legislatore, con il più grave reato di disastro, che pretende (come di dirà oltre) una alterazione “irreversibile o particolarmente onerosa” dell’ecosistema: di modo che l’inquinamento è ravvisabile in tutte le condotte di danneggiamento delle matrici che, all’esito della stima fattane, producono una alterazione significativa del sistema, senza assumere le connotazioni dell’evento tendenzialmente irrimediabile.

    GIURISPRUDENZA

    Detta conclusione è avvalorata dalle prime pronunce giurisprudenziali di legittimità sull’argomento.

    La Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla questione, ha infatti affermato che la “compromissione” e il “deterioramento”, di cui al delitto di inquinamento ambientale previsto dall’art. 452-bis c.p. (disposizione introdotta dalla Legge 22 maggio 2015, n. 68), consistono in un’alterazione, significativa e misurabile, della originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema, caratterizzata, nel caso della “compromissione”, da una condizione di squilibrio funzionale, incidente sui processi naturali correlati alla specificità della matrice o dell’ecosistema medesimi e, nel caso del “deterioramento”, da una condizione di squilibrio “strutturale”, connesso al decadimento dello stato o della qualità degli stessi:

    • Cass., sez. III, 3 novembre 2016, n. 46170, P.M. in proc. S., in CED Cass. 268059

    Gli stessi giudici di legittimità hanno poi puntualizzato, in una successiva decisione, che ai fini dell’integrazione del reato di inquinamento ambientale, non è richiesta la tendenziale irreversibilità del danno, cosicché fino a che tale irreversibilità non si verifica, le condotte poste in essere successivamente all’iniziale “deterioramento” o “compromissione” del bene non costituiscono “post factum” non punibile, ma integrano singoli atti di un’unica azione lesiva che spostano in avanti la cessazione della consumazione del reato:

    • Cass., sez. III, 3 marzo 2017, n. 10515, S., in CED Cass. 269274

    Il principio è stato ripreso da una sentenza successiva, che ha infatti ribadito che il delitto di inquinamento ambientale, di cui all’art. 452-bis c.p., è reato di danno, integrato da un evento di danneggiamento che, nel caso del “deterioramento”, consiste in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuirne in modo apprezzabile, il valore o da impedirne anche parzialmente l’uso, ovvero da rendere necessaria, per il ripristino, una attività non agevole, mentre, nel caso della “compromissione”, consiste in uno squilibrio funzionale che attiene alla relazione del bene aggredito con l’uomo e ai bisogni o interessi che il bene medesimo deve soddisfare (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto l’evento di danno perfezionato nella ridotta utilizzazione di un corso d’acqua in conformità alla sua destinazione, quale diretta conseguenza della condotta di inquinamento):

    • Cass., sez. III, 30 marzo 2017, n. 15865, R., in CED Cass. 269489

    • Cass., sez. III, 24 gennaio 2023, n. 17400, in CED Cass. 284557

    L’oggetto della compromissione o del deterioramento
    L’oggetto della compromissione o del deterioramento

    Quanto al bersaglio della compromissione, identiche considerazioni in punto di tipicità valgono per l’inciso “porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo”: è indubbio che categorie così (in)definite possano provocare incertezze in sede processuale e, soprattutto, dilatare eccessivamente lo spazio di discrezionalità del giudicante; tuttavia è possibile immaginare che, come avvenuto in altre occasioni (si guardi agli approdi di legittimità in tema di “ingente quantitativo di rifiuti” ex art. 260, D.Lgs. n. 152/2006 o, in tutt’altro ambito, in tema di “ingente” quantità di stupefacente), il percorso giurisprudenziale possa enucleare - con sufficienti margini di conoscibilità del precetto e conseguente prevedibilità della sanzione - le caratteristiche della “estensione” (da valutare, salvo errori, con esclusivo riferimento al dato spaziale quantitativo) e della “significatività” (indicativa invece di una rilevanza non strettamente ancorata al parametro dimensionale ma, appunto, alla significatività dell’area all’interno del territorio circostante).

    Nonostante l’inserimento nella carta costituzionale (art. 117, comma 2, lett. s), Cost.), non si rinviene una vera e propria definizione normativa di “ecosistema”, per cui deve farsi riferimento alla comune accezione che definisce per tale l’insieme degli organismi viventi (comunità), dell’ambiente fisico circostante (habitat) e delle relazioni biotiche e chimico-fisiche all’interno di uno spazio definito della biosfera.

    Opportunamente, la stesura definitiva della norma, mutando una precedente versione che operava un riferimento all’ecosistema in generale, parla di un ecosistema, eliminando ogni incertezza sulla integrazione del reato anche in presenza di aggressione al singolo ecosistema (si pensi a particolari micro-contesti ambientali, come ad esempio aree ben delimitate e caratterizzate da specifiche biodiversità).

    La struttura elencativa della previsione e l’utilizzo delle disgiuntive lascia infine intendere che l’inquinamento ambientale risulta integrato, ricorrendone tutti gli ulteriori presupposti, in presenza della compromissione o del deterioramento di uno soltanto (acqua, aria, suolo, e così via) dei beni ambientali aggrediti.

    Il rapporto di causalità
    Il rapporto di causalità

    Rispetto alla versione approvata in un primo passaggio alla Camera dei Deputati, dal testo dell’articolo è stato eliminato l’inciso “o contribuisce a cagionare” che era presente dopo la parola “cagiona”: non pare peraltro che tale dinamica parlamentare possa diversamente indirizzare gli esiti interpretativi derivanti dall’applicazione della regola ordinaria di cui all’art. 41 c.p., nel senso di consentire di escludere la rilevanza delle concause (preesistenti, concomitanti o sopravvenute) dell’evento di inquinamento.

    Ciò nondimeno, la problematica assume una evidente importanza a seguito della declinazione del reato in termini di delitto di evento, sembrando evidente la necessità - d’ora in avanti - della prova di un diretto ed indiscusso rapporto eziologico, sia pure in termini di concausa, fra la condotta e l’evento di inquinamento, sicché non potranno non essere prese in considerazione ed attentamente valutate le situazioni molto frequenti di preesistente compromissione delle matrici ambientali.

    Sotto questo aspetto, è chiaro che la costruzione normativa della fattispecie di inquinamento (e di disastro) in forma di reato di evento passa, sul piano processuale e probatorio, attraverso sentieri meno agevoli rispetto a quelli praticabili nei casi in cui il reato si perfeziona a seguito del mero superamento formale di valori-soglia predeterminati: situazioni - le ultime - che anch’esse non prescindono certamente dalla verifica dello status quo ante (anche ai fini della misurazione del superamento del valore soglia), ma che non necessitano dei faticosi accertamenti ricostruttivi della “causa” dell’inquinamento o del disastro, allorquando detta causa non sia identificabile in una condotta contenuta in un determinato segmento spazio/temporale ma risulti essere invece la sommatoria di comportamenti distruttivi ripetuti e consolidati negli anni.

    L’abusività della condotta
    L’abusività della condotta

    Abbandonando anche in questo caso una versione approvata in prima lettura dalla Camera dei Deputati, il testo definitivo della disposizione adopera il termine “abusivamente” per definire il carattere illecito della condotta di inquinamento (come di quella di disastro, di cui si dirà più oltre); la formulazione precedente puniva invece la condotta in quanto effettuata “in violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, specificamente poste a tutela dell’ambiente e la cui inosservanza costituisce di per sé illecito amministrativo o penale”.

    L’eliminazione del riferimento alle sole violazioni poste a tutela dell’ambiente è stata giustificata con lo scopo di eliminare ogni incertezza sulla configurabilità del reato anche per effetto di condotte di inquinamento (e di disastro) consumate mediante infrazione di regole volte a tutelare in via immediata interessi diversi ma collegati alla tutela ambientale.

    Stando alle dichiarazioni programmatiche, mediante tale sostituzione il legislatore ha inteso poi superare le questioni che il richiamo alle disposizioni comportava, rispettivamente, sul piano del concorso di reati ovvero del concorso apparente di norme penali o, nel caso di illecito amministrativo, sul piano dell’applicabilità del principio di specialità di cui all’art. 9 della Legge 24 novembre 1981, n. 689.

    Nella formulazione precedente, infatti, l’evento di compromissione o deterioramento rilevante dell’ambiente era esplicita conseguenza di una condotta costituente di per sé illecito amministrativo o penale: il tenore letterale della disposizione suggeriva apertamente l’idea di un reato complesso, comprendente in sé altro illecito penale (o amministrativo) con in più l’evento tipizzato, ovvero la compromissione o il rilevante deterioramento ambientale.

    La questione peraltro non pare priva di rilievo anche con la stesura definitiva, poiché rimane comunque presente l’interrogativo sul se e quando è possibile ipotizzare il concorso fra i nuovi delitti di danno e le violazioni delle disposizioni penali o amministrative ambientali di carattere formale.

    Prudentemente, si può ipotizzare che - a differenza di altre situazioni: si pensi per esempio all’ambito della prevenzione e protezione dagli infortuni sul lavoro, dove la violazione formale concorre senza dubbio con altri reati, a cominciare proprio dal disastro ex art. 434, comma 2, c.p., in ragione della diversità dei beni lesi o messi in pericolo mediante un’unica condotta attiva o più spesso omissiva - sia qui proprio la progressione quantitativa nella messa in pericolo o lesione dell’unico bene “ambiente” a condurre verso un assorbimento delle violazioni formali (in particolare, della contravvenzione di cui all’art. ex art. 257, D.Lgs. n. 152/2006) allorquando si registri una sovrapposizione delle fattispecie, potendosi ipotizzare invece il concorso di reati ogni qual volta attraverso la commissione di un illecito penale di natura diversa da quella ambientale si cagioni anche un evento di inquinamento (o di disastro); salvo che non si imponga una diversa lettura plurioffensiva degli illeciti ambientali sottostanti - specialmente di quelli che si concretizzano non in un azione materiale di inquinamento o immissione ma in una condotta meramente formale (tipico il caso di mancanza di autorizzazione) - che privilegi la compresenza di un interesse protetto ulteriore, identificabile nella potestà di tutela e di controllo preventivo facente capo alla Pubblica amministrazione.

    La scelta dell’avverbio “abusivamente” ha comunque suscitato plurimi interrogativi:

    • sia sul versante delle preoccupazioni circa la tipicità della fattispecie, postulandosi che la precedente stesura fosse più idonea ad espungere dall’ambito di applicazione della disposizione la violazione di principi (ad es. di precauzione, di prevenzione etc., di cui all’art. 3-ter D.Lgs. n. 152/2006) non tradottisi in specifici precetti muniti di autonome sanzioni amministrative o penali, così come di prescrizioni contenute in autorizzazioni amministrative non strettamente funzionali alla tutela dell’ambiente (ma per esempio a difesa del territorio, del paesaggio, della salute o del decoro urbano);

    • tanto sul lato opposto dei timori di una scarsa efficacia delle nuove fattispecie per effetto di un loro confinamento alle sole ipotesi di condotte abusive in quanto sine titulo, con esclusione dunque di tutte le situazioni nelle quali sia possibile rinvenire un provvedimento formale di autorizzazione alla condotta materiale dalla quale sia poi derivato il fenomeno di grave alterazione ambientale.

    Con riguardo al primo aspetto, sarà interessante verificare se la formulazione della disposizione rispetti gli insegnamenti dalla Corte costituzionale (sent. n. 5 del 13 gennaio 2004) in tema di “determinatezza” della incriminazione penale.

    A tal proposito pare sufficiente ricordare quanto ivi affermato dal giudice delle leggi circa la legittimità del ricorso, da parte del legislatore penale, a c.d. formule elastiche (“senza giustificato motivo”, “senza giusta causa”, “arbitrariamente”, etc.) adoperate per descrivere reati di natura non soltanto commissiva, ma anche omissiva, e destinate a fungere da “valvola di sicurezza” del meccanismo repressivo, evitando che la sanzione penale scatti allorché - anche al di fuori della presenza di vere e proprie cause di giustificazione - l’osservanza del precetto appaia concretamente “inesigibile” in ragione, a seconda dei casi, di situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo, di obblighi di segno contrario, ovvero della necessità di tutelare interessi confliggenti, con rango pari o superiore rispetto a quello protetto dalla norma incriminatrice, in un ragionevole bilanciamento di valori.

    Il carattere elastico della clausola si connette, nella valutazione legislativa, alla impossibilità pratica di compiere una elencazione analitica di tutte le situazioni astrattamente idonee a “giustificare” la condotta, elencazione inevitabilmente a rischio di lacune in ragione della varietà delle contingenze e della complessità delle interferenze dei sistemi normativi.

    Secondo l’insegnamento costituzionale, occorre allora accertare, in relazione al singolo contesto, che l’utilizzo della formula elastica - in quanto incidente, sia pure in negativo, sulla delimitazione dell’area dell’illiceità penale - non ponga la norma incriminatrice in contrasto con il fondamentale principio di determinatezza, rimettendo di fatto all’arbitrio giudiziale la fissazione dei confini d’intervento della sanzione criminale.

    Soccorre, a tal fine, il criterio per il quale la verifica del rispetto del principio di determinatezza deve essere condotta non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce: “[…] L’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito penale di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero… di clausole generali o concetti ‘elastici’, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice - avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca - di stabilire il significato di tale elemento, mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo […]“.

    GIURISPRUDENZA

    Sulla questione del rispetto del principio di determinatezza, si è di recente pronunciata la Corte di cassazione, che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 452-bis cod. pen. per contrasto con gli artt. 25 Cost. e 7 CEDU sotto il profilo della sufficiente determinatezza della fattispecie, in quanto le espressioni utilizzate per descrivere il fatto vietato sono sufficientemente univoche, sia per quanto riguarda gli eventi che rimandano ad un fatto di danneggiamento e per i quali la specificazione che devono essere “significativi” e “misurabili” esclude che vi rientrino quelli che non incidono apprezzabilmente sul bene protetto, sia per quanto attiene all’oggetto della condotta precisamente descritto ai nn. 1) e 2) della norma incriminatrice:

    • Cass., Sez. 3, 11 marzo 2020, n. 9736, in CED Cass. 278405.

    Ancora sulla nozione di “abusivamente”
    Ancora sulla nozione di “abusivamente”

    Ferme tali premesse, è lecito comunque dubitare della concreta necessità, in tale prospettiva, dell’inserimento della clausola.

    Invero, l’esigenza di agganciare la punibilità del soggetto oggettivamente “inquinatore” all’assenza di motivi di giustificazione della sua condotta avrebbe comunque trovato sicuro ed adeguato soddisfacimento attraverso l’applicazione delle consuete coordinate che presidiano la responsabilità penale per fatto doloso o quanto meno colposo: la natura di delitto delle nuove incriminazioni richiama infatti l’interprete (e in primo luogo il giudice) ad una più stringente ed impegnativa verifica dell’elemento soggettivo e, di conseguenza, della possibile presenza di ragioni che escludano profili di colpevolezza nella condotta oggettivamente inquinante.

    Ed in tale prospettiva di stretta legalità - venendo al secondo profilo - devono per converso essere esaminate le preoccupazioni di una responsabilità ancorata alla sola ipotesi di condotte non sostenute da un titolo autorizzatorio preventivamente rilasciato.

    Ai fini della valutazione relativa ai modi nei quali può verificarsi una condotta abusiva atta a perfezionare la nuova fattispecie di reato, un ausilio può trarsi certamente dall’esplorazione dei casi di utilizzo della locuzione in ambito penale e dall’interpretazione fornita dalla giurisprudenza proprio con riguardo alle disposizioni vigenti che sanzionano le condotte abusive.

    Il termine “abusivamente” ricorre frequentemente nel c.p.: in alcuni casi (art. 348, che punisce a titolo di delitto “chiunque abusivamente esercita una professione”; art. 445, relativo all’esercizio, anche abusivo, del commercio di sostanze medicinali; art. 615-ter, che punisce “chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico”; art. 621, che punisce “chiunque, essendo venuto abusivamente a cognizione del contenuto, che debba rimanere segreto, di altrui atti o documenti […] lo rivela, senza giusta causa”), il lemma sembra senz’altro rimandare ad una condotta clandestina, non autorizzata o giustificata; in altre situazioni topografiche (ad es. artt. 323, 571, 643, 661, nonché nei casi in cui l’abuso di una qualità o di una posizione costituisce connotazione modale o circostanza aggravante di una determinata fattispecie), l’espressione rimanda alla presenza originaria di un titolo, una facoltà, un potere, il cui utilizzo però trasmoda, eccede o viene piegato a fini diversi da quelli per i quali è pensato (“abuso” nel senso più letterale della parola).

    In materia ambientale, l’avverbio è poi già presente nell’art. 260 del D.Lgs. n. 152/2006, che sanziona le attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.

    In base al comma 1 della disposizione, infatti, chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti è punito con la reclusione da uno a sei anni.

    GIURISPRUDENZA

    Proprio con riferimento al delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti la Cassazione ha affermato che “il requisito dell’abusività della gestione deve essere interpretato in stretta connessione con gli altri elementi tipici della fattispecie, quali la reiterazione della condotta illecita e il dolo specifico d’ingiusto profitto. Ne consegue che la mancanza delle autorizzazioni non costituisce requisito determinante per la configurazione del delitto che, da un lato, può sussistere anche quando la concreta gestione dei rifiuti risulti totalmente difforme dall’attività autorizzata; dall’altro, può risultare insussistente, quando la carenza dell’autorizzazione assuma rilievo puramente formale e non sia causalmente collegata agli altri elementi costitutivi del traffico”:

    • Cass., sez. III 4 novembre 2013, n. 44449, G., in CED Cass. 258326

    In altra occasione la Corte dichiara che “è destituita di ogni fondamento giuridico la tesi secondo cui nella fattispecie criminosa di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 260 il carattere abusivo della gestione illecita dei rifiuti ricorre solo quando la gestione è clandestina; è abusiva ogni gestione dei rifiuti che avvenga senza i titoli abilitativi prescritti, ovvero in violazione delle regole vigenti nella soggetta materia”:

    • Cass., sez. III, 12 dicembre 2008, n. 46029, D.F., in CED Cass. 241773

    Una sommaria ricognizione degli orientamenti della Cassazione in materia ambientale suggerisce una lettura della situazione abusiva non confinata all’assenza delle necessarie autorizzazioni, ma estesa anche ai casi in cui esse siano scadute o (quanto meno manifestamente) illegittime:

    • Cass., sez. III, 16 dicembre 2005, n. 4503, S., in CED Cass. 233292

    • Cass., sez. III, 20 novembre 2007, n. 358, P. e altro, in CED Cass. 238559

    • Cass., sez. III, 21 ottobre 2010, n. 40945, D.P. ed altri, in CED Cass. 248629

    o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta:

    • Cass., sez. V, 11 ottobre 2006, n. 40330, P., in CED Cass. 236294

    ovvero ancora siano violati le prescrizioni e/o i limiti delle autorizzazioni stesse, così che l’attività non sia più giuridicamente riconducibile al titolo abilitativo rilasciato dalla competente Autorità amministrativa:

    • Cass., sez. III, 6 ottobre 2005, n. 40828, P.M. in proc. F., in CED Cass. 232350

    • Cass., sez. III, 20 dicembre 2012, n. 19018, A. e altri, in CED Cass. 255395

    La giurisprudenza di legittimità sembra dunque attestarsi su una posizione che interpreta l’avverbio abusivamente come riferito “a tutte le attività non conformi ai precisi dettati normativi svolte nel settore della raccolta e smaltimento di rifiuti”:

    • Cass., sez. III, 14 luglio 2011, n. 46189, P. ed altri, in CED Cass. 251592

    Più in generale, il fatto che un titolo autorizzatorio - e la norma da cui esso discende - riconosca un diritto o una facoltà giuridica, di cui segni i limiti formali, non sembrerebbe essere di ostacolo al riconoscimento dell’illecito penale, ricorrendone le condizioni, quando il suo esercizio si ponga, in concreto, in contrasto con i fini sostanziali che il titolo (e la norma) si prefigge ovvero con una norma diversa o con gli stessi principi generali dell’ordinamento: nel concetto di “abusivamente” dovrebbero dunque potersi ricomprendere anche le situazioni nelle quali l’attività, pur apparentemente ed esteriormente corrispondente al contenuto formale del titolo, presenti una sostanziale incongruità con il titolo medesimo, il che può avvenire non solo quando si rinvenga uno sviamento dalla funzione tipica del diritto/facoltà conferiti dal titolo autorizzatorio, ma anche quando l’attività costituisca una non corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti all’autorizzazione in questione, in tal caso superandosi i confini dell’esercizio lecito.

    Non sembra ultroneo in proposito ricordare come in un ambito come quello urbanistico/paesaggistico collegato alla materia ambientale per lo strettissimo intreccio degli interessi e beni tutelati, pur con le imprescindibili distinzioni derivanti dal differente contesto (per lo più) contravvenzionale e dalle caratteristiche dell’attività edificatoria come facoltà “concessa” della Pubblica amministrazione, l’orientamento della Corte (Cass., SS.UU., 31 gennaio 1987, n. 3, Giordano, in CED Cass. 176304; Cass., SS.UU., 28 novembre 2001, n. 5115, Salvini, in CED Cass. 220708; Cass., Sez. 3, 7 luglio 2017, n. 33051, in CED Cass. 270645) è incline a ritenere che i relativi reati possano consumarsi anche in presenza di un permesso a costruire formalmente valido, se questo violi, nella sostanza, le norme che regolano la materia sotto i vari profili (l’ordinato sviluppo urbanistico del territorio; la tutela del paesaggio ambientale e culturale), con conseguente rilevante ruolo degli strumenti normativi urbanistici e piani paesaggistici ai fini dell’accertamento della legittimità dell’atto autorizzatorio o concessorio e, per l’effetto, della sussistenza oggettiva della fattispecie; fatta salva, tuttavia, la doverosa e rigorosa valutazione dell’elemento psicologico del soggetto privato, della sua eventuale buona fede, della possibile inevitabilità dell’errore cagionato da un provvedimento della Pubblica amministrazione e di quanto altro entra in considerazione in tutte le situazioni di presenza di un titolo formalmente abilitativo ad una attività poi risultata essere illecita sul piano oggettivo.

    Per ultimo, ad una interpretazione che confini la previsione ai soli casi di inquinamento clandestino potrebbe ostare anche un argomento di ordine sistematico, considerato che laddove il legislatore ambientale ha inteso punire un’attività sine titulo ha adoperato espressamente una formula che indicasse solo e soltanto l’assenza della prescritta autorizzazione - si pensi all’art. 256 del Codice dell’Ambiente, “attività di gestione di rifiuti non autorizzata” - evitando vocaboli polisenso suscettibili di interpretazione non confinata al mero dato formale.

    GIURISPRUDENZA

    Tale soluzione è stata, del resto, avallata autorevolmente dalla Corte di cassazione.

    Chiamata a pronunciarsi sulla nuova disposizione, ha infatti affermato che la condotta “abusiva” di inquinamento ambientale, idonea ad integrare il delitto di cui all’art. 452-bis c.p. (disposizione introdotta dalla Legge 22 maggio 2015, n. 68), comprende non soltanto quella svolta in assenza delle prescritte autorizzazioni o sulla base di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma anche quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali - ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale - ovvero di prescrizioni amministrative (Fattispecie di inquinamento di acque marine, derivante da un’attività di bonifica di fondali effettuata in spregio delle relative prescrizioni progettuali):

    • Cass., sez. III, 3 novembre 2016, n. 46170, P.M. in proc. S., in CED Cass. 268060

    Il principio è stato successivamente ribadito da altra decisione, che ha infatti affermato che la condotta “abusiva” di inquinamento ambientale, idonea ad integrare il delitto di cui all’art. 452-bis c.p., comprende non soltanto quella svolta in assenza delle prescritte autorizzazioni o sulla base di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma anche quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali - ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale - ovvero di prescrizioni amministrative; ne consegue che, ai fini della integrazione del reato, non è necessario che sia autonomamente e penalmente sanzionata la condotta causante la compromissione o il deterioramento richiesti dalla norma (Fattispecie di inquinamento di corso d’acqua cagionato da un accumulo di reflui - penalmente irrilevanti singolarmente considerati, essendo inferiori ai valori limite stabiliti nel D.Lgs. n. 152/2006 - provenienti da impianto di depurazione privo di autorizzazione allo scarico):

    • Cass., sez. III, 30 marzo 2017, n. 15865, R., in CED Cass. 269491

    Ancora, in senso conforme, anche questa sentenza della Cassazione relativa ad una fattispecie di captazione di acqua pubblica di un lago ad uso privato, in violazione dell’art. 17, R.D. n. 1775 del 1933:

    • Cass., sez. III, 21 giugno 2018, n. 28732, M., in CED Cass. 273565

    Si registra, poi, una significativa decisione della Cassazione che si è pronunciata sulla natura giuridica del delitto in esame, affermando che il delitto di inquinamento ambientale è un reato di danno, che non tutela la salute pubblica, ma l’ambiente in quanto tale e presuppone l’accertamento di un concreto pregiudizio a questo arrecato, secondo i limiti di rilevanza determinati dalla nuova fattispecie incriminatrice, che non richiedono la prova della contaminazione del sito nel senso indicato dagli artt. 240 ss., D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152:

    • Cass., sez. III, 6 novembre 2018, n. 50018, in CED Cass. 274864

    Ancora, non meno rilevante è quella decisione della Cassazione che, pronunciandosi sull’elemento psicologico del delitto in esame, ha affermato che il delitto di inquinamento ambientale costituisce un reato a dolo generico, per la cui punibilità è richiesta la volontà di “abusare” del titolo amministrativo di cui si ha la disponibilità, con la consapevolezza di poter determinare un inquinamento ambientale, essendo punibile, pertanto, anche a titolo di dolo eventuale:

    • Cass., sez. III, 12 giugno 2019, n. 26007, in CED Cass. 276015

    Infine, si segnala la decisione della S.C. che ha ritenuto integrare il delitto di inquinamento ambientale di cui all’art. 452-bis c.p. la pesca di oloturie e di ricci di mare effettuata in violazione di disposizioni legislative o regolamentari poste a tutela dell’ambiente marino, che abbia provocato un notevole grado di compromissione, tale da poter assurgere a vero e proprio deterioramento delle popolazioni e da determinare un significativo squilibrio dell’ecosistema e della biodiversità correlata ai fondali:

    • Cass., sez. III, 14 settembre 2023, n. 41602

    Una rapidissima annotazione merita infine l’aggravante di cui al comma 2 (il cui testo è stato sostituito dall’art. 6-ter, comma 3, lett. b), D.L. 10 agosto 2023, n. 105, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 ottobre 2023, n. 137, a decorrere dal 10 ottobre 2023) - per l’ipotesi di inquinamento in danno di specie animali e vegetali protette - che opera secondo il meccanismo previsto dall’art. 64 c.p., ossia con aumento della pena da un terzo alla metà, salvo il caso in cui l’inquinamento causi deterioramento, compromissione o distruzione di un habitat all’interno di un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, nel quale caso la pena è aumentata da un terzo a due terzi. Il generico riferimento alle specie “protette” incontra, anche qui, qualche rischio di conflitto con i criteri di certezza e predeterminazione della norma penale; salvo - come probabile - che non si ricorra alla individuazione fornita dall’Allegato IV della Direttiva n. 92/43/CE (relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche) e nell’Allegato 1 della Direttiva 2009/147/CE (concernente la conservazione degli uccelli selvatici), atti però in questa sede legislativa non espressamente richiamati, a differenza di quanto avvenuto con l’introduzione dell’art. 727-bis c.p. in tema di uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali e vegetali selvatiche protette.

    APPROFONDIMENTI

    • AMBIENTE & SVILUPPO 6/2017: “Inquinamento e danno all’ambiente: dal TUA all’art. 452-bis c.p. (parte seconda)”, di F. Giampietro.

    • AMBIENTE & SVILUPPO 5/2017: “Inquinamento e danno all’ambiente: dal TUA all’art. 452-bis c.p. (parte prima)”, di F. Giampietro.

    • AMBIENTE & SVILUPPO 6/2020: “Il delitto di inquinamento ambientale nuovamente al vaglio della S.C. tra soluzioni e criticità. (Nota a Cass. Pen. n. 9736/2020)”, di G. Rizzo Minelli.

    1.11.2 Il delitto di morte o lesioni come conseguenza non voluta del delitto di inquinamento ambientale

    1.11.2Il delitto di morte o lesioni come conseguenza non voluta del delitto di inquinamento ambientale

    € SANZIONI

    Art. 452-ter, c.p.:

    – reclusione da 2 anni e sei mesi a sette anni se da uno dei fatti di cui all’art. 452-bis deriva, quale conseguenza non voluta dal reo, una lesione personale, ad eccezione delle ipotesi in cui la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni;

    – reclusione da tre a otto anni se ne deriva una lesione grave;

    – reclusione da quattro a nove anni se ne deriva una lesione gravissima;

    – reclusione da cinque a dieci anni se ne deriva la morte.

    Nel caso di morte di più persone, di lesioni di più persone, ovvero di morte di una o più persone e lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per l’ipotesi più grave, aumentata fino al triplo, ma la pena della reclusione non può superare gli anni venti.

    Il nuovo art. 452-ter c.p. - che nel primo testo della Camera disciplinava il delitto di disastro ambientale - riguarda ora, nella formulazione introdotta in un primo passaggio al Senato e poi approvata definitivamente, l’ipotesi di morte o lesioni (non lievissime) di una o più persone, derivate come conseguenza non voluta del delitto di inquinamento ambientale.

    La disposizione crea dunque una fattispecie di reato, l’inquinamento ambientale, aggravato dall’evento di morte o lesioni, costruita sulla falsariga dell’art. 586 c.p., contemplando un articolato catalogo di pene graduato in ragione della gravità delle conseguenze del delitto e mirando, nella sostanza, ad inasprire il trattamento sanzionatorio di fatti che sarebbero comunque punibili a titolo di lesioni od omicidio colposi.

    La norma suscita qualche interrogativo, nella misura in cui non si rinviene una analoga previsione anche con riferimento al reato di disastro che, per definizione, rappresenta un fatto di inquinamento ambientale dagli effetti appunto “disastrosi” e come tale con maggiori potenzialità aggressive nei confronti della incolumità fisica delle persone.

    Appare in altri termini poco giustificabile che il legislatore non abbia inteso punire specificamente le più probabili conseguenze mortali o lesive che possono derivare da una “alterazione irreversibile” dell’ambiente, preoccupandosi di sanzionare solo quelle frutto di una mera “compromissione o deterioramento”, sia pure significativi e misurabili.

    Tra l’altro (come si dirà oltre), il disastro ambientale è integrato comunque quando la compromissione o il deterioramento abbiano raggiunto un tale livello da costituire una “offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo”: il che sta a significare che la fattispecie di cui all’art. 452-ter si dovrebbe applicare, se mal non se ne interpreta il significato, solo nella ipotesi - difficile da immaginare nella pratica - di un condotta di inquinamento che abbia cagionato, come effetto non voluto, morti o feriti, senza però che al suo manifestarsi costituisse quanto meno un’esposizione a pericolo della pubblica incolumità.

    Un’ulteriore osservazione investe l’elemento psicologico.

    GIURISPRUDENZA

    Un fatto doloso di inquinamento ambientale - ossia non un mero superamento delle concentrazioni soglie di rischio, bensì una deliberata compromissione significativa e misurabile delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo - potrebbe significare, proprio per i suoi effetti ad ampio raggio, non soltanto la “prevedibilità in concreto” delle conseguenze lesive sulle persone, ma che tali conseguenze, ove ricorrano gli specifici indicatori passati in rassegna dalle recenti Sezioni Unite, sono state concretamente “previste ed accettate” dall’agente, finendo così per caratterizzarne la condotta in termini di dolo eventuale (rispetto all’evento lesivo o mortale):

    • Cass., SS.UU., 22 gennaio 2009, n. 22676, Ronci, in CED Cass. 243381

    Con la conseguenza, in questi casi, della impossibilità di configurare la nuova previsione, alla luce della consolidata giurisprudenza secondo cui affinché possa ravvisarsi il reato di cui all’art. 586 c.p. è necessario che l’evento lesivo costituito dalla morte e dalle lesioni, non sia voluto neppure in via indiretta o con dolo eventuale dall’agente, poiché questi, se pone in essere la propria condotta pur rappresentandosi la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze di essa e ciononostante accettandone il rischio, risponde, in concorso di reati, del delitto inizialmente preso di mira e del delitto realizzato come conseguenza voluta del primo:

    • Cass., sez. III, 2 aprile 2014, n. 31841, C, in CED Cass. 260291

    1.11.3 Il delitto di disastro ambientale

    1.11.3Il delitto di disastro ambientale

    Come già osservato in precedenza, eventi di disastro ambientale sono stati sin qui ricondotti allo schema normativo di “altro disastro” (c.d. disastro “innominato”) di cui all’art. 434 c.p.

    GIURISPRUDENZA

    Si tratta di ipotesi spesso scrutinate dalla giurisprudenza della Cassazione, che ha ritenuto legittimo l’inquadramento:

    • Cass., sez. III, 14 luglio 2011, n. 46189, P. ed altri, in CED Cass. 251592

    Affermando che il delitto di disastro colposo innominato (artt. 434 e 449 c.p.) è integrato da un “macroevento”, che comprende non soltanto gli accadimenti disastrosi di grande immediata evidenza (crollo, naufragio, deragliamento etc.) che si verificano in un arco di tempo ristretto, ma anche quegli eventi non immediatamente percepibili, che possono realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, che pure producano quella compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività che consentono di affermare l’esistenza di una lesione della pubblica incolumità:

    • Cass., sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, P.G. in proc. B. e altri, in CED Cass. 235669

    • Cass., sez. I, 19 gennaio 2018, n. 2209, P.G. in proc. Conti e altri, in CED Cass. 272366

    In altra occasione la Corte ha stabilito che ai fini della configurabilità del delitto di disastro ambientale colposo è necessario che l’evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità sia straordinariamente grave e complesso ma non nel senso di eccezionalmente immane, essendo necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo collettivamente un numero indeterminato di persone e che la grande dimensione dell’evento desti un esteso senso di allarme, sicché non è richiesto che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte o lesioni alle persone, potendo pure colpire cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga un pericolo grave per la salute collettiva:

    • Cass., sez. V, 11 ottobre 2006, n. 40330, P., in CED Cass. 236295

    • Cass., sez. IV, 19 novembre 2019, n. 46876, PG in proc. Chiodi, in CED Cass. 277702

    • Cass., sez. I, 18 marzo 2021, n. 7479, in CED Cass. 282683

    In tal senso si identificano danno ambientale e disastro qualora l’attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull’uomo:

    • Cass., sez. I, 19 novembre 2014, n. 7941, S., in CED Cass. 262790

    • Cass., sez. I, 19 gennaio 2018, n. 2209, P.G. in proc. Conti e altri, in CED Cass. 272366

    • Cass., sez. I, 19 maggio 2023, n. 31005, in CED Cass. 285055

    Con specifico riferimento proprio ad ipotesi di disastro derivante da condotte stratificate nel tempo, per effetto di una imponente contaminazione di siti mediante accumulo sul territorio e sversamento nelle acque di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi, la Cassazione ha osservato che requisito del reato di disastro di cui all’art. 434 c.p. è la potenza espansiva del nocumento unitamente all’attitudine ad esporre a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone, sicché, ai fini della configurabilità del medesimo, è necessario un evento straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente immane:

    • Cass., sez. III, 16 gennaio 2008, n. 9418, A., in CED Cass. 239160

    contra

    • Cass., Sez. IV, 20 gennaio 2021, n. 2390, Nonni e altro, in CED Cass. 251749

    La Cassazione ha altresì affermato che per la particolare struttura dell’art. 434 c.p. il disastro ambientale innominato è delitto a consumazione anticipata, in quanto la realizzazione del mero pericolo concreto del disastro è idonea a consumare il reato mentre il verificarsi dell’evento (di cui al comma 2) funge da circostanza aggravante; il dolo è intenzionale rispetto all’evento di disastro ed è eventuale rispetto al pericolo per la pubblica incolumità; mentre per la configurabilità dell’ipotesi colposa (artt. 434 e 449, c.p.) è necessario che l’evento si verifichi, diversamente dall’ipotesi dolosa nella quale la soglia per integrare il reato è anticipata al momento in cui sorge il pericolo per la pubblica incolumità e, qualora il disastro si verifichi, risulterà appunto integrata la fattispecie aggravata prevista dal comma 2 dello stesso art. 434 c.p.:

    • Cass., sez. IV, 5 maggio 2011, n. 36626, M., in CED Cass. 251428

    • conf., Cass., sez. I, 23 febbraio 2015, n. 7941, P.C., R.C. e S., in CED Cass. 262788

    Nell’assetto previgente, dunque, il delitto di disastro ambientale “innominato” di cui all’art. 434 c.p., comma 1, è (era) dunque reato di pericolo a consumazione anticipata, perfezionato con la condotta di “immutatio loci”, purché idonea in concreto a minacciare l’ambiente di un danno di eccezionale gravità, seppure con effetti non necessariamente irreversibili per essere per esempio pur sempre riparabile con opere di bonifica.

    Con l’introduzione dell’art. 452-quater c.p., il legislatore intende superare le difficoltà di configurazione intrinsecamente connesse, da una parte, alla stessa struttura della fattispecie contemplata dall’art. 434 c.p. e, per altro verso, alla comunque non pacifica enucleazione del concetto stesso di disastro ambientale, laddove sganciato da eventi - come il crollo - naturalisticamente confinabili in sicure coordinate spazio/temporali, che paiono costituire l’elemento accomunante delle situazioni previste dalla norma codicistica.

    € SANZIONI

    Art. 452-quater, c.p.:

    reclusione da 5 a 15 anni per chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale, fuori dai casi previsti dall’art. 434 c.p.

    Costituiscono disastro ambientale alternativamente:

    1) l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema;

    2) l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali;

    3) l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.

    Quando il disastro è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette, la pena è aumentata da un terzo alla metà.

    Nella formulazione della fattispecie (il cui ultimo comma, che prevede un’ipotesi aggravata, è stato sostituito dall’art. 6-ter, comma 3, lett. c), D.L. 10 agosto 2023, n. 105, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 ottobre 2023, n. 137, a decorrere dal 10 ottobre 2023), un ruolo importante hanno assunto - come dichiarato in via programmatica in sede di lavori parlamentari - i rilievi contenuti nella sentenza della Corte cost. n. 327 del 30 luglio 2008.

    Come noto, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con il principio di determinatezza della formulazione dell’art. 434 c.p. nella parte in cui punisce il c.d. disastro innominato, la Consulta, nel ritenere infondata la prospettata questione di legittimità, osservò che “l’art. 434 c.p. mira a colmare ogni eventuale lacuna, che di fronte alla multiforme varietà dei fatti possa presentarsi nelle norme [...] concernenti la tutela della pubblica incolumità [...]. D’altra parte[...], allorché il legislatore - nel descrivere una certa fattispecie criminosa - fa seguire alla elencazione di una serie di casi specifici una formula di chiusura, recante un concetto di genere qualificato dall’aggettivo ‘altro’ (nella specie: ‘altro disastro’), deve presumersi che il senso di detto concetto - spesso in sé alquanto indeterminato - sia destinato a ricevere luce dalle species preliminarmente enumerate, le cui connotazioni di fondo debbono potersi rinvenire anche come tratti distintivi del genus [...], dunque [...] l’’altro disastro’, cui fa riferimento l’art. 434 c.p., è un accadimento sì diverso, ma comunque omogeneo, sul piano delle caratteristiche strutturali, rispetto ai ‘disastri’ contemplati negli altri articoli compresi nel capo relativo ai ‘delitti di comune pericolo mediante violenza’[...]. La conclusione ora prospettata (necessaria omogeneità tra disastro innominato e disastri tipici) non basterebbe peraltro ancora a consentire il superamento del dubbio di costituzionalità. Rimane infatti da acclarare se, dal complesso delle norme che incriminano i ‘disastri’ tipici, sia concretamente possibile ricavare dei tratti distintivi comuni che illuminino e circoscrivano la valenza del concetto di genere ‘disastro’ [...]. Al riguardo, si è evidenziato in dottrina come - al di là delle caratteristiche particolari delle singole figure (inondazione, frana, valanga, disastro aviatorio, disastro ferroviario, etc.) - l’analisi d’insieme dei delitti compresi nel capo I del titolo VI consenta, in effetti, di delineare una nozione unitaria di ‘disastro’, i cui tratti qualificanti si apprezzano sotto un duplice e concorrente profilo. Da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall’altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l’evento deve provocare - in accordo con l’oggettività giuridica delle fattispecie criminose in questione (la ‘pubblica incolumità’) - un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti. Tale nozione [...] corrisponde sostanzialmente alla nozione di disastro accolta dalla giurisprudenza di legittimità [...] che fa perno, per l’appunto, sui due tratti distintivi (dimensionale e offensivo) in precedenza indicati.

    Dalle considerazioni sopra riportate emerge che, seppure ai diversi fini di ritenere sussistente la compatibilità con il principio di determinatezza del disposto del vigente art. 434 c.p., la Corte costituzionale ha ritenuto necessaria la compresenza di due elementi distinti, il primo dei quali attinente alla natura straordinaria dell’evento disastro e, il secondo, al pericolo per la pubblica incolumità che da esso deve derivare.

    Si può notare allora come, invece, nella formulazione del nuovo art. 452-quater del c.p. l’elemento “dimensionale” e quello “offensivo” dell’evento siano richiesti non congiuntamente ma disgiuntamente (come emerge dall’uso, al comma 1, della parola “alternativamente”), soluzione che può essere forse coerente con la diversa offensività dell’ipotesi delittuosa qui considerata e cioè per l’appunto la lesione del bene protetto dell’ambiente piuttosto che l’attentato alla pubblica incolumità: si tratterà dunque di verificare se la formulazione, “recuperando” sul piano della tipicità attraverso una descrizione della condotta evidentemente più puntuale rispetto all’assenza di indicazioni (“fatti diretti a…”) nell’art. 434 c.p., risulti compatibile con il principio di determinatezza di cui all’art. 25, comma 2, Cost., alla luce di una adottata impostazione normativa differente rispetto a quella su cui si è già pronunciato il giudice delle leggi.

    In ogni caso, la descrizione dell’evento di disastro pare riprodurre abbastanza fedelmente quei connotati di “nocumento avente un carattere di prorompente diffusione ed espansività e che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone”, già individuati dalla Cassazione negli indirizzi di cui si è fatto cenno in precedenza.

    Una annotazione riguarda il carattere “irreversibile” dell’alterazione.

    La prova della irreversibilità non desta particolari preoccupazioni ove si concordi che un disastro è irrimediabile anche qualora occorra, per una sua eventuale reversibilità, il decorso di un ciclo temporale talmente ampio, in natura, da non poter essere rapportabile alle categorie dell’agire umano; non sembra cioè poter aver credito un’opinione per la quale un ecosistema non può considerarsi irreversibilmente distrutto finché ne è teoricamente possibile, ipotizzando la compresenza di tutti gli ulteriori presupposti favorevoli, un ipotetico ripristino in un periodo però sensibilmente lungo o addirittura lunghissimo di tempo.

    D’altra parte, è sufficiente - vista la struttura alternativa della fattispecie - che il disastro sia di ardua reversibilità, condizione che si verifica quando l’eliminazione dell’alterazione dell’ecosistema risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali, con una duplice condizione (resa evidente dalla congiunzione “e”) che peraltro potrebbe far ricondurre alla minore fattispecie di inquinamento situazioni di gravissima compromissione ambientale, bonificabile solo con ingentissimi impegni economici ma che però non richiedano l’emanazione di provvedimenti amministrativi deroganti alla disciplina ambientale ordinaria.

    GIURISPRUDENZA

    Del resto, che la sostanziale “irreversibilità” sia elemento caratterizzante della fattispecie e idoneo a distinguerlo da quello di inquinamento ambientale è stato evidenziato, di recente, dalla stessa Corte di cassazione. I Supremi giudici hanno, infatti, puntualizzato che ai fini della configurabilità del reato di inquinamento ambientale, di cui all’art. 452-bis c.p., non è richiesta una tendenziale irreversibilità del danno; ne consegue che le condotte poste in essere successivamente all’iniziale deterioramento o compromissione del bene non costituiscono un “post factum” non punibile, ma integrano invece singoli atti di un’unica azione lesiva che spostano in avanti la cessazione della consumazione, sino a quando la compromissione o il deterioramento diventano irreversibili, o comportano una delle conseguenze tipiche previste dal successivo reato di disastro ambientale di cui all’art. 452-quater dello stesso Codice:

    • Cass., sez. III, 30 marzo 2017, n. 15865, R., in CED Cass. 269490

    La clausola di riserva
    La clausola di riserva

    L’inserimento della clausola “fuori dai casi previsti dall’art. 434” presta il fianco a qualche difficoltà interpretativa.

    L’asserzione contenuta nella citata sentenza n. 327/2008 della Corte costituzionale - secondo cui l’art. 434 c.p., nella parte in cui punisce il disastro innominato, assolve pacificamente ad una funzione di “chiusura” del sistema - non sembra possa essere invocata, come invece è stato fatto in sede di dichiarazioni programmatiche, per giustificare la clausola di riserva: mentre infatti quella affermazione trovava evidente collocazione in un sistema di protezione penale dell’ambiente strutturato sulle violazioni formali e sul delitto ex art. 434 c.p., a seguito della introduzione di un delitto di disastro ambientale concepito come reato di evento (di danno) sembra più difficile immaginare un’ipotesi nella quale una fattispecie di aggressione dell’ambiente, irreversibile o di costosissima reversibilità, possa ricadere nel fuoco dell’art. 434 c.p., anziché del nuovo art. 452-quater.

    Non è perfettamente chiaro in altri termini il senso stesso della clausola, in quanto:

    • o si è in presenza di un crollo o altro fatto traumatico che non abbia cagionato uno degli eventi del nuovo art. 452-quater, ossia una alterazione irreversibile o quasi dell’equilibrio di un ecosistema ovvero un’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo: ed allora non sembrerebbe porsi alcun problema di rapporto fra le fattispecie, donde la sostanziale inoperatività della riserva;

    • ovvero il crollo (o altro fatto) ha cagionato un disastro, qualificabile come ambientale alla luce delle suddette connotazioni dell’evento: ed allora, mentre è ipotizzabile un eventuale concorso di reati (ma potrebbero valere le considerazioni sopra espresse in favore del possibile assorbimento nella nuova fattispecie), si dubita invece che possa prevalere, in forza della clausola di salvaguardia, la “vecchia” disposizione codicistica, avendo voluto il legislatore perseguire proprio il fine di evitare il ricorso all’art. 434 c.p., prevedendo una disciplina sanzionatoria ben più rigida.

    Si è anche avanzata l’ipotesi residuale che l’inciso derivi semplicemente dalla volontà legislativa di ribadire l’intangibilità dei processi di disastro ambientale già rubricati sotto l’art. 434 cod. pen, sottolineandone in qualche modo l’impermeabilità alla nuova disciplina: una preoccupazione che, al di là della fondatezza (è difficile escludere in prima battuta scenari di possibile interferenza, ma il dato certo - ai fini della valutazione ed applicazione delle regole ex art. 2, c.p. - è che le nuove norme introducono inediti spazi di incriminazione o ampliano quelli già esistenti ed implicano un trattamento sanzionatorio sensibilmente più grave), sarebbe fronteggiata mediante il ricorso ad una “anomala” clausola di riserva, che per definizione non può certo limitare alle sole condotte già perfezionate la sua funzione di stabilire la priorità dell’applicazione di una norma rispetto ad un’altra.

    Similmente a quanto previsto per l’inquinamento ambientale, anche per il disastro ambientale è stato soppresso il riferimento alla violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative ed è stato mantenuto il solo carattere abusivo della condotta: si rimanda dunque alle considerazioni già espresse in precedenza in ordine alla lettura del termine “abusivamente”.

    Medesime conclusioni per la riproduzione, anche per il reato di disastro (al comma 2 della norma introduttiva della nuova fattispecie), dell’aggravante per l’ipotesi di inquinamento di aree tutelate o in danno di specie animali e vegetali protette - che opera come già detto secondo il meccanismo previsto dall’art. 64, c.p., ossia con aumento della pena sino ad un terzo.

    GIURISPRUDENZA

    Con una interessante decisione, la Corte di cassazione ha peraltro chiarito che in tema di disastro ambientale, anche dopo la Legge 22 maggio 2015, n. 68, che ha introdotto specifici delitti contro l’ambiente disciplinati negli artt. 452-bis ss. c.p., la previsione di cui all’art. 434 c.p. continua a trovare applicazione nei processi in corso per fatti commessi nel vigore della disposizione indicata in forza della clausola di riserva contenuta nell’art. 452-quater c.p. (“Fuori dai casi previsti dall’art. 434”):

    • Cass. pen., sez. I, 17 maggio 2017, dep. 29 dicembre 2017, n. 58023, P., in Ced Cass. 271840

    Si è poi affermato che ai fini della configurabilità del reato di disastro ambientale, anche nell’ipotesi di cui all’art. 452-quater, comma 1, n. 3, c.p., è necessario che le conseguenze della condotta producano effetti sull’ambiente in genere o su uno dei suoi componenti:

    • Cass. pen., sez. III, 3 luglio 2018, n. 29901, in CED Cass. 273210

    APPROFONDIMENTI

    • Il doppio evento (danno/pericolo) nel nuovo delitto di disastro ambientale-sanitario, di M. Poggi D’Angelo, in CASS. PEN., 2019, 2, II, 625 ss.

    • Il nuovo delitto di disastro ambientale: un’importante sentenza in tema di rapporti tra l’art. 452-quater c.p. e 434 c.p., di S. Rizzato, in ARCH. PEN., 2019, 1

    • Disastro ambientale e pubblica incolumità: la Corte di Cassazione circoscrive il campo di applicazione della fattispecie, di G. Ripa, in LEXAMBIENTE, 2018, 4, 60 ss.

    • Primi chiarimenti (e nuove questioni) in materia di disastro ambientale con offesa alla pubblica incolumità, di E. Mazzanti, in DIR. PEN. CONTEMP., 2018

    1.11.4 L’inquinamento e il disastro ambientali colposi. L’elemento soggettivo

    1.11.4L’inquinamento e il disastro ambientali colposi. L’elemento soggettivo

    € SANZIONI

    Art. 452-quinquies, c.p.:

    – diminuzione delle pene da un terzo a due terzi: se taluno dei fatti di cui agli artt. 452-bis e 452-quater è commesso per colpa.

    GIURISPRUDENZA

    Come già osservato in precedenza, la Corte di cassazione ha spesso affermato che nel disastro innominato di cui all’art. 434 c.p. il dolo è intenzionale rispetto all’evento di disastro ed eventuale rispetto al pericolo per la pubblica incolumità:

    • Cass., sez. IV, 5 maggio 2011, n. 36626, M., in CED Cass. 251428

    • Cass., sez. I, 14 dicembre 2010, n. 1332, Z., in CED Cass. 249283

    • Cass., sez. IV, 17 maggio 2006, n. 4675, P.G. in proc. B. e altri, in CED Cass. 235665

    Inquadramento che non subisce variazioni con riferimento alla ipotesi presa in considerazione dal comma 2, qualificata dalla Corte come circostanza (di evento) aggravante e non invece come autonoma ipotesi di reato:

    • Cass., sez. I, 19 novembre 2014, n. 7941, P.C., R.C. e S., in CED Cass. 262789

    • Cass., Sez. IV, 19 ottobre 2018, n. 47779, Di Paolo, in CED Cass. 274355

    L’introduzione dei due nuovi delitti di evento riapre evidentemente il tema della natura del dolo.

    Nella misura in cui non si punisce più un’ipotesi di disastro innominato, quale quella dell’art. 434 c.p., sostanzialmente assimilabile ad una fattispecie di attentato al bene ambiente, bensì una sua volontaria grave e concreta lesione, non pare allora escludibile, quanto meno su una piano teorico, la configurabilità e la sufficienza anche del dolo eventuale; per altro verso, la non sempre facile riconoscibilità, allorquando non si versi in re illicita, degli indici distintivi per come enucleati nell’insegnamento delle Sezioni Unite (in sintesi: la lontananza dalla condotta standard negli ambiti governati da discipline cautelari; la personalità, la storia e le precedenti esperienze; la durata e ripetizione della condotta; la condotta successiva al fatto; il fine della condotta e la sua motivazione di fondo; la probabilità di verificazione dell’evento; le conseguenze negative anche per l’agente in caso di verificazione dell’evento; i tratti di scelta razionale; la verifica controfattuale: Cass., SS.UU., n. 38343 del 24 aprile 2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, in CED Cass. 261104) risulta qui particolarmente amplificata: e ciò sia per le caratteristiche fenomeniche della condotta di inquinamento o disastro ambientale (frutto di comportamenti quasi sempre stratificati, da valutare in rapporto a corpi normativi di difficile decifrazione tecnica), quanto per la presenza, nella novella, di corrispondenti e “confinanti” figure colpose di inquinamento e di disastro ambientale, che potrebbero fungere da catalizzatore, ricorrendone ovviamente gli estremi, nell’inquadramento (in particolare, sub specie di colpa con previsione) della maggior parte dei casi pratici.

    Il nuovo art. 452-quinquies c.p. immette infatti nel sistema le ipotesi in cui l’inquinamento e/o il disastro siano commessi per colpa, prevedendo una riduzione di pena sino ad un massimo di due terzi.

    Al riguardo, la probabile importanza statistica delle manifestazioni colpose dei nuovi delitti potrebbe indurre a letture che accentuino il carattere direttamente precettivo del principio di precauzione - divenuto, con l’introduzione (nel 2008) dell’art. 3-ter del D.Lgs. n. 152/2006, un principio di sistema del diritto ambientale cui devono attenersi le persone fisiche e giuridiche, pubbliche e private - e la sua conseguente rilevanza nella conformazione della colpa.

    Tuttavia, è bene precisare che ad una siffatta interpretazione - in uno con le perplessità espresse dalla dottrina che ritiene il principio di precauzione inidoneo a produrre autonomamente nuove regole cautelari (Fiandaca-Musco, Diritto penale - Parte generale 2010, VI ed., 547) - pare opporsi con fermezza la stessa giurisprudenza di legittimità.

    GIURISPRUDENZA

    La Cassazione, infatti, sottolinea da sempre la necessità di una stringente verifica, in concreto, della prevedibilità (oltre che della evitabilità) dell’evento dannoso:

    • Cass., SS.UU., 22 gennaio 2009, n. 22676, Ronci, in CED Cass. 243381

    • Cass., SS.UU., 24 aprile 2014, n. 38343, P.G., R.C., Espenhahn e altri, cit.

    La Corte di cassazione ha affermato inoltre che anche nell’ipotesi della violazione di quelle norme cautelari c.d. elastiche, perché indicanti un comportamento determinabile in base a circostanze contingenti, è comunque necessario che l’imputazione soggettiva dell’evento avvenga attraverso un apprezzamento della concreta prevedibilità ed evitabilità dell’esito antigiuridico da parte dall’agente modello:

    • Cass., sez. IV, 19 marzo 2013, n. 26239, G. e altri, in CED Cass. 255695

    A maggior ragione, allora, poco spazio sembra residuare per una possibile rilevanza, ai fini dell’integrazione della colpa (generica), della inosservanza di comportamenti precauzionali non previamente tipizzati che, di volta in volta, pur nel rispetto delle regole cautelari invece tipizzate e dato per adempiuto l’unico obbligo positivo di informazione nei confronti della Pubblica amministrazione, appaiano necessari - in base ad una valutazione ex ante - a sventare un rischio di evento inquinante o disastroso, individuato a seguito anche di una singola preliminare valutazione scientifica obbiettiva. Secondo il comma 2 dell’art. 301 del D.Lgs. n. 152/2006 (Attuazione del principio di precauzione), infatti: “L’applicazione del principio di cui al comma 1 concerne il rischio che comunque possa essere individuato a seguito di una preliminare valutazione scientifica obiettiva”.

    Non di agevole lettura si presenta il comma 2 dell’art. 452-quinquies, contemplante una ulteriore diminuzione di un terzo della pena per il delitto colposo di pericolo ovvero quando dai comportamenti di cui agli artt. 452-bis e 452-quater derivi il pericolo di inquinamento ambientale e disastro ambientale.

    Se la struttura delle nuove fattispecie è quella di reati di evento, rispettivamente di inquinamento e di disastro, la previsione rischia di sovrapporsi - con quanto ne consegue in termini di difficile coordinamento - con le “antecedenti” condotte di pericolo già contemplate nell’ordinamento come contravvenzioni (basti pensare all’art. 257, D.Lgs. n. 152/2006), a meno di non ipotizzare che la disposizione abbia una funzione di chiusura del sistema ed intenda coprire solo quei fatti colposi, oggettivamente idonei a cagionare un inquinamento o un disastro ambientale, che non integrino, già di per sé stessi, una contravvenzione.

    In definitiva, la norma sembra dettata dalla preoccupazione di coprire analiticamente ogni condotta potenzialmente inquinante o disastrosa, forse nel desiderio di dare una risposta “ineccepibile” alla già citata Direttiva europea sulla protezione penale dell’ambiente (Direttiva n. 2008/99/CE del 19 novembre 2008) nella misura in cui essa richiede l’incriminazione di condotte anche pericolose: un timore che però non sembra aver tenuto nella dovuta considerazione che tale ambito dovrebbe - salvo errori - risultare già interamente presidiato, sul versante doloso in conseguenza della possibilità di configurare la fattispecie tentata dei nuovi delitti, su quello involontario per la ricordata presenza di plurimi illeciti contravvenzionali strutturati come reati di pericolo.

    1.11.5 Il delitto di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività

    1.11.5Il delitto di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività

    € SANZIONI

    Art. 452-sexies, c.p.:

    – reclusione da 2 a 6 anni e multa da euro 10.000 a euro 50.000: chiunque, salvo che il fatto costituisca più grave reato, abusivamente cede, acquista, riceve, trasporta, importa, esporta, procura ad altri, detiene, trasferisce, abbandona o si disfa illegittimamente di materiale ad alta radioattività.

    La pena di cui al comma 1 è aumentata se dal fatto deriva il pericolo di compromissione o deterioramento:

    1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo;

    2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna.

    Se dal fatto deriva pericolo per la vita o per l’incolumità delle persone, la pena è aumentata fino alla metà.

    Nota: Non pare superfluo preliminarmente ricordare che, in virtù della presenza di tale delitto nella Legge in esame, una analoga previsione incriminatrice (sia pure con denominazione appena differente: traffico ed abbandono di materie nucleari) è stata espunta da altra iniziativa di legge in corso di avviata discussione parlamentare. Si trattava del Disegno di legge C. 2124 (Ratifica ed esecuzione degli Emendamenti alla Convenzione sulla protezione fisica dei materiali nucleari del 3 marzo 1980, adottati a Vienna l’8 luglio 2005, e norme di adeguamento dell’ordinamento interno), il cui art. 10 prevedeva appunto una corrispondente fattispecie penale, con le relative aggravanti, all’interno del Titolo VI (Delitti contro la pubblica incolumità), capo I (Delitti di comune pericolo mediante violenza).

    Rispetto ad una prima lettura, dal testo definitivo dell’art. 452-sexies è scomparso, anche in questo caso, l’inciso relativo alla violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, sostituito dal riferimento all’abusività della condotta, per il quale valgono le considerazioni espresse in precedenza.

    Inoltre, la norma incrimina oggi anche chi abbandona o si disfa illegittimamente di materiale ad alta radioattività: l’aggiunta dell’avverbio “illegittimamente” alla sola condotta di chi “si disfa” del materiale non sembra trovare particolari motivazioni (tanto da potersi anche ipotizzare un mero lapsus legislativo), proprio per effetto della presenza del carattere abusivo già normativamente richiesto per tutte le possibili articolazioni del traffico di materiale radioattivo.

    La formulazione del comma 2 della disposizione, concernente le aggravanti, è stata resa simile a quella dell’art. 452-bis sull’inquinamento ambientale: il rilievo penale riguarda il pericolo di compromissione o deterioramento delle acque o dell’aria ovvero di porzioni “estese o significative” del suolo o del sottosuolo, ovvero ancora di “un” ecosistema, con l’aggiunta del richiamo alla biodiversità “anche agraria”.

    Le aggravanti contenute nel comma 2 e nel comma 3 appaiono tuttavia di difficile decifrazione: la condotta prevista al comma 1 - l’abusivo traffico di materiale radioattivo - è razionalmente punita perché pericolosa in sé, presumendosi che ogni violazione delle strettissime regole finalizzate ad evitare che possano anche accidentalmente sprigionarsi radiazioni o contaminazioni di sorta pregiudizievoli per l’ambiente e l’incolumità pubblica sia, come tale, pericolosissima; di modo che l’aggiunta di un aggravante “di pericolo” ad una fattispecie che è già, inevitabilmente, punita in quanto pericolosa genera qualche problema interpretativo di non facile soluzione, nella sforzo di individuare, anche su un piano empirico, un possibile punto di confine fra il pericolo generico di cui al comma 1 e quello di pericolo di compromissione o deterioramento dell’ambiente e/o per la vita o per l’incolumità delle persone.

    Peraltro, occorre ricordare che nell’ordinamento esiste già una disposizione - l’art. 3 della Legge 7 agosto 1982, n. 704 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla protezione fisica dei materiali nucleari, con allegati, aperta alla firma a Vienna ed a New York il 3 marzo 1980) - secondo la quale “Chiunque, senza autorizzazione, riceve, possiede, usa, trasferisce, trasforma, aliena o disperde materiale nucleare in modo da cagionare a una o più persone la morte o lesioni personali gravi o gravissime ovvero da determinare il pericolo dei detti eventi, ferme restando le disposizioni degli artt. 589 e 590 del c.p., è punito con la reclusione fino a due anni. Quando è cagionato solo un danno alle cose di particolare gravità o si determina il pericolo di detto evento, si applica la pena della reclusione fino ad un anno”.

    Sembra porsi dunque un problema di coordinamento fra le disposizioni, laddove il nuovo art. 452-sexies pare coincidere con l’art. 3, Legge n. 704/1982 almeno nel caso in cui una delle condotte materiali vietate determini il pericolo di morte o lesioni; fermo restando che occorrerà verificare la piena coincidenza normativa fra la nozione di “materiale nucleare” e quella di “materiale ad alta radioattività”.

    A tal proposito, infatti, si ricorda che una qualificazione di “materie nucleari” (Combustibili nucleari, esclusi l’uranio naturale e l’uranio impoverito, e i prodotti e i rifiuti radioattivi) è contenuta nelle definizioni di cui all’art. 1 della Legge 31 dicembre 1962, n. 1860 - riguardante l’impiego pacifico dell’energia nucleare, successivamente modificato dal D.P.R. 10 maggio 1975, n. 519 - poi riprese dall’attuale art. 7, comma 1 del D.Lgs. 31 luglio 2020, n. 101 (che ha abrogato il previgente D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 230), che, al punto 124, definisce invece i “rifiuti radioattivi” come qualsiasi materiale radioattivo in forma gassosa, liquida o solida, ancorché contenuto in apparecchiature o dispositivi in genere, ivi comprese le sorgenti dismesse, per il quale nessun riciclo o utilizzo ulteriore è previsto o preso in considerazione dall’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (ISIN) o da una persona giuridica o fisica la cui decisione sia accettata dall’ISIN e che sia regolamentata come rifiuto radioattivo dall’ISIN, ivi inclusi i Paesi di origine e di destinazione in applicazione della sorveglianza e il controllo delle spedizioni transfrontaliere, o di una persona fisica o giuridica la cui decisione è accettata da tali Paesi, secondo le relative disposizioni legislative e regolamentari. L’art. 1 della Convenzione di Vienna sulla protezione fisica dei materiali nucleari, dispone inoltre che: “Ai fini della presente Convenzione, a) per “materiale nucleare” si intende il plutonio ad eccezione di quello la cui concentrazione isotopica in plutonio 238 supera l’80%; l’uranio 233; l’uranio arricchito negli isotopi 235 o 233; l’uranio contenente la mescolanza di isotopi che si trova in natura in forma diversa da quella di minerale o di residuo minerale; qualunque materiale contenente uno o più dei suddetti isotopi”.

    Un ulteriore problema di composizione si presenta in rapporto al secondo periodo del comma 1 dell’art. 260, D.Lgs. n. 152/2006 (disposizione in parte qua non toccata dalla novella, oggi abrogata e sostituita dal nuovo art. 452-quaterdecies, c.p.), che prevede un’ipotesi aggravata di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti quando si tratti di rifiuti ad alta radioattività: la clausola di specialità apposta al nuovo art. 452-sexies fa ipotizzare che, ricorrendone gli elementi costitutivi (carattere di rifiuto, organizzazione, fine di ingiusto profitto; ingente quantità), la norma del codice ambientale possa assorbire la nuova fattispecie, contemplando peraltro la prima pene superiori - da tre ad otto anni di reclusione - rispetto a quelle previste nella ipotesi base di cui al comma 1 della nuova fattispecie.

    Un’ultima annotazione riguarda la natura giuridica del nuovo art. 452-sexies c.p. come norma a più fattispecie, da cui deriva - analogamente a quanto avviene in altri ambiti (per esempio, in tema di stupefacenti ex art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990: cfr., da ultimo, Cass., sez. VI, 9 maggio 2017, n. 22549, Ghitti ed altro, in CED Cass. 270266) - che, da un lato, il reato è configurabile allorché il soggetto abbia posto in essere anche una sola delle condotte ivi previste, e che, dall’altro, deve escludersi il concorso formale di reati quando un unico fatto concreto integri contestualmente più azioni tipiche alternative previste dalla norma, poste in essere senza apprezzabile soluzione di continuità dallo stesso soggetto.

    1.11.6 L’impedimento del controllo

    1.11.6L’impedimento del controllo

    € SANZIONI

    Art. 452-septies, c.p.:

    – reclusione da 6 mesi a 3 anni per chiunque, salvo che il fatto costituisca più grave reato, negando l’accesso, predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisce, intralcia o elude l’attività di vigilanza e controllo ambientali e di sicurezza e igiene del lavoro, ovvero ne compromette gli esiti.

    La previsione introduce una fattispecie di reato a forma vincolata - poiché l’impedimento deve realizzarsi negando o ostacolando l’accesso ai luoghi, ovvero mutando artificiosamente lo stato dei luoghi - che peraltro non costituisce un semplice corollario di quanto disposto dagli articoli precedenti, in quanto la norma è destinata a trovare applicazione tutte le volte che sia ostacolato un campionamento o una verifica ambientale. Vengono, quindi, ad essere assistiti da sanzione penale tutti quei comportamenti che, fino ad oggi, non determinavano alcuna conseguenza nei confronti di condotte di “ostacolo” all’esercizio delle funzioni di vigilanza. Si pensi, ad esempio, all’art. 129, D.Lgs. n. 152/2006, che, in tema di inquinamento idrico, prevede che “L’autorità competente al controllo è autorizzata a effettuare le ispezioni, i controlli e i prelievi necessari all’accertamento del rispetto dei valori limite di emissione, delle prescrizioni contenute nei provvedimenti autorizzatori o regolamentari e delle condizioni che danno luogo alla formazione degli scarichi. Il titolare dello scarico è tenuto a fornire le informazioni richieste e a consentire l’accesso ai luoghi dai quali origina lo scarico”, senza prevedere alcuna sanzione, né penale od amministrativa, in caso di rifiuto all’accesso. O, ancora, all’art. 197, D.Lgs. n. 152/2006 che prevede da un lato (comma 3) che “Gli addetti al controllo sono autorizzati ad effettuare ispezioni, verifiche e prelievi di campioni all’interno di stabilimenti, impianti o imprese che producono o che svolgono attività di gestione dei rifiuti. Il segreto industriale non può essere opposto agli addetti al controllo, che sono, a loro volta, tenuti all’obbligo della riservatezza ai sensi della normativa vigente” e, dall’altro (comma 4) che “Il personale appartenente al Comando carabinieri tutela ambiente (C.C.T.A.) è autorizzato ad effettuare le ispezioni e le verifiche necessarie ai fini dell’espletamento delle funzioni di cui all’art. 8 della Legge 8 luglio 1986, n. 349, istitutiva del Ministero dell’ambiente”. Analogo discorso vale per l’art. 237-vicies, D.Lgs. n. 152/2006 che (comma 1) autorizza i soggetti incaricati dei controlli “ad accedere in ogni tempo presso gli impianti di incenerimento e coincenerimento per effettuare le ispezioni, i controlli, i prelievi e i campionamenti necessari all’accertamento del rispetto dei valori limite di emissione in atmosfera e in ambienti idrici, nonché del rispetto delle prescrizioni relative alla ricezione, allo stoccaggio dei rifiuti e dei residui, ai pretrattamenti e alla movimentazione dei rifiuti e delle altre prescrizioni contenute nei provvedimenti autorizzatori o regolamentari e di tutte le altre prescrizioni contenute nel presente Decreto”, aggiungendo (comma 2) che “Il proprietario o il gestore degli impianti sono tenuti a fornire tutte le informazioni, dati e documenti richiesti dai soggetti di cui al comma 1, necessari per l’espletamento delle loro funzioni, ed a consentire l’accesso all’intero impianto”. Viene in rilievo, poi, in materia di emissioni in atmosfera, l’art. 269, comma 9, D.Lgs. n. 152/2006 che autorizza l’autorità competente per il controllo “ad effettuare presso gli impianti tutte le ispezioni che ritenga necessarie per accertare il rispetto dell’autorizzazione”, nonché l’art. 288, comma 8, D.Lgs. n. 152/2006 che stabilisce come “I controlli relativi al rispetto del presente titolo sono effettuati dall’autorità competente in occasione delle ispezioni effettuate ai sensi del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, e del decreto attuativo dell’articolo 4, comma 1, lettere a) e b), del citato decreto legislativo anche avvalendosi degli organismi ivi previsti, nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente”.

    In tutti questi casi, dunque, l’ostacolo all’esercizio delle funzioni di controllo e vigilanza configurerà la nuova fattispecie penale di cui all’art. 452-septies, c.p.

    La norma, infine, vede esteso il suo campo di applicazione anche alla materia della prevenzione infortuni ed igiene del lavoro. Quanto alla clausola di riserva “Salvo che il fatto costituisca più grave reato”, la stessa potrebbe operare ove il fatto integri - ad esempio - le più gravi ipotesi di cui agli artt. 336 e 337, c.p.

    GIURISPRUDENZA

    Giova segnalare la prima sentenza della Cassazione sul nuovo reato. In particolare, la S.C. ha chiarito che si è in presenza di una fattispecie di reato a forma vincolata nel primo periodo ed a forma libera nel secondo, essendo quindi possibile ricondurre in tale ultima previsione le più variegate forme, purtroppo anche "tipiche", di intralcio o ostacolo all'espletamento di controlli ambientali, tra cui la creazione di cd. by pass per gli scarichi, l'occultamento o dissimulazione di operazione di diluizione di acque, rifiuti o reflui, l'alterazione dello stato dei luoghi. La Cassazione ha ulteriormente specificato che si è in presenza anche di reato di danno delle funzioni di controllo e vigilanza, siccome impedite o compromesse nei loro risultati finali, nonché di pericolo indiretto rispetto al bene finale ambiente, tutelato assieme alla immediata protezione delle funzioni amministrative strumentali alla sua difesa. Tali funzioni, conclude la S.C., devono intendersi come omnicomprensive di ogni forma di vigilanza e controllo a prescindere dall'organo in concreto coinvolto, così da potersi comprendere non solo autorità specializzate nella tutela dell'ambiente ma anche organismi più genericamente investiti di funzioni di polizia giudiziaria, seppur nello specifico interessati a verifiche di rilievo ambientale

    • Cass. pen., sez. III, n. 11166 del 18 marzo 2024, inedita.

    1.11.7 Le aggravanti

    1.11.7Le aggravanti

    € SANZIONI

    Art. 452-octies, c.p.:

    – sono aumentate le pene previste dall’art. 416 c.p. quando l’associazione di cui all’art. 416 è diretta, in via esclusiva o concorrente, allo scopo di commettere taluno dei reati ambientali previsti Titolo VI del c.p.;

    – sono aumentate le pene previste dall’art. 416-bis c.p. quando l’associazione a carattere mafioso è finalizzata a commettere taluno dei delitti previsti dal presente titolo ovvero all’acquisizione della gestione o comunque del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti o di servizi pubblici in materia ambientale;

    infine, entrambe le dette pene sono ulteriormente aumentate da un terzo alla metà) se dell’associazione fanno parte pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio che esercitano funzioni o svolgono servizi in materia ambientali.

    L’introduzione di circostanze aggravanti “ambientali” applicabili al reato di associazione a delinquere è chiaramente ispirata (in chiave di politica criminale) alla volontà di contrastare il fenomeno delle organizzazioni i cui profitti derivino in tutto o in misura consistente dalla criminalità ambientale.

    Tuttavia, la scelta rischia di generare problematicità superiori ai concreti benefici.

    Si è sottolineato infatti il possibile dubbio di costituzionalità che potrebbe derivare dal confronto con il minore trattamento sanzionatorio di associazioni finalizzate alla commissione di reati più gravi, nella loro singola cornice edittale, rispetto a quelli di inquinamento e disastro (basti pensare all’omicidio); si tratterà allora di verificare se sia giustificata e razionale una previsione di maggior rigore per il solo fatto associativo in sé, quando diretto alla commissione di reati edittalmente “meno gravi” ancorché a più ampia ed impattante diffusività lesiva.

    Sotto altro profilo, l’effetto di rafforzamento sanzionatorio potrebbe rivelarsi in concreto più simbolico che reale, laddove mitigato - nella concreta dosimetria della pena - dall’applicazione del cumulo giuridico nei casi di concorso tra la fattispecie associativa e i singoli delitti-scopo.

    Nella stesura definitiva della Legge è, poi, comparsa una nuova circostanza definita “aggravante ambientale”.

    € SANZIONI

    Art. 452-novies, c.p.:

    – pena aumentata da un terzo alla metà: quando un fatto già previsto come reato è commesso allo scopo di eseguire uno o più tra i delitti previsti dal presente titolo, dal D.Lgs. n. 152/2006 o da altra disposizione di legge posta a tutela dell’ambiente;

    – pena aumentata di un terzo: quando dalla commissione del fatto deriva la violazione di una o più norme previste dal D.Lgs. n. 152/2006 o da altra legge che tutela l’ambiente.

    La previsione pare concretizzare un’ipotesi speciale rispetto a quanto già previsto dall’art. 61, comma 1, n. 2), c.p., con la differenza che il rapporto finalistico è, nella nuova fattispecie, limitato al solo caso di reato commesso per eseguirne un altro (quello contro l’ambiente) e non, come prevede l’aggravante comune, anche per occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato: ipotesi nelle quali dovrebbe rientrare in gioco l’aggravante comune, salvo eventuali dubbi di costituzionalità, sotto il profilo della giustificazione del diverso trattamento sanzionatorio fra il caso di reato commesso per eseguirne un altro ambientale (punito con aumento da un terzo alla metà) e quello di reato commesso per occultarne un altro ambientale (punibile con aumento sino al terzo).

    L’aumento è invece comunque di un terzo se dalla commissione del fatto derivi la violazione di disposizioni del Codice dell’Ambiente o di altra legge a tutela dell’ambiente: così come formulata testualmente, la disposizione lascia supporre che la seconda violazione possa riguardare anche illeciti amministrativi, purché la legge che li contempla possa senza incertezze qualificarsi come posta “a tutela dell’ambiente” in forza di precisi coefficienti di riconoscibilità esterna, pena un difetto di conoscibilità del precetto penale e prevedibilità della sanzione.

    Sarà da verificare, in ogni caso, la risposta della giurisprudenza al quesito sul se tra il primo fatto di reato e l’illecito ambientale che ne deriva (non necessariamente di natura penale) sussista un rapporto di specialità, assorbimento o concorso di fattispecie.

    1.11.8 Il “ravvedimento operoso”

    1.11.8Il “ravvedimento operoso”

    € SANZIONI

    Art. 452-decies, c.p.:

    – pene diminuite dalla metà a due terzi: nei confronti di colui che si adopera per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori, ovvero, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi;

    – pene diminuite da un terzo alla metà: nei confronti di colui che aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto, nell’individuazione degli autori o nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti;

    – sospensione del corso della prescrizione: ove il giudice, su richiesta dell’imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado disponga la sospensione del procedimento per un tempo congruo, comunque non superiore a due anni e prorogabile per un periodo massimo di un ulteriore anno, al fine di consentire le attività di cui al comma precedente in corso di esecuzione.

    Rispetto al testo originario discusso in sede di lavori parlamentari, il testo della norma prevede una differente graduazione della diminuzione di pena in relazione alla natura e alle modalità delle attività svolte, nonché la necessità che le citate attività riparatorie dei luoghi debbano avvenire “concretamente” e, in relazione alla tempistica, “prima che sia dichiarata l’apertura del dibattimento di primo grado”.

    La norma merita alcuni approfondimenti.

    In prima battuta, sebbene costruita sin dalla dichiarazione programmatica come ipotesi di ravvedimento operoso, la fattispecie sembra distaccarsi dai conosciuti modelli codicistici: pare infatti non completamente assimilabile alla circostanza attenuante prevista dalla seconda parte dell’art. 62, n. 6, c.p., che secondo la giurisprudenza di legittimità ha pacificamente natura soggettiva ed è ravvisabile solo se l’azione è determinata da motivi interni (Cass., sez. I, n. 28554 del 9 giugno 2004, G., in CED Cass. 228845; Cass., sez. V, 5 giugno 2020, n. 17226, Pronesti, in CED Cass. 279167); non è altrettanto paragonabile alla attenuante di cui all’ultimo comma dell’art. 56 c.p., che opera se l’evento è volontariamente impedito, laddove nella fattispecie in esame si tratta di una condotta ex post finalizzata a “sanare” il danno prodotto da un evento già verificatosi.

    Più in generale, la fattispecie pare mescolare ipotesi avvicinabili al ravvedimento operoso (“[...] si adopera per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori [...] nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti [...]“), ad altre più inquadrabili come forme di collaborazione processuale (“[...] aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto, nella individuazione degli autori [...]), ad altre ancora operanti come condotte riparatorie (“[...] provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi [...]“), tutte comunque idonee non a provocare l’estinzione del reato ma a determinare un sensibile beneficio sul piano sanzionatorio.

    Il dato testuale dell’inciso “provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi”, in quanto richiedente la compresenza delle condizioni, non dovrebbe far residuare incertezze sulla necessità che l’attività operosa dell’imputato debba investire congiuntamente sia la messa in sicurezza che la bonifica: non sarà sufficiente cioè soltanto un’attività di “messa in sicurezza operativa”, secondo la definizione data dall’art. 240, comma 1, lett. n), D.Lgs. n. 152/2006 (“l’insieme degli interventi eseguiti in un sito con attività in esercizio atti a garantire un adeguato livello di sicurezza per le persone e per l’ambiente, in attesa di ulteriori interventi di messa in sicurezza permanente o bonifica da realizzarsi alla cessazione”), dovendo l’imputato attivarsi per la “bonifica”, ossia per quell’insieme di interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori delle concentrazioni soglia di rischio (art. 240, comma I, lett. p, D.Lgs. n. 152/2006).

    Il nodo risiede, evidentemente, nel requisito della “concretezza” della messa in sicurezza, della bonifica e, ove possibile, del ripristino dei luoghi, e della interpretazione che ne sarà data: l’accentuazione del carattere di effettività della bonifica sembrerebbe escludere che l’effetto attenuante possa ricollegarsi a condotte che si arrestino sulla soglia degli obblighi preliminari alla bonifica (indagine preliminare, caratterizzazione, analisi sito specifica) o della presentazione del progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o permanente, senza cioè che l’imputato proceda alla attività di bonifica vera e propria per come autorizzata dalla Regione attraverso apposita dalla conferenza di servizi (come previsto dall’art. 242, D.Lgs. n. 152/2006).

    Le fasi prodromiche dovrebbero rivestire invece un evidente ruolo ai fini della richiesta e relativa concessione della sospensione del procedimento (recte: processo, facendo la norma riferimento all’imputato e al dibattimento).

    Trattandosi, salvo equivoci, di una facoltà del giudicante che procede (“ove il giudice [...]“), legata ovviamente ad una valutazione non meramente discrezionale, la “meritevolezza” della sospensione potrebbe agganciarsi ad una verifica della concreta volontà dell’imputato di procedere alla bonifica: in tal senso, un ausilio potrebbe derivare dall’analisi della giurisprudenza della Cassazione in tema di omessa bonifica prevista dall’art. 257, D.Lgs. n. 152/2006.

    Come noto, infatti, il punto dolente di tale ultima disposizione, sul terreno dell’efficacia della risposta repressiva/ripristinatoria, risiede nel fatto che gli obblighi preliminari al progetto di bonifica - l’obbligo di indagine preliminare, di caratterizzazione e di analisi di rischio sito specifica - pur posti in linea di massima a carico del soggetto inquinatore, non sono più provvisti di autonoma sanzione, né penale, né amministrativa, per il caso di loro inosservanza; sicché in caso di inerzia del soggetto, tale da impedire che si arrivi ad un progetto di bonifica da sottoporre alla approvazione dell’organo competente, il reato non sarebbe concretamente perseguibile.

    GIURISPRUDENZA

    È questo il convincimento raggiunto dalla giurisprudenza della Cassazione, secondo cui “In assenza di un progetto definitivamente approvato, non può configurarsi il reato di cui all’art. 257 TUA. Non sembra possibile, alla luce del principio di legalità, stante il chiaro disposto normativo, estendere l’ambito interpretativo della nuova disposizione ricomprendendo nella fattispecie anche l’elusione di ulteriori adempimenti previsti dall’art. 242 TUA ed estendere quindi il presidio penale alla mancata ottemperanza di obblighi diversi da quelli scaturenti dal progetto di bonifica se non espressamente indicati”:

    • Cass., sez. III, 13 aprile 2010, n. 22006, M. ed altri, in CED Cass. 247651

    In un altro arresto tuttavia, la Corte ha ravvisato la condizione a contenuto negativo dell’omessa bonifica anche nella sola omissione, da parte del soggetto tenuto, del piano di caratterizzazione, tale da impedire la stessa formazione del progetto di bonifica e, quindi, la sua realizzazione:

    • Cass., sez. III, 2 luglio 2010, n. 35774, M., in CED Cass. 248561

    Il principio, si noti, è stato ulteriormente specificato e confermato anche recentemente, affermandosi che ai fini della punibilità della condotta di inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio, di cui all’art. 257, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, la condizione negativa della omessa bonifica è integrata in caso di intervento eseguito in difformità da quanto formalmente pianificato e approvato dall’autorità competente ovvero anche quando il soggetto, non dando attuazione al piano di caratterizzazione, impedisce la stessa formazione del progetto di bonifica e, quindi, la sua realizzazione:

    • Cass., sez. IV, 13 luglio 2016, n. 29627, S. e altri, in CED Cass. 267841

    • Cass., sez. III, 30 aprile 2019, n. 17813, L., in CED Cass. 275454

    La stessa Cassazione, peraltro, aveva avuto modo di dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 256, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui limita l’applicazione della “condizione di non punibilità” di cui all’art. 257, comma 4, ai soli reati ambientali nei quali l’evento inquinamento concorre ad integrare la fattispecie, in quanto la scelta del legislatore di favorire la bonifica del sito secondo le indicazioni scaturenti dal progetto redatto ai sensi degli artt. 242 ss.,D.Lgs. n. 152/2006, risponde a canoni di logica e razionalità, giustificandosi con l’esigenza di garantire l’efficacia dell’intervento di ripristino nei più gravi casi in cui si rende necessaria l’adozione di uno specifico piano di bonifica (Fattispecie di condanna per il reato di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti):

    • Cass., sez. III, 11 maggio 2011, n. 18502, in CED Cass. 250304

    Rovesciando adesso l’angolo prospettico - non più determinato dalla necessità di evitare un vuoto di tutela conseguente ad un’incongruente scelta normativa (che non presidia con sanzione una serie di adempimenti funzionali alla bonifica, pur assegnandoli alla autodeterminazione del soggetto obbligato), ma alla luce di una fattispecie odierna che “premia” il comportamento riparatorio dell’imputato attenuando la sanzione prevista per i nuovi delitti - si tratterà allora di verificare se il livello di collaborazione giustificante un provvedimento non privo di conseguenze, quale la sospensione del dibattimento e la conseguente sospensione della prescrizione, debba individuarsi nell’avvio empiricamente verificabile delle operazioni materiali di bonifica (situazione che sicuramente testimonia di un atteggiamento operoso finalizzato al ripristino ambientale), nella approvazione del progetto operativo ovvero nella sua avvenuta presentazione (momento, quest’ultimo, a partire dal quale l’esito della procedura complessiva esce dal dominio prevalente del soggetto inquinatore) o anche solo nel completamento delle operazioni preliminari alla bonifica (fase forse ancora non sicuramente illuminante di un effettivo “ravvedimento”).

    Sul piano strettamente processuale, un ultimo cenno merita infine l’ipotesi in cui, in ragione del ricorso a riti speciali, non sia prevista l’apertura del dibattimento.

    L’assenza di lumi normativi e (ovviamente) di conforti giurisprudenziali non consente di formulare conclusioni sicure: con cautela, non pare nemmeno disistimabile una eventuale interpretazione (ratione legis) che escluda, una volta che l’imputato sia stato ammesso al rito abbreviato o abbia formulato istanza di applicazione di pena concordata, la possibilità di richiedere ed ottenere la sospensione del processo per completare la bonifica, in ragione della connaturata funzione acceleratoria e semplificatoria di tali riti alternativi rispetto all’ordinario percorso dibattimentale; una incompatibilità “strutturale” che, anche ove non ritenuta motivo di inammissibilità della richiesta, potrebbe peraltro sorreggere il potere discrezionale del giudice nel rigettare una richiesta formulatagli in sede di abbreviato o di patteggiamento.

    1.11.9 Le disposizioni sulla confisca

    1.11.9Le disposizioni sulla confisca

    € SANZIONI

    Art. 452-undecies, c.p.:

    – confisca delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato o che servirono a commettere il reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato: nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, a norma dell’art. 444 c.p.p., per i delitti previsti dagli artt. 452-bis, 452-quater, 452-sexies, 452-septies e 452-octies c.p.;

    – individuazione da parte del giudice e confisca di beni di valore equivalente di cui il condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità: quando, a seguito di condanna per uno dei delitti previsti dal Titolo VI, c.p., sia stata disposta la confisca di beni ed essa non sia possibile.

    Alcune osservazioni sulla disposizione.

    In primo luogo, dalla confisca sembrerebbe essere esclusi, secondo il dato testuale, l’inquinamento e il disastro ambientali colposi, il che - costituendo tali ipotesi verosimilmente la maggioranza dei casi pratici - attenua fortemente l’efficacia dello strumento. Peraltro, va segnalato che il comma 2 dispone che la confisca per equivalente sia applicabile “quando, a seguito di condanna per uno dei delitti previsti dal presente titolo, sia stata disposta la confisca di beni ed essa non sia possibile”: il riferimento indistinto a (tutti) i “delitti previsti dal presente titolo” è quasi certamente addebitabile a un mero lapsus del legislatore, ma potrebbe anche insinuare l’ipotesi alternativa che, ferma la confisca obbligatoria per i soli delitti dolosi indicati nel comma 1 dell’articolo, per quelli colposi residui la praticabilità della confisca facoltativa.

    Con riguardo specifico alla confisca per equivalente, va segnalato uno scostamento rispetto alla formulazione adoperata nell’art. 322-ter, c.p.: mentre in quest’ultima disposizione si prevede che la confisca di valore sia disposta “… quando essa (ndr. la confisca diretta) non è possibile [...]“, il comma 2 del nuovo art. 452-undecies stabilisce che “quando … sia stata disposta la confisca di beni ed essa non sia possibile [...]“, suggerendo l’ipotesi - cui si oppone però con forza una interpretazione sistematica dell’istituto - di un iter procedurale che passi prima per un provvedimento di ablazione diretta e, solo all’esito negativo, per un secondo provvedimento di confisca per equivalente.

    Nella formulazione definitiva, la norma contiene una clausola di salvaguardia a tutela dei terzi estranei al reato, con formulazione strutturata sulla falsariga del comma 3 dell’art. 240 c.p. (“persona estranea al reato”).

    GIURISPRUDENZA

    Sul punto, sarà interessante verificare l’incidenza dell’orientamento della Cassazione che, in una ipotesi analoga per contesto e finalità quale quella del trasporto illecito di rifiuti di cui all’art. 259 del D.Lgs. n. 152/2006, pretende non solo l’estraneità al reato ma anche la buona fede del terzo:

    • Cass., sez. III, 22 novembre 2012, n. 1475, S. L. S.p.A., in CED Cass. 254336

    Più in generale, in tema di sequestro di cose pertinenti a reato che ne renda obbligatoria la successiva confisca, v., da ultimo:

    • Cass., sez. I, 9 dicembre 2015, n. 48673, F. H. C. Ltd., in CED Cass. 265427

    • Cass., sez. I, 17 ottobre 2013, n. 68, F., in CED Cass. 258394

    • Cass., sez. I, 9 dicembre 2015, n. 48673, F.H. Company Ltd., in CED Cass. 265427

    Ancora, quanto all’applicazione retroattiva della previsione dell’art. 260, comma 4-bis, D.Lgs. n. 152/2006, oggi integrato nell’art. 452-quaterdecies c.p., la Cassazione ha affermato che il disposto di cui al comma 4-bis dell’art. 260, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, introdotto dall’art. 1, comma 3, Legge 22 maggio 2015, n. 68, si applica anche ai fatti precedenti all’entrata in vigore della disposizione anzidetta in quanto, con questa, il legislatore ha normalizzato il principio giurisprudenziale, preesistente alla novella, secondo cui, in tema di gestione illecita di rifiuti, è obbligatoria, ai sensi dell’art. 259, D.Lgs. n. 152/2006, la confisca dei mezzi di trasporto impiegati per il traffico illecito di rifiuti di cui al citato art. 260:

    • Cass., sez. III, 19 gennaio 2018, n. 2284 in CED Cass. 272798

    È importante segnalare che la Corte di cassazione ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 452-undecies, comma quarto, cod. pen. per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede, per i soli delitti indicati nel comma primo della medesima disposizione e non anche per le contravvenzioni ambientali previste dal d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, che, in caso di messa in sicurezza, bonifica e ripristino dello stato dei luoghi, non possa essere disposta la confisca delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto dei reati (In motivazione la Corte ha precisato che, per le contravvenzioni ambientali, trova applicazione la confisca di cui all’art. 260-ter, comma 4, dello stesso d.lgs., che ha natura eminentemente sanzionatoria, mentre la misura ablatoria prevista dal codice penale presenta una funzione risarcitoria e ripristinatoria):

    • Cass., sez. III, 27 maggio 2020, n. 15965, in CED Cass. 278907.

    La stessa decisione ha precisato come la diversità di trattamento della confisca prevista dal Testo Unico Ambiente rispetto a quella prevista dall’art. art. 452-undecies è pienamente legittima in considerazione dalla diversa funzione riconducibile alla confisca di cui all’art. 452-undecies, c.p., rispetto a quella discendente dalla violazione delle disposizioni contravvenzionali. La confisca ex art. 452-undecies, c.p., presenta, infatti, profili peculiari, in quanto caratterizzata non tanto da una funzione punitivo-sanzionatoria, bensì da una funzione risarcitoria-ripristinatoria, laddove, invece, la confisca ex art. 260-ter, D.Lgs. n. 152 del 2006, integra una misura di sanzionatoria, con funzione eminentemente repressiva:

    • Cass., sez. III, 11 febbraio 2020, n. 15965, S.D.

    Da ultimo, la Cassazione ha chiarito che ai fini del sequestro di quote societarie ai sensi dell’art. 321, comma 2 c.p.p., occorre valutare se esse costituiscono cose di cui è obbligatoria la confisca a norma dell’art. 452-quaterdecies, comma 5 c.p., perché “strumenti” per commettere il reato. Non occorre valutare, invece, se la libera disponibilità delle stesse possa consentire il protrarsi dell’attività criminosa con aggravamento delle conseguenze di reati già commessi o la commissione di nuovi reati. In caso di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, infatti, spetta al giudice il solo compito di verificare che i beni rientrino nelle categorie delle cose oggettivamente suscettibili di confisca, essendo, invece, irrilevante sia la valutazione del “periculum in mora”, che attiene ai requisiti del sequestro preventivo impeditivo di cui all’art. 321, comma 1 c.p.p., sia quella inerente alla pertinenzialità dei beni:

    • Cass., sez. III, 27 novembre 2020, n. 37203, PMT in proc. F.M.P. e altri

    La norma vincola la destinazione dei beni confiscati o dei loro proventi all’utilizzo per la bonifica dei luoghi, un dato che sembra spostare l’asse dell’inquadramento giuridico della confisca verso un carattere risarcitorio/ripristinatorio piuttosto che sanzionatorio, con quanto ne consegue anche in termini di possibile applicazione anche in caso di estinzione del reato in assenza di condanna per maturata prescrizione, anche alla luce delle affermazioni della Corte costituzionale nella sentenza n. 49 del 26 marzo 2015.

    1.11.10 Il ripristino dello stato dei luoghi e il reato di omessa bonifica

    1.11.10Il ripristino dello stato dei luoghi e il reato di omessa bonifica

    € SANZIONI

    Art. 452-duodecies, c.p.:

    – ordine del giudice di recupero e, ove tecnicamente possibile, di ripristino dello stato dei luoghi: in caso di condanna o patteggiamento per uno dei nuovi delitti ambientali, ponendo le spese per tali attività a carico del condannato e delle persone giuridiche obbligate al pagamento delle pene pecuniarie in caso di insolvibilità del primo.

    Nella formulazione definitiva è presente un comma 2, diretto a prevedere una più puntuale disciplina della procedura di ripristino dei luoghi attraverso il rinvio alle disposizioni del Codice dell’Ambiente che già prevedono tale procedura.

    Tuttavia, l’utilizzo del termine “recupero”, riferito - come pare - allo stato dei luoghi, rischia di generare qualche equivoco, poiché nel Codice dell’Ambiente, tale espressione è adoperata con diverso e specifico riferimento alle operazioni di riutilizzo dei rifiuti. Si pensi, in particolare, all’art. 183, comma 1, lett. t), D.Lgs. n. 152/2006, che definisce Recupero “qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all’interno dell’impianto o nell’economia in generale. L’allegato C della parte IV del presente decreto riporta un elenco non esaustivo di operazioni di recupero”.

    Una lettura coerente con l’intero impianto della normativa dovrebbe condurre ad una interpretazione omnicomprensiva del lemma, che porti ad includervi ogni attività materiale e giuridica necessaria per il “recupero” dell’ambiente inquinato o distrutto, e dunque anche e soprattutto la bonifica del sito da ogni particella inquinata e da ogni agente inquinante; laddove il “ripristino” si colloca evidentemente su un piano ulteriore che contempla, ove possibile, la ricollocazione o riattivazione delle componenti che siano andate distrutte ovvero rimosse in quanto irrimediabilmente compromesse.

    La fattispecie penale di omessa bonifica è stata introdotta solo successivamente rispetto al testo originario.

    € SANZIONI

    Art. 452-terdecies, c.p.:

    – reclusione da 1 a 4 anni e multa da 20.000 a 80.000 euro: salvo che il fatto costituisca più grave reato, per chiunque, essendovi obbligato, non provvede alla bonifica, al ripristino e al recupero dello stato dei luoghi. L’obbligo dell’intervento può derivare direttamente dalla legge, da un ordine del giudice o da una pubblica autorità.

    La nuova fattispecie non pare correre rischi di sovrapposizione con quella di cui all’art. 257, D.Lgs. n. 152/2006, che prevede una contravvenzione (arresto da sei mesi a un anno o ammenda da 2.600 euro a 26.000 euro) per chiunque cagiona l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio, se non provvede alla bonifica: la modifica di tale seconda disposizione, mediante l’introduzione della clausola di riserva “Salvo che il fatto costituisca più grave reato”, fa in modo infatti che essa possa operare solo nelle ipotesi di un superamento delle soglie di rischio che non abbia raggiunto (quanto meno) gli estremi dell’inquinamento, ossia che non abbia cagionato una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili dei beni (acque, aria, etc.) elencati indicati dall’art. 452-bis.

    Altrettanto opportunamente, anche il testo del comma 4 dello stesso art. 257 ha subito una necessaria variazione, nel senso che l’avvenuta bonifica costituisce condizione di non punibilità “per le contravvenzioni (non più ‘per i reati’, come nella previgente formulazione) contemplate da altre leggi per il medesimo evento e per la stessa condotta di inquinamento di cui al comma 1”. Trattasi di modifica quanto mai necessaria, perché diversamente la bonifica si sarebbe potuta interpretare come causa di non punibilità sia del reato di inquinamento che del disastro ambientale con effetti “reversibili”, in chiaro contrasto con la volontà della novella che la configura come forma di ravvedimento operoso con effetto di circostanza attenuante; a seguito dell’intervento emendativo, la bonifica ex art. 257, D.Lgs. n. 152/2006 agisce dunque come causa estintiva solo con riferimento a quelle violazioni formali (in primis, il superamento delle soglie di rischio) che non abbiano però cagionato gli eventi atti a configurare i reati di cui agli artt. 452-bis e 452-quater, ipotesi nelle quali opera solo in senso attenuativo della pena.

    Infine, per completezza, va qui ricordato come, nel corso dell’esame in seconda lettura da parte della Camera dei Deputati, è stato soppresso un ulteriore articolo (l’art. 452-quaterdecies) originariamente previsto all’interno del nuovo Titolo VI-bis del c.p., volto a punire con la reclusione da 1 a 3 anni l’illecita ispezione di fondali marini. Tale fattispecie sanzionava l’utilizzo della tecnica del c.d. “air gun” o di altre tecniche esplosive adoperate per le attività di ricerca e di ispezione dei fondali marini finalizzate alla coltivazione di idrocarburi.

    1.11.11 Le attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (rinvio)

    1.11.11Le attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (rinvio)

    Il D.Lgs. 1° marzo 2018, n. 21, recante “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’art. 1, comma 85, lett. q), della Legge 23 giugno 2017, n. 103”, in vigore dal 6 aprile 2018, ha abrogato il “vecchio” art. 260, TUA, inserendo nel c.p. il nuovo art. 452-quaterdecies rubricato “Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”.

    € SANZIONI

    Art. 452-quaterdecies, c.p.:

    – reclusione da 1 a 6 anni: per chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti;

    – reclusione da 3 a 8 anni: se si tratta di rifiuti ad alta radioattività.

    Alla condanna conseguono le pene accessorie di cui agli artt. 28, 30, 32-bis e 32-ter, con la limitazione di cui all’art. 33.

    Il giudice, con la sentenza di condanna o con quella emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., ordina il ripristino dello stato dell’ambiente e può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena all’eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente.

    È sempre ordinata la confisca delle cose che servirono a commettere il reato o che costituiscono il prodotto o il profitto del reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato. Quando essa non sia possibile, il giudice individua beni di valore equivalente di cui il condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità e ne ordina la confisca”.

    Il reato di traffico illecito di rifiuti si aggiunge quindi agli altri contro la salute pubblica di cui all’art. 453 e agli altri reati ambientali introdotti dalla Legge sugli ecoreati 22 maggio 2015, n. 68 “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”.

    Il Principio della riserva del Codice è stato previsto da una delle deleghe di cui alla Legge n. 103/2017 ed è sancito dal nuovo art. 3-bis c.p. secondo il quale “Nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il c.p. ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia”.

    Per maggiori approfondimenti sul reato di “Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”, si rinvia alla lettura del capitolo relativo in materia di rifiuti. Solo per completezza, si riportano di seguito le prime decisioni della giurisprudenza di legittimità intervenute successivamente alla novella del 2018.

    GIURISPRUDENZA

    Anzitutto, la Cassazione è intervenuta ribadendo - come già nella interpretazione del previgente art. 260, D.Lgs. n. 152/2006 - che ai fini della configurabilità del delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen., il profitto (che può consistere non soltanto in un ricavo patrimoniale, ma anche nel vantaggio conseguente dalla mera riduzione dei costi aziendali o nel rafforzamento di una posizione all’interno dell’azienda) è ingiusto qualora discenda da una condotta abusiva che, oltre ad essere anticoncorrenziale, può anche essere produttiva di conseguenze negative, in termini di pericolo o di danno, per la integrità dell’ambiente, impedendo il controllo da parte dei soggetti preposti sull’intera filiera dei rifiuti:

    • Cass., sez. III, 12 aprile 2019, n. 16056, in CED Cass. 275399

    Interessante, soprattutto per la questione concreta esaminata, la decisione che ha chiarito come ai fini dell’integrazione del reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen., è sufficiente che anche una sola delle fasi di gestione dei rifiuti avvenga in forma organizzata, in quanto la norma incriminatrice indica in forma alternativa le varie condotte che, nell’ambito del ciclo di gestione, possono assumere rilievo penale (In applicazione del principio, è stata ritenuta integrata la fattispecie in esame nel caso di sistematica illecita miscelazione di rifiuti sanitari infetti prodotti a bordo di navi con quelli solidi urbani, ascrivibile al titolare di un’agenzia marittima che si occupava di predisporre i documenti relativi agli arrivi e alle partenze delle navi ONG operanti per il soccorso di migranti):

    • Cass., sez. III, 28 ottobre 2019, n. 43710, in CED Cass. 276937

    Ancora, si è ribadito che la condotta abusiva idonea ad integrare il delitto di cui all’art. 452-quaterdecies c.p. deriva non soltanto dalla mancanza della autorizzazione allo svolgimento dell’attività, ma anche dalla inosservanza di prescrizioni essenziali della stessa (Fattispecie di svolgimento di attività ritenute abusive in quanto effettuate in base ad autorizzazione non rispondente alle cosiddette “Best Available Techniques”, quali condizioni da adottare nel corso di un ciclo di produzione idonee ad assicurare la più alta protezione ambientale, concorrendo le stesse a definire il parametro autorizzativo la cui inosservanza è sanzionata dalla norma in oggetto):

    • Cass., sez. III, 7 settembre 2021, n. 33089, in CED Cass. 282101

    Il principio è stato riaffermato anche da quella decisione secondo cui in tema di abusiva gestione di rifiuti, rientrano tra le “migliori tecniche disponibili” cui si riferiscono molteplici previsioni del D.Lgs. n. 152 del 2006 le prescrizioni tecniche contenute sia nelle “BAT” (Best Available Techniques) adottate dalla Commissione Europea e pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, che nelle “BREF” (Best Available Techniques Reference Documents), di cui la Commissione Europea cura la raccolta, sì che le stesse concorrono a definire il parametro autorizzatorio la cui inosservanza è sanzionata dall’art. 452-quaterdecies cod. pen.:

    • Cass. pen., Sez. 4, n. 39150 del 18 ottobre 2022, CED Cass. 283734

    Ultima in ordine di tempo l’importante decisione che ha chiarito in cosa consista il profitto del reato in esame. In particolare, la S.C. ha affermato il principio secondo cui in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, il profitto del delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen., suscettibile di essere appreso, anche per equivalente, può essere costituito dal risparmio di spesa, ossia dal vantaggio economico ricavato, in via immediata e diretta, dal reato e consistente nel mancato esborso di quei costi “doverosi”, non sopportati in ragione dell’illecito, oggettivamente individuabili nella loro identità ed economicamente valutabili sulla base di criteri in grado di assicurarne la quantificazione, secondo un alto grado di probabilità logica (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta l’identificazione del profitto confiscabile nella somma corrispondente al risparmio di spesa derivante dall’omesso emungimento e smaltimento del percolato prodottosi in una discarica, che, invece, avrebbe dovuto essere drenato per minimizzare il battente idraulico):

    • Cass., Sez. 3, 4 ottobre 2023, n. 45314

    1.11.12 L’estensione della responsabilità degli enti da delitto ambientale

    1.11.12L’estensione della responsabilità degli enti da delitto ambientale

    Il comma 8 dell’art. 1 della Legge n. 68/2015 interviene sull’art. 25-undecies del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, estendendo il catalogo dei reati che costituiscono presupposto della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche dipendente da reato.

    In particolare, per effetto della modifica si prevedono a carico dell’ente specifiche sanzioni pecuniarie per la commissione dei delitti di inquinamento ambientale (da 250 a 600 quote), di disastro ambientale (da 400 a 800 quote), di inquinamento ambientale e disastro ambientale colposi (da 200 a 500 quote); di associazione a delinquere (comune e mafiosa) con l’aggravante ambientale (da 300 a 1.000 quote); di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività (da 250 a 600 quote).

    Inoltre, con l’inserimento del comma 1-bis nel menzionato art. 25-undecies, si specifica, in caso di condanna per il delitto di inquinamento ambientale e di disastro ambientale, l’applicazione delle sanzioni interdittive per l’ente previste dall’art. 9 del D.Lgs. n. 231/2001 (interdizione dall’esercizio dell’attività; sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni; divieto di contrattare con la PA; esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi ed eventuale revoca di quelli già concessi; divieto di pubblicizzare beni o servizi). La disposizione impone che per il delitto di inquinamento ambientale, la durata di tali misure non può essere superiore a un anno.

    GIURISPRUDENZA

    Prima dell’entrata in vigore della Legge n. 68/2015, sulla disciplina dettata dall’art. 25-undecies, si registrava una sola decisione.

    Si trattava della sentenza che aveva affermato il principio per cui in tema di responsabilità da reato degli enti, la sanzione della confisca del profitto derivante dal reato può essere disposta solo quando la data di commissione di quest’ultimo è successiva a quella di entrata in vigore della normativa che introduce nel catalogo dei reati-presupposto la fattispecie per cui si procede, risultando invece irrilevante il momento in cui il suddetto profitto è, in tutto o in parte, effettivamente conseguito. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato il sequestro preventivo del profitto riferito al reato di associazione per delinquere e ad illeciti ambientali, derivante da condotte realizzate prima della entrata in vigore della normativa che ha inserito i reati in questione fra quelli idonei a fondare la responsabilità dell’ente):

    • Cass., sez. VI, 24 gennaio 2014, n. 3635, in CED Cass. 257790

    La giurisprudenza di legittimità successiva ha iniziato ad occuparsi specificamente del tema della responsabilità degli enti in materia ambientale.

    In particolare, si segnala la decisione che ha ritenuto configurabile la responsabilità amministrativa dell’ente derivante dai reati ambientali di natura colposa di cui al d. lgs. n. 152 del 2006, introdotti per il tramite dell’art. 25-undecies, comma 2, d.lgs. n. 231 del 2001 nell’elenco dei reati-presupposto della responsabilità amministrativa dell’ente, qualora sia stata sistematicamente violata la normativa cautelare con conseguente oggettivo interesse o vantaggio per l’ente, sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso:

    • Cass., sez. 3, 27 gennaio 2020, n. 3157, in CED Cass. 278636

    Significativa anche quella decisione che ha affermato come la responsabilità amministrativa dell’ente derivante da reati ambientali non è configurabile in relazione al delitto di gestione dei rifiuti nei territori nazionali dichiarati in stato di emergenza, di cui all’art. 6, lett. a) e d), n. 2, d.l. 6 novembre 2008, n. 172, convertivo con modificazioni nella legge 30 dicembre 2008, n. 210, non essendo tale disposizione inclusa nell’elenco dei reati-presupposto della responsabilità amministrativa di cui all’art. 25-undecies, comma 2, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231:

    • Cass. pen., Sez. 3, n. 2234 del 20 gennaio 2022, CED Cass. 282694-02.

    1.11.13 L’intervento sulla prescrizione

    1.11.13L’intervento sulla prescrizione

    Attraverso il comma 6 dell’art. 1, la Legge n. 68/2015 opera un inasprimento della disciplina della prescrizione dei nuovi delitti, i cui termini vengono raddoppiati rispetto a quelli ordinari previsti dall’art. 157, comma 6, c.p.: allungamento pensato evidentemente proprio in rapporto alle fattispecie di inquinamento e disastro con condotte progressive e stratificate, in rapporto alle quali si tratterà evidentemente, nella giurisprudenza, di verificare il termine iniziale di decorrenza.

    GIURISPRUDENZA

    Con riguardo all’art. 434 c.p., la Cassazione aveva affermato che la fattispecie di cui al comma 1, reato di pericolo a consumazione anticipata, si perfeziona, nel caso di contaminazione di siti a seguito di sversamento continuo e ripetuto di rifiuti di origine industriale, con la sola “immutatio loci”, purché questa si riveli idonea a cagionare un danno ambientale di eccezionale gravità:

    • Cass., sez. III, 14 luglio 2011, n. 46189, P. ed altri, citata

    Recentemente con riferimento all’ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 434 c.p., la Corte ha statuito che il momento di consumazione del reato coincide con l’evento tipico della fattispecie e quindi con il verificarsi del disastro, da intendersi come fatto distruttivo di proporzioni straordinarie dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità, ma rispetto al quale sono effetti estranei ed ulteriori il persistere del pericolo o il suo inveramento nelle forme di una concreta lesione; ne consegue che non rilevano, ai fini dell’individuazione del dies a quo per la decorrenza del termine di prescrizione, eventuali successivi decessi o lesioni pur riconducibili al disastro. In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto che la consumazione del disastro doloso, mediante diffusione di emissioni derivanti dal processo di lavorazione dell’amianto, non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri e dei residui della lavorazione:

    • Cass., sez. I, 19 novembre 2014, n. 7941, P.C., R.C. e S., cit.

    Con la nuova struttura di delitto di evento del disastro ambientale e con l’introduzione del delitto (sempre di evento) di inquinamento ambientale si ripropone evidentemente il tema del tempus commissi delicti: occorrerà infatti verificare quale sia esattamente il momento nel quale possono dirsi integrati gli specifici eventi che qualificano i delitti nel nuovo catalogo, tenuto conto che in queste tipologie di reati il loro perfezionamento potrebbe verificarsi a distanza di tempo rispetto all’ultima condotta di materiale immissione di sostanze o comunque di fisica alterazione o manomissione dell’assetto preesistente.

    In ogni caso, è indubbio che l’accertamento e la repressione dei più gravi delitti ambientali godono oggi di un termine oggettivamente macroscopico (nel caso di disastro ambientale doloso, pari a quarant’anni, allungati sino a cinquanta in presenza di atti interruttivi), rispetto al quale stridono i brevissimi termini dei reati contravvenzionali prodromici.

    L’eccessiva dilatazione dei termini di prescrizione del reato in esame, peraltro, sarà nella pratica ridimensionata dall’entrata in vigore nel codice di procedura penale vigente della c.d. improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione (art. 344-bis c.p.p.), stabilendo, al comma 1 che la mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale, laddove, al comma 2, prevede che la mancata definizione del giudizio di cassazione entro il termine di un anno costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale, salvo proroga per un periodo non superiore a un anno nel giudizio di appello e a sei mesi nel giudizio di cassazione, evidenziandosi che quando si procede per i delitti aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1, comma 1, c.p., i periodi di proroga non possono superare complessivamente tre anni nel giudizio di appello e un anno e sei mesi nel giudizio di cassazione (alle condizioni indicate nel comma 3).

    1.11.14 L’estinzione delle contravvenzioni ambientali

    1.11.14L’estinzione delle contravvenzioni ambientali

    Il comma 9 dell’art. 1 della Legge n. 68 del 2015 introduce nel Codice dell’Ambiente una “Parte sesta-bis” contenente la disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale, costituita da sette nuovi articoli (articoli da 318-bis a 318-octies).

    Le disposizioni introdotte, modellate sulle previsioni contenute negli artt. 19 e seguenti del D.Lgs. n. 758/1994 (recante modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di lavoro), replicano il meccanismo di estinzione degli illeciti mediante adempimento delle prescrizioni impartite e pagamento di somma determinata a titolo di sanzione pecuniaria.

    L’art. 318-bis indica l’ambito applicativo della disciplina, applicabile alle ipotesi contravvenzionali in materia ambientale che non hanno cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette.

    Qualche dubbio interpretativo deriva dal fatto che la norma fa menzione solo delle “ipotesi contravvenzionali”, sebbene nella intitolazione della nuova parte sesta-bis si parli anche di illeciti amministrativi; inoltre, si tratterà di verificare la possibile estensione della disciplina estintiva a contravvenzioni non contemplate nel Codice dell’Ambiente, ma ricomprensibili nella “materia ambientale”.

    Il concreto atteggiarsi del procedimento è regolato:

    • dall’art. 318-ter, che riguarda le prescrizioni da impartire al contravventore, di competenza dell’organo di vigilanza (o della polizia giudiziaria), il termine per la regolarizzazione, l’obbligo di comunicazione della notizia di reato al Pubblico ministero;

    • dall’art. 318-quater, che regola la verifica dell’adempimento e l’irrogazione della sanzione, entro termini determinati, attraverso una serie di fasi procedimentali;

    • dall’art. 318-quinquies, che prevede obblighi di comunicazione da parte del PM, che abbia in qualsiasi modo notizia della contravvenzione, all’organo di vigilanza o alla polizia giudiziaria, per consentire di imporre le prescrizioni;

    • dall’art. 318-sexies, che stabilisce i termini di sospensione del procedimento penale e le attività di indagine e cautelari effettuabili in loro pendenza;

    • dall’art. 318-septies, che prevede l’estinzione della contravvenzione a seguito sia del buon esito della prescrizione che del pagamento della sanzione amministrativa, cui consegue l’archiviazione del procedimento da parte del Pubblico ministero; la disposizione configura, infine, l’ipotesi di adempimento tardivo o con modalità diverse della prescrizione, facendone derivare la possibile applicazione di un’oblazione ridotta rispetto alle previsioni di cui all’art. 162-bis del c.p.;

    • dall’art. 318-octies, norma transitoria per la quale la disciplina per l’estinzione delle contravvenzioni non si applica ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore.

    GIURISPRUDENZA

    Con riguardo alla nuova disciplina in tema di estinzione delle contravvenzioni ambientali, iniziano a registrarsi le prime decisioni della Corte costituzionale e della Corte di cassazione.

    In particolare, la Consulta ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal giudice monocratico del Tribunale di Marsala in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 318-octies Codice ambiente (D.Lgs. n. 152/2006), che prevede che la causa estintiva del reato, di cui al precedente art. 318-septies, non si applichi ai procedimenti penali in corso alla data di entrata in vigore della Parte Sesta-bis, Codice ambiente, introdotta dalla Legge n. 68/2015. L’articolata procedura messa in campo per gli illeciti contravvenzionali previsti nel Codice ambiente dalla Legge di riforma citata assegna fondamentale e preminente rilievo alle prescrizioni imposte dall’organo competente, impartite subito dopo l’accertamento del reato contravvenzionale, che devono essere adempiute nei termini fissati dallo stesso organo accertatore; tale meccanismo si colloca necessariamente nella fase delle indagini preliminari, che assicura la realizzazione della finalità dell’istituto. Per tale ragione la mancata applicazione - disposta dall’articolo censurato - della più favorevole disposizione di cui all’art. 318-septies Codice ambiente ai procedimenti in relazione ai quali sia già stata esercitata l’azione penale alla data di entrata in vigore della disposizione stessa (29 maggio 2015), è pienamente ragionevole, non potendosi ipotizzare - senza smentire le ragioni di speditezza processuale alle quali anche è ispirata la norma - una regressione del processo alla fase delle indagini preliminari al solo fine di attivare il meccanismo premiale suddetto con l’indicazione, ora per allora, di prescrizioni ad opera dell’organo di vigilanza o della polizia giudiziaria:

    • Corte cost., 13 novembre 2020, n. 238

    Quanto alle decisioni della S.C. di Cassazione, con una prima sentenza, i giudici di legittimità hanno affermato che la procedura di estinzione delle contravvenzioni in materia ambientale, prevista dagli artt. 318-bis ss., D.Lgs. n. 152/2006 si applica tanto alle condotte esaurite - come tali dovendosi intendere quelle prive di conseguenze dannose o pericolose per cui risulti inutile o impossibile impartire prescrizioni al contravventore - quanto alle ipotesi in cui il contravventore abbia spontaneamente e volontariamente regolarizzato l’illecito commesso prima dell’emanazione di prescrizioni. (In motivazione, la Corte ha precisato che tale interpretazione trova un fondamento nell’art. 15, comma 3, D.Lgs. n. 124/2004, che, nell’ambito della normativa in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, prevede che la procedura di estinzione di cui agli artt. 20 ss.,D.Lgs. n. 758/1994 si applichi alle condotte esaurite ovvero alle ipotesi in cui il trasgressore abbia autonomamente provveduto all’adempimento degli obblighi di legge sanzionati precedentemente alla prescrizione):

    • Cass., sez. III, 26 agosto 2019, n. 36405, in CED Cass. 276681

    Con una successiva decisione, la Corte si è poi occupata del delicato tema delle conseguenze derivanti dalla mancata imposizione delle prescrizioni da parte degli organi di vigilanza. La Cassazione è pervenuta sul punto ad affermare che in tema di reati ambientali, l’omessa indicazione all’indagato, da parte dell’organo di vigilanza o della polizia giudiziaria, ai sensi degli artt. 318-bis ss., D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, delle prescrizioni la cui ottemperanza è necessaria per l’estinzione delle contravvenzioni, non è causa di improcedibilità dell’azione penale:

    • Cass., sez. III, 6 dicembre 2019, n. 49718 in CED Cass. 277468

    Importante, poi, è la decisione che ha chiarito che la prescrizione impartita ai sensi dell’art. 318-ter, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, non è un provvedimento amministrativo, ma un atto tipico di polizia giudiziaria non autonomamente né immediatamente impugnabile dinanzi al giudice penale, restando ogni questione devoluta a quest’ultimo successivamente all’esercizio dell’azione penale o alla richiesta di archiviazione:

    • Cass., sez. III, 23 giugno 2021, n. 24483, in CED Cass. 281575

    Ancora, merita di essere segnalata quella sentenza che ha precisato come il danno previsto dall’art. 318-bis, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ostativo alla estinzione delle contravvenzioni in materia ambientale non si identifica con il “danno ambientale” di cui all’art. 300 del medesimo D.Lgs., potendo avere dimensioni e consistenza minori e riguardare, oltre le risorse naturali, anche quelle urbanistiche o paesaggistiche protette:

    • Cass., sez. 3, 6 luglio 2021, n. 25528, in CED Cass. 281733

    Ultima in ordine di tempo, l’importante decisione con cui la S.C. ha chiarito che in tema di reati ambientali, il giudice, ai fini dell’applicazione della causa estintiva di cui all’art. 318-bis e ss. D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, è tenuto ad effettuare una verifica fattuale delle conseguenze già effettivamente prodotte dalla condotta incriminata, facendo applicazione del principio di c.d. “offensività in concreto”, posto che essa risulta in linea con il disposto dell’art. 9, comma 3, Cost., introdotto dalla legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, e soddisfa, nel contempo, esigenze di general-prevenzione postume:

    • Cass., Sez. 3, 21 giugno 2023, n. 32962, in CED Cass. 284942

    APPROFONDIMENTI

    • AMBIENTE & SVILUPPO n. 10/2021: “Il sistema di estinzione delle contravvenzioni ambientali secondo le più recenti decisioni della Cassazione” di Vincenzo Paone

    • Gdir, 2021, 42, 84 ss.: “Giudice coinvolto dopo l’azione penale oppure la richiesta di archiviazione” di A. Natalini;

    • Cass. Pen., 2022, 2, 617 ss.: “L’offensività/non punibilità nelle contravvenzioni ambientali assoggettabili alla procedura estintiva (artt. 318-bis ss. t.u.a.)”, di M. Poggi D’Angelo.

    1.11.15 Le disposizioni residue

    1.11.15Le disposizioni residue

    Il comma 5 dell’art. 1 della Legge n. 68/2015 interviene sull’art. 32-quater, c.p., relativo ai casi nei quali alla condanna per alcuni delitti consegue l’incapacità di contrattare con la Pubblica amministrazione, aggiornando il catalogo dei delitti ivi previsti attraverso l’inserimento dell’inquinamento ambientale, del disastro ambientale, del traffico ed abbandono di materiale ad alta radioattività, dell’impedimento del controllo e delle attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.

    In tema di coordinamento di indagini in materia ambientale, la novella (art. 1, comma 7) introduce il dovere del Pubblico ministero di dare comunicazione al Procuratore nazionale antimafia dell’avvio delle indagini su ipotesi di inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico ed abbandono di materiale di alta radioattività, nonché attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.

    In una prima formulazione, tale obbligo passava per l’introduzione dell’art. 118-ter (Coordinamento delle indagini in caso di delitti contro l’ambiente) nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura; nel testo definitivo, l’obbligo informativo a carico del PM procedente è ottenuto mediante l’integrazione del vigente art. 118-bis, disp. att. c.p.p. in materia di coordinamento delle indagini; il nuovo testo esclude però dal catalogo dei reati contro l’ambiente la fattispecie di cui all’art. 260, D.Lgs. n. 152/2006 (attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, oggi contemplata, come anticipato, dall’art. 452-quaterdecies, c.p.) ed aggiunge quella associativa di cui all’art. 452-octies; la disposizione prevede, inoltre, che il Procuratore della Repubblica debba dare notizia dell’avvio delle indagini sui reati ambientali anche all’Agenzia delle Entrate ai fini dei necessari accertamenti.

    L’art. 2 della Legge n. 68/2015, infine, modifica gli artt. 1, 2, 5, 6, 8-bis e 8-ter della Legge 7 febbraio 1992, n. 150 (recante la “Disciplina dei reati relativi all’applicazione in Italia della convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione, firmata a Washington il 3 marzo 1973, di cui alla Legge 19 dicembre 1975, n. 874, e del Regolamento CEE n. 3626/1982, e successive modificazioni, nonché norme per la commercializzazione e la detenzione di esemplari vivi di mammiferi e rettili che possono costituire pericolo per la salute e l’incolumità pubblica”): le nuove disposizioni rendono più severa tale disciplina sanzionatoria, di natura contravvenzionale o amministrativa.

    1.12 L’attività ispettiva e vigilanza in materia ambientale

    1.12L’attività ispettiva e vigilanza in materia ambientale

    Tra le attività amministrative assume una particolare rilevanza l’attività conoscitiva: è evidente, infatti, che se non si ha modo di conoscere le azioni dei soggetti interessati non si ha neppure modo di poter prevenire il verificarsi di eventuali illeciti e il cagionarsi di possibili danni.

    L’attività conoscitiva nel diritto positivo viene generalmente detta attività di vigilanza al fine di evidenziare l’ordinarietà e l’assiduità che devono caratterizzarla.

    Anche in materia ambientale il nostro ordinamento giuridico attribuisce a taluni organi pubblici un insieme di potestà amministrative finalizzate al controllo e alla vigilanza dei diversi soggetti la cui attività economica sia suscettibile potenzialmente di cagionare danni al bene “ambiente”.

    L’attività di vigilanza è un compito istituzionalmente riservato ad organi aventi natura pubblicistica e può essere svolta senza interferire con la sfera giuridica altrui. Ciò si verifica, ad esempio, quando l’attività conoscitiva è svolta utilizzando la tecnica del confronto di dati e documenti in possesso della Pubblica amministrazione oppure ricevendo notizie liberamente fornite dai privati.

    Se invece l’attività di cui sopra è caratterizzata dall’esercizio di determinate potestà (potestà di accesso e di chiedere informazioni con la minaccia dell’irrogazione di sanzioni in caso di rifiuto) si realizza la fattispecie dell’ispezione amministrativa.

    E così, come si vedrà meglio in seguito, i pubblici ufficiali ai quali sono attribuiti compiti di polizia amministrativa in materia ambientale hanno la potestà di accedere direttamente presso i luoghi di pertinenza di altri soggetti, di ottenere notizie complete e veritiere pena l’irrogazione di sanzioni amministrative o penali e di impartire ordini o diffide.

    Al riguardo ha efficacia generale l’art. 13 della Legge n. 689 del 24 novembre 1981 secondo il quale “[...] gli organi addetti al controllo sull’osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro possono, per l’accertamento delle violazioni di rispettiva competenza, assumere informazioni e procedere a ispezioni di cose e di luoghi diversi dalla privata dimora, a rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici e ad ogni altra operazione tecnica”.

    In tale ottica, ad ogni modo, gli atti posti in essere dagli ispettori nell’esercizio dei suddetti poteri devono seguire le regole proprie dell’azione amministrativa.

    GIURISPRUDENZA

    La giurisdizione sul provvedimento di convalida del sequestro cautelare amministrativo spetta però al giudice ordinario, inerendo ad un procedimento volto all’irrogazione di sanzione amministrativa (a titolo esemplificativo):

    • TAR Campania, Napoli, sez. V, 3 maggio 2019, n. 2364

    • TAR Piemonte, 28 novembre 2018, n. 1289

    • TAR Basilicata, 5 settembre 2011, n. 459

    • TAR Campania, Napoli, sez. III, 20 agosto 2010, n. 17205

    • TAR Campania, sez. I, 20 gennaio 2006, n. 103

    • TAR Veneto, sez. I, 13 giugno 2014, n. 834

    • TAR Parma, sez. I, 29 febbraio 2016, n. 65

    • TAR Napoli, sez. V, 26 febbraio 2013, n. 1129

    • T.A.R. Campania Napoli, Sez. V, 3 maggio 2019, n. 2364

    Quanto, invece, alla competenza territoriale, la Cassazione ha chiarito che, in tema di sanzioni amministrative, la competenza territoriale dell’autorità amministrativa cui spetta l’emissione del provvedimento sanzionatorio si determina in base al luogo in cui è stata commessa la violazione, intendendosi con tale espressione il luogo nel quale quest’ultima è stata accertata. In caso di infrazioni durevoli nel tempo e/o ambulatorie nello spazio, ai fini del radicamento della competenza, è sufficiente che almeno una frazione temporale e/o almeno una porzione spaziale di esse sia occorsa nel luogo dell’accertamento:

    • Cass., Sez. II, ord. 10 agosto 2023, n. 24391, CED Cass. 668806

    Secondo la Cassazione, peraltro, l’art. 13 della Legge 24 novembre 1981, n. 689, nel consentire ai verbalizzanti di procedere all’ispezione di cose e ad ogni altra “operazione tecnica” necessaria al fine di accertare il fatto costituente la violazione, anche avvalendosi di competenze tecniche di soggetti privati idonei allo scopo, prevede il libero esercizio della potestà accertativa della P.A. senza alcun intervento diretto dell’autore dell’illecito, contemplato dal successivo art. 15 della Legge nei casi, eccezionali, di revisione delle analisi di campioni:

    • Cass., sez. II, 19 dicembre 2007, n. 26794, in CED Cass. 601416

    In senso conforme, si è affermato che nel procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative, l’esercizio dei poteri e delle facoltà degli organi di vigilanza e controllo non è subordinato al preventivo avviso o alla presenza dei soggetti che ne potrebbero essere destinatari e rispetto ai quali il contraddittorio è garantito dalla tempestiva contestazione e dal diritto di far pervenire all’autorità procedente scritti e documenti e di essere ascoltato prima dell’emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento:

    • Cass., sez. I, 5 luglio 2001, n. 9056, in CED Cass. 547899

    Della stessa idea anche la giurisprudenza amministrativa, la quale infatti sostiene che nessuna disposizione richiede la presenza del trasgressore al momento in cui vengono svolte le operazioni di accertamento dell’infrazione e/o in quello in cui viene redatto il relativo verbale; non l’art. 13, Legge 24 novembre 1981, n. 689, che enuncia poteri e facoltà degli organi addetti alla vigilanza e al controllo sull’osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro, senza subordinarli al preventivo avviso e/o alla presenza dei soggetti che ne potrebbero essere destinatari. La garanzia del contraddittorio è assicurata da altre disposizioni contenute nella Legge n. 689/1981 e, precisamente, dagli artt. 14 e 18, sia attraverso la previsione di una tempestiva contestazione, sia attraverso l’attribuzione all’interessato del diritto di far pervenire scritti e documenti all’autorità competente, nonché di essere ascoltato prima dell’emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento:

    • TAR Milano, Lombardia, sez. III, 13 settembre 2012, n. 2305, F.B. c. Asl Varese, in Foro amm. TAR 2012, 9, 2660

    Importante, in giurisprudenza, è l’aver poi chiarito i confini della nozione di “privata dimora” utilizzata dall’art. 13, l. n. 689/1981.

    Si è in particolare affermato che la nozione di “privata dimora” rilevante, agli effetti dell’art. 13 della legge n. 689 del 1981, per delimitare il potere di ispezione degli organi addetti all’accertamento di illeciti amministrativi (potere che può, appunto, esercitarsi esclusivamente in luoghi diversi dalla privata dimora) coincide - nella sostanza - con quella rilevante agli effetti del reato di violazione di domicilio e, dunque, comprende non soltanto la casa di abitazione, ma anche qualsiasi luogo destinato permanentemente o transitoriamente all’esplicazione della vita privata o di attività lavorativa, e, quindi, qualunque luogo, anche se diverso dalla casa di abitazione, in cui la persona si soffermi per compiere, pur se in modo contingente e provvisorio, atti della sua vita privata riconducibili al lavoro, al commercio, allo studio e anche allo svago:

    • Cass. civ., Sez. II, Ord., 20 aprile 2021, n. 10369.

    Nota: una disciplina autonoma è, invece, prevista per quanto concerne la materia della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, in quanto il coordinamento delle attività di prevenzione e vigilanza in materia è disciplinato con D.P.C.M., previa intesa sancita in sede di Conferenza unificata. Tale coordinamento è affidato ai comitati regionali di coordinamento (si v., in particolare, l’art. 4 della Legge 3 agosto 2007, n. 123, recante “Misure in tema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al Governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia”, in G.U. 10 agosto 2007, n. 185). L’atto relativo è costituito dal D.P.C.M. 21 dicembre 2007 (Coordinamento delle attività di prevenzione e vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in G.U. 6 febbraio 2008, n. 31). Ne consegue, conclusivamente, che l’azione ispettiva deve informarsi ai principi generali della legalità, del buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa (artt. 97, 98 Cost.).

    Si rimanda al capitolo 19 del presente testo per un’analisi dell’attività ispettiva e di vigilanza in materia ambientale, in cui si pone l’attenzione sulle funzioni di “Polizia ambientale” e sulle modalità operative che caratterizzano il controllo ambientale.

    1.12.1 Previsione della vigilanza amministrativa per specifici settori ambientali

    1.12.1Previsione della vigilanza amministrativa per specifici settori ambientali

    Quasi tutte le principali normative settoriali, inoltre, prevedono - o, meglio, ribadiscono - poteri ispettivi da parte del personale amministrativo con funzioni di vigilanza (in materia di rifiuti, l’art. 197 D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152; in materia d’inquinamento idrico, gli artt. 101 e 129, D.Lgs. n. 152/2006; art. 14 della Legge n. 447/1995 in materia di inquinamento acustico; in materia di inquinamento atmosferico, l’art. 269, D.Lgs. n. 152/2006). Oltre a prevedere un’attività di vigilanza generica, altresì, il nostro ordinamento contempla talune ipotesi per le quali si ha una vigilanza particolarmente assidua nei confronti dei soggetti che svolgono attività in materia ambientale e per le quali sia necessaria un’autorizzazione amministrativa.

    Per tali soggetti il controllo risponde alla necessità di verificare non solo il rispetto della legge ma anche delle condizioni cui l’autorizzazione ha subordinato lo svolgimento dell’attività. Numerosi sono gli esempi di questa così assidua vigilanza.

    Deve, anzitutto, segnalarsi l’introduzione nel TUA della nozione di ispezione ambientale, introdotta alla lett. v-quinquies) aggiunta all’art. 5 D.Lgs. n. 152 del 2006 dall’art. 1, comma 1, lett. h), D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 46, nozione in cui vengono ricomprese “tutte le azioni, ivi compresi visite in loco, controllo delle emissioni e controlli delle relazioni interne e dei documenti di follow-up, verifica dell’autocontrollo, controllo delle tecniche utilizzate e adeguatezza della gestione ambientale dell’installazione, intraprese dall’autorità competente o per suo conto al fine di verificare e promuovere il rispetto delle condizioni di autorizzazione da parte delle installazioni, nonché, se del caso, monitorare l’impatto ambientale di queste ultime”.

    Gli impianti per i quali è stata rilasciata l’autorizzazione integrata ambientale sono sottoposti a regolare attività di controllo sulla cui regolarità vigilano l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), per impianti di competenza statale (quest’ultimo, inoltre, con competenza estesa alle attività di accertamento, contestazione e notificazione delle violazioni connesse al mancato rispetto dell’AIA quanto agli impianti siderurgici della società ILVA S.p.A., considerati stabilimenti di interesse strategico nazionale ai sensi del D.L. 3 dicembre 2012, n. 207, convertito in Legge 24 dicembre 2012, n. 231 e successivo D.L. 4 giugno 2013, n. 61; per gli impianti localizzati in mare, l’ISPRA esegue i controlli coordinandosi con gli Uffici di vigilanza del Ministero dello Sviluppo economico) o le agenzie regionali e provinciali per la protezione dell’ambiente (ARPA), negli altri casi; inoltre, ferme restando le misure di controllo, l’autorità competente, nell’ambito delle disponibilità finanziarie del proprio bilancio destinate allo scopo, può disporre ispezioni straordinarie sugli impianti autorizzati ai sensi del TUA (D.Lgs. n. 152/2006, art. 29-decies). Nell’ambito dei controlli è infatti espressamente prevista un’attività ispettiva presso le installazioni svolta con oneri a carico del gestore dall’autorità di controllo e che preveda l’esame di tutta la gamma degli effetti ambientali indotti dalle installazioni interessate. Le Regioni possono prevedere il coordinamento delle attività ispettive in materia di autorizzazione integrata ambientale con quelle previste in materia di valutazione di impatto ambientale e in materia di incidenti rilevanti, nel rispetto delle relative normative (art. 29-sexies, comma 6-ter, D.Lgs. n. 152/2006). Si noti, inoltre, che in occasione del riesame l’autorità competente utilizza anche tutte le informazioni provenienti dai controlli o dalle ispezioni (art. 29-octies, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006). Ogni organo che svolge attività di vigilanza, controllo, ispezione e monitoraggio su impianti che svolgono attività di cui agli Allegati VIII e XII, e che abbia acquisito informazioni in materia ambientale rilevanti ai fini dell’applicazione del presente Decreto, comunica tali informazioni, ivi comprese le eventuali notizie di reato, anche all’autorità competente (art. 29-decies, comma 7, TUA).

    In materia di VIA, poi, si stabilisce all’art. 23, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 che, nei provvedimenti concernenti i progetti di cui al punto 1) dell’allegato II alla presente parte e per i progetti riguardanti le centrali termiche e altri impianti di combustione con potenza termica superiore a 300 MW, di cui al punto 2) del medesimo allegato II, è prevista la predisposizione da parte del proponente di una valutazione di impatto sanitario (VIS), in conformità alle linee guida adottate con decreto del Ministro della salute. Per le attività di controllo e di monitoraggio relative alla VIS l’autorità competente si avvale dell’Istituto superiore di sanità.

    In materia di gestione dei rifiuti è previsto che gli addetti ad organismi pubblici con specifiche esperienze e competenze tecniche in materia, con i quali le Province abbiano stipulato apposite convenzioni effettuino ispezioni, verifiche e prelievi di campioni all’interno di stabilimenti, impianti o imprese che producono rifiuti o che svolgono attività di gestione degli stessi (D.Lgs. n. 152/2006, art. 197). E, sul punto, si è chiarito che in relazione all’attività di controllo - prevista dall’art. 197, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006 - su imprese che svolgono attività di gestione dei rifiuti, sono da ritenersi legittime e pertanto utilizzabili le videoregistrazioni del luogo (nella specie, una discarica di rifiuti) eseguite dalla p.g., non rappresentando esse un’indebita intrusione né nell’altrui privata dimora, né nell’altrui domicilio.

    GIURISPRUDENZA

    L’impiego della video camera è perciò equiparabile ad un’operazione eseguita nei limiti dell’autonomia investigativa:

    • Cass. pen., sez. III, 7 aprile 2009, n. 28474, G., in Ambiente e sviluppo, 2010, 2, 172

    Per l’espletamento delle funzioni di vigilanza e controllo in materia di rifiuti, il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare si avvale dell’ISPRA (art. 206-bis, TUA, così sostituito dall’art. 29, comma 1, lett. d), Legge 28 dicembre 2015, n. 221). Analogo potere è attribuito al personale appartenente al Comando Carabinieri Tutela Ambiente (CCTA), il quale è autorizzato ad effettuare le ispezioni e le verifiche necessarie ai fini dell’espletamento delle funzioni di cui all’art. 8 della Legge 8 luglio 1986, n. 349, istitutiva del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (MATTM) (comma 4). Per effetto, però, del Decreto correttivo n. 205/2010 (nuovo comma 5-bis dell’art. 197), le Province, nella programmazione delle ispezioni e controlli in materia di gestione dei rifiuti, sono facoltizzate a tenere conto, nella determinazione della frequenza degli stessi, delle registrazioni ottenute dai destinatari nell’ambito del sistema comunitario di ecogestione e audit (EMAS).

    GIURISPRUDENZA

    Interessante, peraltro, è specificare come, in materia di bonifica dei siti, l’intervento sul luogo dell’inquinamento degli operatori di vigilanza preposti alla tutela ambientale, non esclude la configurabilità del reato di mancata effettuazione della comunicazione, prevista in caso di imminente minaccia di danno ambientale di un sito inquinato, in quanto tale circostanza non esime l’operatore interessato dall’obbligo di comunicare agli organi preposti le misure di prevenzione e messa in sicurezza che intende adottare, entro 24 ore ed a proprie spese, per impedire che il danno ambientale si verifichi:

    • Cass. pen., sez. III, 18 novembre 2010, n. 40856, P., in CED Cass. 248708

    Importante è in materia la decisione della Cassazione, secondo cui riveste la qualifica di polizia giudiziaria il personale delle Agenzie Regionali di protezione ambientale che svolga funzioni di vigilanza e controllo, in ragione delle specifiche competenze allo stesso attribuite dalla normativa di natura legislativa e regolamentare, vigente per l’intero territorio nazionale, e della rilevanza anche costituzionale del bene al quale le stesse attengono, oggetto di tutela penale:

    • Cass., sez. III, 28 novembre 2016, in CED Cass. 268602

    • Cass., sez. I, 24 marzo 2021, n. 11373, in CED Cass. 280862

    Si noti, peraltro, che l’omissione dei controlli, ove non integri un reato contro la P.A. (ad es., omissione o rifiuto di atti d’ufficio ex art. 328, c.p.), può legittimamente integrare anche un’ipotesi di responsabilità diretta dell’operatore nel reato ambientale rispetto al quale la vigilanza ed il controllo erano stati omessi.

    GIURISPRUDENZA

    Sul punto, la Cassazione ha infatti precisato che risponde del reato di illecita gestione dei rifiuti, ove ometta il controllo delle operazioni di smaltimento, il funzionario dell’Agenzia Regionale per la protezione dell’ambiente (ARPA) notiziato dell’esistenza di rifiuti interrati, perché così assume, nella veste di coadiuvante per legge le Regioni e le Province nelle funzioni di controllo sulle attività di gestione, intermediazione e commercio degli stessi, una posizione di garanzia:

    • Cass. pen., sez. III, 1° febbraio 2011, n. 3634, P.M. in proc. Z. e altro, in CED Cass. 249168

    Ciò comporta, per converso, che la mancata effettuazione dei controlli o la circostanza che non siano state impartire prescrizioni dall’organo di controllo e di vigilanza ambientale, non esclude la configurabilità dell’illecito ambientale. Sul punto, ad esempio, la Cassazione ha chiarito che integra il reato di cui all’art. 256, comma 4, TUA il mancato rispetto delle norme tecniche e delle prescrizioni specifiche previste per l’esercizio delle operazioni di recupero dei rifiuti in forma semplificata, anche nel caso in cui la Provincia non abbia svolto alcun controllo né siano state dal medesimo Ente fissate specifiche prescrizioni e scadenze:

    • Cass. pen., sez. III, 13 gennaio 2011, n. 654, P. e altro, in CED Cass. 249277

    Per quanto concerne la difesa della qualità dell’aria l’art. 269 del D.Lgs. n. 152/2006, come sostituito dal D.Lgs. 15 novembre 2017, n. 183, stabilisce (comma 9) che: “L’autorità competente per il controllo è autorizzata ad effettuare presso gli stabilimenti tutte le ispezioni che ritenga necessarie per accertare il rispetto dell’autorizzazione. Il gestore fornisce a tale autorità la collaborazione necessaria per i controlli, anche svolti mediante attività di campionamento e analisi e raccolta di dati e informazioni, funzionali all’accertamento del rispetto delle disposizioni della parte quinta del presente Decreto. Il gestore assicura in tutti i casi l’accesso in condizioni di sicurezza, anche sulla base delle norme tecniche di settore, ai punti di prelievo e di campionamento”.

    Il Decreto correttivo n. 128/2010 e il successivo D.Lgs. 15 novembre 2017, n. 183, a decorrere dal 19 dicembre 2017, inoltre, hanno specificato che i controlli relativi al rispetto del presente titolo sono effettuati dall’autorità competente in occasione delle ispezioni effettuate ai sensi del D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 192, e del Decreto attuativo dell’art. 4, comma 1, lett. a) e b), del citato Decreto legislativo anche avvalendosi degli organismi ivi previsti, nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente (art. 288, comma 8).

    In materia di inquinamento idrico l’autorità competente per il controllo è autorizzata ad effettuare tutte le ispezioni ritenute necessarie per l’accertamento delle condizioni che danno luogo alla formazione degli scarichi. A quest’ultimo riguardo, anzitutto, l’art. 101, comma 4, prevede espressamente che “l’autorità competente per il controllo è autorizzata ad effettuare tutte le ispezioni che ritenga necessarie per l’accertamento delle condizioni che danno luogo alla formazione degli scarichi”; tale principio è ribadito dall’art. 129 del D.Lgs. n. 152/2006, il quale stabilisce che il soggetto incaricato del controllo è autorizzato a effettuare le ispezioni, i controlli e i prelievi necessari all’accertamento del rispetto dei valori limite di emissione, delle prescrizioni contenute nei provvedimenti autorizzatori o regolamentari e delle condizioni che danno luogo alla formazione degli scarichi. Il titolare dello scarico - prosegue il predetto art. 129 - è tenuto a fornire le informazioni richieste e a consentire l’accesso ai luoghi dai quali ha origine lo scarico.

    GIURISPRUDENZA

    Sul punto, peraltro, la giurisprudenza ha chiarito che, poiché l’art. 129, D.Lgs. n. 152 del 2006 prevede che “l’autorità competente al controllo è autorizzata ad effettuare le ispezioni, i controlli ed i prelievi necessari all’accertamento del rispetto dei valori limite di emissione ed il titolare dello scarico è tenuto a fornire le informazioni richieste e a consentire l’accesso ai luoghi dai quali origina lo scarico”, è ben possibile che il gestore del servizio idrico integrato, ancorché società privata e non istituzione pubblica preposta al controllo ambientale (come ARPA etc.), sia legittimato ad effettuare controlli, con prelievi di campioni e analisi dei reflui:

    • Trib. Vicenza, 15 marzo 2010, in Giur. merito 2010, 11, 2851

    Generalmente correlato al potere ispettivo vi è poi l’obbligo per il gestore dell’impianto di fornire all’organo di controllo tutta l’assistenza necessaria per lo svolgimento di qualsiasi verifica tecnica relativa all’impianto, per prelevare campioni e per raccogliere qualsiasi informazione necessaria ai fini del presente Decreto (art. 29-decies, D.Lgs. n. 152/2006). Ferme restando le competenze amministrative e le funzioni di controllo sulla qualità delle acque e sugli scarichi nei corpi idrici stabilite dalla normativa vigente e quelle degli organismi tecnici preposti a tali funzioni, infine, per assicurare la fornitura di acqua di buona qualità e per il controllo degli scarichi nei corpi ricettori, ciascun gestore di servizio idrico si dota inoltre di un adeguato servizio di controllo territoriale e di un laboratorio di analisi per i controlli di qualità delle acque alla presa, nelle reti di adduzione e di distribuzione, nei potabilizzatori e nei depuratori, ovvero stipula apposita convenzione con altri soggetti gestori di servizi idrici (art. 165, D.Lgs. n. 152/2006).

    Infine, da un lato, con previsione specifica riguardante la disciplina degli impianti di incenerimento e coincenerimento dei rifiuti, il TUA prevede che i soggetti incaricati dei controlli sono autorizzati ad accedere in ogni tempo presso gli impianti di incenerimento e coincenerimento per effettuare le ispezioni, i controlli, i prelievi e i campionamenti necessari all’accertamento del rispetto dei valori limite di emissione in atmosfera e in ambienti idrici, nonché del rispetto delle prescrizioni relative alla ricezione, allo stoccaggio dei rifiuti e dei residui, ai pretrattamenti e alla movimentazione dei rifiuti e delle altre prescrizioni contenute nei provvedimenti autorizzatori o regolamentari e di tutte le altre prescrizioni contenute nel presente Decreto (art. 237-vicies, inserito dall’art. 15, comma 1, D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 46, che ha inserito l’intero Titolo III-bis).

    Dall’altro, per le installazioni e gli stabilimenti che producono biossido di titanio e solfati di calcio, si stabilisce che le autorità competenti per il controllo effettuano ispezioni e prelievi di campioni relativamente alle emissioni nelle acque, alle emissioni nell’atmosfera, agli stoccaggi ed alle lavorazioni presso le installazioni e gli stabilimenti che producono biossido di titanio. Tale controllo comprende almeno il controllo delle emissioni di cui all’Allegato I, Parte 3.3, alla Parte Quinta-bis. Il controllo è effettuato conformemente alle norme CEN oppure, se non sono disponibili norme CEN, conformemente a norme ISO, nazionali o internazionali che assicurino dati equivalenti sotto il profilo della qualità scientifica (art. 298-bis, D.Lgs. n. 152/2006, da ultimo modificato dall’art. 18, comma 1, lett. t), Legge 20 novembre 2017, n. 167).

    1.12.2. Analisi della giurisprudenza attinente attività ispettiva e vigilanza

    1.12.2.Analisi della giurisprudenza attinente attività ispettiva e vigilanza

    ➔ Gli organismi pubblici preposti alla vigilanza in materia ambientale: il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica

    Ai sensi dell’art. 8, comma 2, Legge n. 349/1986 il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica (MASE) può disporre verifiche tecniche sullo stato di inquinamento dell’atmosfera, delle acque e del suolo e sullo stato di conservazione di ambienti naturali. Nei casi in cui vi sia una mancata attuazione o inosservanza da parte delle Regioni, delle Province o dei Comuni, delle disposizioni di legge relative alla tutela dell’ambiente e qualora possa derivarne un grave danno ecologico, il MASE, previa diffida ad adempiere entro congruo termine da indicarsi nella diffida medesima, adotta con ordinanza cautelare le necessarie misure provvisorie di salvaguardia, anche a carattere inibitorio di opere, di lavoro o di attività antropiche, dandone comunicazione preventiva alle amministrazioni competenti (Legge n. 349/1986, art. 8, comma 3).

    GIURISPRUDENZA

    Secondo la giurisprudenza di legittimità, si noti, l’esercizio del potere di ordinanza, conferito al Ministro per l’Ambiente dagli artt. 8, comma 3 della Legge 8 luglio 1986, n. 349 e 8 della Legge 3 marzo 1987, n. 59, per l’adozione, anche nei confronti degli enti locali, di misure di salvaguardia ambientale, coinvolge situazioni soggettive che hanno la consistenza degli interessi legittimi e che, pertanto, sono suscettibili di tutela in sede di giurisdizione amministrativa, non essendo configurabile l’intervento dell’AGO neanche in via di urgenza, ai sensi degli artt. 700 ss., i quali non introducono deroghe ai principi generali sul reperto della giurisdizione:

    • Cass., SS.UU., 1° giugno 1992, n. 6605, in Riv. Giur. Amb. 1993, 846

    ➔ La razionalizzazione delle funzioni “centralizzate” di vigilanza ambientale: il D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 177

    Il nostro ordinamento giuridico riconosceva competenza in materia ambientale circa attività di controllo e vigilanza a diversi organi centrali dello Stato:

    • Arma dei Carabinieri, attraverso il Comando Carabinieri per la Tutela Ambientale e la Transizione Ecologica;

    • Corpo Forestale dello Stato;

    • Guardia di Finanza;

    • Polizia di Stato.

    L’art. 8 della Legge 7 agosto 2015, n. 124 (meglio nota come D.D.L. Madia, recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, in G.U. 13 agosto 2015, n. 187) aveva previsto il riordino delle funzioni di polizia di tutela dell’ambiente, del territorio e del mare, nonché nel campo della sicurezza e dei controlli nel settore agroalimentare, conseguente alla riorganizzazione del Corpo forestale dello Stato ed eventuale assorbimento del medesimo in altra Forza di polizia, fatte salve le competenze del medesimo Corpo forestale in materia di lotta attiva contro gli incendi boschivi e di spegnimento con mezzi aerei degli stessi da attribuire al Corpo nazionale dei vigili del fuoco con le connesse risorse e ferme restando la garanzia degli attuali livelli di presidio dell’ambiente, del territorio e del mare e della sicurezza agroalimentare e la salvaguardia delle professionalità esistenti, delle specialità e dell’unitarietà delle funzioni da attribuire, assicurando la necessaria corrispondenza tra le funzioni trasferite e il transito del relativo personale. Il termine per l’esercizio della delega era fissato nel 28 agosto 2016, restando nelle more operativo il C.F.S. La delega è stata esercitata con il D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 177 (in G.U., 12 settembre 2016, n. 213), recante “Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. a), della Legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”. In attuazione della delega legislativa conferita nel 2015 con il D.D.L. Madia, dunque, il legislatore delegato ha accorpato (art. 174-bis, D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66), per esigenze di razionalizzazione le funzioni di vigilanza ambientale svolte da più organi dello Stato in un unico reparto, denominato Comando Unità per la tutela forestale, ambientale e agroalimentare (CUTFAA) - su cui v. infra -, con contestuale assorbimento del Corpo Forestale dello Stato (e delle relative funzioni) nell’Arma dei Carabinieri. In particolare, secondo la nuova disciplina (art. 7, D.Lgs. n. 177/2016), il Corpo forestale dello Stato è assorbito nell’Arma dei carabinieri, la quale esercita le funzioni già svolte dal citato Corpo previste dalla legislazione vigente alla data di entrata in vigore del Decreto, ad eccezione delle competenze in materia di lotta attiva contro gli incendi boschivi e spegnimento con mezzi aerei degli stessi, attribuite al Corpo nazionale dei vigili del fuoco (peraltro prevedendo l’art. 4, comma 1, D.Lgs. 12 dicembre 2017, n. 228 la sigla di un protocollo di intesa tra l’Arma dei carabinieri ed il Corpo nazionale dei vigili del fuoco per definire le operazioni di spegnimento a terra degli incendi boschivi nelle aree naturali protette di rilevanza nazionale e internazionale, nonché delle altre aree protette, svolte dalle unità specialistiche dell’Arma dei carabinieri), nonché delle funzioni attribuite alla Polizia di Stato e al Corpo della guardia di finanza e delle attività cui provvede il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali.

    GIURISPRUDENZA

    Si segnala che la riforma Madia ha superato indenne il vaglio di costituzionalità. La Corte costituzionale ha, infatti, dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lett. a), Legge n. 124/2015, censurato dai TAR Abruzzo, Molise e Veneto - in riferimento agli artt. 76 e 77, comma 1, Cost. - in quanto avrebbe conferito una delega “in bianco”, non perimetrando la discrezionalità del Governo in ordine all’alternativa di sciogliere o meno il Corpo forestale dello Stato e non individuando la forza di polizia in cui farlo confluire. La Legge delega n. 124/2015 e il D.Lgs. n. 177/2016 hanno dato luogo a una riorganizzazione assai complessa, che incide in profondità sulle strutture e sul personale di tutte le forze di polizia. In tale contesto, la delega, contemplando espressamente l’eventualità dell’assorbimento del Corpo forestale “in altra Forza di polizia”, consente che essa possa essere individuata nell’Arma dei carabinieri, rientrante nel novero delle forze di polizia secondo il quadro normativo di riferimento. La volontà del legislatore delegante di consentire la soluzione del passaggio all’Arma dei carabinieri, si ricava, peraltro, anche dalle risultanze dei lavori preparatori. In presenza di una delega di riassetto così incisiva - e dunque non di mero riordino - non può essere precluso al legislatore delegante di attribuire a quello delegato una scelta tra più opzioni possibili, lasciando aperta, nell’ambito di criteri volti a rendere efficienti le funzioni oggetto di trasferimento, una pluralità di soluzioni, tutte egualmente rimesse alla discrezionalità del Governo nell’attuazione della legge di delega, secondo un disegno procedurale coerente con l’art. 76 Cost.:

    • Corte cost., 10 luglio 2019, n. 170, in Foro Amministrativo (Il) 2019, 9, 1426

    Diversamente, la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione di cui all’art. 18, comma 5, D.Lgs. n. 177/2016, laddove prevede che “il capo della polizia direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del c.p.p.”. La Corte costituzionale ha così accolto il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, proposto dal procuratore di Bari nei confronti del Governo, ritenendo tale disposizione lesiva delle attribuzioni costituzionali del Pm, garantite dall’art. 109 Cost. in quanto la deroga al segreto investigativo mette a rischio le indagini condotte dall’autorità giudiziaria:

    • Corte cost., 6 dicembre 2018, n. 229, in Giur. Cost. 2018, 6, 2622, con nota di Carlassare

    Sempre in ordine alla riforma Madia, la giurisprudenza amministrativa è peraltro recentemente intervenuta affermando che la materia forestale di competenza regionale è limitata dalla giurisprudenza costituzionale alla funzione economico-produttiva del patrimonio boschivo, mentre i profili ambientali sono ascritti alla “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, di competenza esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s). La riconducibilità della riforma del Corpo Forestale dello Stato a materie di competenza esclusiva dello Stato non esclude la possibilità di accordi di collaborazione e coordinamento con le Regioni, tant’è che l’art. 13, comma 5, d.lg. n. 177 del 2016 li contempla espressamente, ponendosi nel solco dell’art. 4 della Legge n. 36 del 2004:

    • TAR Brescia, Lombardia, sez. I, 14 ottobre 2019, n. 890, in Foro Amministrativo (Il), 2019, 10, 1659

    Ancora, si è puntualizzato che dal riconoscimento della rilevanza costituzionale del lavoro non può derivare - quando siano in gioco altri interessi e altre esigenze sociali - l’assoluta prevalenza della stabilità del posto di lavoro, il cui mantenimento dunque non può configurarsi come diritto fondamentale incomprimibile, sicché la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, sia pur circondata di doverose garanzie, lascia spazio a opportuni temperamenti quando si renda necessario far luogo a licenziamenti ovvero a radicali riorganizzazioni (nella fattispecie, il Collegio - dopo avere richiamato i plurimi arresti della Corte costituzionale chiamata a pronunciarsi su molteplici profili del D.Lgs. delegato n. 177 del 2016 con cui, in attuazione della legge di delegazione della funzione legislativa, il Parlamento aveva delegato il Governo ad adottare un atto avente valore di legge per disciplinare dell’assorbimento del Corpo forestale dello Stato nell’Arma dei Carabinieri ed eventuale altro Corpo di polizia - respingeva il ricorso della ricorrente proposto avvero il decreto del Capo del Corpo forestale dello Stato con cui era stata individuata l’Amministrazione presso cui era assegnata la ricorrente):

    • TAR Parma, (Emilia-Romagna), sez. I, 4 febbraio 2020, n. 31, in Red. Giuffrè amm. 2020

    In argomento si è ancora affermato che in materia di razionalizzazione delle funzioni di Polizia e assorbimento del Corpo Forestale dello Stato, l’art. 12 del D.Lgs. n. 177 del 2016, dopo aver stabilito al comma 2 i criteri di assegnazione, stabilisce, al comma 7, che - qualora, successivamente ai provvedimenti di assegnazione, il numero delle unità di personale trasferito fosse risultato inferiore alle dotazioni organiche determinate, ai sensi del comma 1, e cioè secondo l’incremento previsto dalla tabella A - l’esercizio delle relative funzioni deve essere garantito mediante le procedure di reclutamento da finanziare con le risorse di cui alle lett. a) e b) del medesimo comma e non, quindi, sovvertendo i criteri previsti dal comma 2, finalizzati proprio ad evitare la dispersione di professionalità che la riallocazione del personale - sganciata dai compiti sino a quella data svolti - avrebbe comportato:

    • Cons. Stato, sez. II, 13 dicembre 2022, n. 10927, Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali e altri c. D.C.

    Da ultimo, il massimo organo di giustizia amministrativa, pronunciandosi sull’art. 12, D.Lgs. n. 177/2016, ha affermato alcuni importanti principi: a) sussiste la corrispondenza tra funzioni trasferite e transito del personale nonché l’ordine di graduazione dei criteri di assegnazione indicati alle lett. a), b) e c) del comma 2 dell’art. 12 del D.Lgs. n. 177/2016, nel senso della prevalenza del criterio di cui alla lett. a), finalizzato ad attuare il principio della corrispondenza tra le funzioni trasferite e il transito del relativo personale, e della residualità dei criteri indicati alle lett. b) e c), che operano in funzione subordinata e sequenziale, ai quali si può dunque fare ricorso solo se il criterio precedente non sia stato risolutivo; b) il comma 7 dell’art. 12 del D.Lgs. n. 177/2016 contiene una norma di chiusura del sistema così che, qualora successivamente ai provvedimenti di assegnazione, il numero delle unità di personale trasferito fosse risultato inferiore alle dotazioni organiche determinate, ai sensi del comma 1, e cioè secondo l’incremento previsto dalla tab. A, l’esercizio delle relative funzioni doveva essere garantito mediante le procedure di reclutamento da finanziare con le risorse indicate alle lett. a) e b) del detto comma 7 e non sovvertendo i criteri di priorità previsti dal comma 2, finalizzati proprio ad evitare la dispersione di professionalità che la riallocazione del personale - sganciata dai compiti sino a quella data svolti - avrebbe comportato. Pertanto, devono essere considerate le attività svolte con continuità e assoluta prevalenza nei precedenti anni lavorativi nonché la pertinenza e la prossimità di tali attività con le nuove attribuzioni acquisite dall’Arma dei Carabinieri in occasione della soppressione del Corpo forestale dello Stato; c) il contenuto dell’art. 12 del D.Lgs. n. 177/2016 rende palese l’intenzione del legislatore di approntare un sistema in grado di rispettare e conservare l’esperienza acquisita dal personale e le funzioni svolte in precedenza, onde non consentire che una misura di accorpamento, dettata da esigenze di razionalizzazione e risparmio delle risorse umane e materiali disponibili, possa tradursi in un appannamento e detrimento delle essenziali funzioni preventive e repressive già assolte dal Corpo Forestale:

    • Cons. Stato, sez. II, 7 marzo 2023, n. 2373, (omissis) c. Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali - Corpo Forestale dello Stato e altri

    ➔ La vigilanza ambientale nel TUA

    Il TUA (D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152), in materia di vigilanza delle forze di polizia sui reati ambientali, prevede delle specifiche attribuzioni attraverso una serie di disposizioni normative che, nonostante interessino competenze ed attribuzioni delle forze di polizia in campo ambientale toccate dal D.Lgs. n. 177/2016, non sono state modificate.

    I relativi richiami devono intendersi, pertanto, riferiti al nuovo assetto istituzionale derivante dalla riorganizzazione disposta con il Decreto attuativo del c.d. D.D.L. Madia.

    In particolare, l’art. 195, comma 5, stabilisce che “Fatto salvo quanto previsto dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, ai fini della sorveglianza e dell’accertamento degli illeciti in violazione della normativa in materia di rifiuti nonché della repressione dei traffici illeciti e degli smaltimenti illegali dei rifiuti provvedono il Comando Carabinieri Tutela Ambiente (CCTA) e il Corpo delle Capitanerie di porto; può altresì intervenire il Corpo forestale dello Stato e possono concorrere la Guardia di finanza e la Polizia di Stato”.

    Con analoga formula, l’art. 135, comma 2, prevede che “Fatto salvo quanto previsto dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, ai fini della sorveglianza e dell’accertamento degli illeciti in violazione delle norme in materia di tutela delle acque dall’inquinamento provvede il Comando Carabinieri Tutela Ambiente (CCTA); può altresì intervenire il Corpo forestale dello Stato e possono concorrere la Guardia di finanza e la Polizia di Stato”. Tale norma, peraltro, aggiunge che “Il Corpo delle capitanerie di porto, Guardia costiera, provvede alla sorveglianza e all’accertamento delle violazioni di cui alla parte terza del presente Decreto quando dalle stesse possano derivare danni o situazioni di pericolo per l’ambiente marino e costiero”.

    GIURISPRUDENZA

    Deve qui essere ricordato che la Corte costituzionale ha ritenuto infondata, in riferimento all’art. 117, comma 4, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 135, comma 2, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152. Secondo la Consulta, infatti, la disposizione censurata, invero, non attiene alla materia della polizia amministrativa locale, ma si limita ad indicare il Comando carabinieri tutela ambiente (C.C.T.A.) quale organo competente ad accertare le violazioni amministrative, senza privare delle loro competenze gli organi di polizia amministrativa locale:

    • Corte cost., 24 luglio 2009, n. 246, Reg. Emilia-Romagna e altro c. Pres. Cons.

    La giurisprudenza di legittimità ha sempre affermato che, al di là delle competenze specifiche degli enti preposti al controllo, l’attività di accertamento degli illeciti in materia ambientale rientra nella competenza generale di tutta la polizia giudiziaria senza distinzioni selettive, anche se in concreto esistono specializzazioni.

    In tal senso, si è affermato che “gli accertamenti in materia di tutela delle acque sono di competenza della polizia giudiziaria, senza distinzioni settoriali e di specializzazione: Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza, Corpo Forestale, Polizia Municipale possono procedere ad operazioni di campionamento delle acque, rimanendo riservate le operazioni di analisi agli organi tecnici competenti”:

    • Cass., sez. III, 27 settembre 1991, n. 10525

    conseguendone quindi che “... sono quindi autorizzati tutti i soggetti che svolgono compiti amministrativi di vigilanza e controllo (laboratori provinciali di igiene e profilassi, presidi e servizi multizonali, U.S.L., N.A.S., N.O., Polizia Municipale, Corpo forestale, Corpo Provinciale di vigilanza dell’inquinamento etc.”:

    • Cass., sez. III, 3 novembre 1992, n. 12075

    • conf. Cass., sez. III, 22 giugno 1993, n. 7173, G.

    Di particolare importanza la recente decisione della Corte di cassazione che ha, in particolare, affermato che sebbene debba essere un atto normativo o regolamentare ad attribuire le funzioni di polizia giudiziaria agli appartenenti ad un determinato Corpo (art. 57 c.p.p.), stabilendone la materia ove a competenza limitata (nella specie, il Nucleo speciale di intervento del Comando generale del Corpo delle capitanerie di porto - guardia costiera), ciò non esclude che il pubblico ministero possa delegare agli stessi anche attività che non rientrano specificamente nella materia loro assegnata:

    • Cass. pen., Sez. V, 13 gennaio 2023, n. 1080, in CED Cass. 283994.

    Inoltre, per quanto riguarda le Regioni a statuto speciale, si è precisato che gli agenti del Corpo Forestale Regionale del Friuli-Venezia Giulia sono ufficiali di polizia giudiziaria in quanto omologhi, sul territorio regionale, del Corpo Forestale dello Stato:

    • Cass., sez. III, 29 aprile 2010, n. 21660, in CED Cass. 247610

    Analogamente, i sottufficiali del Corpo Forestale Regionale della Sardegna sono ufficiali di polizia giudiziaria, essendo le funzioni loro attribuite del tutto omologhe a quelle del Corpo Forestale dello Stato:

    • Cass. pen., sez. III, 26 gennaio 2012, n. 3220, P. e altri, in CED Cass. 251969

    Conforme la Cassazione che peraltro puntualizza come alla luce della disciplina di cui all’art. 57, comma 2, lett. b), c.p.p. non è consentita una indiscriminata attribuzione della qualifica di agenti di polizia giudiziaria a tutti gli addetti ai servizi forestali, a prescindere dal grado di cui ciascuno sia titolare:

    • Cass. pen., sez. I, 7 agosto 2000, n. 4491, P.M. in proc. R. e altri, in CED Cass. 216913

    Si è anche affermato che gli agenti di polizia ittica che, ai sensi dell’art. 31 R.D. n. 1604 del 1931, svolgono attività di sorveglianza sulla pesca sono agenti di polizia giudiziaria e, come tali, nell’esercizio delle loro funzioni, rivestono la qualifica di pubblici ufficiali:

    • Cass. pen., sez. VI, 21 giugno 2012, n. 24637, S., in CED Cass. 253110

    Ancora, si è affermato che riveste la qualifica di polizia giudiziaria il personale delle Agenzie Regionali di protezione ambientale che svolga funzioni di vigilanza e controllo, in ragione delle specifiche competenze allo stesso attribuite dalla normativa di natura legislativa e regolamentare, vigente per l’intero territorio nazionale, e della rilevanza anche costituzionale del bene al quale le stesse attengono, oggetto di tutela penale:

    • Cass. pen., sez. III, 28 novembre 2016, n. 50352, P.M. in proc. I., in CED Cass. 268602

    • Cass. pen., sez. I, 24 marzo 2021, n. 11373, in CED Cass. 280862

    Relativamente alle guardie volontarie venatorie si è discusso, tuttavia, in giurisprudenza se allo svolgimento di tali compiti sia o meno necessariamente collegato il dovere di acquisire gli elementi probatori e di impedire che i reati vengano portati ad ulteriori conseguenze, ad esempio, procedendo al sequestro di armi e munizioni operato nell’esercizio dei poteri assegnati alle guardie volontarie venatorie.

    In senso affermativo:

    • Cass., sez. III, 27 febbraio 1995, n. 613, P.M. in proc. Z., in CED Cass. 201998

    • Cass., sez. III, 2 febbraio 2006, n. 6454, L., in CED Cass. 233561

    In senso difforme:

    • Cass., sez. V, 24 novembre 2016, n. 50061, in CED Cass. 268628

    • Cass., sez. F, 8 ottobre 2013, n. 41646, S. e altro, in CED Cass. 257229

    • Cass., sez. VI, 19 ottobre 2010, n. 37491, M., in CED Cass. 248518

    • Cass., sez. III, 15 febbraio 2008, n. 14231, S., in CED Cass. 239660

    • Cass., sez. III, 5 febbraio 2008, n. 13600, P.M. in proc. P., in CED Cass. 239572

    Un contrasto giurisprudenziale è ancora emerso quanto all’attribuzione della qualifica di agenti di polizia giudiziaria delle guardie particolari giurate delle associazioni zoofile riconosciute, nominate con decreto prefettizio. Ad un primo orientamento che esclude che le stesse rivestano la qualifica di agenti di polizia giudiziaria con riguardo ai controlli in materia venatoria per il solo fatto che è loro affidata, ex art. 6, comma 2, Legge 20 luglio 2004, n. 189, la vigilanza sull’applicazione di tale Legge e delle altre norme a tutela degli “animali da affezione”, in quanto rientrano in questa categoria i soli animali domestici o di compagnia, con esclusione della fauna selvatica, si contrappone invece un diverso orientamento che invece ritiene che esse rivestano la qualifica di agenti di polizia giudiziaria anche nel caso in cui svolgano attività di vigilanza sulla fauna selvatica.

    In senso affermativo:

    • Cass., sez. III, 19 luglio 2011, n. 28727, CED Cass. 250609

    • Cass., sez. VI, 26 giugno 2019, n. 27992, CED Cass. 276224

    In senso difforme:

    • Cass., sez. III, 11 giugno 2008, n. 23631, CED Cass. 240231

    • Cass., sez. VI, 19 ottobre 2010, n. 37491, CED Cass. 248518

    • Cass., sez. VI, 16 maggio 2019, n. 21508, CED Cass. 275676

    • Cass., sez. III, 17 febbraio 2021, n. 6146, CED Cass. 281322

    ➔ Attività ispettiva e compiti di polizia giudiziaria

    La funzione di vigilare sull’esecuzione delle leggi risponde ad un interesse generale e costituisce una funzione amministrativa sicché il personale che svolge tale attività risulta essere pienamente legittimato all’esercizio di poteri ispettivi particolarmente incisivi e ad imporre ai soggetti che ricevono la visita ispettiva di fornire loro le notizie richieste pena l’irrogazione di sanzioni.

    Tale attività si differenzia da quella c.d. “di polizia giudiziaria” il cui fine ultimo è quello di raccogliere e conservare elementi probatori di rilevanza penale strumentalmente allo svolgimento dei compiti dell’autorità giudiziaria. L’attività di polizia giudiziaria è svolta sulla base di un rapporto gerarchico-funzionale diverso rispetto all’attività amministrativa di vigilanza.

    La prima è svolta sulla base del rapporto di “diretta disponibilità” in favore dell’autorità giudiziaria (art. 109 Cost.) e secondo le norme del diritto processuale penale mentre la seconda, invece, è sulla base del rapporto di pubblico impiego e secondo le norme del diritto amministrativo.

    Non tutti i soggetti di cui si è detto in precedenza fanno parte della polizia giudiziaria. In particolare, pare (anche se si tratta di questione controversa) che tale qualifica non spetti al personale dell’ISPRA e delle ARPA.

    Sotto il profilo applicativo, il primo elemento da considerare al fine di accertare se l’ispettore che possa astrattamente rivestire sia funzioni di polizia amministrativa che di polizia giudiziaria svolga, in concreto, queste o quelle, dipende dal fine al quale è obiettivamente tesa la sua azione.

    In tal senso l’art. 220 disp. att. coord. c.p.p. stabilisce che “[...] quando nel corso di attività ispettive previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge sono compiuti con l’osservanza del c.p.p.”. Di conseguenza, ogni atto che gli ispettori con funzioni di polizia giudiziaria svolgono dopo l’insorgenza di indizi di reato, e quindi ogni atto preordinato all’applicazione della legge penale, dovrà rispettare le norme del c.p.p. previste per il compimento degli atti tipici di polizia giudiziaria.

    GIURISPRUDENZA

    Sul punto, in giurisprudenza è stato chiarito che il significato dell’espressione “quando... emergano indizi di reato” - contenuta nell’art. 220 disp. att. c.p.p. e tesa a fissare il momento a partire dal quale, nell’ipotesi di svolgimento di ispezioni o di attività di vigilanza, sorge l’obbligo di osservare le disposizioni del c.p.p. per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire ai fini dell’applicazione della legge penale - deve intendersi nel senso che presupposto dell’operatività della norma sia non l’insorgenza di una prova indiretta quale indicata dall’art. 192 c.p.p., bensì la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata:

    • Cass., SS.UU., 28 novembre 2001, n. 45477

    conforme, da ultimo

    • Cass., sez. III, 16 luglio 2019, n. 31223, in CED Cass. 276679

    Si è tuttavia specificato che l’art. 220 disp. att. c.p.p. si riferisce ad indizi di reato che emergono nel corso dell’attività ispettiva e di vigilanza, pertanto la cognizione circa la sussistenza degli indizi deve risultare oggettivamente evidente a chi opera mentre effettua tale attività e non può essere soltanto ipotizzata sulla base di mere congetture, nè può ritenersi possibile sostenere, dopo l’accertamento del reato, che chi ha effettuato il controllo avrebbe dovuto prefigurarsi quale ne sarebbe stato l’esito:

    • Cass., sez. III, 29 agosto 2019, n. 36626, CED Cass. 277665

    Tale principio è stato esplicitato, di recente, dalla stessa giurisprudenza di legittimità, affermandosi che è necessario distinguere i prelievi e le analisi inerenti alle attività amministrative, ovvero alla normale attività di vigilanza e di ispezione, disciplinati dall’art. 223 disp. att. c.p.p., dalle analisi e prelievi inerenti invece ad un’attività di polizia giudiziaria nell’ambito di una indagine preliminare per i quali devono operare le norme di garanzia della difesa in applicazione dell’art. 220 disp. att. c.p.p. Tra le altre:

    • Cass., sez. III, 10 febbraio 2010, n. 15372, F., in CED Cass. 246597

    • Cass., sez. III, 12 marzo 2015, n. 10484, in CED Cass. 262698

    • Cass., sez. II, 13 dicembre 2016, n. 52793, B., in CED Cass. 268766

    • Cass., sez. III, 3 febbraio 2017, n. 5235, L.V., in CED Cass. 269213

    Non si registrano, invece, uniformi vedute in giurisprudenza circa le conseguenze derivanti dalla mancata osservanza delle disposizioni del codice di rito relative alla fase delle indagini preliminari nel caso di acquisizione, nel corso di attività ispettive o di vigilanza durante il cui svolgimento siano emersi indizi di reato, degli atti necessari ad assicurare le fonti di prova. Secondo un primo orientamento, ciò integrerebbe la nullità d’ordine generale di cui all’art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p.:

    • v., da ultimo: Cass., sez. III, 3 febbraio 2017, n. 5235, L.V., in CED Cass. 269214

    Secondo altro orientamento, invece, ciò sarebbe sempre causa di inutilizzabilità dei risultati probatori:

    • Cass., sez. III, 22 aprile 2010, n. 15372, F., in CED Cass. 246599

    Secondo un orientamento intermedio, infine, la violazione dell’art. 220 disp. att. c.p.p. non determinerebbe automaticamente l’inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti nell’ambito di attività ispettive o di vigilanza, ma è necessario che l’inutilizzabilità o la nullità dell’atto sia autonomamente prevista dalle norme del codice di rito a cui l’art. 220 disp. att. rimanda:

    • Cass., sez. III, 13 febbraio 2017, n. 6594, P. e altro, in CED Cass. 269299

    • Cass., sez. III, 13 marzo 2020, n. 9977, CED Cass. 278423

    Si è, ancora, specificato che in materia di attività ispettive e di vigilanza, a partire dal momento in cui è possibile attribuire rilevanza penale al fatto, l’art. 350 c.p.p. rientra tra le disposizioni di rito di cui è necessario garantire l’osservanza, ex art. 220 disp. att. c.p.p., con la conseguenza che le dichiarazioni spontanee dell’indagato nel luogo e nell’immediatezza del fatto sono utilizzabili ai sensi del comma 7 del predetto art. 350, a differenza di quelle rese su richiesta o sollecitazione degli inquirenti, delle quali, invece, è vietata qualunque utilizzazione, in base ai commi 5 e 6 della medesima disposizione:

    • Cass., sez. II, 3 marzo 2021, n. 8604, CED Cass. 280905

    Da ultimo, si è aggiunto che i rilievi fotografici riproducenti quanto i funzionari dello Stato o di altri enti pubblici hanno rilevato nel corso di verifiche ispettive o amministrative devono ritenersi prove documentali ex art. 234 c.p.p., acquisibili al fascicolo per il dibattimento, e non invece accertamenti tecnici irripetibili da compiere nel rispetto delle garanzie difensive:

    • Cass. pen., sez. III, 30 giugno 2015, n. 27118, C., in CED Cass. 264021

    Fine capitolo