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Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    Questo volume non è incluso nella tua sottoscrizione. Il primo capitolo è comunque interamente consultabile.

    Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

    Informazioni sul volume

    Autore:

    Raffaele Guariniello

    Editore:

    Wolters Kluwer

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    1. AMBIENTI DI LAVORO

    1.1. Stabilità e solidità

    1.1.1. Gli edifici che ospitano i luoghi di lavoro o qualunque altra opera e struttura presente nel luogo di lavoro devono essere stabili e possedere una solidità che corrisponda al loro tipo d'impiego ed alle caratteristiche ambientali.

    1.1.2. Gli stessi requisiti vanno garantiti nelle manutenzioni.

    1.1.3. I luoghi di lavoro destinati a deposito devono avere, su una parete o in altro punto ben visibile, la chiara indicazione del carico massimo dei solai, espresso in chilogrammi per metro quadrato di superficie.

    1.1.4. I carichi non devono superare tale massimo e devono essere distribuiti razionalmente ai fini della stabilità del solaio.

    1.1.5. L'accesso per i normali lavori di manutenzione e riparazione ai posti elevati di edifici, parti di impianti, apparecchi, macchine, pali e simili deve essere reso sicuro ed agevole mediante l'impiego di mezzi appropriati, quali andatoie, passerelle, scale, staffe o ramponi montapali o altri idonei dispositivi.

    1.1.6. Il datore di lavoro deve mantenere puliti i locali di lavoro, facendo eseguire la pulizia, per quanto è possibile, fuori dell'orario di lavoro e in modo da ridurre al minimo il sollevamento della polvere dell'ambiente, oppure mediante aspiratori.

    1.1.7. Nelle adiacenze dei locali di lavoro e delle loro dipendenze, il datore di lavoro non può tenere depositi di immondizie o di rifiuti e di altri materiali solidi o liquidi capaci di svolgere emanazioni insalubri, a meno che non vengano adottati mezzi efficaci per evitare le molestie o i danni che tali depositi possono arrecare ai lavoratori ed al vicinato.

    1.2. Altezza, cubatura e superficie

    1.2.1. I limiti minimi per altezza, cubatura e superficie dei locali chiusi destinati o da destinarsi al lavoro nelle aziende industriali che occupano più di cinque lavoratori, ed in ogni caso in quelle che eseguono le lavorazioni che comportano la sorveglianza sanitaria, sono i seguenti:

    1.2.1.1. altezza netta non inferiore a m 3;

    1.2.1.2. cubatura non inferiore a mc 10 per lavoratore;

    1.2.1.3. ogni lavoratore occupato in ciascun ambiente deve disporre di una superficie di almeno mq 2.

    1.2.2. I valori relativi alla cubatura e alla superficie si intendono lordi cioè senza deduzione dei mobili, macchine ed impianti fissi.

    1.2.3. L'altezza netta dei locali è misurata dal pavimento all'altezza media della copertura dei soffitti o delle volte.

    1.2.4. Quando necessità tecniche aziendali lo richiedono, l'organo di vigilanza competente per territorio può consentire altezze minime inferiori a quelle sopra indicate e prescrivere che siano adottati adeguati mezzi di ventilazione dell'ambiente. L'osservanza dei limiti stabiliti dal presente articolo circa l'altezza, la cubatura e la superficie dei locali chiusi di lavoro è estesa anche alle aziende industriali che occupano meno di cinque lavoratori quando le lavorazioni che in esse si svolgono siano ritenute, a giudizio dell'organo di vigilanza, pregiudizievoli alla salute dei lavoratori occupati.

    1.2.5. Per i locali destinati o da destinarsi a uffici, indipendentemente dal tipo di azienda, e per quelli delle aziende commerciali, i limiti di altezza sono quelli individuati dalla normativa urbanistica vigente.

    1.2.6. Lo spazio destinato al lavoratore nel posto di lavoro deve essere tale da consentire il normale movimento della persona in relazione al lavoro da compiere.

    1.3. Pavimenti, muri, soffitti, finestre e lucernari dei locali scale e marciapiedi mobili, banchina e rampe di carico

    1.3.1. A meno che non sia richiesto diversamente dalle necessità della lavorazione, è vietato adibire a lavori continuativi locali chiusi che non rispondono alle seguenti condizioni:

    1.3.1.1. essere ben difesi contro gli agenti atmosferici, e provvisti di un isolamento termico e acustico sufficiente, tenuto conto del tipo di impresa e dell'attività fisica dei lavoratori;

    1.3.1.2. avere aperture sufficienti per un rapido ricambio d'aria;

    1.3.1.3. essere ben asciutti e ben difesi contro l'umidità;

    1.3.1.4. avere le superfici dei pavimenti, delle pareti, dei soffitti tali da poter essere pulite e deterse per ottenere condizioni adeguate di igiene.

    1.3.2. I pavimenti dei locali devono essere fissi, stabili ed antisdrucciolevoli nonché esenti da protuberanze, cavità o piani inclinati pericolosi.

    1.3.3. Nelle parti dei locali dove abitualmente si versano sul pavimento sostanze putrescibili o liquidi, il pavimento deve avere superficie unita ed impermeabile e pendenza sufficiente per avviare rapidamente i liquidi verso i punti di raccolta e scarico.

    1.3.4. Quando il pavimento dei posti di lavoro e di quelli di passaggio si mantiene bagnato, esso deve essere munito in permanenza di palchetti o di graticolato, se i lavoratori non sono forniti di idonee calzature impermeabili.

    1.3.5. Qualora non ostino particolari condizioni tecniche, le pareti dei locali di lavoro devono essere a tinta chiara.

    1.3.6. Le pareti trasparenti o traslucide, in particolare le pareti completamente vetrate, nei locali o nelle vicinanze dei posti di lavoro e delle vie di circolazione, devono essere chiaramente segnalate e costituite da materiali di sicurezza fino all'altezza di 1 metro dal pavimento, ovvero essere separate dai posti di lavoro e dalle vie di circolazione succitati in modo tale che i lavoratori non possano entrare in contatto con le pareti, né rimanere feriti qualora esse vadano in frantumi. Nel caso in cui vengano utilizzati materiali di sicurezza fino all'altezza di 1 metro dal pavimento, tale altezza è elevata quando ciò è necessario in relazione al rischio che i lavoratori rimangano feriti qualora esse vadano in frantumi.

    1.3.7. Le finestre, i lucernari e i dispositivi di ventilazione devono poter essere aperti, chiusi, regolati e fissati dai lavoratori in tutta sicurezza. Quando sono aperti essi devono essere posizionati in modo da non costituire un pericolo per i lavoratori.

    1.3.8. Le finestre e i lucernari devono essere concepiti congiuntamente con l'attrezzatura o dotati di dispositivi che consentano la loro pulitura senza rischi per i lavoratori che effettuano tale lavoro nonché per i lavoratori presenti nell'edificio ed intorno ad esso.

    1.3.9. L'accesso ai tetti costituiti da materiali non sufficientemente resistenti può essere autorizzato soltanto se siano fornite attrezzature che permettono di eseguire il lavoro in tutta sicurezza.

    1.3.10. Le scale ed i marciapiedi mobili devono funzionare in piena sicurezza, devono essere muniti dei necessari dispositivi di sicurezza e devono possedere dispositivi di arresto di emergenza facilmente identificabili ed accessibili.

    1.3.11. Le banchine e rampe di carico devono essere adeguate alle dimensioni dei carichi trasportati.

    1.3.12. Le banchine di carico devono disporre di almeno un'uscita. Ove è tecnicamente possibile, le banchine di carico che superano m 25,0 di lunghezza devono disporre di un'uscita a ciascuna estremità.

    1.3.13. Le rampe di carico devono offrire una sicurezza tale da evitare che i lavoratori possono cadere.

    1.3.14. Le disposizioni di cui ai punti 1.3.10., 1.3.11., 1.3.12., 1.3.13. sono altresì applicabili alle vie di circolazione principali sul terreno dell'impresa, alle vie di circolazione che portano a posti di lavoro fissi, alle vie di circolazione utilizzate per la regolare manutenzione e sorveglianza degli impianti dell'impresa, nonché alle banchine di carico.

    1.3.15.1. Le parti di pavimento contornanti i forni di qualsiasi specie devono essere costituite di materiali incombustibili. Sono, tuttavia, ammessi pavimenti di legno duro e stagionato nei casi in cui ciò, in relazione al tipo di forno ed alle condizioni di impianto, non costituisca pericolo.

    1.3.15.2. Le piattaforme sopraelevate dei posti di lavoro e di manovra dei forni, nonché le relative scale e passerelle di accesso, devono essere costruite con materiali incombustibili.

    1.3.16. I pavimenti e le pareti dei locali destinati alla lavorazione, alla manipolazione, all'utilizzazione ed alla conservazione di materie infiammabili, esplodenti, corrosive o infettanti, devono essere in condizioni tali da consentire una facile e completa asportazione delle materie pericolose o nocive, che possano eventualmente depositarsi.

    1.3.17. I locali o luoghi nei quali si fabbricano, si manipolano o si utilizzano le materie o i prodotti indicati tossici, asfissianti, irritanti ed infettanti, nonché i tavoli di lavoro, le macchine e le attrezzature in genere impiegati per dette operazioni, devono essere frequentemente ed accuratamente puliti.

    1.4. Vie di circolazione, zone di pericolo, pavimenti e passaggi

    1.4.1. Le vie di circolazione, comprese scale, scale fisse e banchine e rampe di carico, devono essere situate e calcolate in modo tale che i pedoni o i veicoli possano utilizzarle facilmente in piena sicurezza e conformemente alla loro destinazione e che i lavoratori operanti nelle vicinanze di queste vie di circolazione non corrano alcun rischio.

    1.4.2. Il calcolo delle dimensioni delle vie di circolazione per persone ovvero merci dovrà basarsi sul numero potenziale degli utenti e sul tipo di impresa.

    1.4.3. Qualora sulle vie di circolazione siano utilizzati mezzi di trasporto, dovrà essere prevista per i pedoni una distanza di sicurezza sufficiente.

    1.4.4. Le vie di circolazione destinate ai veicoli devono passare ad una distanza sufficiente da porte, portoni, passaggi per pedoni, corridoi e scale.

    1.4.5. Nella misura in cui l'uso e l'attrezzatura dei locali lo esigano per garantire la protezione dei lavoratori, il tracciato delle vie di circolazione deve essere evidenziato.

    1.4.6. Se i luoghi di lavoro comportano zone di pericolo in funzione della natura del lavoro e presentano rischi di cadute dei lavoratori o rischi di cadute d'oggetti, tali luoghi devono essere dotati di dispositivi per impedire che i lavoratori non autorizzati possano accedere a dette zone.

    1.4.7. Devono essere prese misure appropriate per proteggere i lavoratori autorizzati ad accedere alle zone di pericolo.

    1.4.8. Le zone di pericolo devono essere segnalate in modo chiaramente visibile.

    1.4.9. I pavimenti degli ambienti di lavoro e dei luoghi destinati al passaggio non devono presentare buche o sporgenze pericolose e devono essere in condizioni tali da rendere sicuro il movimento ed il transito delle persone e dei mezzi di trasporto.

    1.4.10. I pavimenti ed i passaggi non devono essere ingombrati da materiali che ostacolano la normale circolazione.

    1.4.11. Quando per evidenti ragioni tecniche non si possono completamente eliminare dalle zone di transito ostacoli fissi o mobili che costituiscono un pericolo per i lavoratori o i veicoli che tali zone devono percorrere, gli ostacoli devono essere adeguatamente segnalati.

    1.4.12.1. Quando argani, paranchi e apparecchi simili sono usati per il sollevamento o la discesa dei carichi tra piani diversi di un edificio attraverso aperture nei solai o nelle pareti, le aperture per il passaggio del carico ai singoli piani, nonché il sottostante spazio di arrivo o di sganciamento del carico stesso devono essere protetti, su tutti i lati, mediante parapetti normali provvisti, ad eccezione di quello del piano terreno, di arresto al piede.

    1.4.12.2. I parapetti devono essere disposti in modo da garantire i lavoratori anche contro i pericoli derivanti da urti o da eventuale caduta del carico di manovra.

    1.4.12.3. Gli stessi parapetti devono essere applicati anche sui lati delle aperture dove si effettua il carico e lo scarico, a meno che per le caratteristiche dei materiali in manovra ciò non sia possibile. In quest'ultimo caso, in luogo del parapetto normale deve essere applicata una solida barriera mobile, inasportabile e fissabile nella posizione di chiusura mediante chiavistello o altro dispositivo. Detta barriera deve essere tenuta chiusa quando non siano eseguite manovre di carico o scarico al piano corrispondente.

    1.4.13. Lo spazio sottostante ai trasportatori orizzontali o inclinati deve essere reso inaccessibile, quando la natura del materiale trasportato ed il tipo del trasportatore possano costituire pericoli per caduta di materiali o per rottura degli organi di sospensione, a meno che non siano adottate altre misure contro detti pericoli.

    1.4.14. Davanti alle uscite dei locali e alle vie che immettono direttamente ed immediatamente in una via di transito dei mezzi meccanici devono essere disposte barriere atte ad evitare investimenti e, quando ciò non sia possibile, adeguate segnalazioni.

    1.4.15. I segnali indicanti condizioni di pericolo nelle zone di transito e quelli regolanti il traffico dei trasporti meccanici su strada o su rotaia devono essere convenientemente illuminati durante il servizio notturno.

    1.4.16.1. Le vie di transito che, per lavori di riparazione o manutenzione in corso o per guasti intervenuti, non sono percorribili senza pericolo, devono essere sbarrate.

    1.4.16.2. Apposito cartello deve essere posto ad indicare il divieto di transito.

    1.4.17. Durante l'esecuzione di lavoro di riparazione o manutenzione su linee di transito su rotaie percorse da mezzi meccanici, quando il traffico non è sospeso o la linea non è sbarrata, una o più persone devono essere esclusivamente incaricate di segnalare ai lavoratori l'avvicinarsi dei convogli ai posti di lavoro.

    1.4.18. Quando uno o più veicoli sono mossi da un mezzo meccanico il cui conducente non può, direttamente o a mezzo di altra persona sistemata su uno di essi, controllarne il percorso, i veicoli devono essere preceduti o affiancati da un incaricato che provveda alle necessarie segnalazioni per assicurare l'incolumità delle persone.

    1.4.19. All'esterno delle fronti di partenza e di arrivo dei vagonetti alle stazioni delle teleferiche devono essere applicati solidi ripari a grigliato metallico atti a trattenere una persona in caso di caduta. Tali ripari devono essere disposti a non oltre m. 0,50 sotto il margine del piano di manovra e sporgere da questo per almeno m. 2.

    1.5. Vie e uscite di emergenza.

    1.5.1. Ai fini del presente punto si intende per:

    1.5.1.1. via di emergenza: percorso senza ostacoli al deflusso che consente alle persone che occupano un edificio o un locale di raggiungere un luogo sicuro;

    1.5.1.2. uscita di emergenza: passaggio che immette in un luogo sicuro;

    1.5.1.3. luogo sicuro: luogo nel quale le persone sono da considerarsi al sicuro dagli effetti determinati dall'incendio o altre situazioni di emergenza;

    1.5.1.4. larghezza di una porta o luce netta di una porta: larghezza di passaggio al netto dell'ingombro dell'anta mobile in posizione di massima apertura se scorrevole, in posizione di apertura a 90 gradi se incernierata (larghezza utile di passaggio).

    1.5.2. Le vie e le uscite di emergenza devono rimanere sgombre e consentire di raggiungere il più rapidamente possibile un luogo sicuro.

    1.5.3. In caso di pericolo tutti i posti di lavoro devono poter essere evacuati rapidamente e in piena sicurezza da parte dei lavoratori.

    1.5.4. Il numero, la distribuzione e le dimensioni delle vie e delle uscite di emergenza devono essere adeguate alle dimensioni dei luoghi di lavoro, alla loro ubicazione, alla loro destinazione d'uso, alle attrezzature in essi installate, nonché al numero massimo di persone che possono essere presenti in detti luoghi.

    1.5.5. Le vie e le uscite di emergenza devono avere altezza minima di m 2,0 e larghezza minima conforme alla normativa vigente in materia antincendio.

    1.5.6. Qualora le uscite di emergenza siano dotate di porte, queste devono essere apribili nel verso dell'esodo e, qualora siano chiuse, devono poter essere aperte facilmente ed immediatamente da parte di qualsiasi persona che abbia bisogno di utilizzarle in caso di emergenza. L'apertura delle porte delle uscite di emergenza nel verso dell'esodo non è richiesta quando possa determinare pericoli per passaggio di mezzi o per altre cause, fatta salva l'adozione di altri accorgimenti adeguati specificamente autorizzati dal Comando provinciale dei vigili del fuoco competente per territorio.

    1.5.7. Le porte delle uscite di emergenza non devono essere chiuse a chiave quando sono presenti lavoratori in azienda, se non nei casi specificamente autorizzati dagli organi di vigilanza.

    1.5.8. Nei locali di lavoro e in quelli destinati a deposito è vietato adibire, quali porte delle uscite di emergenza, le saracinesche a rullo, le porte scorrevoli verticalmente e quelle girevoli su asse centrale.

    1.5.9. Le vie e le uscite di emergenza, nonché le vie di circolazione e le porte che vi danno accesso non devono essere ostruite da oggetti in modo da poter essere utilizzate in ogni momento senza impedimenti.

    1.5.10. Le vie e le uscite di emergenza devono essere evidenziate da apposita segnaletica, conforme alle disposizioni vigenti, durevole e collocata in luoghi appropriati.

    1.5.11. Le vie e le uscite di emergenza che richiedono un'illuminazione devono essere dotate di un'illuminazione di sicurezza di intensità sufficiente, che entri in funzione in caso di guasto dell'impianto elettrico.

    1.5.12. Gli edifici che sono costruiti o adattati interamente per le lavorazioni che presentano pericoli di esplosioni o specifici rischi di incendio alle quali sono adibiti più di cinque lavoratori devono avere almeno due scale distinte di facile accesso o rispondere a quanto prescritto dalla specifica normativa antincendio. Per gli edifici già costruiti si dovrà provvedere in conformità, quando non ne esista l'impossibilità accertata dall'organo di vigilanza. In quest'ultimo caso sono disposte le misure e cautele ritenute più efficienti. Le deroghe già concesse mantengono la loro validità salvo diverso provvedimento dell'organo di vigilanza.

    1.5.13. Per i luoghi di lavoro già utilizzati prima del 1° gennaio 1993 non si applica la disposizione contenuta nel punto 1.5.4, ma gli stessi devono avere un numero sufficiente di vie ed uscite di emergenza.

    1.5.14.1. Le aperture esistenti nel suolo o nel pavimento dei luoghi, degli ambienti di lavoro o di passaggio, comprese le fosse ed i pozzi, devono essere provviste di solide coperture o di parapetti normali, atti ad impedire la caduta di persone. Quando dette misure non siano attuabili, le aperture devono essere munite di apposite segnalazioni di pericolo.

    1.5.14.2. Le aperture nelle pareti, che permettono il passaggio di una persona e che presentano pericolo di caduta per dislivelli superiori ad un metro, devono essere provviste di solida barriera o munite di parapetto normale.

    1.5.14.3. Per le finestre sono consentiti parapetti di altezza non minore di cm. 90 quando, in relazione al lavoro eseguito nel locale, non vi siano condizioni di pericolo.

    1.6. Porte e portoni

    1.6.1. Le porte dei locali di lavoro devono, per numero, dimensioni, posizione, e materiali di realizzazione, consentire una rapida uscita delle persone ed essere agevolmente apribili dall'interno durante il lavoro.

    1.6.2. Quando in un locale le lavorazioni ed i materiali comportino pericoli di esplosione o specifici rischi di incendio e siano adibiti alle attività che si svolgono nel locale stesso più di 5 lavoratori, almeno una porta ogni 5 lavoratori deve essere apribile nel verso dell'esodo ed avere larghezza minima di m 1,20.

    1.6.3. Quando in un locale si svolgono lavorazioni diverse da quelle previste al punto 1.6.2, la larghezza minima delle porte è la seguente:

    a) quando in uno stesso locale i lavoratori normalmente ivi occupati siano fino a 25, il locale deve essere dotato di una porta avente larghezza minima di m 0,80;

    b) quando in uno stesso locale i lavoratori normalmente ivi occupati siano in numero compreso tra 26 e 50, il locale deve essere dotato di una porta avente larghezza minima di m 1,20 che si apra nel verso dell'esodo;

    c) quando in uno stesso locale i lavoratori normalmente ivi occupati siano in numero compreso tra 51 e 100, il locale deve essere dotato di una porta avente larghezza minima di m 1,20 e di una porta avente larghezza minima di m 0,80, che si aprano entrambe nel verso dell'esodo;

    d) quando in uno stesso locale i lavoratori normalmente ivi occupati siano in numero superiore a 100, in aggiunta alle porte previste al punto c) il locale deve essere dotato di almeno 1 porta che si apra nel verso dell'esodo avente larghezza minima di m 1,20 per ogni 50 lavoratori normalmente ivi occupati o frazione compresa tra 10 e 50, calcolati limitatamente all'eccedenza rispetto a 100.

    1.6.4. Il numero complessivo delle porte di cui al punto 1.6.3., lettera d), può anche essere minore, purché la loro larghezza complessiva non risulti inferiore.

    1.6.5. Alle porte per le quali è prevista una larghezza minima di m 1,20 è applicabile una tolleranza in meno del 5% (cinque per cento). Alle porte per le quali è prevista una larghezza minima di m 0,80 è applicabile una tolleranza in meno del 2% (due per cento).

    1.6.6. Quando in un locale di lavoro le uscite di emergenza di cui al punto 1.5.5, coincidono con le porte di cui al punto 1.6.1, si applicano le disposizioni di cui al punto 1.5.5.

    1.6.7. Nei locali di lavoro ed in quelli adibiti a magazzino non sono ammesse le porte scorrevoli verticalmente, le saracinesche a rullo, le porte girevoli su asse centrale, quando non esistano altre porte apribili verso l'esterno del locale.

    1.6.8. Immediatamente accanto ai portoni destinati essenzialmente alla circolazione dei veicoli devono esistere, a meno che il passaggio dei pedoni sia sicuro, porte per la circolazione dei pedoni che devono essere segnalate in modo visibile ed essere sgombre in permanenza.

    1.6.9. Le porte e i portoni apribili nei due versi devono essere trasparenti o essere muniti di pannelli trasparenti.

    1.6.10. Sulle porte trasparenti deve essere apposto un segno indicativo all'altezza degli occhi.

    1.6.11. Se le superfici trasparenti o traslucide delle porte e dei portoni non sono costituite da materiali di sicurezza e c'è il rischio che i lavoratori possano rimanere feriti in caso di rottura di dette superfici, queste devono essere protette contro lo sfondamento.

    1.6.12. Le porte scorrevoli devono disporre di un sistema di sicurezza che impedisca loro di uscire dalle guide o di cadere.

    1.6.13. Le porte ed i portoni che si aprono verso l'alto devono disporre di un sistema di sicurezza che impedisca loro di ricadere.

    1.6.14. Le porte ed i portoni ad azionamento meccanico devono funzionare senza rischi di infortuni per i lavoratori. Essi devono essere muniti di dispositivi di arresto di emergenza facilmente identificabili ed accessibili e poter essere aperti anche manualmente, salvo che la loro apertura possa avvenire automaticamente in caso di mancanza di energia elettrica.

    1.6.15. Le porte situate sul percorso delle vie di emergenza devono essere contrassegnate in maniera appropriata con segnaletica durevole conformemente alla normativa vigente. Esse devono poter essere aperte, in ogni momento, dall'interno senza aiuto speciale.

    1.6.16. Quando i luoghi di lavoro sono occupati le porte devono poter essere aperte.

    1.6.17. I luoghi di lavoro già utilizzati prima del 1° gennaio 1993 devono essere provvisti di porte di uscita che, per numero ed ubicazione, consentono la rapida uscita delle persone e che sono agevolmente apribili dall'interno durante il lavoro. Comunque, detti luoghi devono essere adeguati quanto meno alle disposizioni di cui ai precedenti punti 1.6.9. e 1.6.10.. Per i luoghi di lavoro costruiti o utilizzati prima del 27 novembre 1994 non si applicano le disposizioni dei punti 1.6.2., 1.6.3., 1.6.4., 1.6.5. e 1.6.6. concernenti la larghezza delle porte. In ogni caso la larghezza delle porte di uscita di detti luoghi di lavoro deve essere conforme a quanto previsto dalla concessione edilizia ovvero dalla licenza di abitabilità.

    1.7 Scale

    1.7.1.1. Le scale fisse a gradini, destinate al normale accesso agli ambienti di lavoro, devono essere costruite e mantenute in modo da resistere ai carichi massimi derivanti da affollamento per situazioni di emergenza. I gradini devono avere pedata e alzata dimensionate a regola d'arte e larghezza adeguata alle esigenze del transito.

    1.7.1.2. Dette scale ed i relativi pianerottoli devono essere provvisti, sui lati aperti, di parapetto normale o di altra difesa equivalente. Le rampe delimitate da due pareti devono essere munite di almeno un corrimano.

    1.7.1.3. Le scale a pioli di altezza superiore a m. 5, fissate su pareti o incastellature verticali o aventi una inclinazione superiore a 75 gradi, devono essere provviste, a partire da m. 2,50 dal pavimento o dai ripiani, di una solida gabbia metallica di protezione avente maglie o aperture di ampiezza tale da impedire la caduta accidentale della persona verso l'esterno.

    1.7.1.4. La parete della gabbia opposta al piano dei pioli non deve distare da questi più di cm. 60.

    1.7.1.5. I pioli devono distare almeno 15 centimetri dalla parete alla quale sono applicati o alla quale la scala è fissata.

    1.7.1.6. Quando l'applicazione della gabbia alle scale costituisca intralcio all'esercizio o presenti notevoli difficoltà costruttive, devono essere adottate, in luogo della gabbia, altre misure di sicurezza atte ad evitare la caduta delle persone per un tratto superiore ad un metro.

    1.7.2.1. Agli effetti del presente decreto è considerato «normale» un parapetto che soddisfi alle seguenti condizioni:

    1.7.2.1.1 sia costruito con materiale rigido e resistente in buono stato di conservazione;

    1.7.2.1.2 abbia un'altezza utile di almeno un metro;

    1.7.2.1.3 sia costituito da almeno due correnti, di cui quello intermedio posto a circa metà distanza fra quello superiore ed il pavimento;

    1.7.2.1.4 sia costruito e fissato in modo da poter resistere, nell'insieme ed in ogni sua parte, al massimo sforzo cui può essere assoggettato, tenuto conto delle condizioni ambientali e della sua specifica funzione.

    1.7.2.2. È considerato «parapetto normale con arresto al piede» il parapetto definito al comma precedente, completato con fascia continua poggiante sul piano di calpestio ed alta almeno 15 centimetri.

    1.7.2.3. È considerata equivalente ai parapetti definiti ai punti precedenti, qualsiasi protezione, quale muro, balaustra, ringhiera e simili, realizzante condizioni di sicurezza contro la caduta verso i lati aperti, non inferiori a quelle presentate dai parapetti stessi.

    1.7.3. Le impalcature, le passerelle, i ripiani, le rampe di accesso, i balconi ed i posti di lavoro o di passaggio sopraelevati devono essere provvisti, su tutti i lati aperti, di parapetti normali con arresto al piede o di difesa equivalenti. Tale protezione non è richiesta per i piani di caricamento di altezza inferiore a m. 2.00.

    1.8 Posti di lavoro e di passaggio e luoghi di lavoro esterni

    1.8.1. I posti di lavoro e di passaggio devono essere idoneamente difesi contro la caduta o l'investimento di materiali in dipendenza dell'attività lavorativa.

    1.8.2. Ove non sia possibile la difesa con mezzi tecnici, devono essere adottate altre misure o cautele adeguate.

    1.8.3. I posti di lavoro, le vie di circolazione e altri luoghi o impianti all'aperto utilizzati od occupati dai lavoratori durante le loro attività devono essere concepiti in modo tale che la circolazione dei pedoni e dei veicoli può avvenire in modo sicuro.

    1.8.4. Le disposizioni di cui ai punti 1.4.1., 1.4.2., 1.4.3., 1.4.4., 1.4.5., 1.4.6., 1.4.7., 1.4.8., sono altresì applicabili alle vie di circolazione principali sul terreno dell'impresa, alle vie di circolazione che portano a posti di lavoro fissi, alle vie di circolazione utilizzate per la regolare manutenzione e sorveglianza degli impianti dell'impresa, nonché alle banchine di carico.

    1.8.5. Le disposizioni sulle vie di circolazione e zone di pericolo di cui ai punti 1.4.1., 1.4.2., 1.4.3., 1.4.4., 1.4.5., 1.4.6., 1.4.7., 1.4.8., si applicano per analogia ai luoghi di lavoro esterni.

    1.8.6. I luoghi di lavoro all'aperto devono essere opportunamente illuminati con luce artificiale quando la luce del giorno non è sufficiente.

    1.8.7. Quando i lavoratori occupano posti di lavoro all'aperto, questi devono essere strutturati, per quanto tecnicamente possibile, in modo tale che i lavoratori:

    1.8.7.1 sono protetti contro gli agenti atmosferici e, se necessario, contro la caduta di oggetti;

    1.8.7.2 non sono esposti a livelli sonori nocivi o ad agenti esterni nocivi, quali gas, vapori, polveri;

    1.8.7.3 possono abbandonare rapidamente il posto di lavoro in caso di pericolo o possono essere soccorsi rapidamente;

    1.8.7.4 non possono scivolare o cadere.

    1.8.8. I terreni scoperti costituenti una dipendenza dei locali di lavoro devono essere sistemati in modo da ottenere lo scolo delle acque di pioggia e di quelle di altra provenienza.

    1.9 Microclima

    1.9.1. Aerazione dei luoghi di lavoro chiusi

    1.9.1.1. Nei luoghi di lavoro chiusi, è necessario far sì che tenendo conto dei metodi di lavoro e degli sforzi fisici ai quali sono sottoposti i lavoratori, essi dispongano di aria salubre in quantità sufficiente ottenuta preferenzialmente con aperture naturali e quando ciò non sia possibile, con impianti di areazione.

    1.9.1.2. Se viene utilizzato un impianto di aerazione, esso deve essere sempre mantenuto funzionante. Ogni eventuale guasto deve essere segnalato da un sistema di controllo, quando ciò è necessario per salvaguardare la salute dei lavoratori.

    1.9.1.3. Se sono utilizzati impianti di condizionamento dell'aria o di ventilazione meccanica, essi devono funzionare in modo che i lavoratori non siano esposti a correnti d'aria fastidiosa.

    1.9.1.4. Gli stessi impianti devono essere periodicamente sottoposti a controlli, manutenzione, pulizia e sanificazione per la tutela della salute dei lavoratori.

    1.9.1.5. Qualsiasi sedimento o sporcizia che potrebbe comportare un pericolo immediato per la salute dei lavoratori dovuto all'inquinamento dell'aria respirata deve essere eliminato rapidamente.

    1.9.2. Temperatura dei locali

    1.9.2.1. La temperatura nei locali di lavoro deve essere adeguata all'organismo umano durante il tempo di lavoro, tenuto conto dei metodi di lavoro applicati e degli sforzi fisici imposti ai lavoratori.

    1.9.2.2. Nel giudizio sulla temperatura adeguata per i lavoratori si deve tener conto della influenza che possono esercitare sopra di essa il grado di umidità ed il movimento dell'aria concomitanti.

    1.9.2.3. La temperatura dei locali di riposo, dei locali per il personale di sorveglianza, dei servizi igienici, delle mense e dei locali di pronto soccorso deve essere conforme alla destinazione specifica di questi locali.

    1.9.2.4. Le finestre, i lucernari e le pareti vetrate devono essere tali da evitare un soleggiamento eccessivo dei luoghi di lavoro, tenendo conto del tipo di attività e della natura del luogo di lavoro.

    1.9.2.5. Quando non è conveniente modificare la temperatura di tutto l'ambiente, si deve provvedere alla difesa dei lavoratori contro le temperature troppo alte o troppo basse mediante misure tecniche localizzate o mezzi personali di protezione.

    1.9.2.6. Gli apparecchi a fuoco diretto destinati al riscaldamento dell'ambiente nei locali chiusi di lavoro di cui al precedente articolo, devono essere muniti di condotti del fumo privi di valvole regolatrici ed avere tiraggio sufficiente per evitare la corruzione dell'aria con i prodotti della combustione, ad eccezione dei casi in cui, per l'ampiezza del locale, tale impianto non sia necessario.

    1.9.3 Umidità

    1.9.3.1 Nei locali chiusi di lavoro delle aziende industriali nei quali l'aria è soggetta ad inumidirsi notevolmente per ragioni di lavoro, si deve evitare, per quanto è possibile, la formazione della nebbia, mantenendo la temperatura e l'umidità nei limiti compatibili con le esigenze tecniche.

    1.10. Illuminazione naturale ed artificiale dei luoghi di lavoro

    1.10.1. A meno che non sia richiesto diversamente dalle necessità delle lavorazioni e salvo che non si tratti di locali sotterranei, i luoghi di lavoro devono disporre di sufficiente luce naturale. In ogni caso, tutti i predetti locali e luoghi di lavoro devono essere dotati di dispositivi che consentano un'illuminazione artificiale adeguata per salvaguardare la sicurezza, la salute e il benessere di lavoratori.

    1.10.2. Gli impianti di illuminazione dei locali di lavoro e delle vie di circolazione devono essere installati in modo che il tipo d'illuminazione previsto non rappresenti un rischio di infortunio per i lavoratori.

    1.10.3. I luoghi di lavoro nei quali i lavoratori sono particolarmente esposti a rischi in caso di guasto dell'illuminazione artificiale, devono disporre di un'illuminazione di sicurezza di sufficiente intensità.

    1.10.4. Le superfici vetrate illuminanti ed i mezzi di illuminazione artificiale devono essere tenuti costantemente in buone condizioni di pulizia e di efficienza.

    1.10.5. Gli ambienti, i posti di lavoro ed i passaggi devono essere illuminati con luce naturale o artificiale in modo da assicurare una sufficiente visibilità.

    1.10.6. Nei casi in cui, per le esigenze tecniche di particolari lavorazioni o procedimenti, non sia possibile illuminare adeguatamente gli ambienti, i luoghi ed i posti indicati al punto 1.10.5, si devono adottare adeguate misure dirette ad eliminare i rischi derivanti dalla mancanza e dalla insufficienza della illuminazione.

    1.10.7. Illuminazione sussidiaria

    1.10.7.1. Negli stabilimenti e negli altri luoghi di lavoro devono esistere mezzi di illuminazione sussidiaria da impiegare in caso di necessità.

    1.10.7.2. Detti mezzi devono essere tenuti in posti noti al personale, conservati in costante efficienza ed essere adeguati alle condizioni ed alle necessità del loro impiego.

    1.10.7.3. Quando siano presenti più di 100 lavoratori e la loro uscita all'aperto in condizioni di oscurità non sia sicura ed agevole; quando l'abbandono imprevedibile ed immediato del governo delle macchine o degli apparecchi sia di pregiudizio per la sicurezza delle persone o degli impianti; quando si lavorino o siano depositate materie esplodenti o infiammabili, l'illuminazione sussidiaria deve essere fornita con mezzi di sicurezza atti ad entrare immediatamente in funzione in caso di necessità e a garantire una illuminazione sufficiente per intensità, durata, per numero e distribuzione delle sorgenti luminose, nei luoghi nei quali la mancanza di illuminazione costituirebbe pericolo. Se detti mezzi non sono costruiti in modo da entrare automaticamente in funzione, i dispositivi di accensione devono essere a facile portata di mano e le istruzioni sull'uso dei mezzi stessi devono essere rese manifeste al personale mediante appositi avvisi.

    1.10.7.4. L'abbandono dei posti di lavoro e l'uscita all'aperto del personale deve, qualora sia necessario ai fini della sicurezza, essere disposto prima dell'esaurimento delle fonti della illuminazione sussidiaria.

    1.10.8. Ove sia prestabilita la continuazione del lavoro anche in caso di mancanza dell'illuminazione artificiale normale, quella sussidiaria deve essere fornita da un impianto fisso atto a consentire la prosecuzione del lavoro in condizioni di sufficiente visibilità.

    1.11. Locali di riposo e refezione

    1.11.1. Locali di riposo

    1.11.1.1. Quando la sicurezza e la salute dei lavoratori, segnatamente a causa del tipo di attività, lo richiedono, i lavoratori devono poter disporre di un locale di riposo facilmente accessibile.

    1.11.1.2. La disposizione di cui punto 1.11.1.1 non si applica quando il personale lavora in uffici o in analoghi locali di lavoro che offrono equivalenti possibilità di riposo durante la pausa.

    1.11.1.3. I locali di riposo devono avere dimensioni sufficienti ed essere dotati di un numero di tavoli e sedili con schienale in funzione del numero dei lavoratori.

    1.11.1.4. Quando il tempo di lavoro è interrotto regolarmente e frequentemente e non esistono locali di riposo, devono essere messi a disposizione del personale altri locali affinché questi possa soggiornarvi durante l'interruzione del lavoro nel caso in cui la sicurezza o la salute dei lavoratori lo esige.

    1.11.1.5. L'organo di vigilanza può prescrivere che, anche nei lavori continuativi, il datore di lavoro dia modo ai dipendenti di lavorare stando a sedere ogni qualvolta ciò non pregiudica la normale esecuzione del lavoro.

    1.11.2. Refettorio

    1.11.2.1. Salvo quanto è disposto al punto 1.14.1. per i lavori all'aperto, le aziende nelle quali più di 30 dipendenti rimangono nell'azienda durante gli intervalli di lavoro, per la refezione, devono avere uno o più ambienti destinati ad uso di refettorio, muniti di sedili e di tavoli.

    1.11.2.2. I refettori devono essere ben illuminati, aerati e riscaldati nella stagione fredda. Il pavimento non deve essere polveroso e le pareti devono essere intonacate ed imbiancate.

    1.11.2.3. L'organo di vigilanza può in tutto o in parte esonerare il datore di lavoro dall'obbligo di cui al punto 1.11.2.1, quando riconosce che non sia necessario.

    1.11.2.4. Nelle aziende in cui i lavoratori siano esposti a materie insudicianti, sostanze polverose o nocive e nei casi in cui l'organo di vigilanza ritiene opportuno prescriverlo, in relazione alla natura della lavorazione, è vietato ai lavoratori di consumare i pasti nei locali di lavoro ed anche di rimanervi durante il tempo destinato alla refezione.

    1.11.3. Conservazione vivande e somministrazione bevande

    1.11.3.1. Ai lavoratori deve essere dato il mezzo di conservare in adatti posti fissi le loro vivande, di riscaldarle e di lavare i relativi recipienti.

    1.11.3.2. È vietata la somministrazione di vino, di birra e di altre bevande alcooliche nell'interno dell'azienda.

    1.11.3.3. È tuttavia consentita la somministrazione di modiche quantità di vino e di birra nei locali di refettorio durante l'orario dei pasti.

    1.11.4. Le donne incinte e le madri che allattano devono avere la possibilità di riposarsi in posizione distesa e in condizioni appropriate.

    1.12. Spogliatoi e armadi per il vestiario

    1.12.1. Locali appositamente destinati a spogliatoi devono essere messi a disposizione dei lavoratori quando questi devono indossare indumenti di lavoro specifici e quando per ragioni di salute o di decenza non si può loro chiedere di cambiarsi in altri locali.

    1.12.2. Gli spogliatoi devono essere distinti fra i due sessi e convenientemente arredati. Nelle aziende che occupano fino a cinque dipendenti lo spogliatoio può essere unico per entrambi i sessi; in tal caso i locali a ciò adibiti sono utilizzati dal personale dei due sessi, secondo oppotuni turni prestabiliti e concordati nell'ambito dell'orario di lavoro.

    1.12.3. I locali destinati a spogliatoio devono avere una capacità sufficiente, essere possibilmente vicini ai locali di lavoro aerati, illuminati, ben difesi dalle intemperie, riscaldati durante la stagione fredda e muniti di sedili.

    1.12.4. Gli spogliatoi devono essere dotati di attrezzature che consentono a ciascun lavoratore di chiudere a chiave i propri indumenti durante il tempo di lavoro.

    1.12.5. Qualora i lavoratori svolgano attività insudicianti, polverose, con sviluppo di fumi o vapori contenenti in sospensione sostanze untuose od incrostanti, nonché in quelle dove si usano sostanze venefiche, corrosive od infettanti o comunque pericolose, gli armadi per gli indumenti da lavoro devono essere separati da quelli per gli indumenti privati.

    1.12.6. Qualora non si applichi il punto 1.12.1., ciascun lavoratore deve poter disporre delle attrezzature di cui al punto 1.12.4. per poter riporre i propri indumenti.

    1.13. Servizi igienico assistenziali

    1.13.1. Acqua

    1.13.1.1. Nei luoghi di lavoro o nelle loro immediate vicinanze deve essere messa a disposizione dei lavoratori acqua in quantità sufficiente, tanto per uso potabile quanto per lavarsi.

    1.13.1.2. Per la provvista, la conservazione e la distribuzione dell'acqua devono osservarsi le norme igieniche atte ad evitarne l'inquinamento e ad impedire la diffusione di malattie.

    1.13.2. Docce

    1.13.2.1. Docce sufficienti ed appropriate devono essere messe a disposizione dei lavoratori quando il tipo di attività o la salubrità lo esigono.

    1.13.2.2. Devono essere previsti locali per docce separati per uomini e donne o un'utilizzazione separata degli stessi. Le docce e gli spogliatoi devono comunque facilmente comunicare tra loro.

    1.13.2.3. I locali delle docce devono essere riscaldati nella stagione fredda ed avere dimensioni sufficienti per permettere a ciascun lavoratore di rivestirsi senza impacci e in condizioni appropriate di igiene.

    1.13.2.4. Le docce devono essere dotate di acqua corrente calda e fredda e di mezzi detergenti e per asciugarsi.

    1.13.3. Gabinetti e lavabi

    1.13.3.1. I lavoratori devono disporre, in prossimità dei loro posti di lavoro, dei locali di riposo, degli spogliatoi e delle docce, di gabinetti e di lavabi con acqua corrente calda, se necessario, e dotati di mezzi detergenti e per asciugarsi.

    1.13.3.2. Per uomini e donne devono essere previsti gabinetti separati; quando ciò sia impossibile a causa di vincoli urbanistici o architettonici e nelle aziende che occupano lavoratori di sesso diverso in numero non superiore a dieci, è ammessa un'utilizzazione separata degli stessi.

    1.13.4. Pulizia delle installazioni igienico-assistenziali:

    1.13.4.1. Le installazioni e gli arredi destinati ai refettori, agli spogliatoi, ai bagni, alle latrine, ai dormitori ed in genere ai servizi di igiene e di benessere per i lavoratori, devono essere mantenuti in stato di scrupolosa pulizia, a cura del datore di lavoro.

    1.13.4.2. I lavoratori devono usare con cura e proprietà i locali, le installazioni e gli arredi indicati al punto precedente.

    1.14. Dormitori

    1.14.1. Nei lavori eseguiti normalmente all'aperto deve essere messo a disposizione dei lavoratori un locale in cui possano ricoverarsi durante le intemperie e nelle ore dei pasti o dei riposi. Detto locale deve essere fornito di sedili e di un tavolo, e deve essere riscaldato durante la stagione fredda.

    1.14.2.1. I locali forniti dal datore di lavoro ai lavoratori per uso di dormitorio stabile devono possedere i requisiti di abitabilità prescritti per le case di abitazione della località ed avere l'arredamento necessario rispondente alle esigenze dell'igiene. Essi devono essere riscaldati nella stagione fredda ed essere forniti di luce artificiale in quantità sufficiente, di latrine, di acqua per bere e per lavarsi e di cucina, in tutto rispondenti alle stesse condizioni indicate nel presente decreto per gli impianti analoghi annessi ai locali di lavoro.

    1.14.2.2. In detti locali è vietata l'illuminazione a gas, salvo casi speciali e con l'autorizzazione e le cautele che saranno prescritte dall'organo di vigilanza.

    1.14.3. Per i lavori in aperta campagna, lontano dalle abitazioni, quando i lavoratori debbano pernottare sul luogo, il datore di lavoro deve loro fornire dormitori capaci di difenderli efficacemente contro gli agenti atmosferici. Nel caso in cui la durata dei lavori non superi i 15 giorni nella stagione fredda ed i 30 giorni nelle altre stagioni, possono essere destinate ad uso di dormitorio costruzioni di fortuna costruite in tutto o in parte di legno o di altri materiali idonei ovvero tende, a condizione che siano ben difese dall'umidità del suolo e dagli agenti atmosferici.

    1.14.4.1. Quando la durata dei lavori superi i 15 giorni nella stagione fredda ed i 30 giorni nelle altre stagioni, il datore di lavoro deve provvedere ai dormitori mediante mezzi più idonei, quali baracche in legno od altre costruzioni equivalenti.

    1.14.4.2. Le costruzioni per dormitorio devono rispondere alle seguenti condizioni:

    1.14.4.2.1. gli ambienti devono prevedere la separazione tra uomini e donne, salvo che essi non siano destinati esclusivamente ai membri di una stessa famiglia;

    1.14.4.2.2. essere sollevate dal terreno, oppure basate sopra terreno bene asciutto e sistemato in guisa da non permettere né la penetrazione dell'acqua nelle costruzioni, né il ristagno di essa in una zona del raggio di almeno 10 metri attorno;

    1.14.4.2.3. essere costruite in tutte le loro parti in modo da difendere bene l'ambiente interno contro gli agenti atmosferici ed essere riscaldate durante la stagione fredda;

    1.14.4.2.4. avere aperture sufficienti per ottenere una attiva ventilazione dell'ambiente, ma munite di buona chiusura;

    1.14.4.2.5. essere fornite di lampade per l'illuminazione notturna;

    1.14.4.2.6. nelle zone acquitrinose infestate dalla presenza di insetti alati le aperture devono essere difese contro la penetrazione di essi.

    1.14.4.3. La superficie dei dormitori non può essere inferiore a 3,50 metri quadrati per persona.

    1.14.4.4. A ciascun lavoratore deve essere assegnato un letto, una branda o una cuccetta arredate con materasso o saccone, cuscino, lenzuola, federe e coperte sufficienti ed inoltre di sedile, un attaccapanni ed una mensolina.

    1.14.4.5. Anche per i dormitori di cui al punto 1.14.2.1 vale la norma prevista dal punto 1.14.4.2.1.

    1.14.4.6. In vicinanza dei dormitori, oppure facenti corpo con essi, vi devono essere convenienti locali per uso di cucina e di refettorio, latrine adatte e mezzi per la pulizia personale.

    2. PRESENZA NEI LUOGHI DI LAVORO DI AGENTI NOCIVI

    2.1. Difesa dagli agenti nocivi:

    2.1.1. Ferme restando le norme di cui al regio decreto 9 gennaio 1927, n. 147, e successive modificazioni, le materie prime non in corso di lavorazione, i prodotti ed i rifiuti, che abbiano proprietà tossiche o caustiche, specialmente se sono allo stato liquido o se sono facilmente solubili o volatili, devono essere custoditi in recipienti a tenuta e muniti di buona chiusura.

    2.1.2. Le materie in corso di lavorazione che siano fermentescibili o possano essere nocive alla salute o svolgere emanazioni sgradevoli, non devono essere accumulate nei locali di lavoro in quantità superiore a quella strettamente necessaria per la lavorazione.

    2.1.3. I recipienti e gli apparecchi che servono alla lavorazione oppure al trasporto dei materiali putrescibili o suscettibili di dare emanazioni sgradevoli, devono essere lavati frequentemente e, ove occorra, disinfettati.

    2.1.4. Il datore di lavoro è tenuto ad effettuare, ogni qualvolta sia possibile, le lavorazioni pericolose o insalubri in luoghi separati, allo scopo di non esporvi senza necessità i lavoratori addetti ad altre lavorazioni.

    2.1.4-bis. Nei lavori in cui si svolgano gas o vapori irrespirabili o tossici od infiammabili ed in quelli nei quali si sviluppano normalmente odori o fumi di qualunque specie il datore di lavoro deve adottare provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione.

    2.1.5. L'aspirazione dei gas, vapori, odori o fumi deve farsi, per quanto è possibile, immediatamente vicino al luogo dove si producono.

    2.1.6.1. Nell'ingresso di ogni stabilimento o luogo dove, in relazione alla fabbricazione, manipolazione, utilizzazione o conservazione di materie o prodotti, sussistano specifici pericoli, deve essere esposto un estratto delle norme di sicurezza contenute nel presente decreto e nelle leggi e regolamenti speciali riferentisi alle lavorazioni che sono eseguite.

    2.1.6.2. Nei reparti e presso le macchine e gli apparecchi dove sono effettuate operazioni che presentano particolari pericoli, devono essere esposte le disposizioni e le istruzioni concernenti la sicurezza delle specifiche lavorazioni.

    2.1.7. Le operazioni che presentano pericoli di esplosioni, di incendi, di sviluppo di gas asfissianti o tossici e di irradiazioni nocive devono effettuarsi in locali o luoghi isolati, adeguatamente difesi contro la propagazione dell'elemento nocivo.

    2.1.8.1. Nei locali o luoghi di lavoro o di passaggio deve essere per quanto tecnicamente possibile impedito o ridotto al minimo il formarsi di concentrazioni pericolose o nocive di gas, vapori o polveri esplodenti, infiammabili, asfissianti o tossici; in quanto necessario, deve essere provveduto ad una adeguata ventilazione al fine di evitare dette concentrazioni.

    2.1.8.2. Nei locali o luoghi di lavoro o di passaggio, quando i vapori ed i gas che possono svilupparsi costituiscono pericolo, devono essere installati apparecchi indicatori e avvisatori automatici atti a segnalare il raggiungimento delle concentrazioni o delle condizioni pericolose. Ove ciò non sia possibile, devono essere eseguiti frequenti controlli o misurazioni.

    2.1.9. Gli scarti di lavorazione e i rifiuti di materie infiammabili, esplodenti, corrosive, tossiche, infettanti o comunque nocive devono essere raccolti durante la lavorazione ed asportati frequentemente con mezzi appropriati, collocandoli in posti nei quali non possano costituire pericolo.

    2.1.10.1. Il trasporto e l'impiego delle materie e dei prodotti corrosivi o aventi temperature dannose devono effettuarsi con mezzi o sistemi tali da impedire che i lavoratori ne vengano a diretto contatto.

    2.1.10.2. Quando esigenze tecniche o di lavorazione non consentano l'attuazione della norma di cui al punto precedente, devono essere messi a disposizione dei lavoratori mezzi individuali di protezione, in conformità a quanto è stabilito nel Titolo III, Capo II.

    2.1.11.1. Negli stabilimenti o luoghi in cui si producono o si manipolano liquidi corrosivi devono essere predisposte, a portata di mano dei lavoratori, adeguate prese di acqua corrente o recipienti contenenti adatte soluzioni neutralizzanti.

    2.1.11.2. Nei casi in cui esista rischio di investimento da liquidi corrosivi, devono essere installati, nei locali di lavorazione o nelle immediate vicinanze, bagni o docce con acqua a temperatura adeguata.

    2.1.12. In caso di spandimento di liquidi corrosivi, questi non devono essere assorbiti con stracci, segatura o con altre materie organiche, ma eliminati con lavaggi di acqua o neutralizzati con materie idonee.

    2.1.13. Le disposizioni e le precauzioni prescritte ai punti 3.2.1. e 3.2.2. devono essere osservate, nella parte applicabile, per l'accesso agli ambienti o luoghi, specie sotterranei, ai cunicoli, fogne, pozzi, sottotetti, nei quali esista o sia da temersi la presenza di gas o vapori tossici o asfissianti.

    2.2. Difesa contro le polveri

    2.2.1. Nei lavori che danno luogo normalmente alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare i provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro.

    2.2.2. Le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione nella atmosfera.

    2.2.3. Ove non sia possibile sostituire il materiale di lavoro polveroso, si devono adottare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi ovvero muniti di sistemi di aspirazione e di raccolta delle polveri, atti ad impedirne la dispersione. L'aspirazione deve essere effettuata, per quanto è possibile, immediatamente vicino al luogo di produzione delle polveri.

    2.2.4. Quando non siano attuabili le misure tecniche di prevenzione indicate nel punto precedente, e la natura del materiale polveroso lo consenta, si deve provvedere all'inumidimento del materiale stesso.

    2.2.5. Qualunque sia il sistema adottato per la raccolta e l'eliminazione delle polveri, il datore di lavoro è tenuto ad impedire che esse possano rientrare nell'ambiente di lavoro.

    2.2.6. Nei lavori all'aperto e nei lavori di breve durata e quando la natura e la concentrazione delle polveri non esigano l'attuazione dei provvedimenti tecnici indicati ai punti precedenti, e non possano essere causa di danno o di incomodo al vicinato, l'organo di vigilanza può esonerare il datore di lavoro dagli obblighi previsti dai punti precedenti, prescrivendo, in sostituzione, ove sia necessario, mezzi personali di protezione.

    2.2.7. I mezzi personali possono altresì essere prescritti dall'organo di vigilanza, ad integrazione dei provvedimenti previsti ai punti 2.2.3 e 2.2.4 del presente articolo, in quelle operazioni in cui, per particolari difficoltà d'ordine tecnico, i predetti provvedimenti non siano atti a garantire efficacemente la protezione dei lavoratori contro le polveri.

    3. VASCHE, CANALIZZAZIONI, TUBAZIONI, SERBATOI, RECIPIENTI, SILOS

    3.1. Le tubazioni, le canalizzazioni e i recipienti, quali vasche, serbatoi e simili, in cui debbano entrare lavoratori per operazioni di controllo, riparazione, manutenzione o per altri motivi dipendenti dall'esercizio dell'impianto o dell'apparecchio, devono essere provvisti di aperture di accesso aventi dimensioni tali da poter consentire l'agevole recupero di un lavoratore privo di sensi.

    3.2.1. Prima di disporre l'entrata di lavoratori nei luoghi di cui al punto precedente, chi sovraintende ai lavori deve assicurarsi che nell'interno non esistano gas o vapori nocivi o una temperatura dannosa e deve, qualora vi sia pericolo, disporre efficienti lavaggi, ventilazione o altre misure idonee.

    3.2.2. Colui che sovraintende deve, inoltre, provvedere a far chiudere e bloccare le valvole e gli altri dispositivi dei condotti in comunicazione col recipiente, e a fare intercettare i tratti di tubazione mediante flange cieche o con altri mezzi equivalenti ed a far applicare, sui dispositivi di chiusura o di isolamento, un avviso con l'indicazione del divieto di manovrarli.

    3.2.3. I lavoratori che prestano la loro opera all'interno dei luoghi predetti devono essere assistiti da altro lavoratore, situato all'esterno presso l'apertura di accesso.

    3.2.4. Quando la presenza di gas o vapori nocivi non possa escludersi in modo assoluto o quando l'accesso al fondo dei luoghi predetti è disagevole, i lavoratori che vi entrano devono essere muniti di cintura di sicurezza con corda di adeguata lunghezza e, se necessario, di apparecchi idonei a consentire la normale respirazione.

    3.3. Qualora nei luoghi di cui al punto 3.1. non possa escludersi la presenza anche di gas, vapori o polveri infiammabili od esplosivi, oltre alle misure indicate nell'articolo precedente, si devono adottare cautele atte ad evitare il pericolo di incendio o di esplosione, quali la esclusione di fiamme libere, di corpi incandescenti, di attrezzi di materiale ferroso e di calzature con chiodi. Qualora sia necessario l'impiego di lampade, queste devono essere di sicurezza.

    3.4.1. Le vasche, i serbatoi ed i recipienti aperti con i bordi a livello o ad altezza inferiore a cm. 90 dal pavimento o dalla piattaforma di lavoro devono, qualunque sia il liquido o le materie contenute, essere difese, su tutti i lati mediante parapetto di altezza non minore di cm. 90, a parete piena o con almeno due correnti. Il parapetto non è richiesto quando sui bordi delle vasche sia applicata una difesa fino a cm. 90 dal pavimento.

    3.4.2. Quando per esigenze della lavorazione o per condizioni di impianto non sia possibile applicare il parapetto di cui al punto 3.4.1., le aperture superiori dei recipienti devono essere provviste di solide coperture o di altre difese atte ad evitare il pericolo di caduta dei lavoratori entro di essi.

    3.4.3. Per le canalizzazioni nell'interno degli stabilimenti e dei cantieri e per quelle esterne limitatamente ai tratti che servono da piazzali di lavoro non adibiti ad operazioni di carico e scarico, la difesa di cui al punto 3.4.1. deve avere altezza non minore di un metro.

    3.4.4. Quanto previsto ai punti 3.4.1, 3.4.2 e 3.4.3 non si applica quando le vasche, le canalizzazioni, i serbatoi ed i recipienti, hanno una profondità non superiore a metri uno e non contengono liquidi o materie dannose e sempre che siano adottate altre cautele.

    3.5. Nei serbatoi, tini, vasche e simili che abbiano una profondità di oltre 2 metri e che non siano provvisti di aperture di accesso al fondo, qualora non sia possibile predisporre la scala fissa per l'accesso al fondo dei suddetti recipienti devono essere usate scale trasportabili, purché provviste di ganci di trattenuta.

    3.6.1. Le tubazioni e le canalizzazioni e le relative apparecchiature accessorie ed ausiliarie devono essere costruite e collocate in modo che:

    3.6.1.1 in caso di perdite di liquidi o fughe di gas, o di rotture di elementi dell'impianto, non ne derivi danno ai lavoratori;

    3.6.1.2 in caso di necessità sia attuabile il massimo e più rapido svuotamento delle loro parti.

    3.6.2. Quando esistono più tubazioni o canalizzazioni contenenti liquidi o gas nocivi o pericolosi di diversa natura, esse e le relative apparecchiature devono essere contrassegnate, anche ad opportuni intervalli se si tratta di reti estese, con distinta colorazione, il cui significato deve essere reso noto ai lavoratori mediante tabella esplicativa.

    3.7. Le tubazioni e le canalizzazioni chiuse, quando costituiscono una rete estesa o comprendono ramificazioni secondarie, devono essere provviste di dispositivi, quali valvole, rubinetti, saracinesche e paratoie, atti ad effettuare l'isolamento di determinati tratti in caso di necessità.

    3.8. I serbatoi tipo silos per materie capaci di sviluppare gas o vapori, esplosivi o nocivi, devono, per garantire la sicurezza dei lavoratori, essere provvisti di appropriati dispositivi o impianti accessori, quali chiusure, impianti di ventilazione, valvole di esplosione.

    3.9.1. I serbatoi e le vasche contenenti liquidi o materie tossiche, corrosive o altrimenti pericolose, compresa l'acqua a temperatura ustionante, devono essere provvisti:

    3.9.1.1. di chiusure che per i liquidi e materie tossiche devono essere a tenuta ermetica e per gli altri liquidi e materie dannose essere tali da impedire che i lavoratori possano venire a contatto con il contenuto;

    3.9.1.2. di tubazioni di scarico di troppo pieno per impedire il rigurgito o traboccamento.

    3.9.2. Qualora per esigenze tecniche le disposizioni di cui al punto 3.9.1.1. non siano attuabili, devono adottarsi altre idonee misure di sicurezza.

    3.10. I recipienti adibiti al trasporto dei liquidi o materie infiammabili, corrosive, tossiche o comunque dannose devono essere provvisti:

    3.10.1. di idonee chiusure per impedire la fuoriuscita del contenuto;

    3.10.2. di accessori o dispositivi atti a rendere sicure ed agevoli le operazioni di riempimento e svuotamento;

    3.10.3. di accessori di presa, quali maniglie, anelli, impugnature, atti a rendere sicuro ed agevole il loro impiego, in relazione al loro uso particolare;

    3.10.4. di involucro protettivo adeguato alla natura del contenuto.

    3.11.1. I recipienti di cui al punto 3.10., compresi quelli vuoti già usati, devono essere conservati in posti appositi e separati, con l'indicazione di pieno o vuoto se queste condizioni non sono evidenti.

    3.11.2. Quelli vuoti, non destinati ad essere reimpiegati per le stesse materie già contenute, devono, subito dopo l'uso, essere resi innocui mediante appropriati lavaggi a fondo, oppure distrutti adottando le necessarie cautele.

    3.11.3. In ogni caso è vietato usare recipienti che abbiano già contenuto liquidi infiammabili o suscettibili di produrre gas o vapori infiammabili, o materie corrosive o tossiche, per usi diversi da quelli originari, senza che si sia provveduto ad una preventiva completa bonifica del loro interno, con la eliminazione di ogni traccia del primitivo contenuto o dei suoi residui o prodotti secondari di trasformazione.

    4. MISURE CONTRO L'INCENDIO E L'ESPLOSIONE

    4.1. Nelle aziende o lavorazioni in cui esistono pericoli specifici di incendio:

    4.1.1. è vietato fumare;

    4.1.2. è vietato usare apparecchi a fiamma libera e manipolare materiali incandescenti, a meno che non siano adottate idonee misure di sicurezza;

    4.1.3. devono essere predisposti mezzi ed impianti di estinzione idonei in rapporto alle particolari condizioni in cui possono essere usati, in essi compresi gli apparecchi estintori portatili o carrellati di primo intervento. Detti mezzi ed impianti devono essere mantenuti in efficienza e controllati almeno una volta ogni sei mesi da personale esperto;

    4.2.1. L'acqua non deve essere usata per lo spegnimento di incendi, quando le materie con le quali verrebbe a contatto possono reagire in modo da aumentare notevolmente di temperatura o da svolgere gas infiammabili o nocivi.

    4.2.2. Parimenti l'acqua e le altre sostanze conduttrici non devono essere usate in prossimità di conduttori, macchine e apparecchi elettrici sotto tensione.

    4.2.3. I divieti di cui ai punti 4.2.1 e 4.2.2 devono essere resi noti al personale mediante avvisi.

    4.3. Le aziende e le lavorazioni nelle quali si producono, si impiegano, si sviluppano o si detengono prodotti infiammabili, incendiabili o esplodenti o quelle che, per dimensioni, ubicazione ed altre ragioni presentano in caso di incendio gravi pericoli per la incolumità dei lavoratori sono soggette, ai fini della prevenzione degli incendi, al controllo del Comando provinciale dei vigili del fuoco competente per territorio ad esclusione delle attività svolte dal Ministero della difesa per le quali lo stesso Ministero provvede ai controlli e all'attuazione di idonee misure a salvaguardia dell'incolumità dei lavoratori in conformità ai provvedimenti specifici emanati in materia di prevenzione incendi.

    4.4.1. I progetti di nuovi impianti o costruzioni di cui al precedente punto o di modifiche di quelli esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto, devono essere sottoposti al preventivo parere di conformità sui progetti, da parte del Comando provinciale dei vigili del fuoco al quale dovrà essere richiesta la visita di controllo ad impianto o costruzione ultimati, prima dell'inizio delle lavorazioni, secondo le procedure di cui all'art. 16 del decreto legislativo 8 marzo 2006 n. 139.

    4.4.2. Le aziende e lavorazioni soggette al controllo finalizzato al rilascio del certificato di prevenzione incendi sono determinate con decreto del Presidente della Repubblica da emanarsi ai sensi del comma 1 dell'art. 16 del menzionato decreto legislativo 8 marzo 2006, n. 139. Fino all'emanazione del suddetto regolamento, resta in vigore il decreto del Presidente della Repubblica 26 maggio 1959, n. 689.

    4.5.1. Nella fabbricazione, manipolazione, deposito e trasporto di materie infiammabili od esplodenti e nei luoghi ove vi sia pericolo di esplosione o di incendio per la presenza di gas, vapori o polveri, esplosivi o infiammabili, gli impianti, le macchine, gli attrezzi, gli utensili ed i meccanismi in genere non devono nel loro uso dar luogo a riscaldamenti pericolosi o a produzione di scintille.

    4.5.2. Idonee misure contro i riscaldamenti pericolosi o la produzione di scintille devono adottarsi nella scelta ed ubicazione dei locali e dei posti di lavoro e relativo arredamento, rispetto alla distanza dalle sorgenti di calore.

    4.5.3. Analoghe misure devono essere adottate nell'abbigliamento dei lavoratori.

    4.6.1. Il riscaldamento dei locali nei quali si compiono le operazioni o esistono i rischi per fabbricazione, manipolazione, deposito e trasporto di materie infiammabili od esplodenti e nei luoghi ove vi sia pericolo di esplosione o di incendio per la presenza di gas, vapori o polveri, esplosivi o infiammabili deve essere ottenuto con mezzi e sistemi tali da evitare che gli elementi generatori o trasmittenti del calore possano raggiungere temperature capaci di innescare le materie pericolose ivi esistenti.

    4.6.2. Nei casi indicati al punto precedente le finestre e le altre aperture esistenti negli stessi locali devono essere protette contro la penetrazione dei raggi solari.

    4.7.1. Nei locali di cui al punto precedente devono essere predisposte nelle pareti o nei solai adeguate superfici di minor resistenza atte a limitare gli effetti delle esplosioni.

    4.7.2. Dette superfici possono essere anche costituite da normali finestre o da intelaiature a vetri cieche fissate a cerniera ed apribili verso l'esterno sotto l'azione di una limitata pressione.

    4.7.3. In ogni caso dette superfici di minor resistenza devono essere disposte in modo che il loro eventuale funzionamento non possa arrecare danno alle persone.

    4.8.1. Negli stabilimenti dove si producono differenti qualità di gas non esplosivi né infiammabili di per se stessi, ma le cui miscele possono dar luogo a reazioni pericolose, le installazioni che servono alla preparazione di ciascuna qualità di gas devono essere sistemate in locali isolati, sufficientemente distanziati fra loro.

    4.8.2. La disposizione di cui al punto precedente non si applica quando i diversi gas sono prodotti contemporaneamente dallo stesso processo, sempreché siano adottate idonee misure per evitare la formazione di miscele pericolose.

    4.9. Le materie ed i prodotti suscettibili di reagire fra di loro dando luogo alla formazione di gas o miscele esplosive o infiammabili devono essere immagazzinati e conservati in luoghi o locali sufficientemente areati e distanziati ed adeguatamente isolati gli uni dagli altri.

    4.10. I dispositivi di aspirazione per gas, vapori e polveri esplosivi o infiammabili, tanto se predisposti in applicazione del punto 2.1.8.1., quanto se costituenti elementi degli impianti di produzione o di lavorazione, devono rispondere ai seguenti requisiti:

    4.10.1. essere provvisti di valvole di esplosione, collocate all'esterno dei locali in posizione tale da non arrecare danno alle persone in caso di funzionamento;

    4.10.2. avere tutte le parti metalliche collegate fra loro ed il relativo complesso collegato elettricamente a terra;

    4.10.3. essere provvisti, in quanto necessario, di mezzi per la separazione e la raccolta delle polveri esplosive o infiammabili;

    4.10.4. avere lo scarico in luogo dove i gas, i vapori e le polveri non possono essere causa di pericolo.

    4.11. Nelle installazioni in cui possono svilupparsi gas, vapori o polveri suscettibili di dar luogo a miscele esplosive, devono essere adottati impianti distinti di aspirazione per ogni qualità di gas, vapore o polvere, oppure adottate altre misure idonee ad evitare i pericoli di esplosione.

    6. DISPOSIZIONI RELATIVE ALLE AZIENDE AGRICOLE

    6.1. Abitazioni e dormitori:

    6.1.1. Ferme restando le disposizioni relative alle condizioni di abitabilità delle case rurali, contenute nel testo unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, è vietato di adibire ad abitazioni di lavoratori stabili o a dormitorio di lavoratori assunti per lavori stagionali di carattere periodico:

    6.1.1.1 grotte naturali od artificiali o costruzioni di qualunque specie le cui pareti o coperture sono costituite in tutto od in parte dalla roccia;

    6.1.1.2 capanne costruite in tutto o in parte con paglia, fieno, canne, frasche o simili, oppure anche tende od altre costruzioni di ventura.

    6.1.2. È fatta eccezione per i ricoveri diurni e per i soli lavori non continuativi, né periodici che si devono eseguire in località distanti più di cinque chilometri dal centro abitato, per il qual caso si applicano le disposizioni di cui al punto 1.14.3..

    6.1.3. È fatta pure eccezione per i ricoveri dei pastori, quando siano destinati ad essere abitati per la sola durata del pascolo e si debbano cambiare col mutare delle zone a questo di mano in mano assegnate.

    6.2. Dormitori temporanei:

    6.2.1. Le costruzioni fisse o mobili, adibite ad uso di dormitorio dei lavoratori assunti per lavori stagionali di carattere periodico, devono rispondere alle condizioni prescritte per le costruzioni di cui ai punti 1.14.4.1., 1.14.4.2., 1.14.4.2.1., 1.14.4.2.2., 1.14.4.2.3., 1.14.4.2.4., 1.14.4.2.5., 1.14.4.2.6., 1.14.4.3., 1.14.4.4., 1.14.4.5., 1.14.4.6. del presente allegato.

    6.2.2. L'organo di vigilanza può prescrivere che i dormitori dispongano dei servizi accessori previsti al punto 1.14.4.6., quando li ritenga necessari in relazione alla natura e alla durata dei lavori, nonché alle condizioni locali.

    6.3. Acqua:

    6.3.1. Per la provvista, la conservazione e la distribuzione dell'acqua potabile ai lavoratori devono essere osservate le norme igieniche atte ad evitarne l'inquinamento e ad impedire la diffusione di malattie.

    6.4. Acquai e latrine:

    6.4.1. Le abitazioni stabili assegnate dal datore di lavoro ad ogni famiglia di lavoratori devono essere provviste di acquaio e di latrina.

    6.4.2. Gli scarichi degli acquai, dei lavatoi e degli abbeveratoi devono essere costruiti in modo che le acque siano versate nel terreno a distanza non inferiore a 25 metri dall'abitazione, nonché dai depositi e dalle condutture dell'acqua potabile.

    6.4.3. Gli scarichi delle latrine devono essere raccolti in bottini impermeabili e muniti di tubo sfogatore di gas.

    6.4.4. I locali delle latrine non devono comunicare direttamente con le stanze di abitazione, a meno che le latrine non siano a chiusura idraulica.

    6.5. Stalle e concimaie:

    6.5.1. Le stalle non devono comunicare direttamente con i locali di abitazione o con i dormitori.

    6.5.2. Quando le stalle siano situate sotto i locali predetti devono avere solaio costruito in modo da impedire il passaggio del gas.

    6.5.3. Le stalle devono avere pavimento impermeabile ed essere munite di fossetti di scolo per le deiezioni liquide, da raccogliersi in appositi bottini collocati fuori dalle stalle stesse secondo le norme consigliate dalla igiene.

    6.5.4. Nei locali di nuova costruzione le stalle non devono avere aperture nella stessa facciata ove si aprono le finestre delle abitazioni o dei dormitori a distanza minore di 3 metri in linea orizzontale.

    6.5.5. Le concimaie devono essere normalmente situate a distanza non minore di 25 metri dalle abitazioni o dai dormitori nonché dai depositi e dalle condutture dell'acqua potabile.

    6.5.6. Qualora, per difficoltà provenienti dalla ubicazione, non sia possibile mantenere la distanza suddetta, l'organo di vigilanza può consentire che la concimaia venga situata anche a distanze minori.

    6.6. Mezzi di pronto soccorso e di profilassi:

    6.6.1. Le aziende devono altresì tenere a disposizione dei lavoratori addetti alla custodia del bestiame i mezzi di disinfezione necessari per evitare il contagio delle malattie infettive.

    6.6.2. Nelle attività concernenti il diserbamento, la distruzione dei parassiti delle piante, dei semi e degli animali, la distruzione dei topi o di altri animali nocivi, nonché in quelle concernenti la prevenzione e la cura delle malattie infettive del bestiame e le disinfezioni da eseguire nei luoghi e sugli oggetti infetti ed, in genere, nei lavori in cui si adoperano o si producono sostanze asfissianti, tossiche, infettanti o comunque nocive alla salute dei lavoratori, devono essere osservate le disposizioni contenute ai punti 2.1.1., 2.1.2., 2.1.3. e 2.1.4..

    GIURISPRUDENZA COMMENTATA

    Sommario: 1. Ambienti di lavoro - 2. Presenza nei luoghi di lavoro di agenti nocivi - 3. Impianti e tubazioni - 4. Misure contro l'incendio e l'esplosione .

    Il Titolo II del D.Lgs. n. 81/2008, intitolato «Luoghi di lavoro», all'art. 64, comma 1, lettera a), stabilisce che «i luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di cui all'articolo 63, commi 1, 2 e 3»; all'art. 63, comma 1, prevede che «i luoghi di lavoro devono essere conformi ai requisiti indicati nell'allegato IV»; all'Allegato IV, specifica «i requisiti dei luoghi di lavoro»; e all'art. 68, comma 1, lettera b), contempla le sanzioni applicabili al datore di lavoro e ai dirigenti in caso di violazione dell'art. 64, comma 1.

    Basilare, in un simile quadro, è, dunque, l'Allegato IV, articolato in più punti. Il punto 1, dedicato agli «ambienti di lavoro», raccoglie e modifica molteplici norme già contenute nei D.P.R. n. 547/1955 e n. 303/1956. Sotto più versi, si fanno apprezzare gli indirizzi ermeneutici elaborati dalla Corte Suprema prima e dopo il D.Lgs. n. 81/2008 (v. altresì Cassazione penale, 17 dicembre 2008, Di Eusanio; e sub artt. 63 e 64 Cassazione penale, 6 novembre 2008, Alessandrelli):

    “Relativamente ai locali spogliatoi si deve rilevare che la norma non indica un divieto di collocare gli stessi nell'antibagno, ma specifica solo la distinzione tra i due sessi, una loro capacità sufficiente e vicino ai luoghi di lavoro, aerati, riscaldati e muniti di sedili”.

    ``Un operaio viene colpito da una benna idraulica in movimento poco dopo essere uscito dal capannone per recuperare l'elmetto di protezione. Ai datori di lavoro si addebita la violazione punto 1.4.1. all. IV del D.Lgs. n. 81/2008) che impone ai datori di lavoro di assicurare che le vie di circolazione siano situate e calcolate in modo tale che i pedoni o i veicoli possano utilizzarle facilmente in piena sicurezza e che i lavoratori operanti nelle vicinanze di queste vie di circolazione non corrano alcun rischio. A nulla potevano valere - ed anzi confermavano la consapevolezza da parte dei vertici aziendali della pericolosità del luogo di lavoro in questione - le prescrizioni rivolte agli operai di tenersi ad almeno 5 metri dal ragno o, di non uscire dal capannone, posto che la regola cautelare mira proprio a prevenire gli eventi lesivi derivanti anche da distrazione o trascuratezza del lavoratore. I plurimi elementi idonei a comprovare la condotta negligente ed imprudente degli imputati/datori di lavoro rispetto alla causazione dell'infortunio in esame: la mancanza di segregazione della zona di rischio destinata al movimento della benna idraulica, la promiscuità di passaggio di entrata/uscita dal capannone, non interdetto ai lavoratori non impegnati nella movimentazione del mezzo, la mancanza di strumenti di segnalazione (acustica, visiva) del movimento dei veicoli ad atto rischio per la sicurezza, la mancanza di una procedura di entrata e uscita di tali mezzi, volta ad evitare il pericolo di contatti accidentali con altri lavoratori presenti in azienda''.

    Il direttore dello stabilimento di una s.p.a., delegato per gli aspetti della sicurezza sul lavoro, è condannato per l'infortunio occorso a un dipendente caduto in una fossa: ``Giovi intanto un richiamo all'art. 64, comma 1, lett. a), D.Lgs. 81/2008, quanto agli obblighi del datore di lavoro: la norma opera un espresso rinvio ai Requisiti di salute e di sicurezza dei luoghi di lavoro, per i quali prescrive la conformità ai requisiti indicati nell'allegato IV: al punto 1.5.14.1. di tale documento, è previsto: `Le aperture esistenti nel suolo o nel pavimento dei luoghi, degli ambienti di lavoro o di passaggio, comprese le fosse ed i pozzi, devono essere provviste di solide coperture o di parapetti normali, atti ad impedire la caduta di persone. Quando dette misure non siano attuabili, le aperture devono essere munite di apposite segnalazioni di pericolo'''.

    Presso un allevamento avicolo, il dipendente di una ditta trasportatrice, ultimato lo scarico in un silos della fornitura di mangimi, secondo una prassi consolidata, si arrampica sino alla sommità del silos per chiuderne manualmente il coperchio a causa del malfunzionamento del meccanismo di apertura/chiusura azionabile da terra, ma perde l'equilibrio, e in assenza di un sistema anticaduta precipita a terra. La Sez. IV conferma la condanna per omicidio colposo dell'amministratrice unica della s.r.l. proprietaria dell'allevamento gestito da altra s.r.l. sulla base di un contratto di affitto di azienda. Colpa: non aver eliminato le scale di accesso alla sommità del silos prive delle adeguate protezioni previste al punto 1.7.1.3 dell'Allegato IV al D.Lgs. 81/2008, o, in alternativa, non aver fatto installare sulla sommità del silos i parapetti di protezione contro le cadute dall'alto prescritti nel punto 1.7.3 del medesimo Allegato IV.

    Alcuni pubblici dipendenti della Agenzia delle Entrate -condannati per il delitto di truffa aggravata e continuata, per essersi assentati dai luoghi di lavoro senza timbrare il cartellino d' uscita- lamentano, oltre che il ``mancato riconoscimento della qualità di videoterminalisti, che determinava il diritto di godere delle agevolazioni di cui all'art. 175 del D.Lgs. n. 81/2008'', ``il mancato riconoscimento della necessità conseguente alla verificata mancanza di acqua potabile nell'ufficio di cui si tratta''. La Sez. II ribatte che ``non può attribuirsi rilevanza decisiva alla circostanza che l'ufficio presso cui prestano attività lavorativa gli imputati non disponesse di distributore di acqua potabile, trattandosi di circostanza comunque inidonea a giustificare condotte arbitrarie, incontrollate e penalmente rilevanti''.

    ``Nella definizione di `vie di circolazione' (v. art. 8, D.P.R. n. 547/1955, e ora Allegato IV, punto 1.4, D.Lgs. n. 81/2008) non vanno comprese solo quelle che effettivamente sono destinate con continuità al passaggio di persone o veicoli, ma anche quelle che, sebbene utilizzate non in maniera continuativa, come passaggi, scale, soppalchi o altro, debbano essere per forza utilizzate per consentire al lavoratoreo ad altri di giungere in un luogo dove viene esercitrata un'attività, comunque, relativa a quella lavorativa''.

    Per scaldarsi sul luogo di lavoro, un dipendente accende una pira con carta e legno utilizzando del solvente contenuto in una latta di trenta litri. Il sovente s'incendia, e le fiamme investono il lavoratore. Nel confermare la condanna dei datori di lavoro per omicidio colposo, la Sez. IV sottolinea a loro carico l'addebito di «aver omesso di riscaldare in modo adeguato l'ambiente di lavoro»: «Tale omissione ha costituito la ragione per la quale il lavoratore si è determinato ad accendere un fuoco in modo del tutto inappropriato ma non dissimile da quanto fatto già in precedenti occasioni, allorquando si era provveduto a costruire con mezzi di fortuna una stufa a legno. Il comportamento dei datori di lavoro si pone quindi in aperto contrasto con quanto previsto dall'art. 11, D.P.R. n. 303/1956 [v. ora il punto 1.9.2.1. dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008], per il quale `la temperatura dei locali chiusi di lavoro deve essere mantenuta entro i limiti convenienti alla buona esecuzione dei lavori e ad evitare pregiudizio alla salute dei lavoratori'. Posto quindi che le condizioni di lavoro nelle quali la vittima si era trovata a dover espletare le mansioni affidategli (quali che fossero) la esponevano a temperature non adeguate, non può definirsi abnorme il comportamento di quella che, nel tentativo di provvedersi di una improvvisata fonte di calore, utilizzò i materiali disponibili, tra i quali le sostanze infiammabili non segregate. Risulta ben prevedibile che in assenza di idoneo ed attivo impianto di riscaldamento a servizio di un vasto capannone, luogo di esecuzione delle attività lavorative, il lavoratore provveda altrimenti a predisporre una fonte di calore che renda meno disagevole lo svolgimento delle proprie mansioni».

    L'art. 10, commi 1 e 4, D.P.R. n. 303/1956 [ripreso dal D.Lgs. n. 81/2008, all'art. 63, comma 1, e all'Allegato IV, punti 1.10.1, e 1.10.4] stabilisce, in particolare, che «in ogni caso, tutti i locali e luoghi di lavoro devono essere dotati di dispositivi che consentano una illuminazione artificiale adeguata per salvaguardare la sicurezza, la salute e il benessere di lavoratori» e che «le superfici vetrate illuminanti ed i mezzi di illuminazione artificiale devono essere tenuti costantemente in buone condizioni di pulizia ed efficienza». Condannato per la violazione di questa norma, un datore di lavoro deduce a propria difesa che «la norma prescrive diversi gradi di intensità della illuminazione a seconda del tipo di lavorazione che viene effettuata nei locali di lavoro», e che «nel caso in esame non è stato effettuato alcun accertamento tecnico per verificare il grado di illuminazione in relazione alle prescrizioni contenute nell'articolo citato e non è stata neppure effettuata una verifica del tipo di lavorazione che si eseguiva nei predetti locali, che, peraltro, secondo le risultanze processuali, corrispondeva alla tipologia dei lavori grossolani, costituiti da interventi di demolizione di calcinacci e di pulizia, che richiedono un basso grado di illuminazione».La Sez. III ribatte che l'imputato «si riferisce presumibilmente alle prescrizioni dell'UNI EN 12464-1, riguardanti l'intensità dell'illuminazione per le lavorazioni da eseguirsi in ambienti interni, o UNI EN 12464-2 per i lavori da eseguirsi in esterno, prescrizioni che non indicano parametri illuminotecnici in relazione alla salute ed alla sicurezza dei lavoratori, ma corrispondono all'esigenza di assicurare il confort visivo degli stessi e di prestazione visiva». E rileva che, nel caso di specie, «l'accertamento della carenza di illuminazione dei locali in cui venivano effettuate le lavorazioni è stato fondato su adeguate risultanze probatorie, costituite dalle deposizioni dei verbalizzanti, non contraddette da prove contrarie», ed «emerge anche dal successivo adeguamento della illuminazione da parte dell'imputato alle prescrizioni dell'organo di vigilanza».

    Il responsabile del punto vendita di un supermercato - condannato per il reato di cui all'art. 11, D.P.R. n. 547/1955, per avere omesso di difendere adeguatamente i posti di lavoro contro la caduta o l'investimento di materiale in dipendenza dell'attività lavorativa, perché, in particolare, l'impilatura dei cartoni del latte dell'acqua minerale era eseguita in modo da non garantire un'adeguata stabilità contro la caduta o l'investimento dei lavoratori e degli utenti del supermercato - lamenta che «la disposizione in questione risulta abrogata dall'art. 304 del D.Lgs. n. 81/2008». La Sez. III osserva di rimando: «la fattispecie penale contenuta nell'art. 11, D.P.R. n. 547/1955 è ora rifluita, in termini sostanzialmente identici, nella previsione del vigente articolo 63 del D.Lgs. n. 81/2008, il quale richiama il punto 1.8 dell'allegato IV allo stesso decreto, con la conseguenza che il fatto è, senza soluzione di continuità, ancora previsto dalla legge come reato».

    Un «amministratore di condominio e quindi datore di lavoro di un pulitore presso il medesimo condominio» è accusato «di aver cagionato la morte del pulitore -caduto nelle trombe delle scale durante le operazioni di pulizia- per colpa generica, nonché per inosservanza delle norme di prevenzione sulla sicurezza dei luoghi di lavoro per non aver adeguato i parapetti delle scale dove il Pagni svolgeva la sua attività lavorativa ai parametri di cui all'art. 26, comma 1, lettera b), del D.P.R. n. 547/1955 che impone un'altezza del parapetto di almeno un metro».

    Nell'annullare la sentenza di proscioglimento pronunciata dal GUP del Tribunale di Roma, la Sez. IV sottolinea, anzitutto, alcuni punti: 1) l'accertata (e non contestata) violazione della norma cautelare da parte dell'amministratore del condominio (altezza del parapetto delle scale inferiore a quella prevista dalla legge); 2) il ritenuto collegamento dell'infortunio con l'espletamento dell'attività lavorativa della vittima (addetta alle pulizie delle scale del condominio del quale l'imputato era l'amministratore); 3) la mancanza di elementi oggettivi tali da indurre ad ipotizzare un suicidio o un omicidio; 4) la mancanza in atti di un qualsivoglia fattore eccezionale in grado di interrompere il nesso causale tra l'espletamento dell'attività lavorativa e la morte del lavoratore». E ricorda che «il compito del datore di lavoro è molteplice e articolato, e va dalla istruzione dei lavoratori sui rischi di determinati lavori, e dalla necessità di adottare certe misure di sicurezza, alla predisposizione di queste misure». Avuto riguardo alla fattispecie in esame, osserva che «il legislatore se ha stabilito in un metro l'altezza minima di un parapetto ha evidentemente ritenuto che un'altezza inferiore non possa considerarsi idonea ad assicurare al lavoratore una tutela efficace». Infine, precisa che «sussiste continuità normativa tra la disposizione di cui all'art. 26, comma 1, lettera b), D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547 e la vigente normativa antinfortunistica, posto che il contenuto di detta disposizione risulta ad oggi recepito nel D.Lgs. n. 81 nell'allegato 4, punto 1.7.2.1».

    Il rappresentante legale di un'impresa edile fu condannato per il reato di cui all'art. 11, comma 3, D.P.R. n. 547/1955, poiché, durante l'esecuzione dei lavori di scavo e rifacimento di una rete idrica pubblica, ometteva di adottare tutte le adeguate cautele a difesa dell'incolumità dei pedoni ed in particolare per non avere protetto e segnalato in modo chiaramente visibile le zone di pericolo quali scavi e sconnessioni del manto stradale. Nel confermare la condanna, la Sez. III osserva che «vi è continuità normativa tra l'art.11, comma 3, D.P.R. n. 547/1955 ed il D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81». In effetti, l'Allegato IV, punto 1.8.3., D.Lgs. n. 81/2008, nel riprendere l'art. 11, comma 3, D.P.R. n. 547/1955, stabilisce che «i posti di lavoro, le vie di circolazione e altri luoghi o impianti all'aperto utilizzati od occupati dai lavoratori durante le loro attività devono essere concepiti in modo tale che la circolazione dei pedoni e dei veicoli può avvenire in modo sicuro».

    In forza dell'art. 11, comma 3, D.P.R. n. 547/1955 [ora ripreso dal punto 1.8.3. dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008], «i posti di lavoro, le vie di circolazione e altri luoghi o impianti all'aperto utilizzati od occupati dai lavoratori durante le loro attività devono essere concepiti in modo tale che la circolazione dei pedoni e dei veicoli può avvenire in modo sicuro». I legali rappresentanti di un'azienda agricola furono condannati per il reato di lesione personale colposa in danno di un dipendente investito da una macchina mietitrebbia condotta da uno dei legali rappresentanti. La colpa addebitata fu, in particolare, quella di aver omesso in violazione dell'art. 11, comma 3, D.P.R. n. 547/1955 [ora ripreso dal punto 1.8.3. dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008] «concreti schemi organizzativi dell'attività (nel caso di specie mietitrebbiatura meccanica) che prevedessero le modalità con cui la macchina si sarebbe dovuta muovere nel campo soprattutto quando nel medesimo ambiente di lavoro si muovessero altri soggetti intenti ad operazioni complementari, come la ripulitura delle ripe cui stava attendendo l'infortunato». In propria difesa, gli imputati rimproverano ai giudici di merito di aver ritenuto applicabile l'art. 11, comma 3, D.P.R. n. 547/1955 «senza tenere in debita considerazione sia la tipologia dell'attività svolta dalla azienda agricola, sia l'organizzazione aziendale, sia i luoghi (terreni agricoli e coltivati) non assolutamente classificabili come posti in cui è possibile avere una circolazione pedonale e veicolare in senso classico». Di rimando, la Sez. IV osserva che l'art. 11, comma 3, D.P.R. n. 547/1955 «fa espresso riferimento alle `vie di circolazione e altri luoghi e impianti all'aperto utilizzati od occupati dai lavoratori durante le loro attività', sicché anche per tali luoghi, all'aperto appunto, vige l'obbligo del datore di lavoro di concepirli e preservarli `in modo tale che la circolazione dei pedoni e dei veicoli può avvenire in modo sicuro'«. Ne desume che, nel caso di specie, gli imputati avevano «l'obbligo di concreti schemi organizzativi dell'attività (nella specie di mietitrebbiatura meccanica) che prevedessero le modalità con cui la macchina si sarebbe dovuta muovere nel campo soprattutto quando nel medesimo ambiente di lavoro si muovessero altri soggetti intenti ad operazioni complementari». Prende atto che gli imputati «non avevano previsto alcun tipo di cautela o dato disposizioni organizzative particolari al fine di garantire l'esigenza di sicurezza, confidando evidentemente nell'esperienza delle persone che operavano all'interno dell'azienda». E ricorda, «sotto un più generale profilo sistematico, che, in terna di infortuni sul lavoro, l'obbligo del datore di lavoro, titolare della relativa posizione di garanzia, è articolato e comprende l'istruzione dei lavoratori sui rischi connessi alle attività lavorative svolte, la necessità di adottare tutte le opportune misure di sicurezza, la effettiva predisposizione di queste, il controllo, continuo ed effettivo, circa la concreta osservanza delle misure predisposte per evitare che esse vengano trascurate o disapplicate, il controllo sul corretto utilizzo, in termini di sicurezza, degli strumenti di lavoro e sul processo stesso di lavorazione».

    L'art. 7 D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, recante norme generali per l'igiene del lavoro, vietava che fossero adibiti a lavori continuativi i locali chiusi i quali non rispondessero a determinate condizioni tra cui quella di essere ben asciutti e ben difesi contro l'umidità; condotta questa punita dal successivo art. 58 con l'ammenda da L. 200.000 a L. 300.000.

    Il successivo D.Lgs. n. 81 del 2008 prescrive all'art. 63, quanto ai requisiti di salute e di sicurezza dei luoghi di lavoro, che questi devono essere conformi ai requisiti indicati nell'allegato IV; prescrizione poi sanzionata dal successivo art. 68.

    A sua volta l'allegato IV cit., che regolamenta i requisiti dei luoghi di lavoro, prevede al punto 1.3.1. che, a meno che non sia richiesto diversamente dalle necessità della lavorazione, è vietato adibire a lavori continuativi locali chiusi che non rispondono a determinate condizioni, tra cui quella (punto 1.3.1.3.) di essere ben asciutti e ben difesi contro l'umidità.

    Quindi c'è piena continuità normativa tra le due prescrizioni suddette: quella dell'art. 7 D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, e quella dell'art. 63 D.Lgs. n. 81 del 2008.

    In forza dell'art. 37, comma 1, D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303 (testualmente ripreso dal D.Lgs. n. 81/2008 al punto 1,13,2.1. dell'Allegato IV), «docce sufficienti ed appropriate devono essere messe a disposizione dei lavoratori quando il tipo di attività o la salubrità lo esigono».

    Nel caso esaminato dalla presente sentenza, un datore di lavoro era stato ritenuto colpevole della violazione di tale norma, per non aver predisposto «tanti servizi doccia in corrispondenza del numero di lavoratori».

    Ad avviso della Sez. III, siffatta «interpretazione data dal decidente al dettato dell'art. 37 del D.P.R. n. 303/1956 sembra contraria alla stessa lettera della norma, la stessa non disponendo che il numero delle docce deve essere perfettamente in corrispondenza al numero dei lavoratori dipendenti della azienda». E aggiunge che, nel caso di specie, «gli stessi lavoratori non hanno mai volontariamente utilizzato le dette docce, visto che preferivano servirsi dei servizi igienici delle proprie abitazioni, poste a poca distanza dal posto di lavoro».

    Il legale rappresentante e datore di lavoro di una s.p.a. esercente un impianto di depurazione fu accusato del reato di cui agli artt. 8, comma 1, e 389, lettera c), D.P.R. n. 547/1955, per aver omesso di dotare i camminamenti e le piattaforme degli impianti di ossidazione di idonee protezioni, quali parapetti, ringhiere, catenelle onde scongiurare rischi di infortunio per i lavoratori operanti nelle vicinanze.

    Il Tribunale assolve l'imputato per non essere il fatto più previsto quale reato, sul presupposto che «la normativa contestata era stata totalmente abrogata dal vigente art. 304 D.Lgs. n. 81/2008».

    Nel ricorrere per cassazione, il P.M. osserva che, «in effetti, l'art. 304, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008 ha abrogato integralmente il D.P.R. n. 547/1955», e che, «tuttavia, il precetto contenuto nell'art. 8, comma 1, D.P.R. n. 547/1955 risulta integralmente trasfuso nella nuova norma precettiva contenuta nell'Allegato IV, al punto 1.4.1 del D.Lgs. n. 81/2008». E aggiunge che «tale norma precettiva, identica al testo dell'art. 8, comma 1, D.P.R. n. 547/1955, è ora sanzionata dall'art. 68, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008, che, attraverso il meccanismo dei richiami a catena (artt. 64, lettera a), 63, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008), rinvia al contenuto dell'Allegato IV, punto 1.4.1, del D.Lgs. n. 81/2008», con la conseguenza che, «essendo gli elementi strutturali delle due fattispecie incriminatrici identici, sussiste continuità normativa tra le norme incriminatrici succedutesi nel tempo con conseguente applicazione dell'art. 2, comma 4, c.p.».

    La Sez. III accoglie il ricorso. Premette che «l'art. 8 D.P.R.. 27 aprile 1955, n. 547 (recante norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) prescriveva che i pavimenti degli ambienti di lavoro e dei luoghi destinati al passaggio non dovessero presentare buche o sporgenze pericolose e dovessero essere in condizioni tali da rendere sicuro il movimento ed il transito delle persone e dei mezzi di trasporto, e, inoltre, che i pavimenti ed i passaggi non dovevano essere ingombrati da materiali che ostacolassero la normale circolazione». Rileva che «un'analoga prescrizione diretta a conformare i luoghi di lavoro a prescrizioni di prevenzione al fine di garantire la sicurezza dei lavoratori è ora contenuta negli artt. 63 e 64 D.Lgs. n. 81/2008», poiché «l'art. 63 prescrive in generale che i luoghi di lavoro devono essere conformi ai requisiti indicati nell'allegato IV». Precisa che «la Tabella IV, al punto 1.4.1., prescrive che le vie di circolazione, comprese scale, scale fisse e banchine e rampe di carico, devono essere situate e calcolate in modo tale che i pedoni o i veicoli possano utilizzarle facilmente in piena sicurezza e conformemente alla loro destinazione e che i lavoratori operanti nelle vicinanze di queste vie di circolazione non corrano alcun rischio». Aggiunge che «il successivo art. 64 poi fa obbligo al datore di lavoro di provvedere a che i luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di cui all'articolo 63, commi 1, 2 e 3; che le vie di circolazione interne o all'aperto che conducono a uscite o ad uscite di emergenza e le uscite di emergenza siano sgombre allo scopo di consentirne l'utilizzazione in ogni evenienza; che i luoghi di lavoro, gli impianti e i dispositivi vengano sottoposti a regolare manutenzione tecnica e vengano eliminati, quanto più rapidamente possibile, i difetti rilevati che possano pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori; che i luoghi di lavoro, gli impianti e i dispositivi vengano sottoposti a regolare pulitura, onde assicurare condizioni igieniche adeguate; che gli impianti e i dispositivi di sicurezza, destinati alla prevenzione o all'eliminazione dei pericoli, vengano sottoposti a regolare manutenzione e al controllo del loro funzionamento». La conclusione è che «la nuova normativa (D.Lgs. n. 81/2008) pone tuttora delle prescrizioni - anzi più dettagliate - quanto alla sicurezza dei luoghi di lavoro, sanzionate penalmente; e tanto basta per ritenere la continuità normativa che vale a d escludere l'abolitio criminis».

    Nel corso delle operazioni di carico di gasolio presso un deposito, un lavoratore, intento a tale operazione, cadeva dalla sommità di un'autocisterna, infortunandosi mortalmente. Nell'assolvere il datore di lavoro perché il fatto non costituisce reato, la Corte d'Appello sosteneva l'inapplicabilità alle autobotti dell'art. 27, D.P.R. n. 547/1955 (concernente la protezione dei posti di lavoro sopraelevati di altezza superiore al metro e mezzo) [ora trasfuso nel punto 1.7.3. dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008, ove si dispone che «le impalcature, le passerelle, i ripiani, le rampe di accesso, i balconi ed i posti di lavoro o di passaggio sopraelevati devono essere provvisti, su tutti i lati aperti, di parapetti normali con arresto al piede o di difesa equivalenti», e che «tale protezione non è richiesta per i piani di caricamento di altezza inferiore a m. 2,00»].

    La Sez. IV non condivide questa interpretazione. Rileva che «l'art. 27 è norma di carattere generale, il cui ambito di applicazione non è limitato ai cantieri edili, ma si estende a tutte le ipotesi di attività lavorativa svolta da un'altezza superiore al metro e mezzo», e che, «alla stregua di una corretta interpretazione delle norme di riferimento e dei principi affermati da questa Corte, i giudici dell'impugnazione avrebbero dovuto valutare la diversità delle attività in concreto esercitate dal lavoratore infortunato che erano, oltre che di trasporto, anche di carico del combustibile, e, partendo da tale premessa, indicare le ragioni per le quali anche le attività di carico dovrebbero ritenersi escluse dall'ambito di generale applicazione della normativa antinfortunistica»: «ragioni che, d'altra parte, non potrebbero non tener conto delle finalità generali della predetta normativa, che è quella di proteggere i lavoratori da eventi comunque riconducibili all'attività di lavoro espletata, e del significato che la giurisprudenza di legittimità le ha attribuito, in quanto diretta a tutelare i lavoratori anche da incidenti determinati dalla loro disattenzione, imprudenza, imperizia o negligenza, ed a ritenere il datore di lavoro sempre responsabile della sicurezza del posto di lavoro, e dunque dell'infortunio occorso al dipendente, allorché ometta di adottare ogni possibile misura di protezione del lavoratore, ovvero trascuri di vigilare affinché tali misure vengano da costui effettivamente utilizzate». (Per l'inapplicabilità dell'art. 27, D.P.R. n. 547/1955 al posto di lavoro costituito dal cassone di un automezzo, v. Cass. 29 marzo 1989, P.M. in c. Gallerani, in Guariniello, Sicurezza del lavoro e Corte di Cassazione, Milano, 1994, 87, ove si afferma «l'impossibilità di dotare il cassone di un autocarro dei previsti parapetti»).

    Altra notazione significativa concerne la realizzabilità di una specifica protezione con riguardo all'autobotte a causa della sua forma tondeggiante: e ciò stante «la presenza, su un lato della stessa, di un parapetto che corre lungo un camminamento posto su un lato dell'autocisterna; parapetto che rappresenta una buona protezione rispetto a sempre possibili e prevedibili cadute accidentali e che ben avrebbe potuto coprire l'intero perimetro dell'autocisterna».

    La socia accomandataria di una s.a.s. è condannata per il reato di cui all'art. 13 D.P.R. n. 547/1955 [trasfuso nell'Allegato IV, punto 1.5., del D.Lgs. n. 81/2009], per «non avere disposto che le uscite di sicurezza non avessero larghezza inferiore alla normativa vigente in materia antincendio».

    La Sez. III replica che «le disposizioni contenute nell'Allegato III del decreto del Ministero dell'Interno del 10 marzo 1998 (Criteri generali di sicurezza antincendio e per la gestione dell'emergenza nei luoghi di lavoro), al paragrafo 5, dispongono che `la larghezza minima non può essere inferiore a 0.80 metri (con tolleranza del 2 %)». Ne deduce che «la misura indicata non è da considerarsi riferita alla totale apertura della porta, bensì a quella di ogni singolo battente della stessa, e ciò si evince chiaramente dalla lettura dell'art. 3.5 del detto decreto nel quale si afferma, in maniera esplicativa, netta e chiara, che la larghezza minima di una uscita non può essere inferiore a 0.80 metri e deve essere conteggiata pari ad un modulo unitario di passaggio, per modulo unitario intendendo, appunto, la metà (battente) della porta».

    L'art. 37, comma 1, D.P.R. n. 303/1956, così come modificato dall'art. 16, comma 8, D.Lgs. n. 242/1996 [ora il punto 1.13.2.1. dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008], stabilisce che «docce sufficienti e appropriate devono essere messe a disposizione dei lavoratori quando il tipo di attività o la salubrità lo esigono». Invece, l'art. 40, comma 1, D.P.R. n. 303/1956, così come modificato dall'art. 33, comma 11, D.Lgs. n. 626/1994 [ora il punto 1.12.1. dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008], prevede che «locali appositamente destinati a spogliatoi devono essere messi a disposizione dei lavoratori quando questi devono indossare indumenti di lavoro specifici e quando per ragioni di salute o di decenza non si può loro chiedere di cambiarsi in altri locali». Nel caso esaminato dalla sentenza Rocchino, il titolare di un'impresa fu condannato per i reati di cui agli artt. 37 e 40, D.P.R. n. 303/1956, perché «non aveva dotato un impianto di betonaggio di locali adibiti a spogliatoio per gli operai»; e «per non avere dotato l'impianto di cui sopra di un numero adeguato di docce per detti operai (vi era solo un gabinetto con doccia)». (Su tali norme v., più avanti, Cass. 10 maggio 2002, Cerastico e altro, e Cass. 24 agosto 2000, Ponticelli). A propria discolpa, l'imputato sostiene che «trattavasi di uno stabilimento realizzato in un bosco, nella prossimità di una cava il cui sfruttamento era stato autorizzato fino al 2007», che «gli obblighi di cui alle contestazioni non derivavano direttamente dalla legge, che li prescriveva per le aziende che occupavano più di 50 dipendenti e più di 20 operai [quella in esame aveva 15 operai e 3 impiegati], ma da una prescrizione dell'Ispettorato del lavoro, il quale ne aveva facoltà ex art. 38, comma 1, D.P.R. citato», e che «subito dopo la prescrizione egli si era attivato per adempiere ad essa, ottenendo dal comune l'autorizzazione necessaria per la realizzazione dei manufatto, comprensiva del taglio di alcune piante», senza invece ottenere «dal corpo forestale l'autorizzazione ad estirpare le ceppaie, per cui non aveva potuto per causa di forza maggiore adempiere alla prescrizione: ma, secondo il Tribunale, pur risultando provata l'intenzione di realizzare la soluzione prospettata, esisteva la possibilità di altre soluzioni tecniche, quali il ridimensionamento dei progetto approvato o la ristrutturazione del fabbricato esistente ed adibito a sala mensa e ad uffici amministrativi».

    La Sez. III non è d'accordo. Osserva che le prescrizioni dettate dagli artt. 37 e 40, D.P.R. n. 303/1956 «non sono subordinate al numero dei dipendenti, in quanto col citato D.Lgs. n. 242/1996 è stato abrogato l'art. 38, D.P.R. n. 303/1956, che facultava gli Ispettori del lavoro, nelle aziende occupanti più di 20 operai, a prescrivere al datore di lavoro di mettere a disposizione dei dipendenti `docce per fare il bagno' appena terminato l'orario di lavoro». Ne trae che «la giustificazione difensiva di aver fatto tutto il possibile a decorrere dalla prescrizione dell'Ispettorato è priva di fondamento, avendo dovuto l'imputato adempiere agli obblighi di legge sin dal 1996; e, qualora avesse adempiuto alle prescrizioni date dall'Ispettorato nel 2002, avrebbe potuto usufruire dell'estinzione dei reati ex art. 20 segg., D.Lgs. 19 dicembre 1994, n. 758». Infine, prende atto che, ad avviso del Tribunale, «il non aver potuto provvedere agli adempimenti non era causa di non punibilità, altrimenti essa si sarebbe aggiunta alle ipotesi normative riguardanti tale estinzione; e comunque avrebbe potuto ridimensionare il progetto, eliminando la sala mensa e l'alloggio per il custode, o ristrutturando il manufatto già esistente».

    Il responsabile di una cooperativa esercente la produzione e spedizione del pane fu condannato per il reato di cui all'art. 13 D.P.R. n. 547/1955 [trasfuso nell'Allegato IV, punto 1.5., del D.Lgs. n. 81/2009], per aver omesso di provvedere affinché le uscite di sicurezza dell'opificio fossero sgombre e utilizzabili per assicurare l'uscita degli addetti all'impianto dai locali di lavoro». A propria discolpa, l'imputato deduce che «i luoghi di lavoro erano già utilizzati nel 1989, sicché nella specie doveva trovare applicazione l'art. 13, comma 13, D.P.R. n. 547/1955 [trasfuso nell'Allegato IV, punto 1.5.13., del D.Lgs. n. 81/2009], ai sensi del cui disposto la prescrizione contenuta nel comma 4 del medesimo art. 13 D.P.R. n. 547/1955 [trasfuso nell'Allegato IV, punto 1.5.4, del D.Lgs. n. 81/2009] non si applica con riferimento ai luoghi di lavoro già utilizzati prima del 1993».

    La Sez. III ribatte che «la disposizione violata dall'imputato è quella di cui all'art. 13, comma 2, D.P.R. n. 547/1955, come sostituito dall'art. 33, comma 1, D.Lgs. n. 626/1994 [trasfuso nell'Allegato IV, punto 1.5.2., del D.Lgs. n. 81/2009], e,cioè, il fatto di non avere provveduto affinché le uscite di sicurezza dell'opificio industriale fossero sgombre e consentissero di raggiungere rapidamente un luogo sicuro, essendo stato accertato che una delle uscite era inutilizzabile, in quanto chiusa dall'esterno da una grata metallica, altra ostruita da carrelli per il trasporto del pane e tutte e tre non aprivano nel verso dell'uscita»; e che, quindi, «nella specie non è stata contestata la violazione delle norme di sicurezza di cui al comma 4 del medesimo art. 13 D.P.R. n. 547/1955 [trasfuso nell'Allegato IV, punto 1.5.4, del D.Lgs. n. 81/2009], riguardante il numero, la distribuzione e le dimensioni delle vie d'uscita, disposizione che, ai sensi dell'art. 13, comma 13, D.P.R. n. 547/1955 [trasfuso nell'Allegato IV, punto 1.5.13., del D.Lgs. n. 81/2009], non si applica con riferimento ai luoghi di lavoro già utilizzati prima del gennaio 1993; mentre la prescrizione dell'art. 13, comma 2, D.P.R. n. 547/1955, come sostituito dall'art. 33, comma 1, D.Lgs. n. 626/1994 [trasfuso nell'Allegato IV, punto 1.5.2., del D.Lgs. n. 81/2009], di cui è stata accertata la violazione, doveva in ogni caso essere osservata».

    Anche nel punto 2 dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008 ritroviamo norme risalenti ai D.P.R. n. 547/1955 e n. 303/1956, alcune anzi - come gli artt. 20 e 21, D.P.R. n. 303/1956 - non solo storicamente importanti, ma ritenute di dubbia sopravvivenza a seguito dell'emanazione del D.Lgs. n. 25/2001 sugli agenti chimici pericolosi. Ripercorriamo le analisi condotte dalla Corte Suprema (v. altresì sub artt. 63 e 64 Cassazione penale, 6 novembre 2008, Alessandrelli; nonché, per i più recenti riferimenti giurisprudenziali, Guariniello, Contrasti in Cassazione sui tumori da amianto: la colpa, in Dir.prat.lav., 2018, inserto; Esposizione all'amianto e responsabilità penale, ibid., 2019, 12, 733 s.).

    Un datore di lavoro è dichiarato colpevole del reato di cui all'art. 20, D.P.R. n. 303/1956, in quanto gli operai erano «intenti ad operazioni di saldatura e verniciatura in assenza di valide previsioni volte ad impedire o ridurre la diffusione di elementi nocivi nell'ambiente di lavoro, così ritenendosi inadeguato allo scopo l'impianto mobile predisposto».

    Il caso riguarda un lavoratore che aveva prestato la propria attività in un cantiere navale e che era deceduto per mesotelioma pleurico. Il GIP del Tribunale di Gorizia dichiarò non luogo a procedere, ex art. 425, comma 3, c.p.p., per non aver commesso il fatto, due presidenti del consiglio di amministrazione e il direttore dello stabilimento della s.p.a. esercente il cantiere navale imputati del reato di omicidio colposo.

    Su ricorso del P.M., la Sez. IV annulla con rinvio la sentenza pronunciata dal GIP del Tribunale di Gorizia. In particolare, per quanto riguarda la colpa specifica, si vede per l'ennesima volta costretta a ribadire i propri insegnamenti. In proposito, sottolinea che, «anche prima dell'entrata in vigore della speciale normativa di cui al D.Lgs. n. 277 del 1991, la disciplina dell'igiene sul lavoro dettata dalla speciale normativa in vigore a partire dagli anni 1956 e 1965, volta a salvaguardare la salute dei lavoratori dal rischio di contrarre l'asbestosi (malattia professionale determinata dal contatto con l'amianto), disciplinava ed indicava le cautele da adottare doverosamente negli ambienti di lavoro al fine di contrastare o contenere la dispersione dell'amianto quali: impianti di aspirazione; l'uso di mezzi di protezione individuali come guanti e mascherine, essendo già nota la nocività dell'amianto per la salute».

    Nell'occuparsi di un procedimento per omicidio colposo in danno di lavoratori colpiti da tumori professionali, per quanto riguarda l'elemento soggettivo del reato, la Sez. IV nota che «le sentenze di merito hanno evidenziato come le prove acquisite al processo abbiano confermato che tutti i lavoratori deceduti avevano iniziato a lavorare presso lo stabilimento fin dagli anni '60 senza che venisse adottata alcuna precauzione per evitare l'esposizione alle polveri nocive (impianti di aspirazione e di ventilazione; divisori tra i reparti ecc.)», e «hanno accertato una carente sorveglianza sanitaria e in generale un'insufficiente attenzione ai problemi riguardanti la salute dei lavoratori». Rileva che un lavoratore «era esposto alle polveri di amianto mentre gli altri lavoratori deceduti erano addetti al miscelatore Bumbery, al reparto vulcanizzazioni o al reparto mescole dove si operava con elevata esposizione alle sostanze nocive, senza alcuna protezione e senza che fosse stata fornita alcuna informazione sui rischi di tale esposizione». Considera «del tutto logica dunque la conclusione che gli imputati abbiano violato, quanto meno, gli artt. 20 e 21 del D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303 (norme generali per l'igiene del lavoro) contestata nei capi d'imputazione e riguardanti la difesa contro le polveri e i prodotti nocivi». Pone in risalto che «le sentenze di merito hanno precisato come di tutte le sostanze cui i lavoratori dello stabilimento sono stati nel corso degli anni esposti fossero conosciute le potenzialità gravemente lesive, anche mortali, sulla salute anche se, in qualche caso, solo successivamente si è accertato che tali sostanze erano idonee a provocare anche ulteriori patologie peraltro analoghe a quelle già conosciute (in particolare forme tumorali di natura diversa)».

    «L'obbligo del datore di lavoro di prevenzione contro gli agenti chimici scatta pur quando le concentrazioni atmosferiche non superino predeterminati parametri quantitativi, ma risultino comunque tecnologicamente passibili di ulteriori abbattimenti. Nell'attuale contesto legislativo italiano non v'è spazio per una interpretazione del concetto dei valori-limite come soglia a partire dalla quale sorga per i destinatari dei precetti l'obbligo prevenzionale nella sua dimensione soggettiva e oggettiva, giacché ciò comporterebbe inevitabili problemi di legittimità costituzionale, che è implicita e connaturata all'idea stessa del valore-limite una rinuncia a coprire una certa quantità di rischi ed una certa fascia marginale di soggetti, quei soggetti che, per condizioni fisiche costituzionali o patologiche, non rientrano nella media, essendo ipersensibili o ipersuscettibili all'azione di quel determinato agente nocivo, ancorché assorbito in quantità inferiori alle dosi normalmente ritenute innocue. Pertanto i valori-limite vanno intesi come semplici soglie di allarme, il cui superamento, fermo restando il dovere di attuare sul piano oggettivo le misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente realizzabili per eliminare o ridurre al minimo i rischi, in relazione alle conoscenze, acquisite in base al progresso tecnico, comporti l'avvio di un'ulteriore e complementare attività di prevenzione soggettiva, articolata su un complesso e graduale programma di informazioni, controlli e fornitura di mezzi personali di protezione diretto a limitare la durata dell'esposizione degli addetti alle fonti di pericolo. In sostanza le condizioni di lavoro nell'azienda sono risultate carenti dal punto di vista dell'adozione delle misure protettive e precauzionali, a fronte di una consapevolezza della pericolosità degli ambienti di lavoro, che un gruppo industriale di primaria importanza avrebbe dovuto avere. Ne consegue che effettivamente si sono maturate le violazioni dell'art. 21 D.P.R. n. 303/1956 ed art. 2087 c.c. per non avere gli imputati, nelle loro qualità, adottato le cautele atte a prevenire o ridurre il rischio di malattie connesse alla inalazione di fibre di amianto».

    Un lavoratore dipendente di un'impresa di lavori stradali «era deceduto per un carcinoma faringo-laringeo, causato - secondo l'ipotesi accusatoria - dall'esposizione a fumi di bitume caldo e a vapori di carburante, verificatasi negli anni dal 1979 al 1995, nel corso dei quali aveva eseguito lavori di edilizia stradale, ivi compresa l'asfaltatura delle strade». L'accusa di omicidio colposo mossa al datore di lavoro si fondava sull'addebito di «avere omesso di adottare i provvedimenti tecnici, organizzativi, procedurali necessari per contenere l'esposizione a tali sostanze (quali impianti localizzati di aspirazione; temperatura del bitume al di sotto dei 150° C.; limitazione dei tempi di esposizione; procedure di lavoro atte a contenere lo sviluppo e la diffusione di fumi di bitume caldo e vapori di carburanti), nonché di curare la fornitura e l'effettivo impiego di idonei mezzi di protezione (come mascherine)».

    Il GUP in primo grado e poi la Corte d'Appello, nel prosciogliere l'imputato perché il fatto non costituisce reato, diedero atto che «le perizie in atti hanno accertato il nesso causale tra l'esposizione a rischio del Tomaselli e l'insorgenza della malattia, sorta nel 1996, a breve distanza di tempo dalla cessazione del rapporto di lavoro con l'imputato, per circa 15 anni con le mansioni di autista di autocarri, e per otto mesi, dal 14 luglio 1994, con funzioni di asfaltista, pur ritenendo gli stessi periti che si sia trattato di una concausa, e con minore incidenza causale, unitamente al vizio del fumo ed all'azione dell'alcol». Ma esclusero che fosse ravvisabile l'elemento soggettivo della colpa: «pur essendo vero che l'imputato poteva rendersi conto dei rischi per la salute derivanti dalla prolungata esposizione a fumi di sostanze bituminose e maleodoranti, il giudizio sulla responsabilità o meno dell'imputato non poteva che derivare dall'esame della situazione specifica con riferimento alle uniche due violazioni di legge imputabili, e cioè: l'aspirazione dei gas (art. 20 D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303, ora punto 2.1.5. dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008); la fornitura di mezzi personali di protezione, in particolare maschere protettive della respirazione (artt. 377 e 387 D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547; art. 4 D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303)»; «in ordine all'aspirazione dei gas, i lavori venivano eseguiti all'aperto, con spargimento del bitume sul quale passava poi un rullo compressore per la stesura sulle strade, modalità ancora in corso all'epoca della sentenza di secondo grado, per la quale quindi non è possibile l'adozione di cappe di aspirazione o di altri congegni idonei ad assorbire le esalazioni»; «per ciò che concerne le mascherine, le stesse sarebbero state sufficienti a riparare il lavoratore deceduto e i suoi colleghi dalle particelle e dalle polveri, ma non dai sottili gas mefitici, che attraverso vestiti e cute avrebbero comunque raggiunto ugualmente l'organismo dei presenti»; «inoltre, il lavoratore deceduto si tratteneva per breve tempo sui luoghi di lavoro, avendo effettuato per quasi tutta la durata del rapporto di lavoro l'attività di autista». Pertanto, a dire dei giudici di appello, «la caratteristica di saltuarietà delle occupazioni, il connotato di lavoro all'aperto, l'impossibilità di raccogliere le esalazioni con sistemi meccanici di convogliamento e l'inutilità pratica delle mascherine, mai adoperate da alcuno, impediscono di ritenere la colpa del datore di lavoro, essendo tra l'altro l'evento dovuto, anche secondo la tesi dei periti, alla concomitanza di altri fattori scatenanti, e cioè fumo ed alcol». Infine, «anche sotto il profilo della prevedibilità e della colpa, la modesta occasione di esposizione al rischio poteva apparire insufficiente a cagionare un grave danno alla salute».

    Su ricorso del Pubblico Ministero, la Sez. IV annulla la sentenza della Corte d'Appello con rinvio ad altra sezione della stessa Corte d'Appello, in quanto tale sentenza, «da un lato, esclude la colpa quale elemento psicologico del reato (art. 43 c.p.), ma poi cita, per sostenere tale tesi, argomenti riguardanti il nesso di causalità (art. 40 c.p.)». Osserva al riguardo che la Corte d'Appello «attribuisce una condotta negligente ed imprudente al datore di lavoro, ma poi esclude che tale comportamento abbia influito sul verificarsi dell'evento letale»; e che a dire della Corte d'Appello le norme di cui agli artt. 4 e 20 D.P.R. n. 303/1956 «non sono state osservate in quanto, trattandosi di lavori che si svolgono all'aperto, non è possibile adottare cappe di aspirazione o altri congegni idonei ad assorbire le esalazioni, e che fornire mascherine ai lavoratori non avrebbe impedito ai lavoratori di esser colpiti in altre parti del corpo da polveri sottili»: «è pacifico che nessuna misura antinfortunistica è stata adottata, ma la Corte di merito motiva tale inosservanza (e la giustifica) con una impossibilità di impedire l'evento, che, prima di tutto è questione attinente al nesso di causalità ex art. 40 c.p., e, in secondo luogo, l'argomento non è sorretto da adeguata e logica motivazione, in quanto va spiegato, ad esempio, perché l'uso di tute termoregolatrici non era utilizzabile nella specie, in quanto -proprio rifacendosi al ragionamento contenuto nella sentenza impugnata- tale cautela avrebbe potuto impedire l'evento». A questo punto, eloquentemente, la Sez. IV ricorda che «la nostra Costituzione ritiene la salute un fondamentale diritto dell'individuo e un interesse della collettività (art. 32) per cui non è consentito trascurare alcuna cautela che possa evitare di causare danni alla persona, tanto più se si tratta di danni letali». Nota che «i lavori espletati dalla società dell'imputato erano di natura altamente pericolosa, e la stessa sentenza impugnata ne dà atto, ma giustifica le condotte negligenti ed imprudenti con la difficoltà di un diverso espletamento e con la costante prassi lavorativa». Ribatte che, «se si accogliesse tale tesi, la più frequente causa di incidenti di lavoro (caduta da impalcature) sarebbe giustificata, essendo prassi costante non osservare le norme di cautela (uso di funi, scarpe che fissano al suolo, elmetti, ecc.)», e che «in realtà l'osservanza di tali cautele crea un notevole rallentamento dei tempi lavorativi, per cui, con elevato grado di imprudenza, datori di lavoro e lavoratori preferiscono non adottarli», «ma indubbiamente la tutela dell'integrità fisica deve prevalere sull'interesse ad una sollecita esecuzione della attività lavorativa».

    La conclusione è che la Corte d'Appello «perviene ad una motivazione manifestamente illogica, allorché riconosce le violazioni della normativa antinfortunistica, e poi dichiara che non si ravvisa la sussistenza dell'elemento psicologico della colpa». E «a ciò aggiunge valutazioni inerenti al nesso di causalità, che in assenza della colpa non sarebbero neppure da prendere in considerazione, per cui è da riesaminare l'intero impianto motivazionale». Del pari significativa è una precisazione concernente «un'ultima manifesta illogicità della sentenza impugnata, e cioè il richiamo alle conclusioni peritali, secondo le quali l'esposizione al rischio lavorativo da parte del lavoratore deceduto sarebbe stato solo una concausa dell'evento, avendo inciso anche il vizio del fumo e l'assunzione di alcol». In proposito, la Sez. IV sottolinea che «l'art. 41, comma 1, c.p. dispone che `il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento', tranne che per la particolare ipotesi di cui al comma 2 (causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento)». Ne desume che, «qualora si ravvisa la colpa, o sussiste tale ultima ipotesi (che invero dalla stessa motivazione della sentenza impugnata non appare calzante) ovvero si applica il principio di `equivalenza delle cause', che ai fini penali non consente di escludere la responsabilità di chi abbia comunque prodotto l'evento anche se con incidenza di minore rilevanza». (Sul punto, con riguardo al caso del tumore polmonare in lavoratore fumatore esposto ad amianto, v. Cass. 14 gennaio 2003, Macola e altro, in Dir.prat.lav., 2003, 16, 1057, ove si rileva che «anche per coloro che avessero in ipotesi l'abitudine del fumo di tabacco, l'esposizione alle inalazioni di amianto aveva avuto quantomeno efficacia di concausa con effetto sinergico»).

    Il titolare di una falegnameria -condannato per la mancata adozione di sistemi per la riduzione delle polveri più violazioni antinfortunistiche- sostiene che in realtà esistevano degli aspiratori mobili.

    La Sez. III replica che, «quand'anche tali aspiratori mobili fossero stati presenti, il reato sarebbe stato ugualmente configurabile, perché la legge impone l'adozione di tutti i sistemi più utili ed efficaci per ridurre al minimo i rischi per la salute dei lavoratori, e quindi di dotare le macchine di congegni fissi per la captazione delle polveri prodotte, trattandosi di congegni regolarmente previsti per il tipo di macchine utilizzate».

    I legali rappresentanti ed amministratori di un'azienda -ritenuti dal G.I.P. del Tribunale di Brescia colpevoli del reato di omicidio colposo in pregiudizio di un dipendente- furono assolti dalla Corte d'Appello di Brescia «perché il fatto non costituisce reato», sul presupposto di una insussistenza della componente soggettiva del reato loro contestato e, in particolare, in base alla «considerazione che, all'epoca in cui (e, precisamente, dal 1969 al 1971) la persona offesa aveva lavorato alle dipendenze della predetta ditta, non erano scientificamente accertate e conosciute le conseguenze che sull'insorgenza e lo sviluppo di patologie tumorali potevano derivare dall'inalazione ed assimilazione di polveri di amianto anche a bassa concentrazione» e dunque per «difetto del requisito della prevedibilità di quei perniciosi effetti, che della colpa costituisce uno degli elementi costitutivi».

    Su ricorso del Pubblico Ministero, la Sez. IV annulla con rinvio la sentenza assolutoria della Corte d'Appello di Brescia. Rileva che tale sentenza «si fonda sostanzialmente sulla mancanza di una legge scientifica del tempo che dimostrasse la correlazione tra l'esposizione, ancorché non continuativa, alle polveri di amianto ed il rischio di causazione di affezioni tumorali», ed «è giunta alla ulteriore conclusione di escludere la necessità da parte dei due imputati, nella qualità di datori di lavoro della persona offesa, della predisposizione di misure protettive mirate alla prevenzione di quelle patologie».

    Replica che «l'art. 21 D.P.R. n. 303/1956, all'epoca vigente, prescriveva l'obbligo per i datori di lavoro di adottare tutti gli accorgimenti idonei ad evitare l'inalazione di polveri insalubri nell'ambiente di lavoro, mentre nella fattispecie, come accertato, nessuna cautela protettiva delle vie respiratorie era stata approntata tra quelle previste dalla norma suddetta e dall'art. 4, lettere e), d), della cui violazione era stato fatto carico agli imputati nel capo di imputazione».

    Aggiunge che, «ai fini dell'integrazione dell'elemento della colpa, non era necessario che gli imputati si fossero specificamente prefigurati il rischio di insorgenza di tumori, essendo sufficiente la consapevolezza e, quindi, la prevedibilità della generale nocività della respirazione delle polveri originate dall'attività lavorativa svolta dal lavoratore senza fare uso di mascherina respiratoria alle `presse' della ditta, a prescindere dal grado di lesività delle polveri stesse, le quali normalmente erano rilasciate nell'ambiente di lavoro nel corso della sostituzione, a cui provvedeva la stessa persona offesa con cadenza mensile, dei cartoni di amianto usurati con altri nuovi ritagliati al momento (facendo uso, addirittura, di pistola ad aria compressa per liberare il piano di lavoro dalle polveri)».

    Ne desume, «al contrario di quanto erroneamente divisato dai giudici di appello in tema di elemento psicologico del reato, la piena applicabilità della norma cautelare citata ed il correlato radicamento della colpa in forma specifica in capo agli imputati, nella loro qualità contestata nel capo di imputazione».

    La conclusione è che «a rimediare all'individuato errore interpretativo provvederà altra Sezione della Corte di Appello di Brescia, cui gli atti vanno trasmessi per nuovo esame dell'impugnazione proposta nell'interesse degli imputati avverso la sentenza di condanna di primo grado nei loro confronti emessa».

    Tra le tematiche al centro del dibattito nei procedimenti penali aventi per oggetto i tumori a possibile eziologia professionale, fa spicco quella relativa alla colpa. In proposito, la Sez. IV sottolinea che, «ai fini della imputazione soggettiva dell'evento al soggetto agente, ai sensi dell'articolo 43 c.p., la prevedibilità dell'evento dannoso, ossia la rappresentazione in capo all'agente della potenzialità dannosa del proprio agire, può riconnettersi anche alla probabilità o anche solo alla possibilità (purché fondata su elementi concreti e non solo congetturali) che queste conseguenze dannose si producano, non potendosi limitare tale rappresentazione alle sole situazioni in cui sussista in tal senso una certezza scientifica», e che «le regole che disciplinano l'elemento soggettivo hanno funzione precauzionale e la precauzione richiede che si adottino certe cautele per evitare il verificarsi di eventi dannosi, anche se scientificamente non certi ed anche se non preventivamente e specificamente individuati».

    Precisa che «tale possibilità deve possedere il requisito della concretezza, nel senso che è richiesta la concretezza del rischio», e che, «in tema di ambiente e di tutela della vita e della salute dei consociati, il rischio diviene concreto anche solo laddove la mancata adozione delle cautele preventive possa indurre il dubbio concreto della verificazione dell'evento dannoso», nel qual caso «anzi l'obbligo di prevenzione a carico dell'agente non può limitarsi solo ai rischi riconosciuti come sussistenti dal consenso generalizzato della comunità scientifica costituente, a seguito della interpretazione giurisprudenziale solo uno dei criteri utilizzabili dal giudice per avere conferma della validità della prova scientifica e alla adozione delle sole misure preventive generalmente praticate».

    Spiega che «l'obbligo di prevenzione è di tale spessore che non potrebbe neppure escludersi una responsabilità omissiva colposa del datore di lavoro allorquando questi tali condizioni non abbia assicurato, pur formalmente rispettando le norme tecniche, eventualmente dettate in tema dal competente organo amministrativo, in quanto, al di là dell'obbligo di rispettare le suddette prescrizioni specificamente volte a prevenire situazioni di pericolo o di danno, sussiste pur sempre quello di agire in ogni caso con la diligenza, la prudenza e l'accortezza necessarie ad evitare che dalla propria attività derivi un nocumento a terzi ed in primis ai lavoratori»: obbligo da «ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche nel caso in esame art. 21 del D.P.R. n. 303/1956 [ora punto 2.2. dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008] proprio, più generalmente, al disposto dell'art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'articolo 40, comma 2, c.p.».

    Rileva ancora che «il principio della concretizzazione del rischio va inteso con criteri di ragionevolezza, interpretando la regola cautelare non in senso formale e statico, ma secondo la sua ratio e secondo criteri che tengano conto dell'evoluzione della conoscenze e della possibilità di ricondurre comunque l'evento alle conseguenze della violazione della regola di condotta, anche se infrequenti e non previste anticipatamente, purché non siano completamente svincolate dallo scopo perseguito nella redazione della regola cautelare». Sotto tale profilo, «distingue, proprio in funzione della ratio, le regole cautelari per cosi dire `aperte', nelle quali la regola è dettata sul presupposto che esistano o possano esistere conseguenze dannose non ancora conosciute, ed altre c.d. `rigide', che prendono in considerazione solo uno specifico e determinato evento». E nota che «gli artt. 19 e 21, D.P.R. n. 303/1956 [ora, rispettivamente, nell'ordine, i punti 2.1.4. e 2.2. dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008], oggetto di contestazione agli imputati, rientrano nella prima categoria, limitandosi a dettare le regole di condotta in termini generali in relazione alla astratta possibilità del verificarsi di eventi dannosi, anche di quelli ignoti al legislatore dell'epoca, essendo già riconosciuta l'idoneità dell'amianto a provocare gravi patologie».

    La conclusione è che, «in sede di rinvio il giudice, dovrà, in tal senso, apprezzare, alla luce delle osservazioni sopra formulate, se la mancata eliminazione o riduzione significativa, della fonte di assunzione comportava il rischio del tutto prevedibile dell'insorgere di una malattia gravemente lesiva della salute dei lavoratori addetti e se il tipo di evento lesivo effettivamente verificatosi, che ha condotto alla morte il lavoratore, rientri tra quelli che la regola cautelare citata mirava a prevenire».

    Questa sentenza - relativa ai tumori professionali in lavoratori dello stabilimento industriale del petrolchimico di Porto Marghera - rimprovera più «errori» alla sentenza pronunciata in primo grado dal Tribunale in tema di colpa. Primo errore: aver dubitato - «se si è ben compreso l'argomentare» della sentenza di primo grado - «della tipicità -della determinatezza» delle norme dettate dagli artt. 20 e 21, D.P.R. n. 303/1956 [ora, rispettivamente, nell'ordine, i punti 2.1.5. e 2.2. dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008], «nel senso di ritenere non descritta sufficientemente la condotta richiesta».

    La Sez. IV premette che, «se così fosse, la conseguenza non sarebbe certo la disapplicazione della norma, ponendosi invece un problema di legittimità costituzionale della medesima». Osserva sapientemente che «la formula `per quanto possibile' utilizzata dagli artt. 20 e 21 significa che l'agente deve far riferimento alle misure idonee in base alla miglior scienza ed esperienza, conosciute all'epoca della condotta, per ridurre il più possibile le esposizioni; e ciò indipendentemente dal costo». Ritiene «ovvio che il legislatore non poteva che prevedere una fattispecie di tipo aperto che tenesse conto dell'evoluzione delle conoscenze e soprattutto dell'evoluzione tecnologica», e che, «se una sostanza è tossica - e purtuttavia ne è consentita la manipolazione - l'agente dovrà fare riferimento, nel momento in cui opera, ai mezzi di prevenzione esistenti e se ne esistono di idonei ad eliminare l'esposizione dovrà eliminarla; diversamente dovrà ridurla nei limiti in cui lo consentono i mezzi conosciuti che siano disponibili in quel momento», fatto «l'obbligo di eliminare l'esposizione, eventualmente, quando, successivamente, l'evoluzione tecnologica avrà consentito di creare mezzi idonei ad eliminarla».

    Secondo errore: «per far sorgere l'obbligo prevenzionale, occorre fare riferimento al `patrimonio scientifico consolidato' quale criterio per imporre l'adozione della regola cautelare per impedire un evento che solo allora diviene prevedibile». In proposito, la Sez. IV rileva che «l'adozione di questo criterio costituisce un'indebita trasposizione delle regole che governano l'accertamento della causalità al tema della colpevolezza». Argomenta che, «le regole che disciplinano l'elemento soggettivo hanno natura non di verifica a posteriori della riconducibilità di un evento alla condotta di un uomo, ma funzione precauzionale e la precauzione richiede che si adottino certe cautele, anche se è dubbio che la mancata adozione provochi eventi dannosi», e che (a differenza dell'addebito oggettivo per il quale, sotto il profilo della causalità, è necessario accertare che l'evento non si sarebbe verificato con elevato grado di credibilità razionale se fosse stata posta in essere la condotta richiesta) ben inferiore è la soglia che impone l'adozione della regola cautelare».

    Terzo errore: fare «riferimento, nell'indicare il livello di diligenza esigibile, alle applicazioni tecnologiche generalmente praticate ed agli accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, correlati all'osservanza degli standards di sicurezza delle diverse attività per conseguire l'esclusione del verificarsi dell'evento». La Sez. IV afferma che «l'errore consiste nell'aver individuato le misure preventive esigibili non in quelle più adeguate ipotizzabili ma in quelle `generalmente praticate' in contraddizione con un principio ormai generalmente riconosciuto (non solo in Italia) secondo cui non possono essere convalidati usi scorretti o pericolosi anche se generalmente praticati»: errore, questo, che rifluisce sul secondo, «avendo, i primi giudici, omesso di considerare che da oltre quindici anni erano in vigore, nel nostro ordinamento, regole cautelari (gli artt. 20 e 21) che imponevano di ridurre le esposizioni `nei limiti del possibile'«. Quarto errore: aver ritenuto che «sarebbe scorretto addebitare all'imputato un evento sulla base di una norma destinata ad evitare eventi diversi anche se lesivi dell'integrità fisica, ma in un momento temporale in cui la possibilità di verificazione dell'evento, diverso da quello per il quale era prevista la norma, non costituisce patrimonio scientifico consolidato» (con la conseguenza che, nel caso di specie, il Tribunale ritenne che «l'impresa e gli imputati risultano aver adottato tempestive ed efficaci iniziative, non appena la cancerogenicità del cloruro di vinile monomero ebbe ad appalesarsi con un consistente fondamento scientifico»). Al riguardo, la Sez. IV - in sintonia, del resto, con un orientamento da sempre accolto dalla Suprema Corte, ma disatteso dal Tribunale (su questo consolidato orientamento, risalente nella sua prima formulazione a Corte Appello Torino, 29 novembre 1995, Giannitrapani e altri, inedita, ma ripetutamente accolto dal Supremo Collegio v., per tutte, già Cass. 22 ottobre 1997, P.M. in c. Barbotto Beraud, in ISL, 1998, 10, 557; e, tra le ultime, Cass. 2 ottobre 2003, Monti e altri, in Dir. prat. lav., 2003, 40, 2758; Cass. 14 agosto 2003, Giacomelli, ibid., 2003, 36, 2471) - insegna che «l'evento deve rientrare nel tipo di eventi che la norma cautelare mirava a prevenire (per es. il pericolo per la vita del soggetto tutelato o un grave danno alla sua salute), ma questi eventi non devono avere carattere di eccezionalità», e che «l'agente è rimproverabile se agisce in contrasto con regole cautelari sapendo (o dovendo sapere) che la sua condotta può avere conseguenze dannose anche se questi esiti della condotta non sono determinabili preventivamente purché si tratti di conseguenze del tipo di quelle prese in considerazione nel momento in cui la regola cautelare è stata redatta anche se non ancora interamente descritte e conosciute». Rileva come «il principio della concretizzazione del rischio vada inteso con criteri di ragionevolezza interpretando la regola cautelare non in senso formale e statico ma secondo la sua ratio e secondo criteri che tengano conto dell'evoluzione delle conoscenze e della possibilità di ricondurre comunque l'evento alle conseguenze della violazione della regola di condotta, anche se infrequenti e non previste anticipatamente, purché non siano completamente svincolate dallo scopo perseguito nella redazione della regola cautelare». Con efficacia così s'interroga: «ma che agente modello è quello che sottopone altri all'esposizione ad una sostanza già riconosciuta come nociva anche se le conseguenze dell'esposizione non sono ancora tutte completamente note? è possibile affermare, oggi, che solo tra alcuni decenni potrà ritenersi prevedibile una malattia provocata da un agente oggi conosciuto come nocivo ma i cui effetti siano ancora in parte sconosciuti?». Ne deduce che «il discrimine tra il versari in re illicita (la responsabilità oggettiva) e la colpa ipotizzabile solo in presenza della prevedibilità dell'evento e della realizzazione del rischio è costituito, nel caso di violazione di una regola cautelare, dalla circostanza che la norma sia redatta in previsione di uno specifico e determinato evento, poi concretamente verificatosi, oppure per un tipo di eventi che peraltro non sono tutti preventivamente individuabili», poiché, «trattandosi di regola cautelare `aperta', l'evento rientra nel tipo di eventi che la norma mira a prevenire e purché non sia completamente diverso da quelli presi in considerazione nella formulazione della regola di cautela e non costituisca uno sviluppo eccezionale della violazione la condotta dell'agente è `rimproverabiIe', perché era prevedibile che esistessero conseguenze, eventualmente non ancora conosciute o descritte, del medesimo tipo».

    Il punto 3 dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008 include norme del D.P.R. n. 547/1955 (Titolo VI, Capo III) in tema di «vasche, canalizzazioni, tubazioni, serbatoi, recipienti, silos». Anche a questo proposito non mancano i riferimenti giurisprudenziali:

    ``L'art. 64, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008 espressamente prevede che «il datore di lavoro provvede affinché i luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di cui all'art. 63, commi 1, 2 e 3»; a sua volta, la norma richiamata prevede al comma 1 che `i luoghi di lavoro devono essere conformi ai requisiti indicati nell'allegato IV'. Al punto 3.9.1. dell'allegato richiamato, con riferimento alle `vasche, canalizzazioni, tubazioni, serbatoi, recipienti e silos', è espressamente stabilito che i serbatoi e le vasche contenenti liquidi o materie tossiche, corrosive o altrimenti pericolose, compresa l'acqua a temperatura ustionante, devono essere provvisti di chiusure che per i liquidi e materie tossiche devono essere a tenuta ermetica e per gli altri liquidi e materie dannose essere tali da impedire che i lavoratori possano venire a contatto con il contenuto (3.9.1.1.); e di tubazioni di scarico di troppo pieno per impedire il rigurgito o traboccamento (3.9.1.2.). Infine, al punto 3.9.2., si precisa che, qualora per esigenze tecniche le disposizioni di cui al punto 3.9.1.1. non siano attuabili, devono adottarsi altre idonee misure di sicurezza. La difesa assume che tali norme non riguarderebbero il caso di specie, atteso che la disposizione sopra riportata avrebbe lo scopo di evitare che i lavoratori possano entrare in contatto con liquidi e sostanze pericolosi e richiama il punto 3.9.2. per affermare che le otto chiusure a tenuta ermetica possono essere sostituite da altre idonee, qualora per esigenze tecniche non siano attuabili le disposizioni di al punto 3.9.1.1. Da ciò inferisce altresì che, nella specie, le cautele erano state adottate (indicando però misure che riguardano la segregazione delle vasche e non la assicurazione delle coperture alle stesse) e che i coperchi costituirebbero i presidi di sicurezza da adottare per la non attuabilità delle cerniere. Trattasi di un assunto del tutto scollegato dalle evidenze probatorie e soprattutto ancora una volta inficiato dall'errore che ha riguardato la stessa sentenza appellata: nella specie, la sola apposizione della copertura non è stato considerato presidio adeguato a scongiurare i rischi contemplati dalle norme cautelari''.

    L'amministratore unico di una s.r.l. fu condannato per il delitto di omicidio colposo in danno di «un dipendente di una ditta di autotrasporti recatosi presso la s.r.l. per portare con un'autocisterna del liquido addittivante per calcestruzzi», il quale, «nell'eseguire le operazioni di travaso di detto liquido in una cisterna posta nei pressi di una vasta di raccolta delle acque di lavaggio decadenti dall'impianto di betonaggio, piena fino all'altezza di m. 2.20, vi era caduto dentro, ed era deceduto per annegamento, non sapendo nuotare». Si accertò che «la vasca in questione era priva di parapetto o altra protezione idonea ad impedire la caduta di persone al suo interno, in violazione dell'art. 242 D.P.R. n. 547/1955 [v. ora Allegato IV, punto 3.4), e che «il terreno intorno alla vasca era fangoso e, nei pressi della vasca e dell'autocarro, si trovava un bidone, sporco di fango, sul quale, probabilmente, era salita la vittima per eseguire le operazioni di travaso».

    La Sez. IV conferma la condanna, avuto riguardo, in particolare, alla «irregolare conformazione della vasca di raccolta delle acque, in quanto previa di parapetto o di altra protezione idonea ad impedire la caduta di persone all'interno della stessa, ciò in violazione dell'art. 242 D.P.R. n. 547/1955».

    Il caso riguarda due dirigenti dello stabilimento petrolchimico di Porto Marghera dichiarati colpevoli del reato di cui agli artt. 81, comma 2, e 437, comma 2, c.p., in quanto, «pur essendo pacificamente e da tempo emersa la necessità di sostituire la valvola denominata B della linea spurghi ammoniacali in quanto `trafilava' (vale a dire non teneva più) e pur essendo stata segnalata da uno di essi l'emergenza e quindi la priorità del necessario intervento, avevano invece omesso di intervenire con la tempestività e la decisione necessarie e avevano omesso di adottare o comunque di far adottare e collocare apparecchi e strumenti idonei destinati a prevenire disastri e infortuni sul lavoro, limitandosi a prevedere (ma comunque non a porre in essere) solo delle misure `tampone' provvisorie e insufficienti, quale l'intervento con il sistema cosiddetto della `doppia pinzatura' e del `saIcicciotto', sistema che non garantiva la tenuta», tanto che «da tali omissioni (e dalla mancata tenuta di un accoppiamento flangiato e della relativa guarnizione, che si ruppe a causa della usura e della mancata manutenzione) derivava una fuga di ammoniaca anidra NH3, sostanza notoriamente tossica e pericolosa, come risulta pure dalla scheda di sicurezza».

    Con la precisazione che «il motivo delle suddette omissioni si doveva al fatto che l'adozione dell'unico sistema sicuro di intervento avrebbe comportato la fermata di tutta la linea spurghi ammoniacali per un paio di giorni; e che dal fatto erano derivate molestie fisiche (bruciore agli occhi, forte lacrimazione, fastidio alle vie respiratorie) a una trentina di dipendenti di una ditta ubicata a circa un chilometro e mezzo dallo stabilimento petrolchimico, tanto che la relativa attività lavorativa doveva essere interrotta per alcune ore».

    Nel respingere i ricorsi degli imputati, la Sez. I affronta, in particolare, una questione concernente la qualificazione della valvola B come dispositivo di sicurezza destinato a prevenire infortuni o disastri. In proposito, la Sez. I osserva che, «dagli artt. 241, 244, 245, D.P.R. n. 547/1955 [ora, rispettivamente, nell'ordine, punti 1.1. dell'Allegato V, parte II, del D.Lgs. n. 81/2008; 3.8. dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008; 3.7. dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008], è lecito e assolutamente logico ricavare che gli impianti e le tubazioni soggette a pressione di liquidi, gas, vapori, devono possedere i necessari requisiti di resistenza e di idoneità all'uso cui sono destinati, e ciò in relazione alle condizioni di uso e alle necessità della sicurezza del lavoro (art. 241); che le tubazioni e le canalizzazione devono essere costruite e collocate in modo che non ne derivi danno ai lavoratori in caso di perdite di liquidi o fughe di gas, o di rotture di elementi dell'impianto (art. 244); e che le tubazioni e le canalizzazione chiuse che costituiscono una rete estesa devono essere provviste di dispositivi, quali valvole, rubinetti, saracinesche, atti ad effettuare l'isolamento di determinati tratti in caso di necessità (art. 245)». Aggiunge che «nessuna norma, tra quelle contenute nel D.P.R. n. 547/1955, giustifica. l'affermazione che per `dispositivo antinfortunistico' debba intendersi soltanto un dispositivo che abbia esclusivamente funzioni antinfortunistiche, e non anche un dispositivo che, presentando comunque indiscutibilmente una potenzialità antinfortunistica, svolga contemporaneamente anche specifiche e magari rilevantissime funzioni tecniche, ai fini dei funzionamento dell'impianto nel quale tale dispositivo è inserito».

    Osserva che «in una imponente industria chimica con, parrebbe, 400 o 500 km di tubazione, le valvole non possono non essere essenziali sia per la stessa funzionalità dell'impianto (a fini meramente tecnico-produttivi) sia per ragioni di sicurezza dei lavoratori e della collettività in generale», e che, «in ambito di sicurezza, associare ad una industria chimica il pericolo della perdita di liquidi o della fuga di gas è operazione mentale empiricamente e statisticamente fondata, istintiva e spontanea». Ammette che «nessuna norma giuridica e nessuna ragione di carattere tecnico imponevano di collocare, proprio in quel punto (nel punto dove era collocata la valvola B), una valvola a saracinesca», e che «nessuna norma prevede al metro o al centimetro dove installare le valvole», ma sottolinea subito che «il D.P.R. n. 547/1955 detta criteri generali e funzionali al fine di evitare danni alle persone in caso di rotture o fughe». E prende atto che «la valvola B era in prossimità del collettore principale degli spurghi ammoniacali ed era distante circa 200 metri dalla valvola al limite di batteria del reparto BC1 (reparto di produzione del cloruro di benzile, inattivo)», e che «entrambe le valvole, quindi, si trovavano sulla diramazione che conduce gli spurghi ammoniacali dal reparto BC1 al collettore che poi li convoglia al reparto AM4 (reparto di produzione dell'ammoniaca)», con la conseguenza che «rimane difficile ipotizzare che l'una o l'altra valvola siano superflue, essendo evidente la necessità di isolare il reparto e la diramazione» (vale a dire, di isolare sia a monte il reparto BC1, sia a valle la diramazione che conduce al collettore e, da lì, al reparto AM4).

    Avevano poi sostenuto gli imputati l'insussistenza «di un obbligo che avrebbe imposto la chiusura della valvola B, e l'irrilevanza causale della valvola stessa rispetto ai fatti oggetto di imputazione». Sotto il primo profilo, la Sez. I ribatte che «la norma giuridica di carattere generale che nel caso di specie imponeva la sostituzione e la chiusura della valvola B è l'art. 2087 c.c.» [v., ora, anche art. 2, comma 1, lettera n), D.Lgs. n. 81/2008]. E quanto al nesso causale, che «il reato di cui al comma 1 dell'art. 437 c.p. sussiste già per la sola omissione della sostituzione della valvola, e che la questione del nesso causale si pone per accertare la sussistenza della aggravante dell'avvenuto disastro o infortunio di cui al comma 2 della stessa norma».

    Tra i punti in cui si articola l'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008, basilare è il n. 4, dedicato alle «misure contro l'incendio e l'esplosione», anche per le cospicue ricadute sul regime sanzionatorio. Basti in proposito ricordare quel che già si è sottolineato all'inizio e, cioè, che l'art. 68, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008 contempla le sanzioni applicabili al datore di lavoro e al dirigente in caso di violazione dell' art. 64, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, e, dunque, in caso di violazione dell'obbligo di rendere conformi i luoghi di lavoro ai requisiti indicati nell'Allegato IV, ivi compresi i requisiti inclusi nel punto 4 dell'Allegato IV del D.Lgs. n. 81/2008 . Esaminiamo questa pronuncia della Corte Suprema (v., altresì, i precedenti richiamati sub artt. 43 e 63):

    Il presidente del consiglio di amministrazione di una s.r.l. è dichiarato colpevole del reato di cui agli artt. 358-359 D.P.R. n. 547/1955 [v. ora Allegato IV, punto 4.5], per aver omesso «di adottare idonee misure di sicurezza circa il deposito di materie infiammabili ed esplosive, nello specifico per la produzione e l'impiego di biogas, e di usare, per la lubrificazione delle macchine o parti di macchine o apparecchi in contatto con materie esplodenti o infiammabili, dei lubrificanti esenti da reazioni pericolose in rapporto alla costituzione ed alle caratteristiche delle materie stesse».

    La Sez. III - oltre a sottolineare che tale reato ha natura permanente - prende atto che, nel caso di specie, «emergeva l'insufficienza delle misure di sicurezza, che si imponevano in ragione della presenza nella distilleria di un impianto di accumulo di biogas - al fine di essere utilizzato come fonte di energia - prodotto dal processo di depurazione delle sostanze in lavorazione; in tale impianto il gas veniva eliminato costantemente con un processo di combustione a mezzo torcia a cielo aperto». Prende atto, altresì, «risultavano non compiutamente adottate tutte le misure di sicurezza imposte dalla presenza dell'impianto di biogas», e che, «in particolare, non era stato completato il bacino di contenimento ovverosia la realizzazione di un corpo ricettore nelle adiacenze del serbatoio medesimo evitando pericolose dispersioni; difettavano opere di recinzione complete e segnaletica di sicurezza tale da allertare dei pericoli chiunque si avvicinasse; le carenze strutturali rilevate erano tale da escludere che l'impianto di biogas potesse in quel momento funzionare in regime di sicurezza». Per giunta, «si rilevava la presenza di un deposito di oli lubrificanti -dunque, materie altamente infiammabili - contenuti in fusti e confezioni dislocati in ambienti valutati inidonei a quell'uso; anche in tale caso difettava il bacino di contenimento (per evitare dispersioni pericolose dei liquidi infiammabili), i locali erano sprovvisti di chiusure adeguate ad impedire l'accesso a personale non qualificato, mancava la segnaletica di sicurezza».

    Fine capitolo