1. Il datore di lavoro provvede affinché:
a) i luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di cui all'articolo 63, commi 1, 2 e 3;
b) le vie di circolazione interne o all'aperto che conducono a uscite o ad uscite di emergenza e le uscite di emergenza siano sgombre allo scopo di consentirne l'utilizzazione in ogni evenienza;
c) i luoghi di lavoro, gli impianti e i dispositivi vengano sottoposti a regolare manutenzione tecnica e vengano eliminati, quanto più rapidamente possibile, i difetti rilevati che possano pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori;
d) i luoghi di lavoro, gli impianti e i dispositivi vengano sottoposti a regolare pulitura, onde assicurare condizioni igieniche adeguate;
e) gli impianti e i dispositivi di sicurezza, destinati alla prevenzione o all'eliminazione dei pericoli, vengano sottoposti a regolare manutenzione e al controllo del loro funzionamento.
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
Sommario: 1. Obblighi del datore di lavoro - 2. Locatore di capannoni e macchinari .
Circa l'art. 64, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008 v. Cass. 4 luglio 2017, n. 32107; quanto all'art. 64, comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 81/2008 sono da esaminare:
``L'imputato, in qualità di responsabile per la sicurezza, nonché delegato dal datore di lavoro per l'attuazione delle misure di prevenzione, era il soggetto in azienda tenuto alla gestione del rischio infortuni. Ebbene, pur essendo consapevole del pericolo di `investimento' nel piazzale aziendale, tanto da averlo inserito nel documento di valutazione dei rischi, non si è attivato per predisporre una segnaletica orizzontale ed una cartellonistica che indicasse con chiarezza i passaggi per i pedoni, a distanza di sicurezza dal traffico veicolare; né si è attivato per controllare il rispetto delle misure di prevenzione e quindi la sicurezza delle manovre''.
Un datore di lavoro - condannato per la violazione dell'art. 64, comma 1, lett. a) e c), D.Lgs. n. 81/2008 per ``la mancata areazione con sistemi naturali dei locali destinati a spogliatoi servizi igienici e refettorio e il mancato controllo e manutenzione degli impianti elettrici onde prevenire il rischio di incendi ed esplosioni e rendere sicuro il loro uso da parte degli operai''- deduce a sua discolpa che ``i locali adibiti a spogliatoi, refettorio e servizi igienici erano dotati di un sistema di ventilazione forzata mediante aspirazione''. La Sez. III ribatte: ``Se è vero che il sistema di ventilazione forzata esisteva ed era regolarmente in funzione, è del pari vero che al momento del controllo non vi era un collegamento diretto tra tali sistemi artificiali e l'ambiente esterno. In ogni caso va ribadito il principio di diritto desumibile dal testo della norma incriminatrice secondo la quale i locali destinati ai lavoratori debbono essere sufficientemente areati mediante aria salubre ottenuta con aperture naturali. Ne consegue che eventuali accorgimenti tecnici quali aspiratori d'aria e sistemi di ventilazione forzata anche mediante uso di condizionatori d'aria impongono in ogni caso un collegamento diretto con l'esterno: esigenza particolarmente imperativa in relazione a locali che per loro intrinseca destinazione prevedono un uso da parte dei lavoratori foriero di odori stagnanti vuoi per l'affollamento (come nel caso di refettori) vuoi per le particolari attività umane esplicate al loro interno (locali spogliatoi e servizi igienici fonte di esalazioni maleodoranti). Nemmeno può considerarsi idoneo allo scopo un servizio di areazione collegato con altro sistema di areazione del complesso industriale a sua volta connesso con l'esterno, essendo invece necessario, proprio per la peculiare natura di determinati locali come quelli oggetto dell'accertamento, un collegamento diretto di essi con l'ambiente esterno e non in via indiretta''.
(Per un caso di ``impianto di abbattimento delle polveri sprovvisto di cabinatura con sfiato all'esterno'' v. Cass. 16 luglio 2015, n. 30883).
La Sez. III conferma la condanna di un componente del consiglio delegato alla sicurezza per i reati di cui agli artt. 64, comma 1, lett. a), b) e d) del D.Lgs. n. 81/2008, per avere, rispettivamente, omesso di provvedere affinché: ``i luoghi di lavoro dello stabilimento fossero sottoposti a regolare pulizia, onde assicurare condizioni adeguate: in particolare l'accesso dei carrelli elevatori all'interno dello stabilimento non era seguito da una regolare pulizia dei pavimenti, esponendo così i lavoratori alle polveri; il reparto preparazione pannelli dello stabilimento fosse conforme ai requisiti di cui agli artt. 63, commi 1, 2 e 3 dell'Allegato IV, punto 1.9.1.1. in quanto risultava privo di aria salubre ottenuta con aperture naturali; i luoghi di lavoro di altro stabilimento fossero sottoposti a regolare pulizia, onde assicurare condizioni adeguate, in particolare esponendo i lavoratori alle polveri; le vie di circolazione interne del secondo stabilimento, in prossimità delle linee di levigatura del materiale cotto fossero sgombre di materiali al fine di consentirne l'utilizzazione, in conformità ai requisiti di cui all'Allegato IV, punto 1.4.10''. Per cominciare, la Sez. III nota che, ``con riferimento alle condotte riguardanti l'osservanza di norme igieniche in materia di pulizia dei locali relativamente ai due stabilimenti, il tribunale ha, non solo rilevato la sussistenza dei reati - pur tenendo conto della peculiare natura delle attività svolte all'interno dei due stabilimenti produttivi, di per sé, di polveri derivanti dalla lavorazione dell'argilla e del cotto - ma ha anche evidenziato come dai precedenti controlli era risultata la mancanza di pulizia dei locali, segnalandosi la presenza di polveri diffuse non solo nei locali ma anche nelle attrezzature di lavoro quotidianamente utilizzate dai lavoratori che vi risultavano perennemente esposti, senza la predisposizione di alcuna cautela''. Rileva che, ``nonostante da parte del titolare dell'azienda fosse stato stipulato un contratto con una ditta di pulizie per i due stabilimenti, nulla era stato fatto per la soluzione dei problemi, peraltro accentuati dalla particolare natura delle attività intrinsecamente destinate alla produzione di polveri sottili''. Precisa che ``la tesi difensiva circa l'inevitabilità della presenza di polveri in relazione alla natura dell'attività industriale, non ha alcun pregio non soltanto perché l'omessa predisposizione di cautele ed accorgimenti atti, quanto meno, a limitare la presenza delle polveri, integra di per sé la contravvenzione sul piano della colpa per negligenza, ma soprattutto perché era proprio la particolare natura dell'attività industriale a dover imporre all'imputato, quale addetto alla sicurezza, una gestione particolarmente attenta e scrupolosa'', e che ``la prova del reato sta proprio nella sostanziale inerzia di iniziative atte a scongiurare il pericolo, laddove l'effettuazione delle pulizie di pavimenti e macchinari in uso quotidiano ai lavoratori addetti avrebbe certamente scongiurato il pericolo''. Efficacemente, nega qualsiasi ingresso a ``una tesi basata sul binomio produzione industriale = polvere costante, per giungere alla conclusione della inevitabilità di una situazione igienicamente non ottimale, in quanto l'esigenza di sicurezza (nel caso in esame di pulizia) è direttamente proporzionale alla intensa produzione di polvere: circostanza che avrebbe dovuto indurre ad una cautela ancora più intensa del normale''. Con riguardo, poi, ``alla violazione della norma che imponeva la predisposizione di un idoneo impianto di areazione nei locali di uno dei due stabilimenti'', la Sez. III mette in luce che ``la tesi difensiva fa leva sul fatto che i locali di quello stabilimento, a differenza di quelli siti in altro stabilimento, non fossero destinati alla produzione industriale ma solo a magazzino (o deposito) con conseguente accesso saltuario''. Chiarisce che ``anche nei locali interni al capannone interessato si svolgeva un'attività produttiva, sia pure meno intensa rispetto all'omologa attività svolta in altro plesso, con la conseguenza che la documentata inesistenza di aperture naturali rendeva il luogo insalubre in quanto del tutto privo di areazione nonostante i lavoratori vi accedessero sia pur non continuativamente''. Insegna che ``regola generale è quella secondo la quale qualsiasi locale adoperato dal lavoratore per lo svolgimento dell'attività, anche se in modo non abituale, presenti standards di salubrità minimali nella specie non presenti''. Aggiunge che, ``se davvero quel locale non fosse stato destinato alla produzione ma al deposito di materiale, sarebbe stato bastevole interdire l'accesso ai lavoratori per l'espletamento di attività mediante appositi cartelli''. Ultima questione: la presenza di ostacoli lungo le vie di circolazione dei lavoratori all'interno di uno stabilimento in prossimità del reparto levigatura. Sostiene l'imputato che le norme violate (art. 64, lettera b), del D.Lgs. n. 81/2008 e punto 1.4.10 dell'Allegato) congiuntamente interpretate non vanno intese nel loro significato assoluto (nel senso di una totale assenza di materiali ingombranti lungo le vie di circolazione) ma in senso relativo in modo da garantire una normale circolazione''. La Sez. III considera ``evidente la capziosità di tale ragionamento, in quanto lo scopo della norma non è tanto quello di assicurare una circolazione in una situazione di normalità, ma una normalità di circolazione in una situazione di eccezionalità o di pericolo, in modo che eventuali vie di fuga in caso di emergenza siano percorribili agevolmente''. Ne ricava che ``la presenza di ostacoli lungo il percorso, anche se collocati in modo tale da consentire passaggi a piedi, laddove posizionati in modo tale da rendere disagevole la circolazione, integrano la fattispecie''.
La legale rappresentante di una s.r.l. era stata condannata per il delitto di lesione personale colposa, poiché, ``in violazione dell'art. 64, D.Lgs. n. 81/2008, aveva consentito che nelle aree dello stabilimento, ove vi era traffico veicolare e di autocarri, non fossero segnalate vie di circolazione per i pedoni (con apposite strisce), così che un pedone veniva investito dall'autocarro condotto da un dipendente della società, provocandogli lesioni che determinavano l'amputazione dell'arto inferiore sinistro''. A sua discolpa, deduce che ``le aree di circolazione dei pedoni erano oggetto di segnalazione verticale, due dipendenti aziendali erano deputati a gestire il traffico nel piazzale, la disposizione dell'art. 64 cit. non prevede alcun obbligo di predisposizione di strisce pedonali''. Nel confermare la condanna dell'imputata, la Sez. IV precisa: ``L'art. 63, al comma 1, dispone che i luoghi di lavoro devono essere conformi ai requisiti indicati nell'Allegato IV. L'art. 64, lett. a), dispone che è obbligo del datore di lavoro di provvedere a che i luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di cui all'art. 63, commi 1, 2 e 3. Il richiamo operato all'allegato IV (disciplinante i requisiti dei luoghi di lavoro) è riferito specificamente ai punti 1.4.1. e 1.4.8., e tali regole di sicurezza prevedono che: - 1.4.1. Le vie di circolazione, comprese scale, scale fisse e banchine e rampe di carico, devono essere situate e calcolate in modo tale che i pedoni o i veicoli possano utilizzarle facilmente in piena sicurezza e conformemente alla loro destinazione e che i lavoratori operanti nelle vicinanze di queste vie di circolazione non corrano alcun rischio; - 1.4.8. Le zone di pericolo devono essere segnalate in modo chiaramente visibile. L'assenza di segnaletica orizzontale, segnalante il percorso sicuro destinato ai pedoni nell'area di parcheggio aziendale, impegnata da intenso traffico veicolare, ha costituito una violazione di specifiche regole cautelari, nonché di ordinaria diligenza, che hanno concretizzato il rischio che le dette misure miravano ad evitare. La circostanza che le norme di sicurezza impongano una segnalazione `chiaramente visibile' porta ad escludere che a tal fine fossero sufficienti cartelli in posizione verticale, essendo la segnaletica orizzontale quella immediatamente percepibile da parte di pedoni e conducenti di veicoli. Quanto all'invocata negligenza della vittima (ed a quella dell'investitore) quali cause escludenti la responsabilità dell'imputata, le norme di sicurezza mirano a prevenire situazioni di pericolo che sono determinate in primo luogo proprio dalla disattenzione dei soggetti coinvolti. La negligenza dei due protagonisti dell'incidente, ai fini di prevenzione, non può essere considerato un fatto imprevedibile''.
Una dipendente dell'ASL, nel cortile antistante i locali di alcuni dipartimenti di tale ASL, nel recarsi verso l'uscita, inciampò su di un mattone divelto cadendo rovinosamente a terra. Per il delitto di lesione personale colposa fu condannato il dirigente del dipartimento di salute mentale «per colpa consistita nella violazione dell'art. 8, comma 9, D.P.R. n. 547/1955 come sostituito dall'art. 33, comma 3, D.Lgs. n. 626/1994», e, segnatamente, per aver omesso «di comunicare tempestivamente al competente servizio tecnico lo stato di sconnessione delle piastrelle costituenti la pavimentazione del cortile interno di passaggio adiacente al luogo di lavoro, di tal che la dipendente si procurava lesioni inciampando su di una mattonella sconnessa e cadendo a terra». A sua discolpa, l'imputato lamenta che «il D.P.R. n. 547/1955 era stato abrogato dall'art. 304, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2006 ad eccezione delle disposizioni tecniche in esso contenute ex art. 3, comma 3, dello stesso D.Lgs., tra le quali non sono annoverabili quelle contestate all'imputato». La Sez. IV replica che «l'art. 304, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008 ha abrogato il D.P.R. n. 547/1955 il cui art. 4 prevede la responsabilità dei dirigenti e gli artt. 8 e 389 la contravvenzione, fatte salve (art. 3, comma 3) `le disposizioni tecniche' di esso fino al termine del comma 2 dell'art. 3 dell'aprile 2009 (12 mesi dall'entrata in vigore del decreto)»; che «la norma di cui all'art. 8 D.P.R. n. 547/1955 è stata sostituita dal D.Lgs. n. 626/1994 (anch'esso abrogato ut supra) in termini consimili»; e, quindi, che «le disposizioni del testo legislativo in base al quale sono stati formulati i capi di imputazione sono stati abrogate dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 304, comma 1, lettera a), ma le violazioni ascritte all'imputato trovano tutte testuale rispondenza nelle previsioni del citato decreto legislativo e precisamente la contravvenzione di cui all'art. 8 D.P.R. n. 547/1955 in quella di cui all'art. 64, lettere a) e c), laddove le sanzioni sono previste dall'art. 68, comma 1, lettera b), del decreto legislativo citato, che commina pene più gravi (pena pecuniaria superiore e in alcuni casi anche quella detentiva)», «sicché vi è piena continuità normativa, ai sensi dell'art. 2 c.p., tra la previsione delle fattispecie penali abrogate e quelle attualmente vigenti». (È da notare, peraltro, che, ai fini qui in considerazione, non appare a ben vedere rilevante il richiamo all'art. 3, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008, concernente le «disposizioni tecniche del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1955, n. 547, e del decreto del Presidente della Repubblica 7 gennaio 1956, n. 164, richiamate dalla legge 26 aprile 1974, n. 191 e dai relativi decreti di attuazione», aventi per oggetto la «prevenzione degli infortuni sul lavoro nei servizi e negli impianti gestiti dalla Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato»).
Un datore di lavoro, rappresentante legale di una s.p.a., è condannato per il reato di cui all'art. 32, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 626/1994, «perché non adeguava i rivestimenti dei tubi degli impianti di produzione guaine e dell'area di caricamento bitume danneggiati, con la coibentazione a vista, e non adeguava i tiranti a soffitto che presentavano numerose parti di coibentazione in avanzato stato di degrado».
La Sez. III rileva che il D.Lgs. n. 626/1994 è stato abrogato dall'art. 304, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008, che tuttavia la violazioni ascritta all'imputato trova testuale rispondenza nelle previsioni del citato decreto legislativo, e precisamente nel disposto dell'art. 64, comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 81/2008, che le sanzioni sono previste dall'art. 68, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008, sicché vi è piena continuità normativa tra la previsione della fattispecie penale abrogata e quella attualmente vigente. (Conforme Cass. 17 settembre 2014, n. 38100).
Si veda, altresì, sub art. 2, al paragrafo 20, Cass. 16 dicembre 2013, n. 50597.
Condannato per le contravvenzioni di cui agli artt. 70, comma 2, e 64, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008), il proprietario di un capannone ceduto in locazione lamenta che ``ambedue le fattispecie in esame disegnano una figura di reato proprio, ascrivibile unicamente al datore di lavoro, essendo quest'ultimo a doversi curare di non mettere a disposizione dei suoi addetti dei macchinari obsoleti e di destinare all'attività lavorativa dei luoghi di lavoro conformi alla disciplina normativa'', e che, quindi, ``pur volendo ammettere che i macchinari fossero stati forniti, unitamente al fabbricato'', ``sarebbe stato onere del datore di lavoro farne verificare l'idoneità all'uso e la conformità a legge, e parimenti analogo controllo avrebbe dovuto effettuare il medesimo datore di lavoro prima di avviare l'attività di pulitura metalli con impianti di aspirazione non idonei''. Deduce ancora che ``la sanzione applicabile avrebbe dovuto essere quella di cui all'art. 72 D.Lgs. n. 81/2008, non quella prevista per il datore di lavoro''. Anzitutto, nel far richiamo all'art. 64, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, la Sez. III afferma che ``il soggetto tenuto a provvedere affinché i luoghi di lavoro siano conformi ai requisiti di buono stato di conservazione ed efficienza è il datore di lavoro''. Rileva come ``la circostanza che il locale - luogo di lavoro non conforme a tali requisiti - sia di proprietà di terzi, non esclude la responsabilità del proprietario-locatore a condizione che il medesimo rivesta anche la qualifica di datore di lavoro''. Spiega che ``al datore di lavoro incombono gli obblighi indicati nell'art. 64, tra cui quello di garantire la conformità ai requisiti di cui al punto 2.2. dell'All. IV al TUSL''. Quanto poi alle attrezzature di lavoro, la Sez. III, in base agli artt. 70, commi 1 e 2, 71, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, afferma che ``grava sul datore di lavoro l`obbligo di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi ai requisiti di cui all'articolo precedente, idonee ai fini della salute e sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere o adattate a tali scopi che devono essere utilizzate conformemente alle disposizioni legislative di recepimento delle direttive comunitarie''. Aggiunge che ``la figura del `concedente in uso' è contemplata, quanto alle attrezzature di lavoro, dall'art. 72 TUSL'', ma che, in caso d'inosservanza dell'art. 72, il D.Lgs. n. 81/2009, all'art. 87, comma 7, contempla una sanzione pecuniaria amministrativa. Con la conseguenza che, ``quand'anche fosse certa la prova della locazione delle attrezzature da parte dell'imputato, la relativa violazione avrebbe al più comportato nei confronti del medesimo l'irrogazione di una sanzione amministrativa''.
(Per completezza, è da notare che, in forza dell'art. 23, D.Lgs. n. 81/2008, ``sono vietati la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro'', e ``in caso di locazione finanziaria di beni assoggettati a procedure di attestazione alla conformità, gli stessi debbono essere accompagnati, a cura del concedente, dalla relativa documentazione''. Sicché a questo punto diventa determinante individuare il concetto di ``impianti'' e di ``beni'').