1. In caso di esercizio dell'azione penale per i delitti di omicidio colposo o di lesioni personali colpose, se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro o che abbia determinato una malattia professionale, il pubblico ministero ne dà immediata notizia all'INAIL ed all'IPSEMA, in relazione alle rispettive competenze, ai fini dell'eventuale costituzione di parte civile e dell'azione di regresso.
2. Le organizzazioni sindacali e le associazioni dei familiari delle vittime di infortuni sul lavoro hanno facoltà di esercitare i diritti e le facoltà della persona offesa di cui agli articoli 91 e 92 del codice di procedura penale, con riferimento ai reati commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale.
GIURISPRUDENZA COMMENTATA
Sommario: 1. L'obbligo di informativa all'Inail da parte del P.M. - 2. Costituzione di parte civile e azione di regresso dell'Inail - 3. Costituzione di parte civile delle organizzazioni sindacali e di associazioni quali Anmil, Legambiente e Medicina Democratica - 4. Costituzione di parte civile della consigliera regionale di parità - 5. Costituzione di parte civile dei conviventi dell'infortunato - 6. Costituzione di parte civile di una società per molestie di un dipendente a danno di altro dipendente - 7. Riparazione del danno e somme erogate dall'Inail - 8. Risarcimento del danno da infortunio sul lavoro e transazione - 9. Il danno risarcibile - 10. Responsabilità civile dell'ente datore di lavoro - 11. Condanna al risarcimento dei danni, sospensione dell'esecuzione della condanna civile, provvisionale - 12. Sequestro preventivo o probatorio - 13. Sequestro conservativo di beni del datore di lavoro - 14. Lesione personale colposa, omicidio colposo, contagio da Covid-19 - 15. Il giudice di pace - 16. Ne bis in idem - 17. Rimessione ad altro giudice del processo - 18. Accusa contestata e fatto ritenuto in sentenza - 19. Frodi processuali non punibili, falsità, truffa, favoreggiamenti, sottrazione di cadavere, omissioni di soccorso, violenza privata - 20. Sentenza di non doversi procedere del GUP e mesotelioma pleurico - 21. Ricusazione dei periti o del giudice - 22. Ritrattazione in dibattimento del lavoratore infortunato - 23. Infortunio all'estero e sequestro probatorio - 24. Immanenza della parte civile e revoca formale o tacita della costituzione di parte civile - 25. Graduazione della pena e attenuanti generiche - 26. Responsabilità solidale - 27. Aggravante della violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro e il bilanciamento delle circostanze - 28. Attenuanti del fatto doloso del lavoratore e della riparazione del danno - 29. Attenuante della minima partecipazione al fatto - 30. Applicazione, reiterazione, diniego e subordinazione all'adempimento di obbligo risarcitorio della sospensione condizionale della pena - 31. I disastri in Cassazione: il problema della prescrizione e i rapporti con gli ecoreati; il pericolo di disastro - 32. Due Cassazioni in tema di tumori professionali - 33. Omissione dolosa di cautele antinfortunistiche - 34. I rapporti tra omissione dolosa di cautele antinfortunistiche e omicidio o lesioni colpose - 35. Sicurezza sul lavoro e non punibilità per particolare tenuità del fatto o per oblazione - 36. Indebolimento permanente di un senso o di un organo - 37. Acquisizione di sentenze o ordinanze a fini di prova - 38. Arresti domiciliari per infortunio mortale - 39. Utilizzabilità della denuncia d'infortunio - 40. Lesione personale colposa per malattia professionale - 41. Prescrizione e infortunio sul lavoro - 42. Chiamata in giudizio della società assicuratrice - 43. Messa alla prova - 44. Efficacia del giudicato penale in sede civile e rifusione delle spese legali - 45. Rinvio al giudice civile e regole di giudizio - 46. Disastro colposo e indagini difensive - 47. Violazioni antinfortunistiche e principio di specialità - 48. Accertamento di omicidio colposo e accertamento di violazione non costituente reato - 49. Giurisdizione dello Stato italiano e procedimento a carico di militare Nato - 50. Incompatibilità del consulente tecnico - 51. La direttiva 2012/29/UE - 52. Il fair trial - 53. La regola b.a.r.d. - 54. Istanza di revisione e nuove acquisizioni tecniche o scientifiche - 55. Il falso del consulente tecnico del P.M. .
``In ipotesi di esercizio dell'azione penale per i reati di omicidio colposo e lesioni colpose commessi con violazione delle norme antinfortunistiche, I'INAIL è legittimato a costituirsi parte civile e ad esercitare nel procedimento penale l'azione di regresso nei confronti del datore di lavoro eventualmente imputato, la sua legittimazione discendendo dall'art. 2 della L. 3 agosto 2007 n. 123, confermato dall'art. 61 D.Lgs. n. 81/2008, che ha imposto al pubblico ministero di informare a tal fine I'INAIL dell'avvenuto esercizio dell'azione penale per i reati menzionati''.
Un datore di lavoro - condannato per lesione personale colposa in danno di un dipendente infortunatosi - deduce che l'intervenuta violazione dell'art. 61, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008 non integrerebbe «un caso di mera irregolarità, ma una nullità di ordine generale a regime intermedio ex artt. 178, lettera c), e 180 c.p.p., tempestivamente dedotta». La Sez. IV replica che «non l'imputato, ma l'Inail è titolare dell'interesse processuale a dolersi dell'asserita inosservanza del disposto dell'art. 61, D.Lgs. n. 81/2008, mirando la disposizione a `stimolare l'eventuale costituzione di parte civile dell'istituto previdenziale in caso di procedimenti penali per delitti colposi concernenti l'incolumità personale dei lavoratori, commessi con violazione della normativa antinfortunistica'».
``Non configura l'ipotesi di revoca tacita della costituzione di parte civile per mancata presentazione delle conclusioni, allorché la parte stessa, in particolare nel giudizio di appello, concluda e si richiami alle conclusioni presentate all'atto della costituzione oppure quando siano verbalizzate le richieste orali relative al risarcimento del danno, alla concessione di provvisionale e alla rifusione delle spese''. ``L'INAIL si è costituito parte civile nel processo penale mediante l'esercizio del diritto di regresso scaturito dall'avere erogato al lavoratore le prestazioni assistenziali di istituto: e, per tale causa petendi, l'ente aveva titolo a proporre l'azione, dovendo ribadirsi che, In ipotesi di esercizio dell'azione penale per i reati di omicidio colposo e lesioni colpose commessi con violazione delle norme antinfortunistiche, l'INAIL è legittimato a costituirsi parte civile e ad esercitare nel procedimento penale l'azione di regresso nei confronti del datore di lavoro eventualmente imputato, la sua legittimazione discendendo dall'art. 2 della L. 3 agosto 2007 n. 123, confermato dall'art. 61 D.Lgs. n. 81/2008, che ha imposto al pubblico ministero di informare a tal fine l'INAIL dell'avvenuto esercizio dell'azione penale per i reati menzionati. La proposizione dell'azione civile tesa al risarcimento del danno differenziale non ha determinato la revoca tacita della costituzione di parte civile, dovendo al riguardo rilevarsi che l'azione tesa al risarcimento del danno differenziale è stata esperita dall'istituto nei confronti non dell'imputato, ma della società datrice di lavoro. In tale quadro, la diversità delle parti convenute nelle due azioni civili, quella introdotta nel processo penale e quella proposta in sede civile, esclude la possibilità di applicare l'art. 82, comma 2, c.p.p., posto che la revoca della costituzione di parte civile, prevista per il caso in cui l'azione venga promossa anche davanti al giudice civile, si verifica solo quando sussiste coincidenza fra le due domande ed è finalizzata ad escludere la duplicazione dei giudizi. Al riguardo, l'art. 75 c.p.p. prevede la sospensione del processo civile avviato nei confronti dell'imputato successivamente alla costituzione di parte civile, mentre nulla dispone per il caso in cui l'azione civile sia esercitata nei riguardi del responsabile civile. In corrispondenza, gli artt. 80 e 81 c.p.p. non prevedono che la parte civile debba essere estromessa dal giudizio penale nel caso in cui sia stato promosso un autonomo giudizio nella sede civile contro il responsabile civile. Ciò, ovviamente, non toglie che, se e quando l'INAIL, ove la condanna generica passasse in giudicato, iniziasse l'azione per la quantificazione dei danni nei confronti del datore di lavoro, questi potrà eccepire i titoli di già avvenuto ristoro in favore dell'istituto da parte della società da lui rappresentata. Al creditore non può essere impedito di procurarsi il titolo esecutivo nei confronti di ciascuno dei coobbligati, anche se sono tali per titolo diverso, salva - naturalmente - la conseguenza estintiva, in parte o in toto, dell'obbligazione che il pagamento effettuato da uno dei condebitori determina. L'ordinamento, in particolare, all'art. 1306 c.c. contempla espressamente e disciplina l'ordinaria possibilità, del resto insita nella natura del diritto soggettivo al risarcimento del danno maturato in capo al danneggiato e, per l'effetto, del diritto di regresso dell'assicuratore pubblico di munirsi di titolo esecutivo nei confronti di ciascun coobbligato solidale. Sussiste, pertanto, l'interesse del creditore a conseguire l'accertamento della responsabilità e la condanna al pagamento nei confronti di ciascun creditore, non necessariamente nel medesimo processo, fermi restando gli effetti liberatori generati dall'adempimento totale o parziale da parte di uno dei debitori. In questa prospettiva, in tema di obbligazioni solidali passive, per le quali costituisce regola fondamentale che tutti i debitori siano tenuti ad un medesima prestazione in modo che l'adempimento di uno libera tutti i coobbligati (art. 1292 c.c.), l'avvenuto pagamento determina l'estinzione ipso iure del debito anche nei confronti di tutti gli altri coobbligati; e questo effetto estintivo, rilevabile e deducibile anche in sede di legittimità atteso che l'eccezione di pagamento integra una mera difesa della quale il giudice deve tenere conto ove essa risulti comunque provata, anche in mancanza di un'espressa richiesta in tal senso - opera anche nei confronti del coobbligato che non si sia avvalso della facoltà di invocare, in altro giudizio di merito, l'estensione ex art. 1306 c.c. del giudicato già conseguito da un diverso debitore solidale''.
``L'INAIL ha esercitato l'azione di regresso ai sensi del combinato disposto degli artt. 61 D.Lgs. n. 81/2008 e 11 D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 e la somma riconosciuta, pari ad euro 178.12443, corrisponde all'indennità che l'Ente ha dimostrato di aver liquidato ai congiunti superstiti della vittima a norma dell'art. 10 D.P.R. n. 1124/1965. Tale somma, secondo i ricorrenti, non sarebbe stata interamente erogata ma rappresenterebbe la capitalizzazione di quanto l'Ente sarebbe tenuto a versare a titolo di rendita. Correttamente l'azione di regresso è stata accolta nei termini di cui sopra, posto che l'importo della rendita dovuta ai superstiti del lavoratore vittima di infortunio ed oggetto dell'azione di regresso dell'I.N.A.I.L., in quanto corrispondente non alla somma dei vari ratei della rendita stessa ma al suo valore capitale attuale (calcolato secondo una formula di capitalizzazione che sconta il trasferimento nell'attualità del valore di somme non ancora sborsate), costituisce oggetto di un credito dell'istituto previdenziale liquido ed esigibile''.
Nell'ambito di procedimento penale per patologie asbesto-correlate in uno stabilimento cantieristico, la Sez. IV osserva: ``Correttamente è stata rilevata la legittimità della costituzione come parte civile dell'Inail. Questa ha ad oggetto l'azione di regresso di cui agli artt. 10 e 11, D.P.R. n. 1124/1965, vera e propria azione di surrogazione ai sensi dell'art. 1916 c.c., a proposito della quale è stata richiamata la pertinente osservazione della sentenza di questa Corte n. 33311 del 2012 laddove ha rammentato che l'Inail ha l'obbligo imposto dalla legge sopra richiamata di corrispondere `le indennità previste ai lavoratori ed ai loro congiunti in caso di infortunio e malattia contratta sul o in occasione del lavoro, salvo il diritto di agire in regresso, sempre nei casi normativamente previsti, nei confronti dei garanti'. Non meno puntualmente è stata richiamata la pronuncia di questa Corte (Sez. IV, n. 47374 del 19 dicembre 2008) secondo la quale in caso d'esercizio dell'azione penale per i reati d'omicidio colposo e lesioni colpose commessi con violazione delle norme antinfortunistiche, l'Inail è legittimato a costituirsi parte civile e ad esercitare nel procedimento penale l'azione di regresso nei confronti del datore di lavoro eventualmente imputato. Né può trovare ingresso nel procedimento in esame alcun apprezzamento in ordine alla invocata responsabilità dell'Inail nella produzione dell'evento, trattandosi di tematica del tutto estranea all'oggetto del giudizio e, comunque, non rivestendo detto Istituto la specifica qualità di `organo di controllo'''.
``In virtù dapprima dell'art. 2, legge n. 123/2007, n. 123, e poi dell'art. 61, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, l'Inail (come l'Ipsema) si è visto riconoscere il diritto di innestare nel processo penale l'azione di regresso che l'art. 11 D.P.R. n. 1124/1965 gli attribuisce. Si tratta di un'innovazione del preesistente quadro normativo, posto che la giurisprudenza di legittimità era concorde nell'escludere che l'azione di regresso (e l'azione di surroga, prevista dall'art. 10 del citato D.P.R.) potesse essere portata nel processo penale. Quale che sia la funzione - costitutiva o dichiarativa - dell'art. 61, comma 1, cit., è certo che con esso si è manifestata la volontà del legislatore di conferire all'Inail la legitimatio ad causam nel processo penale al fine di far valere l'azione di regresso. Muovendo dall'assunzione del principio giurisprudenziale secondo il quale da quel quadro doveva desumersi l'assenza di collegamento tra le azioni spettanti all'Inail ed il processo penale, la Corte ha affermato che la nuova previsione attribuisce all'istituto la facoltà di agire in regresso anche nel processo penale attraverso la costituzione di parte civile, sì che l'Inail può ormai agire indifferentemente in sede penale o in sede civile per cercare di recuperare le somme erogate a titolo di prestazione previdenziale. Infatti, attraverso una ricognizione delle funzioni attribuite all'Inail, si è giunti a riconoscergli compiti di tutela del lavoratore, la cui protezione può giovarsi anche dello strumento della costituzione di parte civile e dell'esercizio dell'azione di regresso nella sede penale. Come già parte della dottrina, la valorizzazione in chiave prevenzionistica della stessa attività istituzionale dell'ente assicuratore permette di ricondurre anche l'inserzione dell'azione di regresso all'interno del processo penale al novero degli strumenti attraverso i quali l'ordinamento persegue un più elevato livello di prevenzione dei sinistri, giacché quella concorre ad incentivare l'adempimento dell'obbligo del datore di lavoro di adottare ogni misura idonea a prevenire gli infortuni e le malattie professionali. L'avviso che il pubblico ministero è tenuto a dare all'Inail, quindi, non ha soltanto lo scopo di rendere più agevole il compito dell'istituto di conoscenza degli incidenti verificatisi su tutto il territorio nazionale; esso è strumentale a consentire al medesimo di esercitare a propria scelta l'azione civile, di risarcimento o di regresso, nel processo penale ovvero in sede civile. Dalla ricostruzione del sistema che si è appena tratteggiata discende ancora: a) la conferma dell'esclusione della possibilità di innestare l'azione di surroga nel processo penale; b) non potendo incidere l'art. 61 sulle regole generali (leggasi artt. 74 c.p.p. e 185 c.p.) in forza delle quali può certamente accadere che l'Inail venga ad essere persona offesa del reato (si pensi ai reati di falso e ai reati previdenziali), è ben possibile che questo eserciti nel processo penale la ordinaria azione per il risarcimento del danno e le restituzioni. Sicché, dopo il chiarimento operato dalle Sez. Un., che ha argomentato facendo implicito riferimento alla correlazione inequivoca tra parte civile e azione di risarcimento del danno, appare opportuno aggiungere che il principio ivi posto deve trovare applicazione anche quando si tratti dell'azione di regresso dell'Inail, con la puntualizzazione che l'istituto è tenuto ad esplicare la causa petendi che sorregge l'azione''.
Utile è segnalare che la Corte Suprema ha riconosciuto in più casi alle organizzazioni sindacali e ad Associazioni la legittimazione a costituirsi parte civile nei procedimenti penali per i reati commessi in danno di lavoratori. Oltre a Cass. 14 febbraio 2019 n. 7048, v.:
Una datrice di lavoro di una s.r.l. condannata per omicidio colposo deduce il ``difetto di legittimazione dell'A.N.M.I.L. (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro), la quale non risulta avere un chiaro e specifico interesse pregiudicato dal reato, comunque rientrante nei propri scopi istituzionali''. Inoltre, sottolinea che la s.r.l. ``non è una pubblica amministrazione o un ente'', e che ``l'asserito discredito ricevuto dal reato e il pregiudizio all'immagine e alla reputazione, cui I'A.N.M.I.L. si era richiamata nel costituirsi parte civile, non hanno formato oggetto di alcuna argomentazione da parte del Tribunale''. La Sez. IV premette che ``la legittimazione a costituirsi parte civile dell'ente esponenziale è legata al fatto che la pretesa civilistica dell'ente nell'ambito del giudizio penale sia correlata alla compromissione di un proprio specifico interesse e di una propria finalità statutaria''. Ritiene che ``I'ANMIL, in relazione ai propri scopi associativi (tra i quali si riportano a mero titolo di esempio, nello statuto dell'Associazione, il perseguimento di `scopi di rappresentanza, assistenza morale e materiale delle vittime di infortunio sul lavoro o malattia professionale e loro familiari, e dei lavoratori esposti ai rischi professionali come singoli e come categoria', così come il `pieno riconoscimento del diritto alla previdenza ed assistenza sanitaria e sociale ed alla tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro'), fosse legittimata a costituirsi parte civile iure proprio in relazione al danno costituito dalla perdita di credibilità dell'azione di tutela delle condizioni di lavoro svolta con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie professionali''.
Infortunio in azienda agricola a un lavoratore assunto subito dopo essere condotto agonizzante in ospedale ove decede. Con riguardo alla costituzione di parte civile dell'ANMIL (Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro), la Sez. IV rileva che si tratta di ``ente che persegue scopi di assistenza morale a tutela dei lavoratori e delle vedove e orfani del lavoro'' e che ``fu individuato il danno in quello morale''. Riconosce ``la legittimazione del legale rappresentante dell'ente, spettando, in ogni caso, tale rappresentanza al presidente pro tempore dell'ente''. Quanto alla legittimazione e alla rappresentanza dell'ente esponenziale, precisa che ``la legittimazione degli enti e delle associazioni esponenziali deriva dal danno che essi hanno ricevuto ad un interesse proprio, sempreché tale l'interesse coincida con un diritto reale o comunque con un diritto soggettivo del sodalizio, e quindi anche se offeso sia l'interesse perseguito in riferimento a una situazione storicamente circostanziata, da esso sodalizio preso a cuore e assunto nello statuto a ragione stessa delta propria esistenza e azione, come tale oggetto di un diritto assoluto ed essenziale dell'ente'', e ``ciò sia a causa dell'immedesimazione fra l'ente stesso e l'interesse perseguito, sia a causa dell'incorporazione fra i soci ed il sodalizio medesimo, sicché questo, per l'affectio societatis verso l'interesse prescelto e per il pregiudizio a questo arrecato, patisce un'offesa e perciò anche un danno non patrimoniale dal reato''. Ricorda che, nel caso ThyssenKrupp, Sez. Un., 18 settembre 2014 n. 38343, ``partendo dal presupposto della riconosciuta tutelabilità degli interessi collettivi, senza la necessità di individuare l'esistenza di una norma di protezione, ma sulla scorta della diretta assunzione da parte dell'ente dell'interesse in questione, divenuto scopo specifico dell'associazione, ha operato una ricognizione dei passaggi giurisprudenziali che ne hanno fatto applicazione'', e che ``si è riconosciuta la legittimazione degli enti pubblici territoriali quali organismi esponenziali di una comunità gravemente turbata dallo sterminio di gran parte della popolazione di un comune, quella di un ordine professionale nel procedimento a carico di soggetto imputato di esercizio abusivo della professione, delle associazioni ecologiste, del sindacato unitario dei lavoratori di polizia in relazione alla appartenenza a tale organismo della vittima di violenza sessuale subita sul luogo di lavoro''. Ricorda, altresì, che ``si è ritenuta ammissibile, indipendentemente dall'iscrizione del lavoratore al sindacato, la costituzione di parte civile delle associazioni sindacali nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose, commessi con violazione della normativa antinfortunistica, quando l'inosservanza di tale normativa possa cagionare un danno autonomo e diretto, patrimoniale o non patrimoniale, alle associazioni sindacali, per la perdita di credibilità dell'azione di tutela delle condizioni di lavoro dalle stesse svolta con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie professionali''. Sottolinea, con riguardo all'ANMIL, che si è ``fatto espresso rinvio all'obiettivo di perseguire scopi di assistenza morale a tutela dei lavoratori'', e che ``la rappresentanza dell'ente è stata saldamente ancorata alla carica sociale ricoperta''. (La presente sentenza, nella parte che descrive i fatti, è riportata avanti, nel paragrafo 19; conforme, a proposito dell'ANMIL, Cass. 12 luglio 2019, n. 30633).
``Il sindacato è pienamente titolato ad agire per ottenere il rispetto delle prescrizioni sulla sicurezza e, conseguentemente, a richiedere tutela risarcitoria ove esse siano disattese. La legittimazione alla costituzione di parte civile è stata ritenuta sulla base della considerazione che l'ente, per il proprio sviluppo storico, per l'attività concretamente svolta e la posizione assunta avesse fatto proprio, in un determinato contesto storico, quale fine primario quello della tutela di interessi coincidenti con quello leso dallo specifico reato considerato, derivando da tale immedesimazione una posizione di diritto soggettivo che Io legittima a chiedere il risarcimento dei danni ad esso derivati. È ammissibile, senza il limite dell'iscrizione dell'infortunato al sindacato, la costituzione di parte civile del sindacato nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose commesse con violazione della normativa antinfortunistica, dovendosi ritenere che l'inosservanza di tale normativa nell'ambito dell'ambiente di lavoro possa cagionare un autonomo e diretto danno patrimoniale (ove ne ricorrano gli estremi) o non patrimoniale, ai sindacati per la perdita di credibilità dell'azione dallo stesso svolta. È pacifico che il sindacato annovera tra le proprie finalità la tutela delle condizioni di lavoro intese non soltanto nei profili collegati alla stabilità del rapporto e agli aspetti economici dello stesso, oggetto principale e specifico della contrattazione collettiva, ma anche per quanto attiene alla tutela delle libertà individuali e dei diritti primari del lavoratore tra i quali quello, costituzionalmente riconosciuto, della salute. Sotto tale profilo, l'art. 9 dello Statuto dei lavoratori ha costituito il primo riconoscimento della presenza organizzata dei lavoratori a tali fini, e l'indirizzo è stato poi rafforzato dal D.Lgs. n. 626/1994 e dal T.U. 9 aprile 2008. n. 81''.
Nell'ambito di un procedimento penale per infortunio plurimo occorso a lavoratori interinali dell'impresa appaltatrice e addebitato anche al rappresentante legale dell'impresa committente, l'imputato deduce ``l'erronea applicazione della legge ove era stata riconosciuta la ammissibilità della costituzione di parte civile del Sindacato, in assenza di lesione di un diritto soggettivo, avendo per oggetto il processo la lesione del bene vita e della integrità fisica di persone individuali ben determinate''. Nel respingere il ricorso dell'imputato, ``quanto alla censura relativa alla ritenuta legittimazione del sindacato (Camera del Lavoro provinciale CGIL) a costituirsi parte civile'', la Sez. IV richiama ``la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo la quale è ammissibile, indipendentemente dall'iscrizione del lavoratore al sindacato, la costituzione di parte civile delle associazioni sindacali nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose, commessi con violazione della normativa antinfortunistica, quando l'inosservanza di tale normativa possa cagionare un danno autonomo e diretto, patrimoniale o non patrimoniale, alle associazioni sindacali, per la perdita di credibilità dell'azione di tutela delle condizioni di lavoro dalle stesse svolta con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie professionali''. E con il giudice di merito osserva che ``la gravità dell'incidente, che ha visto vittime quattro operai impegnati in un'azienda di rilevante importanza, costituiva una circostanza idonea a minare la credibilità dell'operato del Sindacato in tema di sicurezza, dal che la legittimazione alla costituzione''.
``È ammissibile la costituzione di parte civile dei sindacati nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose commessi con violazione della normativa antinfortunistica, senza neppure la condizione dell'iscrizione dei lavoratori interessati, dovendosi ritenere che l'inosservanza di tale normativa nell'ambito dell'ambiente di lavoro possa cagionare un autonomo e diretto danno, patrimoniale (ove ne ricorrano gli estremi) o non patrimoniale, ai sindacati per la perdita di credibilità all'azione da essi svolta. E ciò in quanto il sindacato annovera tra le proprie finalità la tutela delle condizioni di lavoro intese non soltanto nei profili collegati alla stabilità del rapporto ed agli aspetti economici dello stesso, oggetto principale e specifico della contrattazione collettiva, ma anche per quanto attiene la tutela delle libertà individuali e dei diritti primari del lavoratore tra i quali quello, costituzionalmente riconosciuto, della salute: per l'effetto, la tutela delle condizioni di lavoro con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro ed alla prevenzione delle malattie professionali costituisce sicuramente uno dei compiti delle organizzazioni sindacali. Una tale conclusione trova conforto nell'art. 9 dello Statuto dei lavoratori, che ha costituito il primo riconoscimento normativo della presenza organizzata dei lavoratori ai fini dell'attuazione del diritto alla sicurezza sui luoghi di lavoro. Ma trova, altresì, conforto, sempre più incisivamente, nella previsione dell'elezione o della designazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con funzioni di accesso, consultazione e proposizione (cfr. dapprima il D.Lgs. n. 626/1994 e, poi, il D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81); nonché, nel ruolo attribuito, dal richiamato D.Lgs. n. 81/2008, alle organizzazioni sindacali, vuoi all'interno della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza del lavoro (art. 6), vuoi con la previsione del potere di interpello al Ministero del lavoro da parte delle stesse organizzazioni sindacali legittimate a formalizzare quesiti di ordine generale sull'applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza del lavoro (art. 12)''.
``È ammissibile, indipendentemente dall'iscrizione del lavoratore al sindacato, la costituzione di parte civile delle associazioni sindacali nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose, commessi con violazione della normativa antinfortunistica, quando l'inosservanza di tale normativa possa cagionare un danno autonomo e diretto, patrimoniale o non patrimoniale, alle associazioni sindacali, per la perdita di credibilità dell'azione di tutela delle condizioni di lavoro dalle stesse svolta con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie professionali. L'imputato richiama l'onere da parte del sindacato di dar prova di aver subito un danno diretto conseguente alla lesione ad un proprio interesse compreso o comunque legato ai propri scopi statutari e per sostenere pertanto, sull'assunto della mancanza di tale prova, l'infondatezza della pretesa risarcitoria. Tale assunto, però, non può essere condiviso, dovendosi invece tale lesione nel caso, quale quello di che trattasi, di infortunio sul lavoro derivante dalla violazione delle norme per la prevenzione e la sicurezza sui luoghi di lavoro - ritenere in re ipsa e con essa anche il conseguente pregiudizio, quanto meno potenziale e sub specie di danno non patrimoniale, salvi gli opportuni approfondimenti sull'entità dello stesso opportunamente demandati al separato giudizio civile. Come, infatti, condivisibilmente evidenziato proprio dall'arresto di Sez. IV, n. 12558 del 2010, è pacifico che il sindacato annovera tra le proprie finalità la tutela delle condizioni di lavoro intese non soltanto nei profili collegati alla stabilità del rapporto e agli aspetti economici dello stesso, oggetto principale e specifico della contrattazione collettiva ma anche per quanto attiene la tutela delle libertà individuali e dei diritti primari del lavoratore tra i quali quello, costituzionalmente riconosciuto, della salute. La tutela delle condizioni di lavoro con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e di prevenzione delle malattie professionali costituisce sicuramente, specie nel momento attuale, uno dei compiti delle organizzazioni sindacali, di ciò potendosi trovare ampio riconoscimento in plurime fonti normative - interne e sovranazionali, puntualmente richiamate nel cit. precedente - tra le quali: a) l'art. 9 dello Statuto dei lavoratori ha costituito il primo riconoscimento della presenza organizzata dei lavoratori a tali fini, consentendo la costituzione di proprie rappresentanze con il compito di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca al fine della migliore tutela della loro salute e integrità fisica; b) la direttiva CEE n. 391 del 2 giugno 1989 che, con riferimento alla sicurezza sul lavoro, sollecitava gli Stati a garantire ai lavoratori e ai loro rappresentanti un diritto di partecipazione conforme alle prassi e/o alle legislazioni dei singoli Stati; c) gli artt. 18 e 20 del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, che dando attuazione della direttiva, hanno previsto che in tutte le aziende o unità produttive deve essere eletto o designato il rappresentate dei lavoratori per la sicurezza, con funzioni di accesso, consultazione e proposizione espressamente previste e con garanzie di libertà per l'esercizio dei suoi compiti e la costituzione, a livello territoriale, di `organismi paritetici tra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori, con funzioni di orientamento e di promozione di iniziative formative nei confronti dei lavoratori'; d) il D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (Testo unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), che ha confermato ed anzi rafforzato il descritto sistema, distinguendo tre tipologie di rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, rispettivamente al livello aziendale, territoriale o di comparto, e di sito produttivo; assicurando loro una specifica formazione i cui contenuti sono demandati alla contrattazione collettiva; prevedendo altresì la presenza di dieci esperti designati delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale all'interno della `Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro' costituita presso il Ministero del Lavoro; prevedendo infine un potere di interpello al Ministero del lavoro da parte delle stesse organizzazioni sindacali. Non può pertanto dubitarsi che la violazione, con le tragiche conseguenze di che trattasi, della normativa in tema di sicurezza comporti al tempo stesso, oltre che naturalmente la lesione di beni primari alla vita e alla salute proprio del lavoratore destinatario di quelle norme, anche la lesione dei suddetti interessi dell'associazione di categoria, in ragione di una ben possibile capacità del fatto illecito di ledere al tempo stesso più interessi non patrimoniali (plurioffensività del fatto illecito), di cui siano titolari la stessa persona (fisica o giuridica) o invece riconducibili a diversi titolari (come accade nella specie). Né può revocarsi in dubbio la almeno potenziale derivabilità da tale lesione di pregiudizi di carattere non patrimoniale, sub specie in particolare di danno all'immagine, rappresentato dalla diminuzione della considerazione dell'ente nel che si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell'agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi dell'ente e, quindi, nell'agire dell'ente medesimo, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali l'ente di norma interagisca. Ciò che in definitiva certamente giustifica sia l'ammissione di costituzione di parte civile, sia la condanna generica al risarcimento dei danni''.
``L'associazione Medicina democratica, Movimento per la salute, Onlus, è un'associazione non riconosciuta che si è costituita parte civile assumendo di aver subito un danno proprio ai sensi degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., derivante dalla lesione dell'interesse alla tutela della salute dei lavoratori in fabbrica, che è posto statutariamente a base degli scopi perseguiti. Non si può obliare il significativo sviluppo della giurisprudenza sul tema. Al riguardo la sentenza d'appello fa proprie analisi che si rinvengono nella giurisprudenza di legittimità. La giurisprudenza più risalente in materia è restrittiva. Tuttavia, nel prosieguo la giurisprudenza di legittimità si è andata progressivamente aprendo verso soluzioni estensive. Si è enunciato che gli enti e le associazioni sono legittimati all'azione risarcitoria, anche in sede penale mediante costituzione di parte civile, ove dal reato abbiano ricevuto un danno ad un interesse proprio, sempreché tale l'interesse coincida con un diritto reale o comunque con un diritto soggettivo del sodalizio, e quindi anche se offeso sia l'interesse perseguito in riferimento a una situazione storicamente circostanziata, da esso sodalizio preso a cuore e assunto nello statuto a ragione stessa della propria esistenza e azione, come tale oggetto di un diritto assoluto ed essenziale dell'ente. Ciò sia a causa dell'immedesimazione fra l'ente stesso e l'interesse perseguito, sia a causa dell'incorporazione fra i soci ed il sodalizio medesimo, sicché questo, per l'affectio societatis verso l'interesse prescelto e per il pregiudizio a questo arrecato, patisce un'offesa e perciò anche un danno non patrimoniale dal reato Si è in breve affermato che esistono organismi che hanno fatto di un determinato interesse l'oggetto principale della propria esistenza, sicché esso è diventato elemento interno e costitutivo del sodalizio e come tale ha assunto una consistenza di diritto di soggettivo. Lo sviluppo della giurisprudenza ha ritenuto la tutelabilità degli interessi collettivi senza che sia necessaria l'esistenza di una norma di protezione, essendo sufficiente la diretta assunzione da parte dell'ente dell'interesse in questione, che ne ha fatto oggetto della propria attività, diventando lo scopo specifico dell'associazione. La giurisprudenza consente di cogliere diverse interessanti prese di posizioni. Si è così affermata la legittimazione degli enti pubblici territoriali quali organismi esponenziali di una comunità gravemente turbata dallo sterminio di gran parte della popolazione del Comune di Stazzema: una ferita collettiva ritenuta produttiva di danno non patrimoniale risarcibile. Si è altresì ritenuta la legittimazione alla costituzione di parte civile dell'ordine professionale nel procedimento a carico di soggetto imputato di esercizio abusivo della professione. Analoga presa di posizione è stata ripetutamente espressa quanto alla legittimazione delle associazioni ecologiste; del sindacato unitario dei lavoratori di polizia in relazione alla appartenenza a tale organismo della vittima di violenza sessuale subita sul luogo di lavoro. In tutte le sentenze la legittimazione alla costituzione di parte civile è stata ritenuta sulla base della considerazione che l'ente, per il proprio sviluppo storico, per l'attività concretamente svolta e la posizione assunta avesse fatto proprio, in un determinato contesto storico, quale fine primario quello della tutela di interessi coincidenti con quello leso dallo specifico reato considerato, derivando da tale immedesimazione una posizione di diritto soggettivo che lo legittima a chiedere il risarcimento dei danni ad esso derivati. È stata ritenuta ammissibile, indipendentemente dall'iscrizione del lavoratore al sindacato, la costituzione di parte civile delle associazioni sindacali nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose, commessi con violazione della normativa antinfortunistica. L'applicazione di tali principi al caso in esame mostra la legittimazione dell'associazione di cui si discute, che ha rappresentato nell'atto di costituzione di aver concretamente operato all'interno dell'azienda a tutela delle condizioni di sicurezza e salubrità dell'attività lavorativa: affermazione mai da alcuno contestata. In conseguenza l'evento frustra senza dubbio l'attività svolta e scredita il ruolo assunto, l'immagine dell'organismo; sicché è consentita la costituzione in giudizio per ottenere il risarcimento di tale danno. Legittima è, dunque, la costituzione di parte civile''.
``La costituzione di parte civile delle associazioni sindacali nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose, commessi con violazione della normativa antinfortunistica, è ammessa, a prescindere dall'iscrizione al sindacato del lavoratore vittima dell'infortunio o della malattia professionale, quando l'inosservanza di tale normativa possa cagionare un danno autonomo e diretto, patrimoniale o non patrimoniale, alle associazioni sindacali, per la perdita di credibilità dell'azione di tutela delle condizioni di lavoro dalle stesse svolta con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie professionali. Non può assumere rilievo la circostanza che l'associazione sindacale, eventualmente, non ebbe a rendersi conto del rischio per la salute dei lavoratori: il danno da risarcire, infatti, non è costituito dal vulnus procurato dal mancato ascolto dell'organizzazione sindacale, bensì dall'inefficiente sistema di protezione della salute dei lavoratori, nonostante la presenza della forza sindacale''.
Il giudice per le indagini preliminari pronunciò sentenza di patteggiamento per il reato di maltrattamenti nei confronti di un dirigente aziendale che, nella qualità di `supervisore', aveva ripetutamente maltrattato cinque operatrici dipendenti di una s.p.a., e, inoltre, lo condannò alla rifusione delle spese di costituzione, assistenza e rappresentanza in favore delle costituite parti civili, tra le quali, oltre alle persone offese, vi erano la consigliera regionale di parità e la Filt CGIL, in persona del suo segretario generale pro-tempore. Investita del ricorso proposto dall'imputato avverso l'ordinanza ammissiva della costituzione di parte civile della consigliera regionale di parità e la sentenza nella parte contenente la condanna alla rifusione delle spese in suo favore, la Sez. VI ritiene indubbio che «i comportamenti, sui quali si fonda l'accusa formulata all'odierno ricorrente, abbiano concretizzato il delitto di maltrattamenti». Precisa ulteriormente che «i maltrattamenti - consistiti nel pronunciare ripetutamente frasi scurrili, indirizzate alle dipendenti, del tipo `ce l'ho piccolo, ma cattivo e profumato', nel fare riferimento alle proprie doti sessuali, lasciando intendere, con espressioni come `tutto ha un prezzo', che non sarebbero stati concessi permessi o ferie se non dietro prestazioni sessuali, umiliando le lavoratrici davanti ai colleghi con frasi come `sté quattro puttane che non fanno niente tutto il giorno...', nel fare ripetute avances e imponendo alle dipendenti mansioni più gravose, ripetitive e/o inutili rispetto a quanto ordinato agli altri lavoratori - ledano la dignità personale e l'integrità psicofisica delle lavoratrici o dei lavoratori», e che «si è in presenza di atti che realizzano, per un verso, una `discriminazioni diretta' ex art. 25, comma 1, del codice delle pari opportunità, trattandosi di comportamenti che producono un effetto pregiudizievole discriminatorio rispetto alle lavoratrici», e, «per altro verso, realizzano indubbi `comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso' e in ogni caso aventi `... lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo' (art. 26, comma 1, del codice)». In questo quadro, la Sez. VI chiarisce attraverso un'ampia quanto illuminante analisi che rispetto al delitto di maltrattamenti in danno delle lavoratrici «si configura una posizione soggettiva giuridicamente tutelata della consigliera di parità, quale soggetto danneggiato dal reato».
``Quanto alla risarcibilità del danno sia patrimoniale che morale, l'elaborazione giurisprudenziale l'ha estesa da tempo anche ai conviventi della vittima in quanto, agli effetti della legitimatio ad causam del soggetto, convivente di fatto della vittima dell'azione di un terzo, viene in considerazione non già il rapporto interno tra i conviventi, bensì l'aggressione che tale rapporto ha subito ad opera del terzo. Conseguentemente, mentre è giuridicamente irrilevante che il rapporto interno non sia disciplinato dalla legge, l'aggressione ad opera del terzo legittima il convivente a costituirsi parte civile, essendo questi leso nel proprio diritto di libertà, nascente direttamente dalla Costituzione, alla continuazione del rapporto; diritto assoluto e tutelabile erga omnes, senza, perciò, interferenze da parte dei terzi. È pur vero, quanto al danno patrimoniale, che non ogni convivenza, anche soltanto occasionale, può ritenersi sufficiente a fondare un'azione risarcitoria, consistendo il danno patrimoniale risarcibile nel venir meno degli incrementi patrimoniali, che il convivente di fatto era indotto ad attendersi dal protrarsi nel tempo del rapporto; esso in tanto può essere risarcito, in quanto la convivenza abbia avuto un carattere di stabilità tale da far ragionevolmente ritenere che, ove non fosse intervenuta l'altrui azione, la convivenza sarebbe continuata nel tempo. Per il caso di specie, da un lato la corte d'appello ha congruamente motivato in ordine alla stabilità della convivenza (la coppia era in attesa di un figlio nato pochi giorni dopo la morte del padre e tutti i testi hanno confermato che la coppia aveva programmato lo sviluppo della convivenza), dall'altro, in relazione ai danni morali, è necessario verificare, in diritto, se alla convivente della vittima spetti il diritto al risarcimento a tale titolo o, meglio, se gli era riconosciuta la possibilità di costituirsi parte civile nel procedimento penale de quo. Innanzitutto a riguardo va preso in considerazione il combinato disposto dell'art. 74 c.p.p. e art. 185 c.p.; tale ultima norma non fa riferimento alla sola persona offesa dal reato, ma al danneggiato in genere. Copiosa è la giurisprudenza, a partire dagli anni 70 sia di merito che di legittimità, che riconosce il diritto al risarcimento dei danni morali e, quindi, la possibilità di costituzione come parte civile nel processo penale, in materia di reati ambientali, o di attentato alla salute pubblica, ad enti ed associazioni portatori di diritti c.d. adespoti, intesi questi come aventi ad oggetto interessi diffusi e collettivi, non riferibili ad una pluralità determinata di individui, ma al contrario comuni a tutti gli individui di una formazione sociale non organizzata e non individuabile autonomamente. Ma al di là di questo fenomeno, non si può escludere che una persona fisica, in conseguenza della uccisione di una persona, cui era legata intimamente da un rapporto di affectio familiaris, per la definitiva perdita di tale rapporto, possa subire l'incisione di un interesse giuridico, diverso dal bene salute, quale è quello dall'interesse e all'integrità morale (la cui tutela, ricollegabile all'art. 2, Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo), e ciò in quanto l'interesse fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti. Trattasi di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell'art. 2043 c.c., nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad una riparazione ai sensi dell'art. 2059 c.c., senza il limite ivi previsto in correlazione all'art. 185 c.p. in ragione della natura del valore inciso, vertendosi in materia di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato. Va da sé che in tal caso, in riferimento alla mera ipotetica titolarità di tale diritto, va verificata la concreta lesione che comporta il risarcimento del danno, verifica che è demandata al giudice della liquidazione. Peraltro la condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale non esige e non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della esistenza - desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità - di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando impregiudicato l'accertamento riservato al giudice della liquidazione dell'esistenza e dell'entità del danno, senza che ciò comporti alcuna violazione del giudizio formatosi sull'an''.
Nel dichiarare colpevole di omicidio colposo per un infortunio mortale il datore di lavoro e un dirigente, i giudici di merito li condannarono anche al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite e, in particolare, in favore della madre del lavoratore morto, nonché dei componenti del gruppo familiare entro il quale l'infortunato di fatto era stato accolto come componente. E sotto questo aspetto affermarono «la risarcibilità del danno cagionato da reato ai componenti di una stabile convivenza quale che sia il tipo di legame sul quale la convivenza si regge».
In proposito, gli imputati lamentarono che «il diritto a risarcimento sarebbe stato costruito su una mera aspettativa che faceva sorgere da un atto gratuito di liberalità non ancora tramutato in una stabile situazione di contribuzione tra conviventi qualificata da aspetti di stabilità e reciproca condivisione di progetti e programmi», che «nessun patto e nessuna legge erano stati allegati a fondamento della pretesa del gruppo, nessun danno attuale era stato allegato a fondamento della pretesa risarcitoria azionata nel processo penale», e che «restavano affermazioni prive di riscontro quelle attestanti un crescere del reddito dell'infortunato e la sua intenzione di avviare una attività in proprio con uno dei componenti del gruppo».
Nel rigettare il ricorso proposto dagli imputati, la Sez. IV premette in linea generale che, «per la pronuncia di una condanna generica al risarcimento dei danni in favore della vittima del reato, non si richiede alcuna indagine sulla concreta esistenza di un danno risarcibile, sufficiente essendo accertare la potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e l'esistenza di un nesso di causalità fra questo e il pregiudizio lamentato», e che «è da ritenere legittima la costituzione di parte civile nel processo penale di un soggetto non legato da rapporti di stretta parentela e non convivente con la vittima del reato come il figlio della moglie di quest'ultimo, al fine di ottenere il risarcimento dei danni morali, considerato che la definitiva perdita di un rapporto di affectio familiaris può comportare l'incisione dell'interesse all'integrità morale, ricollegabile all'art. 2 Cost. sub specie di intangibilità della sfera degli affetti, la cui lesione comporta la riparazione ex art. 2059 c.c., mentre è, in tal caso, escluso il risarcimento dei danni patrimoniali». In linea specifica, sottolinea «la risarcibilità del danno subito da persona convivente derivatogli (quale vittima secondaria) dalla lesione materiale cagionata alla persona con la quale convive dalla condotta illecita del terzo», e collega «tale danno alla provata turbativa dell'equilibrio affettivo e patrimoniale instaurato mediante una comunanza di vita e di affetti, con vicendevole assistenza materiale e morale». Prende atto che i magistrati di merito avevano accertato «il rapporto di convivenza con il lavoratore in attualità di guadagno», e «correttamente applicato i principi più sopra riassunti nel loro profilo patrimoniale e affettivo, ritenendo che i componenti del consorzio familiare fossero legittimati a costituirsi parte civile contro i responsabili della morte dell'infortunato, partecipe di quel consorzio familiare».
«Ammissibile è la costituzione di parte civile della società che prospetta un grave nocumento all'immagine dell'azienda, per effetto di una condotta illecita (molestie sessuali) perpetrata da un dipendente con mansioni di direttore in danno di altra dipendente, anche in ragione dell'eco che la vicenda aveva avuto sulla stampa».
``In tema di risarcimento di danni scaturenti da reato, è legittima l'assegnazione di una somma a titolo dì provvisionale in favore della vittima di infortunio sul lavoro, nei cui confronti sia stata già disposta rendita Inail, la quale non risarcisce i danni morali conseguenti al reato. La predetta provvisionale stante il carattere di provvisorietà, non pregiudica in alcun modo la liquidazione definitiva dei danni e, pertanto, non è suscettibile di censura, in ordine al quantum, in sede di legittimità. Facendo corretta applicazione di tali principi, la Corte d'Appello ha ritenuto che la rendita vitalizia erogata dall'Inail ai superstiti ex D.P.R. n. 1124/1965 non è tale da elidere il diritto al risarcimento del danno che riguarda il danno non patrimoniale subito dagli eredi né tantomeno la prevista provvisionale''.
La Sez. IV sottolinea l'esigenza di tener conto ``dell'esistenza del danno differenziale, ossia della differenza tra la somma corrisposta dall'Inail a titolo di indennizzo e la somma che spetta al lavoratore a titolo di liquidazione del danno biologico e danno morale secondo il sistema della responsabilità civile''; ``mentre ad ispirare la prima ipotesi è un principio indennitario, di sostegno sociale all'infortunato, nella seconda ipotesi viene in rilievo l'integrale risarcimento a favore del danneggiato astrattamente volto a ripristinare lo stato precedente l'evento lesivo. Si tratta, dunque, di due entità diverse di tal che l'indennizzo effettuato dall'Inail non esonera dall'obbligo del risarcimento del danno''.
``La pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile nei cui confronti sia stata già disposta la rendita INAIL deve considerarsi legittima sia in relazione al valore indennitario, dunque non connotato dalla funzione di integrale ristoro del danno, di tale rendita, sia in considerazione del fatto che la condanna generica al risarcimento del danno non esclude la pronuncia di rigetto della domanda di liquidazione in sede civile''.
``Prive di fondamento sono le censure svolte con riferimento alla mancata considerazione del risarcimento da parte dell'Inail, ben potendo sussistere un danno ulteriore dell'infortunato rispetto a quanto liquidato dall'Inail anche in relazione ai danni morali''.
``In sede di applicazione della pena su richiesta delle parti, il giudice deve verificare genericamente le condizioni di legittimazione della costituzione e di ammissibilità della domanda risarcitoria della parte civile, ma non anche se eventuali somme già da questa percepite siano idonee ad estinguere interamente le obbligazioni nascenti in capo all'imputato, al fine di escluderne l'interesse ad agire o di accertarne la permanenza rispetto ad ulteriori ed eventuali danni subiti, non essendo, in particolare, consentito al giudice compiere alcuna valutazione sull'eventuale atto di transazione prodotto in giudizio, né al fine di verificare se esso sia stato esaustivo delle obbligazioni nascenti in capo all'imputato, né al fine di verificare il venir meno dell'interesse ad agire della persona offesa, poiché la transazione sul danno non preclude il diritto a far valere eventuali danni ulteriori emersi successivamente alla sottoscrizione della transazione stessa''.
Per l'infortunio occorso al dipendente di un'impresa appaltatrice impiegato nell'esecuzione di un intervento di riparazione di un tubo dell'acqua presente sulla superficie esterna di copertura del capannone sede della s.r.l. committente, la Sez. IV rileva che il datore di lavoro imputato ``contesta genericamente la titolarità in capo alla F.I.L.L.E.A. (Federazione italiana dei lavoratori di legno, dell'edilizia, delle industrie affini ed estrattive)-CGIL della qualità di danneggiato dal reato senza confrontarsi con la motivazione espressa dalla Corte d'Appello a proposito dei fini statutari di tale associazione in relazione alla materia degli infortuni sul lavoro''.
``Il contratto assicurativo, volto a coprire i rischi connessi all'attività imprenditoriale del datore di lavoro ed a risarcire i danni che da essa eventualmente conseguano, ha effetti vincolanti tra i soli contraenti (tant'è che il danneggiato non ha in sede civile azione diretta nei confronti dell'assicuratore, che legittimamente viene estromesso dal giudizio, non ricorrendo l'ipotesi di responsabile civile ex lege di cui all'art. 185, comma 2, c.p.). La disciplina codicistica della transazione (art. 1304 c.c.), nel consentire, in deroga al principio secondo cui il contratto produce effetti solo tra le parti, che il condebitore in solido, pur non avendo partecipato alla stipulazione della transazione tra creditore e uno dei debitori solidali, se ne possa avvalere, si riferisce esclusivamente all'atto di transazione che abbia ad oggetto l'intero debito, mentre non include la transazione parziale che, in quanto tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva, riguarda unicamente il debitore che vi aderisce e non può coinvolgere gli altri condebitori, che non hanno alcun titolo per profittarne. Nella specie, l'accordo transattivo intervenuto fra l'insegnante parte civile) e la compagnia assicuratrice dell'istituto scolastico, oltre a costituire res inter alios acta rispetto alla posizione del dirigente scolastico imputato (quale soggetto direttamente responsabile del danno derivante da reato), non poteva riferirsi alle voci di danno non coperte dal contratto di assicurazione; perciò, valendo in subiecta materia i richiamati principi civilistici, non può ritenersi operante nei confronti dell'imputato la dichiarazione liberatoria resa dalla parte civile in sede di accordo transattivo, con riguardo alla porzione di debito riferibile in via esclusiva al detto imputato. L'impugnata sentenza non fa buon governo dei principi che regolano la materia, non avendo in alcun modo valutato i concreti requisiti di accoglibilità e fondatezza della domanda risarcitoria in tutte le sue componenti, che si sarebbe dovuta riferire all'adempimento dell'onere deduttivo e probatorio incombente sull'attore, ma si è invece limitata ad affermare (erroneamente) che l'intercorsa definizione in via transattiva della liquidazione del danno alla persona offesa da parte della compagnia assicuratrice dell'istituto scolastico avesse valore integralmente satisfattivo di tutte le voci di danno''.
Nell'ambito di procedimento penale per patologie asbesto-correlate in uno stabilimento cantieristico, la Sez. IV prende atto che ``la corte d'appello ha avallato la decisione del Tribunale relativa al risarcimento dei danni sia morali che patrimoniali (con rinvio al giudice civile per la quantificazione) in favore dei familiari deceduti in conseguenza dei reati commessi dagli imputati e l'irrilevanza in questa sede degli accordi transattivi intervenuti tra gli eredi di alcuni deceduti e la società coinvolta: con tali accordi transattivi, intervenuti con la società, i ricorrenti hanno, con apposita clausola, rinunciato irrevocabilmente `a un'ipotetica azione penale e di costituzione di parte civile nei confronti delle predette società': tale clausola è stata intesa dai giudici di merito come prevalente, perché successiva e specifica (nonché conclusiva), sulla precedente indicazione secondo la quale i ricorrenti `non avranno più nulla a pretendere dalla società, dai suoi legali rappresentanti, amministratori, dirigenti e preposti'. Siffatta interpretazione all'accordo transattivo costituisce giudizio di merito, incensurabile in questa sede poiché non è ravvisabile alcuna violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale o di vizi della motivazione, sicché correttamente la rinuncia è stata ritenuta essere rivolta solo ed esclusivamente in favore della contraente società ma non già degli imputati nei cui confronti non poteva, quindi, essere invocata `né ai sensi dell'art. 1304 c.c. né ai sensi dell'art. 1411 c.c.'''.
«Per quanto più direttamente riguarda l'azione civile risarcitoria, in relazione alla condanna dell'imputato al risarcimento del danno, contestata dall'imputato in vista dell'atto di transazione intervenuto tra il lavoratore infortunato e la società datrice di lavoro», la Sez. IV osserva che, «da un lato, la remissione di querela non implica di per sé, necessariamente, la rinuncia al risarcimento del danno, dall'altro, la transazione in questione richiama espressamente la questione lavoristica, specifico oggetto dell'atto, e cioè la revoca del licenziamento del lavoratore, e risolve le connesse vertenze, anche di natura economica, insorte tra le parti in relazione a pretese del lavoratore collegate al licenziamento»; «mentre la dichiarazione, nello stesso atto, di rinuncia `anche ad eventuali azioni penali di responsabilità intraprese (querela) in merito all'infortunio occorsogli', riguarda il profilo penale della vicenda, non anche l'aspetto civilistico e risarcitorio, in relazione al quale la tesi dell'imputato potrebbe ritenersi fondata solo se fosse intervenuta una formale dichiarazione, da parte del lavoratore, di integrale soddisfazione di pretese connesse con le lesioni patite, ovvero di rinuncia alle stesse».
Per un infortunio mortale occorso nell'ambito di un cantiere, il coordinatore per la esecuzione dei lavori fu condannato alla pena della reclusione dei danni in favore della vedova della vittima costituitasi parte civile anche per le figlie, in quanto aveva «omesso di assicurare l'applicazione delle disposizioni contenute nel piano sicurezza e coordinamento, concernenti, in particolare l'obbligatoria rimozione di ogni tipo di materiale presente a monte di scavi che, in caso di caduta, potessero costituire fonte di pericolo, rendendo cosi possibile il movimento di un grosso masso che, urtato dall'escavatrice azionata da altro lavoratore (separatamente giudicato), schiacciava con il suo peso l'infortunato». D'altra parte, i giudici di merito avevano addebitato l'infortunio alla «prevalente responsabilità sia dell'escavatorista che della vittima, determinando il concorso di colpa dell'imputato nella misura del 30%, per non aver segnalato il materiale presente sul ciglio del fossato dove lavorava l'infortunato, omettendo di esercitare i poteri che gli derivavano dalle sue funzioni, che gli consentivano anche di sospendere i lavori». E avevano confermato «le statuizioni civili, in quanto l'accordo transattivo intercorso tra la parte civile e la s.r.l. datrice di lavoro era inidoneo a esplicare effetti a favore dell'imputato, il quale, quale coobbligato solidale, non aveva chiesto di voler profittare, a sensi dell'art. 1304 c.c.». A quest'ultimo riguardo, l'imputato lamenta «la violazione dell'art. 1227, posto che sussisteva la colpa della vittima nella causazione dell'evento», e l'erronea applicazione alla fattispecie dell'art. 1304 c.c., «non essendo, nel caso di specie, il diritto al risarcimento moltiplicabile per il numero degli obbligati»: «come risulta dall'atto di transazione le persone offese sono state tacitate in ordine ad ogni pretesa economica riconducibile al caso e non poteva dirsi che l'imputato non avesse chiesto di voler profittare dell'accordo, avendone implicitamente fatto richiesta giurisdizionale». La Sez. IV replica che «correttamente e motivatamente è stato fatto riferimento all'art. 1304 c.c., in quanto l'imputato era rimasto estraneo alla transazione intervenuta tra la s.r.l. e la parte civile». Rileva, inoltre, che, «sebbene la dichiarazione di voler profittare della transazione non sia soggetta ad alcuna particolare forma o a termini di decadenza e possa essere contenuta anche in un atto del giudizio, la stessa non è mai stata formulata dall'imputato né in un atto extragiudiziale né nel corso del procedimento: e di essa non si rinviene neppure nel ricorso per cassazione ove l'imputato ha continuato a sostenere soltanto che l'accordo in questione aveva fatto conseguire alla parte civile il risarcimento del danno, in misura transattivamente accettata, non potendosi ritenere, come vorrebbe il ricorrente, che detta affermazione costituisca un'implicita richiesta giurisdizionale di voler profittare della transazione». Esclude, poi, che «sussista la dedotta violazione dell'art. 1227 c.c., applicabile anche in materia di atto illecito per l'espresso richiamo che ne fa l'art. 2056 c.c., ma riguardante solo i rapporti esterni tra il danneggiato e il danneggiante e non anche i rapporti tra più danneggianti in ordine alla distribuzione tra essi della responsabilità per il risarcimento da loro (solidalmente) dovuto al danneggiato». E conclude che, «nel caso in esame, avendo il giudice di primo grado ritenuto la responsabilità dell'imputato nella misura del 30%, ascrivendo la restante percentuale di responsabilità all'altro operaio, manovratore della gru, e alla vittima, il giudice civile, al quale è stata demandata la liquidazione del danno, nella determinazione del risarcimento, in base alla norma richiamata, provvederà a liquidare alla parte civile una somma di denaro decurtata di quella relativa alla percentuale di colpa della vittima».
A favore dei prossimi congiunti della vittima di un incendio colposo, fu riconosciuta ``la maggiorazione da danno catastrofale iure successionis''. La Sez. IV prende atto della ``ricorrenza dei presupposti per tale voce risarcitoria in ragione del lasso temporale intercorso tra le lesioni e la morte, che ha consentito al giovane intrappolato nel locale, investito dal fumo e dalle fiamme, di apprezzare la portata progressivamente disastrosa e letale dell'occorso, tanto da assumere su di sé la consapevolezza di una fine imminente e catastrofica''.
``La persona giuridica, per sua natura, non può subire turbamenti od altre similari alterazioni, ma è portatrice di quei diritti della personalità, ove compatibili con l'assenza della fisicità, e, quindi, dei diritti all'esistenza, all'identità, al nome, all'immagine ed alla reputazione. Può pacificamente riconoscersi all'ente, ad esempio, la legittimazione ad agire iure proprio per danno (non patrimoniale) all'immagine, anche in relazione a delitti contro la persona; ma non per il ristoro di danni morali, nella nozione dianzi precisata''.
Con riguardo al risarcimento del danno in favore di infortunati stranieri costituiti parti civili, la Sez. IV considera irrilevante, ``essendosi i danni verificati in Italia e a carico di soggetti che qui vivevano e lavoravano'', ``il fatto che alcune tra le parti civili risiedano in un paese in cui la moneta ha un potere di acquisto diverso e inferiore, perché l'ammontare del risarcimento deve essere calcolato con riguardo alla rilevanza economica del danno nel momento e nel luogo del suo verificarsi''. Afferma che ``il criterio della realtà socioeconomica in cui vive il danneggiato non è fondato in diritto''. Nota come ``la Cassazione civile (n. 7932 del 2012), richiamando i tre elementi essenziali dell'illecito aquiliano - costituiti da condotta illecita colposa o dolosa, danno e nesso di causalità - ha osservato che sono soltanto questi i fattori suscettibili di incidere sulla determinazione del danno, mentre il luogo dove il danneggiato abitualmente vive, e presumibilmente spenderà od investirà il risarcimento a lui spettante, è invece un elemento esterno e successivo alia fattispecie dell'illecito, un posterius, come tale ininfluente sulla misura del risarcimento del danno''. Precisa che ``una valutazione differenziata risulterebbe in evidente contrasto con l'art. 3 Cost.'', in quanto, ``come la Corte costituzionale ha più volte insegnato, le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute rientrano tra quelle che, nei garantire i diritti fondamentali della persona indipendentemente dall'appartenenza a determinate entità politiche, vietano discriminazioni nei confronti degli stranieri, legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato (v. la sentenza n. 306 del 2008, nonché, in relazione al diritto inviolabile alla salute, la sentenza n. 252 del 2001)''. Ricorda che ``la Corte di cassazione (sent. 11 gennaio 2011 n. 450), sulla scia di quanto indicato dal Giudice delle leggi, ha riconosciuto che `allo straniero, indipendentemente dalla condizione di reciprocità, compete il risarcimento dell'intero danno non patrimoniale, di cui all'art. 2059 c.c., allorché esso sia liquidato non come ipotesi espressamente prevista dalla legge (nella formulazione letterale ed originaria della norma), ma quale risarcimento della lesione di un valore della persona umana, costituzionalmente garantito'''. Nega, ``alla luce della giurisprudenza costituzionale, nonché della semplice logica giuridica'', che ``un medesimo evento dannoso possa determinare conseguenze diverse a seconda delta nazionalità dei soggetti aventi diritto ai risarcimento'', e rammenta che ``la Cassazione civile ha in numerose e ben note sentenze ribadito che il risarcimento del danno deve avere come obiettivo fondamentale il ripristino del valore-uomo nella sua insostituibile unicità (tra le altre, le sentenze 20 novembre 2012, n. 20292, 22 agosto 2013, n. 19402, e 14 gennaio 2014, n. 531)''. Chiarisce che, ``anche se la morte rende impossibile tale ripristino, pur tuttavia il risarcimento che ne consegue non può differenziarsi per il fatto che il denaro erogato a tale titolo è destinato ad essere speso in un Paese nel quale il costo della vita è diverso da quello dell'ltalia''. Con riguardo al caso di specie, prende atto che ``la vittima dell'incidente si trovava in Italia per motivi di lavoro, sicché il denaro che egli stava guadagnando costituiva il corrispettivo di una prestazione svolta nel nostro Paese''. Evoca, infine, ``la sentenza della Cassazione civile 7 giugno 2011 n. 12408, ribadita da altre più recenti, nella quale si è riconosciuta l'importanza di una uniformità, per quanto possibile, delle tecniche di risarcimento del danno, sottolineando la necessità di fare ricorso alle tabelle adottate da! Tribunale di Milano allo scopo di evitare che danni identici possano essere liquidati in misura diversa solo perché esaminati da differenti uffici giudiziari''. Pone in luce che ``tale pronuncia è il segno della necessità, che questa Corte avverte, di ridurre il più possibile le diversità e le oscillazioni nella liquidazione del danno''. E conclude che ``la decisione odierna si inserisce in modo coerente in questo filone di giurisprudenza, poiché evidenzia l'insostenibilità del riferimento alle diverse realtà socio-economiche in sede di risarcimento del danno non patrimoniale (Cass. civ., Sez. III, sent. n. 24201 del 2014)''.
Il risarcimento del danno morale può essere accordato anche al coniuge separato, per la morte dell'altro coniuge, in quanto lo stato di separazione personale non è incompatibile, di per sé, con tale ristoro, dovendo aversi riguardo, oltre che alla sua tendenziale temporaneità e alla possibilità di una riconciliazione, anche alle ragioni che hanno determinato la separazione e ad ogni altra utile circostanza idonea a chiarire se e in quale misura l'evento luttuoso, dovuto all'altrui fatto illecito, abbia procurato al coniuge superstite quelle sofferenze morali che di solito si accompagnano alla morte di una persona cara. Il risarcimento del danno non patrimoniale può, dunque, essere accordato al coniuge, ancorché separato legalmente, in considerazione della pregressa esistenza di un rapporto di coniugio, della sussistenza di figli, della non definitività dello status connesso alla separazione legale e della possibile ripresa della comunione familiare, a condizione però che si dimostri che, nonostante la separazione, sussistesse ancora un vincolo affettivo particolarmente intenso tra i coniugi.
Un datore di lavoro condannato per omicidio colposo in danno di un dipendente pone in discussione ``la quantificazione del danno in favore dei congiunti della vittima, costituiti parti civili, in quanto asseritamente eseguita in termini difformi da quanto previsto dalle c.d. tabelle milanesi per la liquidazione del danno (non patrimoniale) da perdita del rapporto parentale''. La Sez. IV replica: ``Secondo principio consolidato nella giurisprudenza civile di questa Corte, certamente applicabile anche in questa sede stante il carattere strettamente civilistico della statuizione impugnata e delle stesse ragioni di doglianza, nella liquidazione del danno non patrimoniale, l'applicazione di criteri diversi da quelli risultanti dalle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano può essere fatta valere in sede di legittimità, come vizio di violazione di legge, soltanto quando in grado di appello l'imputato si sia specificamente doluto della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle milanesi ed abbia altresì versato in atti dette tabelle. Nel caso di specie il ricorrente non aveva proposto specifico motivo di appello sul punto, tanto meno vi era menzione delle tabelle da applicare o produzione delle stesse. Peraltro le tabelle milanesi risultano invece espressamente richiamate nella sentenza di primo grado, sia pure senza alcuna particolare illustrazione delle stesse né della scelta operata tra il minimo e il massimo, ciò tuttavia bastando a rendere a maggior ragione avvertita l'esigenza, nel caso di specie per quanto detto non soddisfatta, di una tempestiva e specifica impugnazione atta a dimostrare l'inosservanza delle tabelle richiamate''.
In conseguenza di un infortunio mortale accaduto al dipendente di un'azienda forestale e addebitato come omicidio colposo a un capo-operaio di tale azienda, siffatta azienda fu condannata come responsabile civile. Nel respingere il ricorso presentato dal responsabile civile, la Sez. IV premette che «la chiamata in giudizio del responsabile civile si radica su di un fatto altrui, tanto è vero che essa viene affermata in ragione non già di un nesso eziologico tra condotta ed evento dannoso (come è invece per l'imputato), ma in forza della sola esistenza di un rapporto qualificato, caratterizzato dal fatto che un soggetto è chiamato a rispondere sul piano economico del fatto altrui, in forza di speciali rapporti che lo legano all'autore del reato, alla cosa a mezzo della quale esso è stato commesso ovvero al luogo nel cui ambito si è svolta l'attività criminosa». Rileva che, «in tali casi, la prova liberatoria, ove ammessa, non ha mai ad oggetto la mancata partecipazione all'azione criminosa, che non avrebbe senso, ma, con modulazioni diverse da caso a caso, l'impossibilità di impedirla». Con riguardo al caso di specie, osserva che «nessuna prova liberatoria in tal senso è stata fornita dalla ricorrente ed anzi l'assunto difensivo è pienamente contraddetto dalla sentenza impugnata nella parte in cui ha espressamente escluso l'abnormità della condotta della vittima, sul rilievo che le mansioni espletate esulavano da quelle per le quali era stato assunta e che l'uso del trattore di sua proprietà era già avvenuto in altre occasioni, con la tolleranza del preposto». Esclude poi che «conclusioni di segno diverso (siano) giustificate dal conferimento della delega di funzioni al capo operaio», «in quanto «la delega di funzioni, di per sé, non comporta sempre e comunque l'esonero di responsabilità del datore di lavoro, essendogli, infatti, per esplicita indicazione normativa (contenuta ora nell'articolo 16, comma 3, del D.Lgs. n. 81 del 2008, che ha recepito il pregresso consolidato orientamento di questa Corte), pur sempre imposto l'obbligo di vigilare costantemente sul delegato (o di predisporre ogni misura idonea affinché il controllo possa essere svolto in concreto, eventualmente affidando il compito a soggetti particolarmente qualificati)», «con la possibile conseguenza di una persistente responsabilità (o corresponsabilità del datore di lavoro) allorché si accerti una difettosa od omessa verifica ovvero una scelta impropria del collaboratore». Spiega che «la delega di funzioni, per quanto formalmente corretta ed efficace (sussistendo l'idoneità tecnico-professionale del delegato, il trasferimento effettivo dei poteri in capo al delegato e l'autonomia finanziaria del delegato), non può legittimare un sostanziale disinteresse del datore di lavoro, giacche questi è sempre tenuto (onde l'inosservanza può essere fonte di responsabilità) ad esercitare un concreto controllo sul generale andamento della gestione dell'impresa e, in un tale ambito, anche sulle funzioni delegate, si da poter provvedere, nel caso, in via sostitutiva, per far fronte al mancato o inidoneo esercizio della delega».
Di particolare interesse, in passato, la dissonante Cass. 7 novembre 2008, riportata sub art. 26, al paragrafo 16, nonché Cass. 27 ottobre 2005, R.C. in c. Ambrosino e altro, in Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza [aggiornato con il D.Lgs. n. 106/2009], seconda ed., Milano, 2009, sub art. 26, paragrafo 3, 309 s.
La Corte d'Appello proscioglie gli imputati per prescrizione dal reato di lesione personale colposa in danno del lavoratore infortunato, ma conferma le statuizioni civili nei confronti della parte civile. Nel disattendere il ricorso degli imputati, la Sez. IV osserva: ``Spogliatosi della cognizione sulla responsabilità penale degli imputati in seguito alla declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione, la Corte territoriale ha dato atto di provvedere, ai sensi dell'art. 578 c.p.p., sull'impugnazione ai soli effetti civili, sulla base di un accertamento che impinge unicamente sugli elementi costitutivi dell'illecito civile, senza riconoscere, neppure incidenter tantum, la responsabilità degli imputati per il reato estinto. All'uopo, ha esattamente ritenuto integrata la fattispecie civilistica dell'illecito aquiliano di cui all'art. 2043 c.c., secondo l'insegnamento della stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 182/2021. Invero, il giudice dell'impugnazione è chiamato a valutare gli effetti giuridici del fatto per cui è processo, chiedendosi, non già se esso presenti gli elementi costitutivi della condotta criminosa tipica (commissiva od omissiva) contestata all'imputato come reato, contestualmente dichiarato estinto per prescrizione, ma se quella condotta sia stata idonea a provocare un `danno ingiusto' secondo l'art. 2043 c.c., e cioè se, nei suoi effetti sfavorevoli al danneggiato, essa si sia tradotta nella lesione di una situazione giuridica soggettiva civilmente sanzionabile con il risarcimento del danno. L'illecito civile, derivante da una fattispecie penale (art. 185 c.p.), pur fondandosi sull'elemento materiale e psicologico del reato, risponde tuttavia a diverse finalità e richiama un distinto regime probatorio. L'esigenza di rispetto della presunzione di innocenza dell'imputato non preclude al giudice penale dell'impugnazione di effettuare tale accertamento onde liquidare anche il danno non patrimoniale di cui all'art. 185 c.p. La natura civilistica dell'accertamento richiesto dalla disposizione censurata al giudice penale dell'impugnazione, differenziato dall'(ormai precluso) accertamento della responsabilità penale quanto alle pretese risarcitorie e restitutorie della parte civile, emerge riguardo sia al nesso causale, sia all'elemento soggettivo dell'illecito. Il giudice, in particolare, non accerta la causalità penalistica che lega la condotta (azione od omissione) all'evento in base alla regola dell'`alto grado di probabilità logica'. Per l'illecito civile vale, invece, il criterio del `più probabile che non' o della `probabilità prevalente' che consente di ritenere adeguatamente dimostrata (e dunque processualmente provata) una determinata ipotesi fattuale se essa, avuto riguardo ai complessivi risultati delle prove dichiarative e documentali, appare più probabile di ogni altra ipotesi e in particolare dell'ipotesi contraria. L'autonomia dell'accertamento dell'illecito civile non è revocata in dubbio dalla circostanza che esso si svolga dinanzi al giudice penale e sia condotto applicando le regole processuali e probatorie del processo penale (art. 573 c.p.p.)''.
``Le sanzioni civili nel processo penale presuppongono un accertamento di responsabilità dell'imputato che, evidentemente, non va confuso con una pronuncia di condanna - in ragione del disposto dell'art. 185, comma 2, c.p., a mente del quale `ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga al risarcimento il colpevole'. Ne deriva che il giudice penale è tenuto ad applicare le regole di giudizio del diritto penale - e non quelle del diritto civile - essendo in questione il danno da reato e non mutando la natura risarcitoria della domanda proposta ai sensi dell'art. 74 c.p.p.''.
``Infortunio sul lavoro nel quale ha perso la vita un operaio alle dipendenze della ditta individuale incaricata dell'allestimento del servizio di luminarie per la festa patronale del comune. La Sez. IV conferma la condanna anche del presidente del comitato dei festeggiamenti committente dei lavori, nonché del comune al risarcimento dei danni: ``La corte d'appello ha ricostruito la responsabilità civile dell'ente descrivendo l'infortunio quale conseguenza occasionata dai festeggiamenti relativi alla festa patronale del paese che, per decisione dell'amministrazione comunale, era stata istituzionalizzata, prevedendosi anche la costituzione di un apposito comitato organizzativo, con il compito, tra l'altro, di provvedere alla stipula dell'appalto con la ditta esecutrice dei lavori. Il comitato era composto da cittadini scelti dalla stessa amministrazione comunale e accompagnato dalla istituzione di un gruppo intersettoriale per la programmazione dei festeggiamenti. L'evento, in occasione del quale l'infortunio è avvenuto, deve dunque considerarsi frutto di una vera e propria scelta politica dell'amministrazione comunale cui vanno riferiti i festeggiamenti. Ad essa, pertanto, va ricondotta in via indiretta, nei termini di cui all'art. 2049 c.c., la responsabilità per i danni prodottisi quale conseguenza della condotta colposa del datore di lavoro della vittima e del committente, firmatario del relativo contratto di appalto''.
``La pronuncia circa l'assegnazione di una provvisionale in sede penale ha carattere meramente delibativo e non acquista efficacia di giudicato in sede civile, mentre la determinazione dell'ammontare della stessa è rimessa alla discrezionalità del giudice del merito che non è tenuto a dare una motivazione specifica sul punto. Ne consegue che il relativo provvedimento non è impugnabile per cassazione in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento''. (Conforme Cass. 15 settembre 2023 n. 37802).
Per le lesioni personali colpose riportate da un lavoratore a seguito della caduta da un'altezza di circa 4 m nel corso di operazioni di smontaggio di una scaffalatura effettuate in occasione del trasloco dell'attività commerciale di ferramenta gestita dagli imputati, costoro - prosciolti per prescrizione del reato, ma condannati al risarcimento del danno e al pagamento di una provvisionale di 20.000 euro in favore dell'infortunato costituito parte civile - avanzano in forza dell'art. 612 c.p.p. richiesta di sospensione dell'esecuzione della condanna civile. La Sez. IV rigetta tale istanza: ``Ai fini dell'accoglimento da parte della Corte di cassazione della richiesta di sospensione dell'esecuzione della condanna civile, l'istante deve fornire la prova della futura insolvenza del creditore che metta in pericolo la possibilità di recupero della somma, ovvero, quando prospetti il pericolo di un `danno grave ed irreparabile' derivante dall'esecuzione della statuizione, egli deve darne prova; con la precisazione che il danno non deve necessariamente essere costituito dalla distruzione di un bene infungibile, giacché può derivare anche dalla necessità di dover pagare una spropositata somma di denaro, che metta in pericolo non solo la possibilità di recupero, ma altresì elida in modo estremamente rilevante il patrimonio dell'obbligato; adempiendo, pertanto, all'onere probatorio circa l'assoluta necessità della somma provvisionale al soddisfacimento di suoi bisogni essenziali, non altrimenti fronteggiabili. Grava sull'istante l'onere di dimostrare che la somma da versare in esecuzione della condanna abbia un'incidenza rilevante sul proprio patrimonio, non potendosi ritenere il `grave ed irreparabile' danno solo in base a considerazioni di carattere oggettivo. La richiesta di sospensione dell'esecuzione della condanna civile al pagamento di una provvisionale deve essere fondata in definitiva su un pregiudizio eccessivo per il debitore, che può consistere nella distruzione di un bene non reintegrabile ovvero, se si tratta di somme, tale da rendere impossibile o altamente difficoltoso il recupero di quanto pagato, nel caso di modifica della condanna. Nessuno degli istanti ha fornito prova del danno grave e irreparabile, limitandosi a rappresentare, da un canto, una generica valutazione prognostica del pericolo di mancata restituzione delle somme `in considerazione dello stato di insolvibilità del destinatario della provvisionale', dall'altro riferendo l'incidenza rilevante sui rispettivi patrimoni degli istanti, ammessi al patrocinio a spese dello stato, della sproporzione tra l'entità delle somme a titolo di provvisionale quantificata dal giudice di primo grado e confermata dalla corte d'appello e l'entità del danno subito dalla persona offesa sulla base dei parametri che tengono conto degli esiti peritali e dell'apprezzamento del probabile esito favorevole del ricorso''.
``È pur vero che la sentenza di secondo grado omette di dare risposta al motivo di appello circa la determinazione della diminuzione della somma riconosciuta in via provvisionale a titolo di risarcimento del danno per il fatto colposo della persona offesa, ai sensi dell'art. 1227, comma 1, c.c. E, tuttavia, nel giudizio civile risarcitorio il giudicato penate di condanna spiega effetto vincolante ai sensi dell'art. 651 c.p.p. in ordine all'accertamento del nucleo oggettivo del reato nella sua materialità fenomenica e delle circostanze di tempo, luogo e modo di svolgimento di esso, ma non preclude al giudice civile l'accertamento dell'apporto causale del danneggiato il quale, se di regola è inidoneo ad escludere fa responsabilità penale, può ridurre la responsabilità civile del danneggiante ai sensi dell'art. 1227, comma 1, c.c. - ove non sia stato considerato dal giudice penale ai fini dell'accertamento a lui demandato. Sicché l'eventuale valutazione, stante la natura meramente provvisionale delle somme riconosciute in favore delle parti civili, potrà essere svolta in sede civile''.
``Ai fini dell'accoglimento da parte della Corte di cassazione della richiesta di sospensione dell'esecuzione della condanna civile (art. 612 c.p.p.), l'istante deve fornire la prova dell'esistenza di un `danno grave ed irreparabile' derivante da tale esecuzione In particolare, l'accoglimento della richiesta di sospensione dell'esecuzione della condanna civile al pagamento di una somma di denaro postula la prova, ad onere dell'interessato, dell'assoluta necessità della somma stessa al soddisfacimento di bisogni essenziali non altrimenti fronteggiabili. Ai fini della sospensione dell'esecuzione della condanna civile in pendenza di ricorso per cassazione, il requisito del grave ed irreparabile danno può essere ravvisato anche in riferimento all'esecuzione che ha ad oggetto beni fungibili, in particolare somme di denaro, quando l'importo da pagare è in assoluto tanto elevato da incidere sensibilmente sullo stato economico di qualunque persona, ovvero quando esso risulta elevato se commisurato al patrimonio complessivo dell'obbligato, patrimonio da valutare anche nella prospettiva degli incrementi futuri conseguenti allo svolgimento dell'attività lavorativa o di qualsiasi attività lucrativa. In tali casi, ai fini della prova dell'esistenza di un `danno grave ed irreparabile' è onere dell'istante dimostrare che la somma da versare in esecuzione della condanna abbia un'incidenza rilevante sul proprio patrimonio, non potendosi ritenere grave ed irreparabile il danno solo in base alla effettiva considerazione della elevata entità della somma. L'accoglimento della richiesta di sospensione dell'esecuzione della condanna civile al pagamento di una somma di denaro postula la prova, ad onere dell'interessato, dell'assoluta necessità della somma stessa al soddisfacimento di bisogni essenziali non altrimenti fronteggiabili. Ai fini dell'accoglimento della richiesta di sospensione dell'esecuzione della condanna civile al pagamento di una provvisionale è necessaria la ricorrenza di un pregiudizio eccessivo per il debitore, che può consistere nella distruzione di un bene non reintegrabile ovvero, se si tratta di somme di denaro, nel nocumento derivante dal palese stato di insolvibilità del destinatario della provvisionale, tale da rendere impossibile o altamente difficoltoso il recupero di quanto pagato, nel caso di modifica della condanna. In altri termini, la irreparabilità del danno per chi è chiamato a corrispondere una provvisionale può derivare o dalla circostanza che la somma di denaro liquidata sia particolarmente elevata in rapporto alla disponibilità dell'obbligato, sì che questi corra il rischio di essere privato di beni necessari per le sue esigenze esistenziali; o dalla circostanza che la futura insolvenza del creditore possa mettere in pericolo la possibilità di recupero della futura somma''. (V. anche Cass. 26 settembre 2018, n. 41348).
``La sospensione dell'esecuzione della condanna civile prevista dall'art. 612 c.p.p. riguarda anche l'istituto della provvisionale. L'imputato risulta condannato al pagamento di somme a titolo di provvisionale in favore dell'Inail. Per contro, egli risulta destinatario di una generica condanna al risarcimento dei danni patiti dagli enti (Aiea, Anmil, Uil Fionm Cgil) costituitisi parti civili. È inammissibile l'istanza di sospensione dell'esecuzione della condanna civile, proposta dal condannato, quando il giudice di merito abbia pronunciato una condanna solo generica al risarcimento dei danni in favore della parte civile, atteso che la richiesta di inibitoria può avere ad oggetto esclusivamente decisioni dotate di efficacia esecutiva. In presenza di più soggetti solidalmente obbligati deve tenersi conto della specifica azione di regresso accordata al soggetto adempiente nei confronti dei coobbligati, di tal che è onere dell'imputato dimostrare anche la concreta inidoneità della predetta azione a soddisfare i propri bisogni essenziali''.
``La condanna al pagamento della provvisionale di cui all'art. 539, comma 2, c.p.p. presuppone il positivo accertamento dell'esistenza del danno conseguenza risarcibile e della possibilità di una sua parziale liquidazione. Poiché tale accertamento è destinato a far stato nel processo civile in ordine alla sussistenza del danno risarcibile, la condanna può essere oggetto di impugnazione da parte dell'imputato''. ``In caso di condanna generica al risarcimento del danno, la parte civile può investire per la prima volta il giudice dell'appello della richiesta di una provvisionale mai precedentemente proposta. Sulla domanda il giudice dell'appello ha il dovere di esprimersi utilizzando gli stessi criteri di giudizio previsti per il giudice di primo grado''. (Fattispecie relativa a infortunio addebitato all'amministratore unico e rappresentante legale della s.r.l. appaltatrice e al direttore tecnico di cantiere e RSPP dell'impresa appaltante).
Di grande rilievo è, anzitutto, una pronuncia della Corte Costituzionale:
``Si procedeva a carico di R. S. e altri dirigenti e tecnici in servizio presso lo stabilimento dell'ILVA di Taranto, in relazione ai reati di cui agli artt. 110 e 437, commi 1 e 2, c.p., per avere omesso di predisporre cautele volte a prevenire la proiezione di materiale incandescente e strumentazioni idonee a garantire l'incolumità dei lavoratori, da cui è derivato l'infortunio mortale di un operaio - e agli artt. 113 e 589 c.p., per avere determinato la morte del predetto operaio mediante le omissioni di cui sopra. Nella fase delle indagini preliminari, il pubblico ministero ha disposto il sequestro preventivo d'urgenza, senza facoltà d'uso, del citato altoforno. Il GIP ha convalidato il decreto del pubblico ministero e ha disposto il sequestro preventivo dello stesso impianto, senza facoltà d'uso. È quindi intervenuto l'art. 3 del D.L. n. 92 del 2015, il cui comma 1 prevede che `[a]l fine di garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell'attività produttiva, di salvaguardia dell'occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell'ambiente salubre, nonché delle finalità di giustizia, l'esercizio dell'attività di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale non è impedito dal provvedimento di sequestro [...] quando lo stesso si riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori'. Il comma 2 aggiunge che `[t]enuto conto della rilevanza degli interessi in comparazione, nell'ipotesi di cui al comma 1, l'attività d'impresa non può protrarsi per un periodo di tempo superiore a 12 mesi dall'adozione del provvedimento di sequestro'. Il successivo comma 3 stabilisce poi che `[p]er la prosecuzione dell'attività degli stabilimenti di cui al comma 1, senza soluzione di continuità, l'impresa deve predisporre, nel termine perentorio di 30 giorni dall'adozione del provvedimento di sequestro, un piano recante misure e attività aggiuntive, anche di tipo provvisorio, per la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, riferite all'impianto oggetto del provvedimento di sequestro', aggiungendo che `[l]'avvenuta predisposizione del piano è comunicata all'autorità giudiziaria procedente'''. La Corte Cost. dichiara l'illegittimità costituzionale di tale disposizione: Nella normativa in giudizio, la prosecuzione dell'attività d'impresa è subordinata esclusivamente alla predisposizione unilaterale di un `piano' ad opera della stessa parte privata colpita dal sequestro dell'autorità giudiziaria, senza alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati. Il legislatore concede un termine di trenta giorni per la predisposizione del piano, il quale peraltro può anche essere provvisorio: dunque, manca del tutto la richiesta di misure immediate e tempestive atte a rimuovere prontamente la situazione di pericolo per l'incolumità dei lavoratori. Tale mancanza è tanto più grave in considerazione del fatto che durante la pendenza del termine è espressamente consentita la prosecuzione dell'attività d'impresa `senza soluzione di continuità', sicché anche gli impianti sottoposti a sequestro preventivo possono continuare ad operare senza modifiche in attesa della predisposizione del piano e, quindi, senza che neppure il piano sia adottato. L'unico limite temporale effettivo è posto al comma 2, che stabilisce che l'attività di impresa non può protrarsi per un periodo di tempo superiore a dodici mesi dall'adozione del provvedimento di sequestro. Quanto al contenuto, il piano deve recare `misure e attività aggiuntive, anche di tipo provvisorio', non meglio definite, neppure attraverso un rinvio, che pure sarebbe stato possibile, alla legislazione in materia di sicurezza sul lavoro. Il mancato riferimento a specifiche disposizioni delle leggi in materia di sicurezza sul lavoro o ad altri modelli organizzativi e di prevenzione lascia sfornito l'ordinamento di qualsiasi concreta ed effettiva possibilità di reazione per le violazioni che si dovessero perpetrare durante la prosecuzione dell'attività. Nella formazione del piano non è prevista alcuna partecipazione di autorità pubbliche, le quali devono essere informate solo successivamente. Tale comunicazione assume la forma di una mera comunicazione-notizia, per quanto riguarda l'autorità giudiziaria procedente (art. 3, comma 3) e si traduce nell'attribuzione di un generico potere di monitoraggio e ispezione per quanto riguarda INAIL, ASL e Vigili del Fuoco; tale potere, peraltro, si limita alla verifica della corrispondenza tra le misure aggiuntive indicate nel piano e quelle in concreto attuate dall'impresa, così da renderne ambigua e indeterminata l'effettiva possibilità di incidenza (art. 3, comma 4). ``Il legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l'interesse alla prosecuzione dell'attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.). Il sacrificio di tali fondamentali valori tutelati dalla Costituzione porta a ritenere che la normativa impugnata non rispetti i limiti che la Costituzione impone all'attività d'impresa la quale, ai sensi dell'art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l'incolumità e la vita dei lavoratori costituisce infatti condizione minima e indispensabile perché l'attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona. In proposito questa Corte ha del resto già avuto occasione di affermare che l'art. 41 Cost. deve essere interpretato nel senso che esso `limita espressamente la tutela dell'iniziativa economica privata quando questa ponga in pericolo la sicurezza del lavoratore' (sentenza n. 405 del 1999). Così come è costante la giurisprudenza costituzionale nel ribadire che anche le norme costituzionali di cui agli artt. 32 e 41 Cost. impongono ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell'integrità fisica dei lavoratori (sentenza n. 399 del 1996)''.
Da leggere, oltre a Cass. 11 settembre 2020, n. 25927, sub art. 13, in Premessa, e a Cass. 21 aprile 2023 n. 17009:
Per un infortunio mortale contestato al datore di lavoro e occorso a dipendente precipitato dal tetto di un capannone, il P.M., oltre a convalidare il sequestro del capannone operato di iniziativa dalla polizia giudiziaria, dispone il sequestro probatorio dei cellulari della persona offesa e degli indagati ``al fine di accertare compiutamente la notizia di reato e di ricostruire la prestazione lavorativa resa dalla persona offesa, le modalità e la tempistica della stessa e il rapporto di committenza a base dell'intervento effettuato dalla ditta per lo svolgimento di successivi accertamenti tecnici sugli stessi''. La Sez. IV condivide la motivazione formulata dal Tribunale del Riesame: ``È legittimo un sequestro anticipato che preceda, cioè, la perquisizione informatica, anche esteso e totalizzante, purché nel provvedimento siano individuati il fumus del reato e il collegamento tra tale reato e i dati informatici, la finalità probatoria che sorregge il vincolo e (nel caso in cui non siano vincolati i dati, ma l'intero supporto) anche la ragione della necessità del sequestro integrale, e purché il vincolo sia finalizzato ad una successiva analisi tecnica diretta alla identificazione dei dati rilevanti per la prosecuzione delle indagini. La copia integrale dei dati potrà essere trattenuta dal Pubblico Ministero solo per il tempo necessario ad effettuare la selezione di quelli che assolvono alla funzione probatoria sottesa al sequestro: il Pubblico Ministero è tenuto a predisporre adeguata organizzazione per compiere la selezione nel più breve tempo possibile e a restituire la c.d. copia integrale agli aventi diritto, una volta compiuta l'attività di selezione''. E ancora: ``Il Tribunale ha dato conto delle ragioni che hanno giustificato l'apprensione del telefono cellulare, con particolare riferimento: (i) al nesso tra la res sequestrata e il reato ipotizzato ed alla finalità probatoria sottesa, collegata alla necessità di ricostruire le mansioni affidate alla vittima, le modalità e la tempistica di tali mansioni; (ii) all'impossibilità di provvedere ad una `selezione tecnica preventiva', trattandosi di attività che richiede la predisposizione di strumenti tecnici e competenze specialistiche da demandare a un tecnico e prontamente demandate''.
La Sez. IV annulla il sequestro probatorio avente ad oggetto un immobile e l'intera area su cui insiste dove è avvenuto un infortunio mortale, adottato ``per permettere al giudice del dibattimento di fare le proprie valutazioni'': ``Appare dirimente la circostanza che la richiesta di dissequestro abbia ad oggetto anche l'area non interessata all'infortunio, ossia l'area di pertinenza dell'immobile e individuabile come l'intera proprietà immobiliare delimitata dal muro di recinzione, ferma restando l'esigenza di mantenere il sequestro su quella porzione della proprietà sulla quale insistevano il cantiere nel quale è posto il macchinario utilizzato dal dipendente infortunato e la zona di scavo. Non si vede come, anche volendo salvaguardare possibili esigenze di integrazione probatoria in sede dibattimentale, possa essere ritenuto necessario il fermo a tempo indeterminato di tutta la proprietà (immobile non ultimato, senza infissi e bisognevole di manutenzione), in minima parte interessata alla ricostruzione delle cause del sinistro mortale, evidentemente dato per accertato nei suoi elementi costitutivi così da rendere necessaria la verifica dibattimentale. Non esiste la figura autonoma del sequestro del corpo di reato come `quartum genus' (rispetto al sequestro probatorio, preventivo e conservativo) suscettibile di automatica e obbligatoria applicazione in virtù della sola qualità della cosa, essendo invece necessario che ogni provvedimento diretto all'apprensione della res ed alla conseguente imposizione del vincolo temporaneo di indisponibilità su di essa rientri, per le specifiche finalità di volta in volta perseguite, in uno dei tre menzionati modelli legali. Corollario di tale principio è che se il sequestro del corpo di reato è disposto a fini di prova, debbono essere comunque esplicitate, così come avviene per le cose pertinenti al reato, le ragioni che giustificano in concreto la necessità dell'acquisizione interinale del bene `per l'accertamento dei fatti' inerenti al thema decidendum del processo, secondo il catalogo enunciato dall'art. 187 c.p.p., in funzione cioè dell'assicurazione della prova del reato per cui si procede o della responsabilità dell'autore. D'altra parte, che l'apprensione del corpo di reato non sia sempre necessaria per l'accertamento dei fatti, oltre che dalla comune esperienza dettata dalla varietà delle vicende processuali, emerge inequivocamente dalla lettura coordinata della norma del comma 1 dell'art. 253 c.p.p. con quella del comma 1 dell'art. 262 c.p.p., la quale, senza operare alcuna differenziazione tra corpo di reato e cose pertinenti al reato, prevede la restituzione delle `cose sequestrate' a chi ne abbia diritto, anche prima della sentenza, `quando non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova': si riconosce così, per evidenti ragioni di economia processuale, che, perché trovi legittima giustificazione l'esercizio del potere coercitivo anche in sede di controllo da parte del giudice del riesame, tali fini, almeno inizialmente, devono in ogni caso sussistere ed essere esplicitati nella motivazione del provvedimento con cui il potere si manifesta, ben potendo le esigenze attinenti al thema probandum essere altrimenti soddisfatte senza creare un vincolo superfluo di indisponibilità sul bene. Nella fattispecie, il provvedimento impugnato di sequestro dell'immobile e dell'area circostante non rivela alcuna specifica finalità probatoria per l'accertamento dei fatti reato né, tantomeno, indica sulla base di quali elementi si renda necessario il mantenimento del vincolo in parola in vista del dibattimento''.
Nell'ambito di procedimento penale per i reati di omicidio e lesioni colpose relativamente al decesso e alla malattia professionale patiti da due lavoratori, il P.M. dispone ai fini delle successive analisi il sequestro probatorio di campioni di guanti e di una tenda acquisiti in sede di sopralluogo presso lo stabilimento della s.p.a. dal consulente nominato allo scopo di accertare l'eventuale esposizione dei lavoratori a fibre di amianto, l'intensità e le modalità della esposizione e le misure di sicurezza eventualmente violate sul luogo di lavoro. La Sez. IV rileva che ``l'acquisizione dei beni poi sequestrati dal P.M. era avvenuta nel contesto del sopralluogo strumentale all'espletamento dell'incarico ricevuto (comprensivo del campionamento di materiale massivo da sottoporre a successiva analisi) e la stessa non era stata propedeutica al rinvenimento di tracce o altri effetti del reato, versandosi in ipotesi di campionamento di materiale necessario all'accertamento da eseguirsi nell'espletamento del mandato ricevuto dall'ausiliario del P.M.''. Considera poi ``giustificata l'apposizione del vincolo reale sui beni dei quali si è chiesta la restituzione, trattandosi di cose che, in quanto utilizzate e presenti nello stabilimento ove avevano prestato, sia pure anni addietro, la loro attività lavorativa i due dipendenti, persone offese dei reati ipotizzati, possono presentare tracce di agenti chimici patogeni del tipo di quelli che si assume abbiano innescato le patologie di cui le stesse soffrono o hanno sofferto''.
La Sez. III annulla con rinvio il sequestro preventivo di un intero capannone industriale utilizzato da varie imprese: ``Il tribunale ha ravvisato i gravi indizi della commissione di plurime violazioni alle norme in materia di igiene e sicurezza dei luoghi di lavori, nonché il pericolo che la libera disponibilità dello stesso possa protrarre e aggravare le conseguenze di tali reati, omettendo, tuttavia, di considerare in alcun modo la richiesta della indagata di revoca del sequestro limitatamente ai macchinari da cucitura presenti all'interno del capannone. Tale richiesta non è, infatti, stata in alcun modo presa in considerazione, né dandosi atto della sua formulazione, né, tantomeno, delle ragioni del mantenimento del vincolo anche sui macchinari industriali da cucitura posti all'interno del capannone oggetto del provvedimento di sequestro, in ordine alla cui non rispondenza alle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e di salvaguardia dell'igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro non vi è alcun cenno. Fondata risulta anche la censura relativa alla violazione dei principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità. Tali principi -dettati dall'art. 275 c.p.p. per le misure cautelari personali - sono applicabili anche al sequestro preventivo, e devono quindi costituire oggetto di valutazione preventiva e non eludibile da parte del giudice nell'applicazione delle cautele reali, al fine di evitare un'esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata. Ne consegue che, qualora detta misura trovi applicazione, il giudice deve motivare adeguatamente sull'impossibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso una cautela alternativa meno invasiva''.
Nell'ambito di procedimento penale per il delitto di omicidio colposo in danno di un lavoratore infortunato, venne disposto il sequestro probatorio dell'intera area adibita a demolizione veicoli gestita dal datore di lavoro, in quanto «l'area sequestrata costituiva locus commisi delicti e tanto valeva a integrare il nesso di pertinenzialità con il reato contestato». Stando invece al datore di lavoro, era stato «disatteso l'obbligo di motivare specificamente la necessità probatoria perseguita con il provvedimento, omettendo di indicare il nesso di causalità esistente tra l'area sequestrata e il tragico evento», e «il decesso del lavoratore era avvenuto nel mentre costui stava effettuando riparazioni su un veicolo posteggiato sull'area, sicché le indagini per l'accertamento di eventuali responsabilità si sarebbero dovute incentrare esclusivamente sul veicolo in argomento». La Sez. III accoglie il ricorso del datore di lavoro: «nel caso in esame, non emerge la finalità probatoria del sequestro posto in essere, il quale ha investito un'intera area destinata ad attività produttiva senza specificazione alcuna riguardo alle ragioni per le quali la medesima dovesse essere ritenuta nella sua interezza corpo di reato e sussistesse la strumentalità del sequestro rispetto alla prosecuzione delle indagini in relazione al reato».
Nell'ambito di un procedimento penale per il reato di lesioni personali colpose commesso in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ai danni di un lavoratore, il tribunale del riesame annulla il decreto di sequestro preventivo emesso dal giudice per le indagini preliminari in ordine a società e a relative aziende riferibili all'imputato. E ciò sul presupposto della «inammissibilità del sequestro preventivo in relazione a un'attività imprenditoriale, atteso il carattere prettamente ablatorio (e non già interdittivo) della misura cautelare in esame, tale da imporne la riferibilità esclusivamente ad una res pertinente al reato, con la conseguente sequestrabilità dei soli `beni', e non già di un'impresa o di un'attività imprenditoriale, vieppiù a fronte della piena ricorribilità ai rimedi specifici di cui al D.Lgs. n. 231/2001 (in tema di responsabilità amministrativa degli enti) esperibili anche in relazione al delitto di lesioni personali gravi». Nell'accogliere il ricorso del pubblico ministero avverso l'ordinanza del tribunale, la Sez. IV sottolinea che, «al di là della pacifica e indiscutibile insequestrabilità delle società commerciali in quanto tali (come erroneamente indicato nell'originario provvedimento di sequestro preventivo emesso dal giudice per le indagini preliminari), vale sotto altro aspetto evidenziare come la giurisprudenza di legittimità, in tema di sequestro preventivo di aziende, abbia conosciuto alterne vicende con riguardo al tema della sequestrabilità delle aziende strutturate per lo svolgimento di attività lavorativa con prevalente impiego di lavoratori privi di permesso di soggiorno». Rammenta che, «secondo un primo orientamento, deve ritenersi legittimo il sequestro preventivo di immobili, strutture e apparecchi costituenti l'azienda funzionalmente ed economicamente produttiva, allorché essi siano impiegati per lo svolgimento dell'attività lavorativa prevalente di lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno, essendo l'imposizione del vincolo funzionale ad impedire la prosecuzione dello sfruttamento di manodopera illegale (Cass., Sez. I, n. 18550/2009)», e che, «secondo altro orientamento, deve escludersi l'assoggettabilità a sequestro preventivo dell'immobile, delle strutture e degli apparecchi costituenti l'azienda funzionante ed economicamente produttiva in ragione dell'occupazione non totalitaria o prevalente di lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, in quanto tali beni non sono in rapporto di pertinenzialità rispetto al reato di cui all'art. 22, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 e succ. modd. (Cass., Sez. I, n. 34605/2007)». Osserva che «i termini del contrasto insorto, e qui rapidamente richiamato, non hanno peraltro mai investito la questione della sequestrabilità in sé dell'azienda, come bene produttivo (cfr. l'art. 2555 c.c. secondo cui l'azienda è «il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa»), bensì il suo eventuale rapporto di pertinenzialità rispetto al reato». Ciò premesso, la Sez. IV chiarisce che «la giurisprudenza di questa corte di legittimità ha costantemente avuto modo di sottolineare come, in materia di sequestro preventivo, oggetto della misura cautelare reale può essere anche un'intera azienda, ove sussistano indizi che anche taluno soltanto dei beni aziendali, proprio per la sua collocazione strumentale, sia utilizzato per la consumazione del reato, a nulla rilevando la circostanza che l'azienda svolga anche normali attività imprenditoriali (Cass., Sez. VI, n. 27340/2008; Cass. Sez. III, n. 6444/2007; Cass., Sez. III, n. 47918/2003; Cass., Sez. VI, n. 36773/2003; Cass., Sez. V, n. 25489/2002; Cass., Sez. VI, n. 29797/2001)». Ne desume che «deve ritenersi emessa in violazione di legge l'ordinanza impugnata, nella parte in cui esclude in via di principio la suscettibilità dell'azienda a costituire oggetto di sequestro preventivo, indipendentemente dall'indagine di merito riguardante il rapporto di pertinenzialità della misura rispetto al reato, ovvero l'eventuale proporzionalità di detta misura cautelare rispetto alle esigenze cui è destinata». A quest'ultimo riguardo richiama «il principio sancito da Cass., Sez. V, n. 8152/2010, nella parte in cui ammonisce come i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, dettati dall'art. 275 c.p.p. per le misure cautelari personali, devono ritenersi applicabili anche alle misure cautelari reali e devono costituire oggetto di valutazione preventiva e non eludibile da parte del giudice nell'applicazione delle cautele reali, al fine di evitare un'esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata». E sottolinea, «qualora detta misura trovi applicazione, il giudice deve motivare adeguatamente sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato della misura cautelare reale con una meno invasiva misura interdittiva».
Significativa, infine:
Perquisizione e conseguente sequestro probatorio presso la sede di una s.p.a. per i reati di cui agli artt. 589 e 589 bis c.p. nell'ambito del procedimento relativo al crollo del Ponte Morandi. Nel respingere il ricorso presentato dalla s.p.a., la Sez. IV fornisce un utile chiarimento. Prende atto che nel caso di specie ``il decreto di perquisizione e sequestro emesso dal Pubblico Ministero era del seguente tenore: `poiché vi è fondato motivo di ritenere che presso la sede della società possa trovarsi documentazione cartacea ed informatica, anche in bozza, note, appunti di qualunque tipo afferente le verifiche e i calcoli relativi al transito dei trasporti eccezionali sul viadotto e sul tronco dall'anno 2000 nonché le verifiche di sicurezza di primo e di secondo livello, ordina la perquisizione locale degli uffici della società; il sequestro della documentazione rinvenuta e/o esibita, comprensiva di note appunti di qualunque tipo, anche se contenuta su supporti informatici, ritenuta pertinente ai reati per cui si procede''. Ne desume che ``il sequestro probatorio doveva intendersi di P.G., poiché il decreto del Pubblico Ministero conteneva un generico ordine di sottoposizione a vincolo reale di quanto rinvenuto presso la sede della società e non indicava specificamente le cose da sequestrare''. Spiega che ``la P.G. non può essere lasciata arbitra di valutare la rilevanza delle cose da sottoporre a sequestro ai fini delle indagini e, soprattutto, di attribuire alle medesime una qualificazione giuridica quali cose costituenti corpo del reato o ad esso pertinenti'', e che ``ciò non le impedisce il sequestro, ma la correttezza di tale qualificazione va sottoposta all'avallo dell'autorità giudiziaria procedente attraverso la convalida, quando il decreto di perquisizione non indica specificamente le cose da sequestrare''. Ritiene nel caso di specie il provvedimento di sequestro operato dalla P.G. non autonomamente impugnabile. E precisa che, ``operato il sequestro di cose la cui indicazione non sia predeterminabile in base alla motivazione del decreto di perquisizione, senza che intervenga da parte dell'autorità giudiziaria né convalida del sequestro né restituzione delle cose sequestrate, la procedura da osservarsi è quella per cui l'interessato dovrà chiedere la restituzione dei beni ed in caso di rigetto della richiesta potrà attivare il ricorso di cui all'art. 263, commi 4 e 5, c.p.p.''.
Su un caso di sequestro preventivo di un'attrazione composta da un'autogrù, un bozzello e una piattaforma girevole sollevata da terra per circa 40 metri e ospitante un pasto della durata di circa un'ora v.:
Contestati i reati di cui agli artt. 451 c.p., 28, comma 2, lettere b), c) d), 71, comma 4, lettera a), p. 1, 75, 163 D.Lgs. n. 81/2008. Nell'area operavano quattro imprese: una s.r.l., esercente attività di giostra con piattaforma rotante orientabile con due dipendenti; un'impresa individuale esercente attività di noleggio autogrù; un'altra s.r.l. esercente attività di ristorazione e catering con due dipendenti; ancora un'impresa individuale esercente ristorante-bar con tre dipendenti. La Sez. IV annulla con rinvio il sequestro preventivo. Prende le mosse da una analisi minuziosa della normativa di settore (R.D. n. 635/1940, Legge n. 337/1968, D.M. 18 maggio 2007, R.D. 6 maggio 1940 n. 635, D.M. 13 dicembre 2012, D.M. 30 giugno 2020, D.M. 30 giugno 2020). Rileva che ``all'attrazione è stato attribuito da un Comune un codice identificativo sulla base del parere della Commissione di vigilanza sui locali di pubblico spettacolo''. Nota che, ad avviso del Tribunale del riesame, ``la certificazione di conformità della giostra in realtà si discosta dalla normativa sulla sicurezza e la salute dei lavoratori, perché l'attrezzatura, composta di tre parti (autogrù, bozzello e piattaforma), non corrisponde al manuale d'uso del mezzo di sollevamento redatto dal costruttore'', manuale che, ``da un lato, non prevede l'utilizzo per il sollevamento di persone, dall'altro, impone il ricorso a componenti omologati dal costruttore, laddove il bozzello era stato espressamente costruito da altra azienda'', con il risultato di realizzare ``un'attrezzatura non conforme alle indicazioni dei produttori dei suoi componenti, con conseguente violazione delle disposizioni dettate dal D.Lgs. n. 81/2008''. La Sez. IV ammette che, in forza dell'art. 71, comma 4, lettera a) punto 1), D.Lgs. n. 81/2008, il datore di lavoro ``prende le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano installate ed utilizzate in conformità alle istruzioni d'uso'', ma obietta che ``ciò, nondimeno, in linea astratta, non significa di per sé che un'attrezzatura non possa essere adattata o modificata, ma solo che essa debba essere utilizzata secondo le istruzioni d'uso, eventualmente anche esse riadattate in conformità delle modificazioni apportate, essendo queste ultime io strumento per garantire la sicurezza dell'attrezzatura medesima come risultante dall'adattamento o dalla modifica''. Precisa che ``le modificazioni non potranno che rispettare il disposto dell'art. 70 D.Lgs. n. 81/2008, secondo il quale `le attrezzature di lavoro messe a disposizione dei lavoratori devono essere conformi alle specifiche disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle Direttive comunitarie di prodotto' (comma 1), mentre, laddove esse siano costruite in assenza di disposizioni legislative e regolamentari o siano messe a disposizione dei lavoratori antecedentemente all'emanazione di norme legislative e regolamentari di recepimento delle Direttive comunitarie di prodotto, devono essere conformi ai requisiti generali di sicurezza di cui all'Allegato V del medesimo D.Lgs. (comma 2)''. Aggiunge che lo stesso D.M. 18 maggio 2007, relativo alle norme di sicurezza per le attività di spettacolo viaggiante, precisa all'art. 3 che `ogni nuova attività' deve essere, `ai fini della sicurezza, progettata, costruita, collaudata ed utilizzata secondo quanto previsto dalle norme di buon tecnica emanate dagli organismi di normalizzazione nazionale o europei o, in assenza, di standard di buona tecnica di riconosciuta validità'''. Sottolinea che, ``pur non potendosi prescindere dalle istruzioni di sicurezza del costruttore dei singoli componenti dell'attrezzatura, ciò che conta è che il loro assemblamento, necessario per costruire la `nuova attività', sia conforme alla normativa interna sulla sicurezza delle attrezzature di lavoro ed alle norme tecniche emanate dagli organismi di normalizzazione nazionale o europei (norme UNI EN, destinate ad uniformare la normativa tecnica nell'Unione Europea) perché proprio queste costituiscono il raffronto tecnico della sicurezza delle apparecchiature''. Ne desume che, ``al di là della constatazione della certificazione di conformità dell'ente accreditato posta dall'autorità amministrativa alla base dell'attribuzione del codice identificativo, il giudice, per valutare la sussistenza dei requisiti di sicurezza della giostra, avrebbe dovuto porsi a confronto con la normativa UNI EN 13814, per verificare se l'attrezzatura come risultante dall'assemblamento dei componenti - autogrù, bozzello, piattaforma - fosse conforme a quelle disposizioni, relative proprio alla sicurezza delle giostre e dei dispositivi per il divertimento''. Sicché rimprovera al Tribunale del riesame di essersi ``fermato alla constatazione dell'assenza di omologazione del bozzello montato sull'autogrù da parte del costruttore di questa'', e considera irrilevante ``il fatto che l'autogrù non fosse originariamente destinata al sollevamento di persone, posto che quello che deve essere considerato è se il suo assemblaggio con il bozzello adottato e la piattaforma sia idoneo allo scopo, secondo le normative UNI EN 13814-1, che stabiliscono i requisiti di sicurezza per le giostre''. All'atto del controllo ispettivo, furono indicate ``carenze del DVR, in ordine alla valutazione dei rischi per lavoratori ed avventori e all'indicazione delle misure di prevenzione adottate; assenza del programma per il miglioramento della sicurezza; mancata previsione delle misure di evacuazione in quota e di quelle per la rottura dell'unico cavo della gru; insufficienza del personale impiegato; mancata adozione dei dispositivi di protezione individuali (caschi e scarpe antinfortunistiche) e mancata delimitazione dell'area''. Stando poi all'ordinanza del Tribunale del riesame, così come riferita dalla sentenza della Corte Suprema, sarebbero emerse queste circostanze: ``La relazione tecnica per l'installazione dell'attrazione, investiva la figura dell'addetto all'autogrù dell'incarico di controllare costantemente, per tutta la durata della manifestazione, il carico sollevato, la velocità del vento, il peso scaricato a terra su ogni stabilizzatore e la bolla di livellamento. Siffatti compiti, estremamente complessi, erano affidati ad un unico soggetto - peraltro sempre diverso ed estraneo all'organizzazione di chi gestiva il rischio della piattaforma - che normalmente non doveva farsi carico del sollevamento di persone, che non era stato formato a tale scopo ed era chiamato a governare uno strumento modificato rispetto a quello normalmente utilizzato, perché fornito di un bozzello diverso e comunque non progettato per il fine cui era adibito. L'insieme di questi elementi e la più generale carenza del rispetto della normativa sulla sicurezza dei luoghi di lavoro - essendo emersa l'assenza di valutazione dei rischi, anche interferenziali, data la presenza di maestranze di più imprese, nonché la mancata segregazione dell'area ed il mancato utilizzo di dispositivi di protezione individuali per lavoratori e clienti (posto che era stata prevista la possibile caduta di oggetti dall'alto, quali i telefoni cellulari dei clienti)''. Di grande interesse diventa, quindi, chiedersi se il sequestro preventivo non possa essere funzionale alla tutela di lavoratori (e terzi) indipendentemente dalla sicurezza, o no, del mezzo, in rapporto alle violazioni ipotizzate. In proposito, la Sez. IV afferma: ``Le ulteriori contestazioni che riguardano le carenze relative alla mancata fornitura - pur prevista dal DVR - dei dispositivi di protezioni individuali ai lavoratori operanti a terra (non essendo suscettibile di censura la mancanza di simili presidi per coloro che operano in quota, in assenza del pericolo di caduta di oggetti dall'alto), all'assenza di adeguata segregazione dell'area, alle carenze del documento di valutazione dei rischi, anche interferenziali ineriscono a violazioni estranee alla sicurezza dell'autogrù, ciò imponendo una rivalutazione della sussistenza dei presupposti applicativi della misura reale che colpisce il mezzo e non solo l'attività''.
Sequestro conservativo disposto dal GUP a carico del legale rappresentante di un'azienda agricola e avente per oggetto somme di denaro, beni mobili, beni immobili e crediti dell'imputato sino alla concorrenza di un milione di euro, a tutela delle ragioni creditorie delle sette parti civili costituite nel procedimento per l'omicidio colposo del prossimo congiunto dipendente dell'azienda agricola. Nel rigettare il ricorso dell'imputato, la Sez. IV osserva che, ``ai fini della legittimazione di misure cautelari reali, non è richiesta la presenza di gravi indizi di colpevolezza, non trovando applicazione, in materia, il disposto di cui all'art. 273, comma 1, c.p.p., ma è sufficiente la semplice enunciazione, che non sia manifestamente arbitraria e cervellotica (nel qual caso si avrebbe violazione di legge), di una ipotesi di reato in relazione alla quale si appalesi la necessità di limitare o escludere la libera disponibilità di cose che a quel reato siano pertinenti''. Quanto al periculum in mora, afferma che, ``in tema di sequestro conservativo, in presenza di più debitori chiamati a rispondere in solido, il `periculum in mora' va valutato esclusivamente in relazione al singolo soggetto contro cui la parte civile ha chiesto il sequestro conservativo e non anche in relazioni ai patrimoni dei condebitori solidali''. Spiega che, ``in base alle norme del codice civile, spetta al creditore la libera scelta del debitore contro il quale agire''. Ne desume che ``non assume alcun rilievo il fatto che esistano beni aggredibili facenti capo ad altri soggetti (il responsabile civile, ad esempio)''. Insegna che ``la ricorrenza del `periculum in mora', presupposto del sequestro conservativo, va apprezzata in relazione al rischio di perdita delle garanzie del credito, da desumere da concreti e specifici elementi riguardanti, da un lato, l'entità del credito e la natura del bene oggetto del sequestro e, dall'altro, la situazione di possibile depauperamento del patrimonio del debitore, da porsi in relazione con la composizione del patrimonio stesso, con la capacità reddituale e con l'atteggiamento in concreto assunto dal debitore medesimo''. Ribadisce che ``il ricorso per cassazione avverso provvedimenti come quelli che qui occupano è ammesso solo per violazione di legge''. Nel senso che occorre ``verificare se il Tribunale abbia esposto una valutazione in ordine al possibile depauperamento del patrimonio del debitore, in ragione della composizione del patrimonio stesso, della capacità reddituale e dell'atteggiamento in concreto assunto dal debitore medesimo''. Pone in risalto, nel caso di specie, il ``comportamento del debitore, giudicato propenso a disperdere le garanzie dei creditori, avendo convertito in danaro la quota sociale e venduto beni immobili''.
La Sez. IV conferma il sequestro conservativo sui beni dell'imputato fino alla concorrenza di euro 500.000,00 in favore delle parti civili (i due genitori e la sorella di deceduto per un incidente sul lavoro), in relazione all'imputazione di omicidio colposo di cui all'art. 589 c.p.: ``il Tribunale ha adeguatamente riscontrato il fumus boni iuris del diritto di credito di cui si chiede tutela, sulla scorta di una valutazione sommaria della condotta contestata all'imputato, certamente causativa di un danno effettivo subito dalle parti civili. Altrettanto inevitabilmente sommaria, stante la natura cautelare del presente procedimento, è stata la valutazione complessiva del credito a garanzia, fondata sulle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, prese a riferimento per determinare, secondo una valutazione equitativa non arbitraria né sproporzionata, e comunque - per quanto qui rileva - sicuramente non violativa di alcuna norma di legge, l'importo totale da sottoporre a sequestro conservativo per garantire il credito delle parti civili. Del resto, in tema di sequestro conservativo, qualora la parte civile coincida con la persona offesa dal reato, il giudice del dibattimento non deve valutare la non manifesta infondatezza della domanda risarcitoria, potendo tale giudizio ritenersi già contenuto nella decisione di sottoporre a processo l'imputato''.
Sequestro conservativo nell'ambito di procedimento penale per il reato di disastro colposo contestato in seguuito al crollo di una parte di un immobile. La Sez. IV non accoglie il ricorso degli imputati: ``il giudice del riesame ha adeguatamente rappresentato le ragioni per le quali ha ritenuto la inadeguatezza del patrimonio dei prevenuti a fronteggiare le pretese risarcitorie della parte civile in presenza di pignoramento immobiliare posto a carico dell'unico cespite immobiliare di un imputato, vincolo idoneo a rendere più difficile la soddisfazione del credito risarcitorio, e valorizzando al contempo la intervenuta sottoposizione a liquidazione della società di cui risulta legale rappresentante l'altro imputato, quale espressione di sopravvenuta incapacità solutoria dell'ente. Parimenti infondata appare la censura in ordine alla irrilevanza della polizza assicurativa di cui sia titolare un eventuale terzo responsabile del fatto reato: il rapporto di assicurazione, di natura obbligatoria, risulta invero riferibile al soggetto legato dal rapporto negoziale e non determina alcun vincolo diretto a favore del terzo danneggiante, tanto da non consentire al danneggiato di agire direttamente nei confronti dell'eventuale terzo responsabile in virtù del rapporto assicurativo. Di talché deve ritenersi corretta la valutazione operata dal giudice del riesame che ha escluso la censurabilità della scelta delle parti civili di rivolgere le proprie pretese creditorie nei confronti degli odierni imputati e di inserire l'azione civile nel processo penale instaurato nei loro confronti così come quella di costituirsi una garanzia reale nei loro confronti, pure in presenza di altri obbligati solidali muniti di maggiori garanzie patrimoniali, atteso che nei rapporti diretti con il danneggiato gli odierni imputati non possono fare valere la eventuale garanzia di cui sia titolare il terzo coimputato. Analoga considerazione deve svolgersi nei riguardi dell'istituto assicuratore che garantisce la responsabilità civile di un imputato il quale non ha un vincolo diretto con il danneggiato che può pertanto tutelarsi soltanto nei confronti del suo debitore diretto che è uno degli imputati, sebbene a garanzia di un credito futuro ed eventuale''.
La Sez. IV conferma il sequestro conservativo di un immobile adottato nell'interesse della parte civile in un procedimento penale a carico del titolare di un'impresa edile per infortunio sul lavoro ``con particolare riguardo alla inefficacia degli atti a titolo gratuito o oneroso (artt.192 e 193 c.p.), se compiuti dopo la commissione del reato, rispetto ai crediti dell'Erario ed a quelli derivanti dalle obbligazioni civili nascenti da reato indicati nell'art. 316, commi 1 e 2, c.p.p.''. Nel caso di specie, ``l'atto di scioglimento per mutuo dissenso della donazione, avvenuta trai genitori dell'imputato donanti e l'imputato (donatario), reca la data successiva al delitto di lesioni e quindi è soggetto a revocatoria penale. Il richiamo all'art. 1372 cc. (scioglimento del contratto per mutuo consenso) ed alla asserita efficacia retroattiva dell'accordo ivi contemplato non è pertinente e comunque non è giuridicamente corretto, poiché in tema di risoluzione consensuale del contratto, il mutuo dissenso da vita ad un nuovo contratto di natura solutoria e liberatoria, con contenuto uguale e contrario a quello del contratto originario ed ha per sua natura efficacia ex nunc, nel senso che da esso deriva la caducazione delle obbligazioni scaturenti dal contratto originario relativo alla prosecuzione del rapporto, onde, in ordine al mancato adempimento delle prestazioni ulteriori previste, non può configurarsi responsabilità contrattuale per omissione, mentre nessun effetto liberatorio esplica il negozio risolutorio in ordine ad altri eventuali aspetti di responsabilità per prestazioni già eseguite''.
``L'unico bene che consentirebbe all'imputato di lavoro di soddisfare le ragioni di credito vantate nei suoi confronti dalle parti civili è l'immobile in vinculis, il cui valore stimato è pari ad euro 700.000. Senonché il comportamento mantenuto dall'imputato non lascia ben sperare in ordine alla conservazione del predetto bene, preordinatamente ad un eventuale, futuro adempimento spontaneo del credito, in quanto trattasi della casa in cui l'indagato vive con la sua famiglia e deve anche tenersi conto della condotta tenuta da quest'ultimo sia in occasione del sinistro, avendo egli concorso alla rapida alterazione dello stato dei luoghi, quando ancora la persona offesa giaceva a terra, gravemente ferita ma non ancora deceduta, sia successivamente, non avendo egli formulato nei tre anni successivi all'evento letale alcuna proposta risarcitoria in favore delle parti civili, diversamente dai coimputati. Di qui la conclusione circa la sussistenza del pericolo che l'imputato, nelle more del processo, ponga in essere atti dispositivi idonei al depauperamento del proprio patrimonio. Il periculum va valutato, oltre che con riguardo all'entità del credito del richiedente, con riferimento ad una situazione, desunta da elementi certi e univoci, di potenziale depauperamento del patrimonio del debitore, da porsi in relazione, oltre che con la composizione del patrimonio stesso e la capacità reddituale del debitore, con l'atteggiamento in concreto assunto da quest'ultimo''.
Nell'ambito di un procedimento penale per il reato di lesioni personali colpose in conseguenza di un infortunio sul lavoro, fu disposto il sequestro conservativo dei beni mobili e immobili del datore di lavoro fino alla concorrenza di € 200.000 in favore dell'infortunato. L'imputato deduce l'insussistenza sia del fumus boni iuris, sia del periculum in mora, e lamenta che ``il sequestro è stato disposto su beni impignorabili''. Nel respingere il ricorso dell'imputato, con riguardo al presupposto del fumus boni iuris, la Sez. IV ritiene sufficiente ``il riferimento agli atti contenuti nel fascicolo del PM e prodotti dalla persona offesa da cui si deduce l'evento lesivo a carico del lavoratore e la violazione della normativa infortunistica''. Quanto poi al presupposto del periculum in mora, osserva che ``ricorre quando esiste una fondata ragione che lasci desumere la mancanza o la dispersione delle garanzie del credito''. Ne desume che ``la valutazione del rischio potenziale di perdita delle garanzie del credito deve essere ancorata a concreti e specifici elementi riguardanti da un lato l'entità del credito e la natura del bene oggetto del sequestro, e dall'altro la situazione di possibile depauperamento del patrimonio del debitore da porsi in ulteriore relazione con la composizione del patrimonio stesso, con la capacità reddituale e con l'atteggiamento in concreto assunto dal debitore medesimo''. Nel far richiamo a Sez. Un. 16 settembre 2016 n. 38670, sottolinea che ``ulteriore e imprescindibile requisito, previsto dallo stesso art. 316, comma 1, c.p.p. è che il bene di cui si chiede il sequestro sia suscettibile di pignoramento, posto che il successivo art. 320, comma 1, stabilisce che il sequestro si converte in pignoramento, una volta divenuta irrevocabile la sentenza di condanna al pagamento di una pena pecuniaria ovvero quella che condanna l'imputato al risarcimento del danno''. Precisa che, ``con riferimento ai crediti elencati nell'art. 189 c.p., le parti legittimate possono far valere, già in sede di richiesta della misura cautelare, e a maggior ragione in sede di riesame, le ipotesi di inefficacia automatica degli atti a titolo gratuito compiuti dall'imputato debitore dopo il reato, previste con tali caratteristiche dall'art. 192 c.p., in quanto connotate da evidente callidità e senza che possa rinvenirsi alcuna ragione di tutela in favore dei beneficiari'', e che ``possono essere fatte valere, con un onere di allegazione più complesso, anche quelle riguardanti gli atti a titolo gratuito compiuti prima del reato, al massimo entro l'anno precedente, se si prova che furono realizzati, dall'imputato, in frode (arg. ex art. 194, commi 1 e 2, c.p.), e, infine, quelle riguardanti gli atti a titolo oneroso eccedenti la semplice amministrazione ovvero la gestione dell'ordinario commercio, compiuti dopo il reato, dei quali la legge (art. 193, comma 1) presume essere stati fatti dal debitore in frode, pur richiedendo (al comma 2) la prova della malafede dell'altro contraente, e gli atti di quest'ultimo tipo compiuti prima del reato, con la prova, richiesta dall'art. 194, comma 2, della malafede sia dell'imputato che dell'altro contraente''. Conclude che ``possono essere oggetto di sequestro conservativo, oltre che i beni di proprietà dell'imputato o del responsabile civile, anche i beni di proprietà di terzi, a condizione che emergano elementi da cui risulti la mala fede dei terzi acquirenti o la simulazione del contratto d'acquisto'', e che ``il sequestro conservativo può avere ad oggetto i beni intestati a terzi che ne hanno la titolarità in forza di un atto di donazione dell'imputato, attesa l'inopponibilità al creditore danneggiato dal reato degli atti a titolo gratuito posti in essere dall'imputato''. Sulla scorta di questi principi, la Sez. IV rileva che nel caso di specie ``sia il giudice della cautela che quello del gravame cautelare hanno affrontato il tema dell'impignorabilità dei beni inseriti nel fondo patrimoniale, costituito inequivocabilmente in data successiva alla commissione del fatto, nei quale l'imputato ha conferito la propria quota di proprietà di vari immobili, ritenendo che da ciò derivi il fondato pericolo che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento del credito della parte civile, considerato che dalla documentazione in atti non risulta che l'imputato sia proprietario di altri immobili''. E aggiunge che, ``ai sensi dell'art. 192 c.p., gli atti a titolo gratuito (e tale è la costituzione del fondo patrimoniale), compiuti dal colpevole dopo il reato, non hanno efficacia rispetto ai crediti indicati nell'art. 189 c.p.''. (V. anche Cass. 31 gennaio 2018, n. 4636, ove si annulla con rinvio il sequestro conservativo sui beni degli imputati del reato di disastro colposo a garanzia dell'adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal crollo della corte condominiale di proprietà delle persone offese in quanto privo dell'indicazione degli elementi concreti, anche solo di natura indiziaria, in base ai quali, in presenza della prova della titolarità di numerose proprietà immobiliari, l'autorità giudiziaria potesse dubitare della sufficienza della garanzia patrimoniale in relazione all'ammontare del credito).
Nel ricorrere per cassazione contro il provvedimento di rigetto della richiesta di sequestro conservativo dei beni immobili di proprietà dell'indagato ``ai fini del risarcimento dei danni subiti dalla parte civile e dagli altri prossimi congiunti del lavoratore deceduto nell'infortunio mortale'', la parte civile richiama ``il D.Lgs. n. 212/2015, con cui è stata data attuazione alla direttiva 2012/29/UE che ha istituito norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato''. La Sez. IV ribatte: ``In tema di sequestro conservativo è ammesso il riesame contro l'ordinanza applicativa, ma non è previsto alcun rimedio nei confronti del provvedimento di diniego del sequestro. Tale sistemazione legislativa non può ritenersi limitativa dei diritti della parte danneggiata dal reato che, mediante l'esercizio dell'azione civile, ha la possibilità di una tutela primaria e diretta delle sue pretese''.
Nell'ambito di un procedimento penale per il reato di lesioni personali colpose in conseguenza di un infortunio sul lavoro, fu disposto il sequestro conservativo dei beni mobili e immobili dell'imputato fino alla concorrenza di 400.000 euro in favore dell'infortunato. Nell'eccepire l'insussistenza del periculum in mora, l'imputato osserva che ``il presupposto cautelare deve contenere la valutazione della probabile futura lesione della situazione giuridica di svantaggio oggetto del processo, derivante da un'attuale, e non solo ipotetica, esposizione ad un pericolo'', e che ``il periculum in mora non può essere un mero timore soggettivo, ma deve essere oggettivato, ossia fondato su elementi precisi univoci e concordanti''. Lamenta che ``il giudice del gravame cautelare, senza valutare l'attualità, avrebbe ritenuto sufficiente l'avvenuta cessione, sei mesi dopo l'infortunio, di quote della società alla moglie e ai figli, nonché l'esercizio dei propri diritti di difesa, nell'ambito del giudizio revocatorio di tale cessione''. Aggiunge che ``il reale presupposto da accertare, ai fini dell'imposizione della misura cautelare, consisterebbe nell'accertamento della mancanza di garanzie del credito, non essendo necessario il contestuale pericolo di depauperamento del patrimonio'', e richiama sul punto l'insegnamento impartito da Sez. Un., 11 dicembre 2014 n. 51660. La Sez. IV disattende queste argomentazioni. Prende atto che, nel caso di specie, si è ``ritenuto sussistente il periculum in mora, rappresentato dal rischio che l'imputato potesse volontariamente cercare di sottrarre le garanzie esistenti al soddisfacimento della pretesa risarcitoria della parte lesa'', sul presupposto che ``l'avvenuto tentativo, perpetrato sei mesi dopo l'incidente, di trasferire il 100% delle quote sociali, poi vanificato dall'azione revocatoria espletata dall'infortunato, è stato ritenuto indice di tale volontà, laddove la quota sociale rappresenta la principale garanzia patrimoniale dell'imputato''. Ritiene inconferente ``il richiamo al dictum di questa Corte di legittimità a Sezioni Unite, 11 dicembre 2014 n. 51660, in quanto il principio affermato dalla stessa, secondo cui `per l'adozione del sequestro conservativo è sufficiente che vi sia il fondato motivo per ritenere che manchino le garanzie del credito, ossia che il patrimonio del debitore sia attualmente insufficiente per l'adempimento delle obbligazioni di cui all'art. 316, commi 1 e 2, c.p.p., non occorrendo invece che sia simultaneamente configurabile un futuro depauperamento del debitore', non esclude che il sequestro si possa disporre allorquando si verifichi la concreta possibilità che le garanzie possano venir meno per un'ipotizzabile futuro depauperamento''. Spiega che, secondo la citata sentenza delle Sezioni Unite, ``il sequestro conservativo può essere disposto o confermato sia per l'esistenza di motivi oggettivi, ossia l'inadeguatezza del patrimonio rispetto all'entità del diritto che si può far valere, sia per l'esistenza di motivi soggettivi, ossia per il fondato convincimento della possibile volontaria dispersione della capacità patrimoniale, non occorrendo la presenza di entrambi i requisiti oggettivo e soggettivo''.
Sequestro conservativo disposto dal GIP sui beni degli imputati, fino alla concorrenza di un importo di € 2.000.000, con riferimento al reato di cui all'art. 589 c.p. (omicidio colposo di un lavoratore a seguito di infortunio sul lavoro). La Sez. IV osserva: ``Per l'adozione del sequestro conservativo è sufficiente che vi sia fondato motivo di ritenere che manchino le garanzie del credito, ossia che il patrimonio del debitore sia attualmente insufficiente per l'adempimento delle obbligazioni di cui all'art. 316, commi 1 e 2, c.p.p., non occorrendo invece che sia simultaneamente configurabile un futuro depauperamento del debitore. Nella sostanza il periculum può essere ravvisato sia in elementi oggettivi concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all'entità del credito, sia in elementi soggettivi rappresentati dal comportamento del debitore: i due elementi possono rilevare autonomamente, come chiaramente espresso dalla formula disgiuntiva contenuta nell'art. 316 c.p.p. (`manchino o si disperdano le garanzie ...'). Nel caso in disamina il tribunale del riesame non fa riferimento a condotte del debitore finalizzate alla dispersione del patrimonio, ma giustifica correttamente il sequestro, quanto alla incapienza patrimoniale, facendo riferimento essenzialmente all'elevato ammontare della pretesa risarcitoria avanzata dalle quattro parti civili costituite nel processo (per un importo complessivo pari a € 2.000.000,00), a fronte di una situazione economico patrimoniale degli imputati parzialmente capiente ma di cui non si ha esatta contezza''. ``Il tribunale del riesame, nel valutare l'incapienza patrimoniale del debitore in rapporto all'entità del credito, ha ritenuto quest'ultimo determinabile nella somma di € 2.000.000,00, senza però in alcun modo tenere conto delle indennità corrisposte dall'INAIL, che dà conto di aver corrisposto agli eredi del lavoratore deceduto le prestazioni previdenziali previste dalla legge. Secondo la giurisprudenza civile della Suprema Corte la detrazione, in sede di liquidazione del danno dovuto ai congiunti della vittima di un infortunio sul lavoro colposo, del valore della rendita corrisposta dall'I.N.A.I.L., deve avvenire, per non tradursi in un ristoro parziale o al contrario in un ingiustificato arricchimento, sulla base del confronto di termini omogenei, quali, da una parte, l'ammontare del danno determinato alla data in cui si è verificato e, dall'altra, il valore capitalizzato alla stessa data della rendita; con la conseguenza che rivalutazione ed interessi legali vanno applicati, da tale data al saldo, sulla sola differenza eventualmente risultante a favore dei danneggiati. È indubbio che ai sensi dell'art. 10 D.P.R. n. 1124/1965 debba tenersi conto, ai fini del risarcimento, delle somme corrisposte dall'INAIL a favore degli eredi, con la conseguenza che il tribunale non ha considerato, nella valutazione del periculum, tale fondamentale aspetto, che era stato tempestivamente sollevato dalla difesa dei ricorrenti e che può avere diretta incidenza sul quantum risarcibile e quindi sulla valutazione della effettiva insufficienza del patrimonio del debitore per l'adempimento delle obbligazioni''. Di qui l'annullamento con rinvio dell'ordinanza del tribunale.
Sequestro conservativo sui beni del ricorrente sino alla concorrenza dell'importo di € 2.000.000,00, in relazione al procedimento penale nel quale l'imputato è già stato rinviato a giudizio per il reato di cui all'art. 589 c.p. La Sez. IV respinge il ricorso dell'imputato: ``Tra gli atti che il difensore non può assolutamente compiere (quelli espressamente riservati alla parte) o compiere solo se investito del relativo potere, non rientra quello di iniziativa per ottenere il sequestro conservativo dei beni del debitore, laddove, con riferimento alla intervenuta costituzione, la parte civile assume la qualità di parte nel processo sin dal momento della sua costituzione, senza necessità di un provvedimento ammissivo, sia pure implicito, del giudice, fatta salva la possibilità di provvedere all'esclusione della stessa d'ufficio o su richiesta delle altre parti ex artt. 80 e 81 c.p.p.''. ``Il tribunale ha ricollegato il periculum in mora all'entità e natura della pretesa risarcitoria, al numero delle parti civili costituite e alla insufficienza del compendio immobiliare del debitore, la cui entità neppure è esattamente conosciuta. Ai fini della adozione del sequestro conservativo, è sufficiente che vi sia fondato motivo per ritenere che manchino le garanzie del credito, ossia che il patrimonio del debitore sia attualmente insufficiente per l'adempimento delle obbligazioni di cui all'art. 316, commi 1 e 2, c.p.p., non occorrendo invece che sia simultaneamente configurabile un futuro depauperamento del debitore Si è affermata la legittimità del sequestro conservativo disposto a tutela di un credito, il cui importo sia determinabile con un apprezzamento che, pur approssimativo, è tuttavia ancorato a dati oggettivi e ad argomenti sviluppati in termini idonei a rendere comprensibile il ragionamento del giudice''.
Nel confermare ``il sequestro conservativo di beni mobili ed immobili, compresi eventuali conti correnti bancari, sino alla concorrenza di € 3.000.000,00 risultanti di proprietà del datore di lavoro e di altri soggetti, tutti imputati a vario titolo del reato di omicidio colposo ai danni di un dipendente deceduto a seguito di infortunio sul lavoro'', la Sez. IV spiega: ``Il provvedimento cautelare era stato adottato su richiesta della vedova, costituitasi parte civile in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sui due figli minori, a seguito dell'alienazione da parte del datore di lavoro, ad oltre un anno dalla conclusione delle indagini preliminari, di tre unità immobiliari e del riacquisto di altri tre appartamenti, assoggettati però ad ipoteca di primo grado a seguito di erogazione di mutuo bancario. Il tribunale valutava negativamente tali operazioni economiche, ritenendole oggettivamente idonee ad indebolire la garanzia patrimoniale del debitore, soprattutto in considerazione del fatto che gli immobili di proprietà erano stati venduti ad una società in nome collettivo, la cui non completa autonomia patrimoniale avrebbe reso più difficoltoso l'eventuale soddisfacimento del credito, e che l'ipoteca volontaria costituita sui nuovi immobili, attribuendo alla banca il diritto di espropriazione, avrebbe impedito agli eredi una diretta rivalsa su tali beni. Nel respingere le altre ragioni poste a fondamento della richiesta di riesame, evidenziava poi che il sequestro dei conti correnti bancari andava inteso come sequestro delle somme che in essi confluivano, che la pretesa risarcitoria avanzata dalle parti civili riguardava voci di danno non coperte dalla rendita INAIL, che la mancata citazione del responsabile civile era una scelta processuale non sindacabile e non rilevante ai fini della concessione del provvedimento cautelare, che, infine, era del pari irrilevante l'esistenza di una polizza assicurativa stipulata dall'imprenditore datore di lavoro in quanto vincolante tra i soli contraenti. In ordine alla riconosciuta sussistenza del periculum in mora, il tribunale afferma che per l'adozione del sequestro conservativo è sufficiente che vi sia il fondato motivo di ritenere che manchino le garanzie del credito, ossia che il patrimonio del debitore sia attualmente insufficiente per l'adempimento delle obbligazioni di cui all'art.316, commi 1 e 2, c.p.p., anche in conseguenza di eventuali operazioni economiche idonee ad indebolire la garanzia patrimoniale del soggetto colpito dalla misura. In tal senso si è uniformato ai principi enunciati da questa Corte di legittimità, la quale ha stabilito che il sequestro conservativo va disposto sulla base di un giudizio prognostico negativo in ordine alla conservazione delle garanzie patrimoniali del debitore, mentre è irrilevante che le stesse possano essere disperse per effetto dell'attività del debitore o venire a mancare per ragioni indipendenti dalla sua condotta, e che vanno valutate in senso negativo le operazioni che rendano semplicemente più difficile il recupero del credito, quali la costituzione di ipoteca volontaria, che, attribuendo al creditore ipotecario il diritto di espropriazione dei beni anche nei confronti del terzo acquirente, è indice di inaffidabilità economica e di dispersione delle garanzie patrimoniali. Su tali basi il tribunale ha quindi puntualmente individuato le due operazioni compiute dal datore di lavoro produttive di un simile effetto, indicandole nell'alienazione di immobili di sua proprietà (pro parte) ad una società in nome collettivo, soggetto munito di non completa autonomia patrimoniale, e nella costituzione di un'ipoteca sui nuovi immobili in favore della banca erogatrice del mutuo fruttifero di 70.000 euro utilizzato per l'acquisto, con ammortamento di durata decennale. Quanto poi alla censura della violazione di legge per la mancata considerazione, nella valutazione del periculum, della responsabilità civile delle società interessate alla vicenda nonché dell'esistenza di polizze assicurative, il tribunale ha correttamente ritenuto, da un lato, che la parte civile non aveva alcun onere di chiamare in giudizio soggetti diversi dagli imputati e dunque aveva operato una scelta difensiva non sindacabile, dall'altro che non era stata indicata la norma civile che ai sensi dell'art.185 c.p. avrebbe obbligato le società a rispondere degli illeciti penali dei loro amministratori, essendo inconferente il richiamo all'art. 2049 c.c. Lo stesso dicasi non riferimento alla dedotta violazione dell'art. 10 D.P.R. n. 1124/1964, avendo il tribunale evidenziato che le parti civili avevano prospettato voci di danno non coperte dalla rendita INAIL''.
Nell'ambito di un procedimento penale per 37 omicidi colposi e 6 lesioni personali gravi in danno di lavoratori dipendenti di una s.p.a. esposti ad amianto, il GUP dispose a carico di uno degli imputati il sequestro conservativo avente ad oggetto beni mobili e/o immobili fino all'ammontare di euro 12 milioni, sul presupposto che ``il patrimonio del debitore era inadeguato in rapporto all'entità del credito, dato il consistente numero delle parti civili costituite, mentre il reddito medio annuo denunciato dall'imputato era di poco superiore a euro 10.000,00 ed era ragionevole presumere un depauperamento del patrimonio dell'imputato che stava trasferendo all'estero l'importo complessivo di più di 16 milioni di euro'' e che ``la somma, il cui pagamento la misura cautelare era destinata a garantire, poteva considerarsi pari ad euro 300.000,00 per ciascuna delle 40 parti civili''. Nel rigettare il ricorso proposto dall'imputato contro l'ordinanza del tribunale del riesame confermativa del sequestro conservativo, la Sez. IV rileva: ``perché possa disporsi il sequestro conservativo è necessario che vi sia il periculum in mora che consiste nel fondato timore che possano essere sottratti i beni che debbono garantire il credito'', e che, dunque, ``occorre che sussistano elementi concreti e specifici riguardo alla probabile entità del credito, alla natura e al valore dei beni da sequestrare, alla situazione patrimoniale del debitore ed al rischio di dispersione dei beni''. Precisa che ``le garanzie mancano quando sussista la certezza, allo stato, dell'attuale inettitudine del patrimonio del debitore a far fronte interamente all'obbligazione nel suo ammontare presumibilmente accertato; si disperdono quando l'atteggiamento assunto dal debitore è tale da far desumere l'eventualità di un depauperamento di un patrimonio attualmente sufficiente ad assicurare la garanzia a causa di un comportamento del debitore idoneo a non adempiere l'obbligazione''. Osserva che ``i due eventi, come chiaramente espresso dall'art. 316 c.p.p., con la formula disgiuntiva rilevano (o possono rilevare) autonomamente''. Con riguardo al caso di specie, prende atto che ``il patrimonio del debitore, dopo il trasferimento dei beni all'estero, non avrebbe avuto adeguata consistenza per il soddisfacimento dei creditori, tenuto conto che non era dato conoscere il valore dei beni immobili dell'imputato, che il reddito annuo del medesimo era di circa euro 10.000,00 e che la liquidità residua dopo il trasferimento all'estero della somma oggetto del sequestro era pari a circa 4 milioni e mezzo di euro''. Rammenta che, secondo quanto precisato da Sez. Un., 25 settembre 2014, n. 51660; ``è presente il periculum in mora non solo quando si disperdano ma anche quando manchino le garanzie delle obbligazioni nascenti da reato sicché per l'adozione del sequestro conservativo è sufficiente che vi sia il fondato motivo per ritenere che manchino le garanzie del credito, ossia che il patrimonio del debitore sia attualmente insufficiente per l'adempimento delle obbligazioni di cui all'art. 316, commi 1 e 2, c.p.p., non occorrendo invece che sia simultaneamente configurabile un futuro depauperamento del debitore''. Sottolinea che ``nel caso che occupa sussistono entrambi i presupposti indicati dalla corte suprema in via alternativa per l'ottenimento del sequestro conservativo, posto che con il trasferimento all'estero dei capitali, operazione evitata con il sequestro adottato, si sarebbe realizzato il depauperamento del patrimonio che, per l'effetto, sarebbe divenuto incapiente a fronte delle richieste risarcitorie delle parti civili''. Dichiara ``irrilevante, oltre che manifestamente infondata, la questione di costituzionalità della norma di cui all'art. 316 c.p.p. nell'interpretazione che di essa ha dato la corte suprema a sezioni unite con la citata sentenza, in considerazione del fatto che sono posti sullo stesso piano sia il debitore incapiente che il debitore che agisce al fine di sottrarre i suoi beni alla garanzia patrimoniale, essendo ravvisabile il periculum in mora sia in elementi oggettivi concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all'entità del credito sia in elementi soggettivi, rappresentati dal comportamento del debitore''.
Nell'ambito di un procedimento penale a carico degli amministratori di una s.r.l. per il reato di omicidio colposo in danno di un lavoratore dipendente, fu disposto il sequestro conservativo dei loro beni immobili fino alla concorrenza di 1.200.000 euro in favore delle costituite parti civili. Nel respingere il ricorso degli imputati, la Sez. IV si sofferma sul concetto di periculum in mora. Osserva che ``la sussistenza del periculum in mora deve essere alternativamente valutata in riferimento all'originaria inadeguatezza o insufficienza del patrimonio dell'imputato in relazione all'ammontare delle pretese risarcitorie e del complesso dei crediti che gravano su tale patrimonio, tale da evidenziare la necessità di assicurare un privilegio ai creditori da reato, ovvero all'insorgenza di un rischio di dispersione o diminuzione della garanzia patrimoniale, capace di determinare, in riferimento ai medesimi parametri in precedenza indicati, l'esigenza di applicare un vincolo reale idoneo ad assicurarne la conservazione''. Precisa che ``il giudizio prognostico negativo in ordine alla conservazione della garanzia patrimoniale del debitore consiste nel pericolo di dispersione, non solo procurato scientemente da quest'ultimo, ma anche per ragioni indipendenti dalla sua volontà, pericolo che, ovviamente, in caso di monetizzazione dei beni immobili, possibile in ogni momento (e senza che occorra ipotizzare la predeterminazione del debitore), diventerebbe irreparabile''. Aggiunge che ``corrisponde ad una corretta lettura del principio di garanzia enunciato dalla norma il reperimento d'indici di allarme inequivoci, quali la permeabilità del patrimonio nelle società di persone e l'assenza di una copertura assicurativa''.
``Ai fini della valutazione della gravità delle lesioni, l'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni non deve aversi riguardo solo alla sfera del lavoro produttivo di reddito, ma ad ogni impiego dell'energia fisica o psichica per un determinato scopo utile lecito e giuridicamente apprezzabile che caratterizzava l'abituale tenore di vita della persona offesa. Nel caso di specie, l'assenza dal lavoro del dipendente si è protratta ben oltre i 40 giorni, circostanza che depone per una inabilità lavorativa corrispondente alla diagnosi iniziale di infortunio, pienamente corrispondente alla attestazione contenuta nella certificazione sanitaria rilasciata dall'Inail, che reca la indicazione della data in cui il lavoratore era da ritenersi abile alla ripresa della propria attività''.
``È un dato di fatto che l'infortunato rientrò al lavoro dopo 73 giorni dall'incidente. La lesione personale deve considerarsi grave se l'incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni perduri oltre il quarantesimo giorno, ivi compreso il periodo di convalescenza o quello di riposo dipendente dalla malattia''.
``Nell'ipotesi prevista dall'art. 583, comma 1, n. 1), c.p., la lesione è grave se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo di vita la persona offesa ovvero una malattia o l'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per più di quaranta giorni. Ai fini dell'integrazione della circostanza, i tre eventi descritti dalla norma sono in rapporto di alternatività ed in particolare lo sono tra loro quelli legati al termine di durata. Di conseguenza, per la sussistenza dell'aggravante è sufficiente che anche solo una tra la malattia e l'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni causate dalla condotta incriminata superi i quaranta giorni. È dunque irrilevante che la prima abbia una durata inferiore se comunque la seconda invece supera la soglia temporale normativamente definita. Sotto altro profilo, va invece ribadito che l'incapacità di attendere alle proprie occupazioni non coincide necessariamente con il concetto di `attività lavorativa', con la conseguenza che ben può ritenersi sussistente la predetta aggravante nell'ipotesi in cui la vittima delle lesioni, pur essendo ritenuta abile al lavoro, rimanga tuttavia impossibilitata per un maggior tempo ad esplicare la sua attività ordinaria. Inoltre nella durata della ``incapacità'' deve essere compreso anche il periodo di convalescenza o quello di riposo dipendente dalla malattia. Al quarantatreesimo giorno dall'infortunio, il lavoratore, per l'ipomobilità della colonna vertebrale e per la sintomatologia dolorosa ancora in corso, con necessità di riposo funzionale, non era in grado di attendere alle ordinarie occupazioni, per cui residuava una malattia - limitazione funzionale - ovvero incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni penalmente rilevante''.
``In merito al concetto di malattia ai sensi e agli effetti dell'art. 582 c.p.'', osserva che ``la relativa nozione non comprenda tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, bensì solo quelle da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o l'aggravamento di esso ovvero una compromissione delle funzioni dell'organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa'', e che ``la lesione personale deve considerarsi grave se l'incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni perduri oltre il quarantesimo giorno, ivi compreso il periodo di convalescenza o quello di riposo dipendente dalla malattia''. (Nella fattispecie, presso un ospedale, un infermiere professionale, ``mentre effettuava un prelievo di sangue venoso su una paziente affetta da HVC e HVB, a causa di un improvviso movimento della mano di quest'ultima, era stato accidentalmente punto dall'ago che stava utilizzando nell'arteria radiale del polso sinistro'').
``Sono i certificati medici che definiscono la durata della malattia, salvo prova contraria: nel caso di specie sono acquisiti in atti oltre il primo certificato di Pronto Soccorso, con prognosi di giorni 25, il successivo certificato INAIL a firma dello specialista in ortopedia, e l'ulteriore certificato INAIL a firma del medesimo specialista, che attesta ``L'infermità è cessata e l'infortunato può riprendere il lavoro''. Il dovere del giudice dell'appello di dare esecuzione al disposto dell'art. 529 c.p.p., comma 2, ossia alla regola del proscioglimento nel caso del dubbio sulla prova dell'esistenza di una condizione di procedibilità, appare assolto mediante la osservazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale le lesioni riportate dalla persona offesa dovevano ritenersi guarite in un tempo utile ai fini della ricorrenza della procedibilità di ufficio.
``La fattispecie disciplinata dall'art. 589, ultimo comma, c.p. non costituisce una autonoma figura di reato complesso, né dà luogo alla previsione di una circostanza aggravante - nel caso di morte e lesioni colpose in danno di più persone come conseguenza di un'unica condotta - rispetto al reato di omicidio colposo previsto dal primo comma dell'art. 589, ma integra un'ipotesi di concorso formale di reati, unificati solo quoad poenam, con la conseguenza che ogni fattispecie di reato conserva la propria autonomia e distinzione, anche agli effetti della determinazione del giudice competente per materia. Ne consegue che, alla stregua del criterio stabilito dall'art. 4 c.p.p. secondo cui per determinare la competenza si ha riguardo alla pena (edittale) stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato e non a quella risultante dall'applicazione delle norme sul concorso formale di reati (e sulla continuazione), il dato che la fattispecie disciplinata dall'ultimo comma dell'art. 589 c.p. preveda una pena detentiva massima irrogabile superiore a dieci anni di reclusione non è idoneo a spostare l'attribuzione del processo al tribunale collegiale''.
``La certificazione sanitaria proveniente dall'Inali, della cui validità non vi è motivo alcuno di dubitare, conforta il convincimento che l'inabilità al lavoro dell'infortunato era collegata eziologicamente all'infortunio e che la infermità riscontrata a carico del lavoratore ebbe la durata esattamente attestata da quei documenti. All'Inali sono demandati, come attività di istituto, gli accertamenti, le certificazioni e ogni altra prestazione medico-legale sui lavoratori infortunati e tecnopatici (art. 12 legge n. 67/1988) e l'erogazione di queste ultime è assicurata esclusivamente laddove la malattia determinante l'inabilità lavorativa sia accertata derivare da infortunio avvenuto per causa violenta in occasione di lavoro. La valutazione medico legale compiuta nel caso di specie dai medici Inail assume quindi particolare valore''.
``Ai fini della configurabilità del delitto di lesioni personali, la nozione di malattia giuridicamente rilevante non comprende necessariamente le alterazioni di natura anatomica, che possono, in realtà, anche mancare, bensì solo quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico, ovvero una compromissione delle funzioni dell'organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa, tanto è vero che la lesione rilevante ai sensi dell'art. 582 c.p. può consistere anche in un trauma contusivo che non si accompagni ad alterazioni di natura anatomica''.
``Nel computo della durata della malattia e dell'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni va ricompreso il periodo della convalescenza e del necessario riposo conseguente alla malattia appena terminata. In particolare, nel caso di lesioni relative a fratture, assume rilievo, ai predetti fini, la durata del processo fisiologico di consolidamento del callo osseo. Ciò che rientra nel più ampio concetto secondo cui, nell'ottica della configurazione dell'aggravante, non è richiesta un'incapacità assoluta, essendo sufficiente anche un'incapacità relativa, correlata all'impossibilità, per la persona che ha subito le lesioni, di attendere alle ordinarie occupazioni senza uno sforzo inconsueto e senza pregiudizio dell'abituale tenore di vita''.
``La totale perdita della milza integra l'ipotesi di lesione gravissima prevista dall'art. 583, comma 2, n. 3, c.p.p., atteso che le numerose funzioni da essa assolte non possono ritenersi supplite, nella loro entità globale, da singole attività svolte separatamente da organi diversi. Perciò, l'asportazione della milza subita dal lavoratore infortunato in dipendenza dell'incidente occorsogli costituisce lesione gravissima''.
``In ordine alla durata della malattia, la prognosi iniziale effettuata dai sanitari, che per primi sottoposero a visita l'infortunato, fu di 50 giorni s.c. e la durata effettiva della malattia, fino alla guarigione, fu poi sicuramente superiore a 40 giorni perché, dopo la rimozione dell'apparecchio gessato (avvenuta al 35° giorno), fu necessario un periodo riabilitativo di fisiokinesiterapia per altri 15 giorni: tale periodo andava computato nella complessiva durata della malattia perché solo all'esito della prescritta rieducazione e non certo al momento di rimozione dell'ingessatura, si poteva parlare di reintegrazione completa della funzionalità dell'arto''.
«L'art. 590, ultimo comma, c.p. dispone che `Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti nel primo e secondo capoverso, limitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale'. Ne consegue che la procedibilità di ufficio ha carattere oggettivo e non riguarda la posizione del colpevole, bensì il riferimento del fatto addebitato alla violazione di norme disciplinanti gli infortuni sul lavoro».
In forza dell'art. 29-bis D.L. n. 23/2020 convertito dalla L. 5 giugno 2020, n. 40, i datori di lavoro che adottano le misure prescritte nei protocolli, nelle linee guida, negli accordi, con ciò stesso adempiono a quel generico art. 2087 del codice civile che già dagli anni quaranta del secolo scorso obbliga qualsiasi imprenditore a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori mediante le misure consigliate da tecnica, esperienza, particolarità del lavoro. Ma il 29-bis, oltre a confermare la responsabilità penale del datore di lavoro che violi protocolli o linee guida o accordi, non esclude la responsabilità penale del datore di lavoro che, pur rispettando protocolli o linee guida o accordi, non adempia ai distinti obblighi previsti da leggi specifiche quale il decreto 81. Con l'avvertenza che una responsabilità penale è configurabile anche per un'affezione da Covid-19 occorsa a un terzo (come il paziente di una struttura ospedaliera o un ospite di una casa di riposo), e può gravare non necessariamente sul datore di lavoro (magari committente), bensì anche o soltanto su altri soggetti: un dirigente, l'RSPP, il medico competente, e non escluso lo stesso lavoratore inadempiente agli obblighi contemplati dall'art. 20, D.Lgs. n. 81/2008.
L'art. 4, D.Lgs. n. 274/2000 stabilisce che il giudice di pace è competente per il delitto di cui all'art. 590 c.p. «limitatamente alle fattispecie perseguibili a querela di parte e ad esclusione delle fattispecie connesse alla colpa professionale e dei fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale quando, nei casi anzidetti, derivi una malattia di durata superiore a venti giorni». L'applicazione concreta di questa norma produce a volte qualche disorientamento. V., infatti, oltre a Cass. 17 marzo 2022 n. 9016 (relativa a un taglio sotto la pianta del piede patito da una cliente a causa di un pezzo di vetro che si trovava sul pavimento di un ristorante):
Il Giudice di pace dichiarava la sua incompetenza per materia, indicando quella del Tribunale, in composizione monocratica, relativamente al reato di cui all'art. 590, comma 2, in riferimento all'art, 583 comma 2, c.p., contestato ``al legale rappresentante di una società produttrice e distributrice di un prodotto contenente acido solforico in grado di generare una violenta reazione esotermica al contatto con l'acqua, senza indicarlo in modo congruo nella relativa etichettatura e così cagionando alla vittima lesioni gravissime con esiti permanenti''. Il Tribunale declina la competenza e rimette gli atti, sollevato il relativo conflitto, alla Corte di cassazione per la relativa risoluzione. La Sez. I dà ragione al Tribunale: ``Il D.Lgs. n. 274/2000, art. 4, comma 1, lett. a), stabilisce che la competenza per materia in ordine al delitto di cui all'art. 590 c.p. appartiene al giudice di pace `limitatamente alle fattispecie perseguibili a querela di parte e a esclusione delle fattispecie connesse alla colpa professionale e dei fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale quando, nei casi anzidetti, derivi una malattia di durata superiore a venti giorni'''. Rileva che, ``ai sensi dell'art. 590 c.p., commi 1 e 5, il delitto previsto dall'art. 590 c.p. è perseguibile a querela della persona offesa, salvo che nelle ipotesi di lesioni gravi o gravissime riconducibili a violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro o a colpa professionale''. Osserva che ``il contenuto letterale delle disposizioni in esame e la collocazione degli incisi contenuti, rispettivamente, nell'art. 4, lett. a), e nell'art. 590 c.p., comma 5, inseriti al termine della tassativa elencazione delle ipotesi di esclusione della competenza per materia del giudice di pace, consentono di affermare che il legislatore ha inteso sottrarre alla competenza dello stesso unicamente i casi di lesioni personali di maggiore rilievo - quanto alle conseguenze - connessi alla inosservanza delle norme antinfortunistiche o in materia di igiene del lavoro o, infine, alla nozione di colpa professionale, quale desumibile dai normali criteri di valutazione della colpa dettati dall'art. 43 c.p.. e dall'art. 2229 c.c.''. Ne ricava che, ``in base all'interpretazione letterale e logico-sistematica del D.Lgs. n. 274/2000, art. 4, comma 1, lett. a) e art. 590 c.p., commi 1 e 5, rientra nella competenza per materia del giudice di pace il delitto di lesioni colpose gravi non riconducibili a violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro''.
La titolare di uno studio viene assolta dal tribunale per insussistenza del fatto dal reato di cui all'art. 590 c.p. per lesioni personali di un'addetta alle pulizie dello studio nell'ambito di un rapporto di lavoro non regolare ``caduta da una scala instabile poiché mancante di uno dei piedini di gomma mentre puliva uno scaffale della libreria urtando con la spalla destra una poltroncina''. A sua volta, la corte d'appello, adita dalla sola parte civile, in parziale riforma della sentenza appellata, dichiara, ai soli fini civili, l'imputata responsabile delle lesioni colpose e la condanna al risarcimento dei danni. L'imputata deduce che correttamente la corte d'appello ha riconosciuto che, ``alla base della vicenda essendovi un rapporto di collaborazione domestica (non rilevando se di natura autonoma o subordinata), non è applicabile al fatto contestato la normativa antinfortunistica'', e lamenta che, ``conseguentemente, venuta meno la violazione delle norme antinfortunistiche, in relazione alle quali si fondava la competenza del tribunale in primo grado e della corte d'appello in secondo grado, il fatto veniva così a riqualificarsi come lesioni personali colpose semplici, in relazione alle quali è prevista la competenza per materia del giudice di pace''. In accoglimento del ricorso, la Sez. IV annulla senza rinvio le sentenze di merito, con trasmissione degli atti al procuratore della repubblica presso il tribunale. E afferma che ``l'incompetenza a conoscere dei reati appartenenti alla cognizione del giudice di pace deve essere dichiarata dal giudice togato in ogni stato e grado del processo ex art. 48 D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, in deroga al regime ordinario di cui agli artt. 23, comma 2, e 24, comma 2, c.p.p., ferma restando, in caso di riqualificazione del fatto in un reato di competenza del giudice di pace, la competenza del giudice togato in applicazione del criterio della `perpetuatio iurisdictionis' purché il reato gli sia stato correttamente attribuito `ab origine' e la riqualificazione sia dovuta ad acquisizioni probatorie sopravvenute nel corso del processo''.
«In tema di lesioni colpose riconducibili a colpa professionale che escludono la competenza del Giudice di pace, per `colpa professionale' deve intendersi soltanto quella di chi eserciti una delle professioni `intellettuali' previste e disciplinate dagli artt. 2229 c.c. e ss. e non quella di chiunque eserciti intellettualmente una certa attività» (nella specie si è affermato che «un mero sciatore, che sciando ad alta velocità aveva urtato una sciatrice alle spalle, non può essere qualificato come esercente una professione intellettuale»).
L'amministratore unico e legale rappresentante di una ditta esercente il bowling è imputato del delitto di lesioni in danno di una minore per colpa consistita nella omissione della vigilanza sulla incolumità dei minori all'interno del locale di pertinenza della ditta. La Sez. IV risolve il conflitto di competenza insorto tra giudice di pace e tribunale, affermando la competenza del giudice di pace: «la condotta, pur contestata ai sensi dell'art. 590, commi 1 e 3, c.p., non appare, tuttavia, riconducibile né a fattispecie di colpa professionale, configurabili, per costante giurisprudenza di questa Corte, soltanto con riguardo a chi esercita una delle professioni intellettuali, previste e disciplinate dall'art. 2229 c.c., e non con riguardo a chiunque esercita professionalmente una certa attività (Sez. I, n. 17573 del 7 maggio 2010; Sez. I, n. 41203 del 15 dicembre 2006), né a violazioni di norme antinfortunistiche o, in genere, di quelle misure e accorgimenti imposti all'imprenditore dall'art. 2087 c.c. a tutela dell'integrità fisica del lavoratore (tra le altre, Sez. IV, n. 43645 del 24 novembre 2011; Sez. IV, n. 18628 del 17 maggio 2010) o dei prestatori d'opera (Sez. IV, n. 3433 del 2 febbraio 2005), né alle lesioni cagionate è riferibile la nozione di malattia professionale (Sez. IV, n. 38991 del 4 novembre 2010)».
Per un infortunio sul lavoro accaduto nel terreno di proprietà del suocero della vittima durante la mietitura, interviene condanna per il reato di lesioni personali colpose ad opera del giudice di pace. L'imputato e il responsabile civile prospettano l'incompetenza per materia del giudice di pace. La Sez. IV replica che «l'ipotizzata aggravante afferente alla disciplina della sicurezza del lavoro od alla responsabilità professionale, che escluderebbe la competenza del giudice di pace, non è stata mai contestata nella descrizione del fatto né è stata ritenuta in sentenza».
Per l'infortunio occorso a una macchina fustellatrice pneumatica concessa in locazione finanziaria da una s.r.l. a un'azienda e poi ceduta da questa azienda in comodato d'uso ad altra s.r.l. datrice di lavoro, furono condannati in cooperazione colposa i rispettivi rappresentanti legali per colpa consistita nella violazione dell'art. 23, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008. Il legale rappresentante della s.r.l. concedente in locazione finanziaria lamenta, in particolare, che la Corte d'Appello aveva statuito in modo difforme sia rispetto alla sentenza del Tribunale, divenuta irrevocabile, che lo aveva assolto perché il fatto non sussiste proprio dalla violazione dell'art. 23, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, sia rispetto alla sentenza del Tribunale, divenuta irrevocabile che dalla medesima violazione aveva assolto perché il fatto non costituisce reato il rappresentante legale dell'azienda concedente in comodato d'uso. Pur annullando la condanna per intervenuta prescrizione, ma rigettando il ricorso dell'imputato agli effetti civili, la Sez. IV ne disattende l'argomentazione difensiva. Sotto i profili attinenti al principio di non contraddittorietà delle decisioni, e nell'ottica degli artt. 649 e 238-bis c.p.p., insegna, anzitutto, che ``la medesimezza del fatto ricorre quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona'', e sottolinea che ``il reato contravvenzionale ed il reato di evento non possono mai integrare la `medesimezza del fatto', tenuto in considerazione che il primo è un reato di mera condotta, il che esclude l'identità con il secondo'', sicché ``il giudice, sulla base della triade condotta-nesso causale-evento naturalistico, può affermare che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se riscontra la coincidenza di tutti questi elementi''. Sul diverso piano poi della compatibilità logica degli accertamenti che assistono la sentenza inerente ad un reato di mera condotta e la sentenza avente ad oggetto un reato di evento, la Sez. IV premette che ``il criterio ha a che fare con la `prova' del fatto oggetto della singola decisione, che può essere integrata dalla `eventuale' acquisizione della sentenza irrevocabile intervenuta in altro processo, come disposto dall'art. 238-bis c.p.p.'', e che ``si tratta di un piano che non coincide con l'inconciliabilità giuridica delle decisioni, regolata dall'art. 649 c.p.p. ed il cui rimedio si trova, allorquando siano comunque intervenute sentenze riguardanti il medesimo fatto, net disposto dell'art. 630, lett. a), c.p.p.''. Non esclude che ``l'acquisizione di una sentenza ex art. 238-bis c.p.p. possa eventualmente condurre al risultato dell'inconciliabilità della decisione irrevocabile con il fatto oggetto del processo nel quale essa viene acquisita, ma occorre sempre e comunque, perché questo avvenga, che la sentenza riguardi il medesimo fatto storico, quale `pre-condizione' del giudizio in corso''. Precisa, tuttavia, che ``l'acquisizione di una sentenza ai sensi dell'art. 238-bis c.p.p. non comporta, in linea generale, alcun automatismo nel recepimento e nell'utilizzazione a fini decisori dei fatti e dei relativi giudizi contenuti nei passaggi argomentativi della motivazione delle suddette sentenze, dovendosi al contrario ritenere che il giudice conservi integra l'autonomia e la libertà delle operazioni logiche di accertamento e formulazione di giudizio a lui istituzionalmente riservate''. Conclusione: ``il verdetto dissenziente non è precluso al giudice del diverso procedimento, che, tuttavia, è tenuto a motivare espressamente circa le ragioni per le quali è pervenuto a diverse conclusioni rispetto al giudizio già definito in precedenza, la cui decisione, quando sia stata acquisita la relativa sentenza, è elemento da valutare ai sensi dell'art. 238-bis c.p.p.'', e ``deve farlo, illustrando specificamente le ragioni delle diverse conclusioni raggiunte rispetto al giudizio definito in precedenza, essendo onerato di uno stringente onere motivazionale, capace di sostenere la divergenza ricostruttiva dall'accertamento già intervenuto''.
Condannato alla pena di 11.500,00 euro di ammenda in relazione a più contravvenzioni antinfortunistche, un datore di lavoro denuncia ``la violazione del divieto di un secondo giudizio per i medesimi fatti previsto dall'art. 649 c.p.p.'', essendo già stato condannato per il reato di cui all'art. 589 c.p. alla pena di due anni di reclusione, ``per aver cagionato il decesso di un lavoratore per colpa consistita nell'inosservanza di norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro la cui violazione aveva costituito oggetto della contestazione anche nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata''. La Sez. III non è d'accordo: ``Parte delle violazioni alle norme antinfortunistiche addebitate all'imputato con la sentenza impugnata hanno costituito anche la condotta colposa contestatagli nel giudizio relativo all'omicidio colposo. Tale, parziale, coincidenza non determina, però, violazione del divieto di un secondo giudizio per i medesimi fatti, in quanto l'identità del fatto, ostativa a un nuovo giudizio, vietato dall'art. 649 c.p.p., sussiste quando vi sia piena corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, considerati sia nella loro dimensione storico - naturalistica, sia in quella giuridica, non essendo sufficiente la sola identità della condotta (o di parte di essa come nel caso in esame), laddove la medesima condotta violi contemporaneamente più disposizioni incriminatrici, dovendo in tal caso l'episodio essere valutato alla luce di tutte le sue implicazioni penalistiche. Nel caso in esame, non è dato di rilevare la eccepita identità tra il reato di omicidio colposo, che è caratterizzato dalla necessità di una relazione causale tra le condotte contrarie alle norme prevenzionali realizzate dall'agente e l'evento morte del lavoratore che ne è derivato, e le suddette violazioni alle norme antinfortunistiche, non essendovi piena corrispondenza tra la struttura di tali reati (in quanto le contravvenzioni, che preesistono all'omicidio colposo, hanno natura omissiva e permanente e l'omicidio colposo ha natura commissiva ed è istantaneo), ed essendo anche diversa la considerazione giuridica delle condotte, in quanto il reato di omicidio colposo, che rientra tra i delitti contro la persona, sanziona la verificazione della morte di un lavoratore, mentre le contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza del lavoro hanno la funzione di assicurare una più intensa e penetrante tutela penale in un settore della vita di relazione particolarmente importante dal punto di vista socio-economico, caratterizzato da un alto livello di rischio per l'incolumità individuale. Tali differenze ontologiche tra le contravvenzioni addebitate all'imputato con la sentenza impugnata e il delitto di omicidio colposo ascrittogli, oltre a escludere la ravvisabilità della denunciata violazione del divieto di un secondo giudizio per il medesimo fatto di cui all'art. 649 c.p.p. (per la quale è comunque necessaria una sentenza definitiva di condanna o di assoluzione, nella specie non sussistente, non essendo passata in giudicato la sentenza di condanna per omicidio colposo, in relazione alla quale è pendente l'impugnazione proposta dall'imputato, cosicché deve essere anche esclusa una violazione dell'art. 4, prot. 7, C.E.D.U., per la cui configurabilità occorre la definitività della decisione secondo l'ordinamento interno di ciascuno Stato, nella specie non sussistente), impediscono anche di ravvisare la sussistenza di una preclusione processuale conseguente all'esercizio dell'azione penale per il medesimo fatto e contro la stessa persona in relazione ai quali un processo sia già pendente, non essendo, peraltro, neppure stato allegato quando sia stata esercitata l'azione penale per il delitto di omicidio colposo e per le contravvenzioni, e non potendo quindi neppure verificarsi l'eventuale preclusione determinata dalla consumazione del potere già esercitato dal pubblico ministero. Neppure è ravvisabile un rapporto di specialità tra le contravvenzioni ascritte all'imputato con la sentenza impugnata e il delitto di omicidio colposo addebitatogli, non essendovi, alla luce di quanto evidenziato riguardo alle differenze strutturali tra tali reati, un rapporto di continenza tra le norme che li contemplano che consenta di ritenere assorbite le violazioni alle norme prevenzionali nel reato di omicidio colposo aggravato ai sensi dell'art. 589, comma 2, c.p., in quanto tale fattispecie non si pone come speciale rispetto a quella generale, perché a tal fine occorre che quella da considerare speciale contenga tutti gli elementi costitutivi di quella generale e, altresì, un quid pluris, mentre risultano diversi struttura e oggetto giuridico delle contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza del lavoro e dell'omicidio colposo, che richiede la verificazione dell'evento, non presente nelle ipotesi contravvenzionali. Infondata risulta anche la prospettazione della configurabilità di un reato complesso, ai sensi dell'art. 84 c.p., per effetto della contestazione dell'omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, di cui all'art. 589, comma 2, c.p., cui conseguirebbe l'assorbimento delle ipotesi contravvenzionali in quella delittuosa aggravata, in quanto, come già osservato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 124 del 1974, l'art. 84 c.p. pretende che di un reato facciano parte, come elementi costituivi o circostanze aggravanti, fatti costituenti di per sé autonomi reati, mentre nell'art. 589, comma 2, c.p. vengono in modo generico richiamate le norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, senza alcun distinguo tra mere regole prive di sanzione, illeciti amministrativi e contravvenzioni, con ciò mostrando che il legislatore non ha inteso costruire tale ipotesi aggravata come un caso di reato complesso nel senso anzidetto, giacché altrimenti avrebbe codificato la disposizione con richiami a specifiche violazioni contravvenzionali''.
La presidente e due componenti del consiglio di amministrazione di una s.r.l. -condannati per i reati di lesioni personali colpose gravissime in danno di un dipendente colpito in fonderia da una tazza di caricamento e di omissione colposa di cautele antinfortunistiche - lamentano ``la ritenuta sussistenza del concorso fra il reato di cui all'art. 451 c.p. e le contravvenzioni antinfortunistiche, e, in particolare, quelle di cui agli artt. 46, comma 2, e 290 D.Lgs. n. 81/2008, già definite in via amministrativa'', in contrasto con il divieto di bis in idem. La Sez. IV ribatte: ``Le due contravvenzioni, per le quali è intervenuta definizione amministrativa ai sensi dell'art. 20 D.Lgs. n. 758/1994, integrano le omissioni descritte dal capo dell'imputazione con il quale si contesta il reato di cui all'art. 451 c.p. Si tratta dell'omessa collocazione della segnaletica finalizzata alla prevenzione incendi, dell'illuminazione di emergenza, dell'impianto di rilevazione del gas metano, come previsto nel progetto approvato dai Vigili del Fuoco, della difficoltosa accessibilità delle valvole di intercettazione del gas, della difficoltosa accessibilità dei percorsi anticendio, dovuta al deposito alla rinfusa di vario materiale, del non corretto funzionamento dell'attacco di mandata dell'autopompa, della carenza di personale addetto alla prevenzione incendi (art. 46, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008); nonché dell'omessa valutazione dei rischi specifici derivanti da atmosfere esplosive, dell'omesso aggiornamento del piano di emergenza, evacuazione e rischio incendio e degli omessi controlli dei presidi antincendio (art. 290 D.Lgs. n. 81/2008). Alle omissioni non è seguito un evento `naturalistico', da esse derivante, posto che l'infortunio occorso non è causalmente connesso con le violazioni, essendosi prodotto per tutt'altra causa. Nondimeno, ancorché il delitto e le contravvenzioni contestate scaturiscano dalla medesima condotta, non può ritenersi sussistente la medesimezza del fatto. La medesimezza del fatto ricorre quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona. Mentre le contravvenzioni in parola costituiscono reati di mera condotta, il fatto considerato dall'art. 451 c.p. comprende anche l'evento, nella sua declinazione di pericolo di disastro od infortunio, che lo distingue dalle mere omissioni dalle quali il pericolo deriva''.
Un macchinista - condannato per i reati di cui agli artt. 449, comma 2, e 589 c.p. perché conduceva un treno ad una velocità eccessiva, pari a 69,25 e a 65,25 Km/h, a fronte di un limite di 20 km/h, provocando un disastro ferroviario, consistito nel ribaltamento del treno, con conseguente decesso di due passeggeri e lesioni personali subite da una pluralità di altri soggetti - deduce violazione del principio del ne bis in idem, sancito dall'art. 649 c.p., in relazione all'art. 4 Prot. CEDU, ``poiché il fatto storico dedotto nell'imputazione ha già formato oggetto di un procedimento disciplinare, conclusosi con l'irrogazione delle sanzioni della retrocessione e dell'azzeramento dei parametri di carriera''. Sulla scorta di un'ampia analisi, la Sez. IV ritiene infondata la deduzione.
Dichiarato colpevole del reato di cui all'art. 37, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008 per aver omesso di assicurare a una dipendente la formazione adeguata in materia di sicurezza con riferimento alle mansioni svolte, il legale rappresentante di una s.r.l. sostiene che ``il complesso sanzionatorio scaturente dal combinato disposto dei D.Lgs. n. 758/1994 e n. 81/2008 consente in concreto una duplicazione dell'aspetto punitivo, il che violerebbe il principio del ne bis in idem''. La Sez. Fer. rileva che ``il meccanismo prefigurato dal D.Lgs. n. 758/1994, proprio alla luce della esigenza di assicurare l'effettività dell'osservanza delle cautele preventive in tema di sicurezza sul lavoro, è volto proprio a evitare duplicazioni punitive, prevedendosi, anche in un'ottica deflattiva, la possibilità di evitare l'inizio del procedimento penale, nel caso in cui siano rispettate dal trasgressore le prescrizioni impartite e sia di seguito operato dall'interessato il versamento della sanzione pecuniaria''.
``L'intervenuta prescrizione delle contravvenzioni contestate in materia di sicurezza sul lavoro non può incidere sulla durata della prescrizione del reato di cui all'art. 589, comma 2, c.p.'': in primo luogo, perché ``si tratta di reati diversi, per cui la prescrizione dell'uno segue il suo decorso e non risente di quella degli altri''; e, inoltre, perché, ``laddove le condotte sottese alle contravvenzioni contestate integrassero elementi costitutivi dell'omicidio colposo contestato, comunque, la declaratoria della loro prescrizione non si tradurrebbe in un accertamento negativo della violazione della disciplina per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e non comporterebbe, quindi, alcuna conseguenza sull'accertamento della condotta di cui all'art. 589, comma 2, c.p.''.
In pizzeria, un lavoratore, ``utilizzando un tritacarne per potere sminuzzare la mozzarella, al fine di rimuovere un pezzo di mozzarella che aderiva al condotto di alimentazione del macchinario, inseriva un dito al suo interno'', e ``a seguito della ripresa della lavorazione, il macchinario trascinava all'interno del suo ingranaggio le dita della mano sinistra''. Il datore di lavoro deduce la violazione del ``ne bis in idem'' sostanziale, in quanto sarebbe stato valutato ``il medesimo elemento ad un duplice fine, sia sub specie di circostanza aggravante del reato, sia per giustificare le scelte operate in ordine alla dosimetria della pena''. La Sez. IV ribatte: ``Il giudice valuta la gravità della lesione e le sue caratteristiche ai fini della commisurazione della pena, come elemento qualificatore della `gravità del danno' cagionato alla persona offesa, ai sensi dell'art. 133, n. 2, c.p. Il danno indicato nella norma appena richiamata, esprime un concetto diverso dalla lesione grave, contenuto nell'art. 583 c.p., dove si ha riguardo alla durata della malattia. La gravità del danno cagionato dal reato fa riferimento non soltanto a quello derivato, con relazione di diretta immediatezza, dalla lesione del bene protetto, ma anche alle conseguenze dannose indirette di tale lesione, con l'unico limite rappresentato dai pregiudizi che si collocano in una dimensione remota rispetto all'atto lesivo. Nella sostanza, mentre la `gravità del danno' implica una valutazione globale delle ripercussioni che l'atto lesivo ha avuto nella sfera soggettiva della persona offesa, la gravità delle lesioni si riferisce esclusivamente alla durata della malattia. Pertanto, non può dirsi realizzata alcuna violazione del ne bis in idem sostanziale in quanto, ai finì della individuazione della pena ritenuta equa, il giudice non ha preso in considerazione la durata della malattia ex se, ma la gravità del danno cagionato alla persona offesa, evidenziando le notevoli conseguenze del sinistro che aveva privato di ben quattro dita della mano un giovanissimo studente''.
``Ai fini della configurabilità della preclusione connessa al divieto di un secondo giudizio, è necessaria la corrispondenza tra il fatto storico - considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona - sul quale si è formato il giudicato e quello per cui si procede. Principi questi che appaiono sostanzialmente in linea con l'orientamento espresso dalla Corte EDU, sin dalla sentenza Zolotoukhine c. Russia (Corte EDU 10 febbraio 2009), per giungere alla più recente sentenza Grande Stevens c. Italia (Corte EDU 4 marzo 2014), per cui il principio del ne bis in idem impone una valutazione ancorata ai fatti e non alla qualificazione giuridica degli stessi, dal momento che quest'ultima è da ritenersi troppo restrittiva in vista della tutela dei diritti della persona. In tal senso, come emerge dalla citata sentenza Zolotoukhine e come ribadito dalla più recente decisione emessa nel caso Grande Stevens c. Italia, la nozione di condotta si traduce nell'insieme delle circostanze fattuali concrete, collocate nel tempo e nello spazio, la cui esistenza deve essere dimostrata ai fini della condanna. La sentenza impugnata non ha messo in dubbio questi consolidati principi, ma ha escluso che nel caso di specie sussista violazione del divieto di un secondo giudizio sulla base del rilievo che la pronuncia assolutoria si sia fondata su dati probatori incompleti e comunque diversi da quelli acquisiti nel presente processo. Va, in aggiunta, ricordato che i reati giudicati nei due distinti processi non sono in fatto sovrapponibili perché non vi è coincidenza dell'intera materialità del reato nei suoi tre elementi, costituiti da condotta, evento e nesso causale. L'identità del fatto ai fini della preclusione di un secondo giudizio deve essere valutata in relazione al concreto oggetto del giudicato e della nuova contestazione, e la valutazione compiuta dai giudici d'appello risulta conforme a tale criterio di giudizio. Deve dunque escludersi che il fatto contestato al datore di lavoro imputato (di lesione personale colposa in danno di dipendente infortunato) corrisponda nella sua sostanza essenziale al fatto già valutato nella sentenza assolutoria per la contravvenzione di norme antinfortunistiche, posto che la stessa nozione di fatto, pur colta nella sua dimensione per l'appunto `fattuale', ha, ai fini dell'imputazione, inevitabilmente anche carattere normativo, in quanto presuppone la selezione e qualificazione da parte del legislatore del bene oggetto di tutela''.
``La contravvenzione contestata concerne la mancata informazione fornita al lavoratore circa i rischi specifici ai quali egli era esposto in relazione all'attività svolta quale addetto alla macchina presso la quale l'infortunio si è verificato, alle normative, di sicurezza ed alle disposizioni aziendali in materia. La contravvenzione prevista dall'art. 17, comma 1, lett. a), in combinato disposto con l'art. 28, comma 2, lett. b), D.Lgs. n. 81/2008, per la quale l'imputato ha provveduto al versamento della somma dovuta a titolo di oblazione, con conseguente declaratoria di estinzione, riguarda un fatto diverso dalla formazione e informazione che deve essere fornita ai lavoratori, e segnatamente la valutazione dei rischi da parte dell'impresa''.
Il socio lavoratore di una società agricola è imputato del delitto di lesione personale colposa, perché, ``per colpa consistita nella violazione delle norme di cui all'art. 63 D.Lgs. n. 81/2008, metteva a disposizione e faceva utilizzare al personale dipendente di altra società una scala metallica non conforme ai prescritti requisiti, cagionando così al dipendente lesioni personali, con malattia della durata di giorni 111''. A sua discolpa, l'imputato lamenta la violazione della regola del ne bis in idem, poiché ``in riferimento alla non conformità alle prescrizioni antinfortunistiche della scala utilizzata dal lavoratore infortunato -evenienza pure richiamata al capo relativo al delitto di lesioni colpose aggravate dalla violazione della disciplina per la prevenzione degli infortuni sul lavoro- egli è stato condannato con decreto penale di condanna, non opposto'', e ``questa pronuncia di condanna riguarda il medesimo fatto storico per cui oggi si procede, relativo alla non idoneità della scala di cui si tratta''. La Sez.Fer. non è d'accordo. Sottolinea, anzitutto, ``la valenza che il principio del ne bis in idem assume, secondo diritto vivente, nei casi di condanna per la violazione della disciplina antinfortunistica, rispetto al delitto ad evento naturalistico, successivamente giudicato, in cui il profilo colposo risulti integrato dalla medesima norma antinfortunistica'', e richiama ``risalenti arresti della Corte regolatrice, ove si è rilevato che le contravvenzioni antinfortunistiche e il reato di omicidio colposo o di lesioni colpose sono reati concorrenti; che si tratta di ipotesi non costituite dal medesimo fatto storico; e che non risulta in alcun modo preclusa la procedibilità per l'omicidio colposo, pure a seguito di sentenza irrevocabile di assoluzione, in ordine alla contravvenzione alla normativa antinfortunistica''. A questo punto, rileva che, ``in argomento, è intervenuta la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 200 del 2016''. Osserva che ``il Giudice delle leggi, dopo aver rilevato che la Convenzione EDU e la Carta Costituzionale si saldano, nella garanzia che la persona già giudicata in via definitiva in un processo penale non possa trovarsi imputata per il medesimo fatto storico, ha richiamato l'insegnamento espresso dalle Sezioni Unite della Corte Regolatrice, in base al quale l'identità del fatto, ai fini preclusivi imposti dalla regola del ne bis in idem, sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi: condotta, evento, nesso causale e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. Un, sentenza n. 34655 del 28 giugno 2005), ribadendone la compatibilità con la giurisprudenza europea, a condizione che tali elementi siano ponderati con esclusivo riferimento alla dimensione empirica''. Nota che, ``nella sentenza in commento, la Corte Costituzionale si è poi soffermata sulla ulteriore questione, riguardante la regola enucleata dal diritto vivente, in base alla quale non trova applicazione il principio del ne bis in idem, ove il reato già giudicato sia stato commesso in concorso formale con quello oggetto del secondo giudizio, espressa dall'orientamento che sopra si è richiamato, in apertura di trattazione; ed il Giudice delle leggi ha chiarito che, anche il tal caso, il giudice del merito non è esonerato dall'indagine relativa alla identità empirica del fatto, ai fini dell'applicazione dell'art. 649 c.p.p.''. Sottolinea ancora che ``la Corte Costituzionale, dopo aver precisato che le valutazioni ora richiamate non impongono di applicare il divieto del ne bis in idem per la sola ragione che i diversi reati concorrano formalmente, in quanto commessi con una sola azione od omissione, ha chiarito che l'autorità giudiziaria, nel verificare l'ambito di operatività della preclusione che occupa, deve porre a raffronto il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all'esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con il fatto storico posto dal pubblico ministero a base della nuova imputazione; con la precisazione che, a tale scopo, non esercita alcuna influenza l'esistenza di un concorso formale dei reati''. Osserva che la Corte Costituzionale ha evidenziato che il giudice di merito non potrà affermare che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo, ove da un'unica condotta scaturiscano eventi non considerati nel precedente giudizio, e ha, quindi, dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale. ``Applicando i principi di diritto ora illustrati al caso di specie'', pone in luce che ``non è chi non veda che il decreto penale di condanna, non opposto, richiamato dall'imputato, relativo alla violazione della disciplina antinfortunistica ascrittagli, non determina alcun effetto preclusivo, rispetto al delitto ad evento naturalistico che si ascrive oggi al prevenuto al capo della rubrica, ex art. 590 c.p.''. Spiega che ``il richiamato decreto penale di condanna concerne una fattispecie di mera condotta, ragione per cui deve escludersi, sul piano empirico, se pure sussiste concorso formale dei reati, l'identità del fatto storico ascritto al prevenuto nell'ambito del presente procedimento''.
Nel caso di specie, attinente all'infortunio mortale occorso a un lavoratore investito dal carico di una gru ribaltatasi all'interno di un'area di cantiere, il datore di lavoro e il preposto furono imputati di omicidio colposo, ``in quanto il datore di lavoro non aveva promosso quell'azione di cooperazione e coordinamento per l'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa in corso, al fine di garantire che l'autogrù operasse in cantiere in condizioni di assoluta sicurezza, ed il preposto perché non era intervenuto con azioni correttive nel momento in cui si era reso conto dell'assenza di tale coordinamento''. Solo che ``era passata in giudicato la sentenza con la quale gli imputati erano stati assolti per insussistenza del fatto dalle contravvenzioni costituenti profilo di colpa specifica'', e a dire del Tribunale ``tale giudicato assolutorio implicava la impossibilità di giudicare sull'omicidio colposo integrato dalle condotte escluse dal primo giudice, posto che un eventuale esito di condanna sul delitto avrebbe generato un conflitto c.d. teorico fra i due giudicati e aperto la strada al rimedio della revisione ai sensi della lettera a) dell'art. 630 c.p.p.''. D'altra parte, aggiunge il Tribunale, ``quanto al profilo di colpa generica, l'esclusione di ogni valutazione delle norme antinfortunistiche assorbiva ed escludeva ogni addebito per i più generici parametri dell'imprudenza, imperizia o negligenza''. Su ricorso del P.M., la Sez. IV annulla la sentenza di proscioglimento. Insegna che, ``ai fini della preclusione connessa al principio `ne bis in idem', l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona, e non già quando si viola la stessa norma per configurare un reato diverso, dovendo in tal caso l'episodio essere valutato alla luce di tutte le sue implicazioni penalistiche''. Afferma che, ``in particolare, la preclusione in discorso non opera ove tra i fatti già irrevocabilmente giudicati e quelli ancora da giudicare sia configurabile un'ipotesi di `concorso formale di reati', potendo in tal senso il medesimo fatto storico essere riesaminato ai fini della prova di un altro reato, anche nei confronti del medesimo imputato''. Aggiunge che ``le risultanze di un precedente giudicato penale acquisite ai sensi dell'art. 238-bis c.p.p., anche nella parte in cui affermano fatti favorevoli all'imputato, devono essere valutate alla stregua della regola probatoria di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p., principio attinente anche alla sentenza divenuta irrevocabile ed acquisita come documento, che non ha da sola efficacia vincolante, ma necessita di ulteriori riscontri e va liberamente apprezzata dal giudice unitamente agli altri elementi di prova''. Ne desume che ``il giudice non può ritenere l'esistenza (o l'inesistenza) del fatto accertato in base alla sentenza divenuta irrevocabile ma ha l'obbligo di individuare una conferma esterna di questa ricostruzione pur definitiva, a meno che la stessa venga utilizzata come mero riscontro di altre prove già acquisite al processo''. Rileva che ``il Tribunale - pur con richiamo a precedente pronunciamento di questa Corte secondo cui si potrebbe configurare incompatibilità logica tra la sentenza assolutoria per le contravvenzioni ed un'eventuale affermazione di responsabilità per il reato di omicidio colposo derivato dalla violazione delle medesime contravvenzioni (Sez. IV, 2 aprile 2004 n. 25305) - si è limitato ad acquisire la precedente pronuncia irrevocabile senza sottoporla a nessun altro riscontro e senza esaminare in alcun modo l'altro profilo di colpa generica contestato agli imputati, ritenendolo immotivatamente assorbito nel primo''. (Circa l'art. 238-bis c.p.p. v., altresì, Cass. 21 gennaio 2016 n. 2531: ``L'art. 238-bis cod. proc. pen. permette l'utilizzazione delle sentenze irrevocabili senz'altra condizione che quella, appunto, della loro irrevocabilità. Quanto al criterio di valutazione che deve essere applicato nell'utilizzare tale sentenza, la citata disposizione richiama quelli espressi dagli articoli 187 e 192, comma 3, c.p.p. Tanto equivale a dire che le risultanze del precedente giudicato penale devono essere valutate come elemento di prova la cui valenza, per legge non autosufficiente, deve essere corroborata da altri elementi di prova che lo confermino'').
``In tema di divieto di un secondo giudizio, il fatto cui l'art. 649 c.p.p. fa riferimento è il fatto storico, considerato da un punto di vista fattuale e giuridico, sul quale si è formato il giudicato e non il fatto come è stato giuridicamente configurato nel primo giudizio nei suoi elementi non essenziali: il medesimo fatto, invero, deve risultare tale nei suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso di causalità) considerati sia nella loro dimensione storico-naturalistica, sia in quella giuridica, e deve riguardare le medesime condizioni di tempo, di luogo e di persone. Ad esempio, l'illegittimità di una sentenza che condanni l'imputato - assolto dal reato di omicidio colposo perché il fatto non costituisce reato - per i medesimi fatti, a seguito di nuovo esercizio dell'azione penale, in ragione di un diverso profilo di colpa ritenuto nel secondo procedimento. Erroneamente evocato è il divieto del bis in idem, ove il primo giudizio abbia avuto ad oggetto unicamente una contravvenzione consistente nell'inosservanza di regola prevenzionistica mentre il secondo attiene al delitto di omicidio colposo commesso con violazione di quella norma prevenzionistica. In tal caso, non si è in presenza del 'medesimo fatto', secondo l'accezione penalistica della locuzione. Tale assunto è persino autoevidente: la fattispecie delittuosa ha una struttura ben più ampia di quella contravvenzionale (basti considerare che la prima dà vita ad un reato di evento, laddove la seconda origina un reato di mera condotta). D'altro canto, la concorrenza dei due reati dà luogo ad un tipico concorso formale di reati, in cui con un'unica azione si integrano più fattispecie criminose''.
Nel senso che ``è ammissibile il giudizio per omicidio colposo quando si sia già proceduto per le lesioni che solo successivamente determinarono la morte della persona offesa dalla condotta dell'agente'' v. già Cass. 8 maggio 1987, Mari, e Cass. 7 febbraio 1984, Martini.
«È vero che l'imputato di contravvenzioni antinfortunistiche, in riferimento allo stesso episodio di infortunio sul lavoro, è stato processato anche per il reato di lesioni colpose dove la colpa era consistita nella violazione della suddetta prescrizione preventiva degli infortuni. Ma in proposito deve richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che sussiste concorso materiale tra i reati previsti dalle norme relative alla prevenzione degli infortuni sul lavoro ed i reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose, atteso che la diversa natura dei reati medesimi (i primi di pericolo e di mera condotta, i secondi di danno e di evento), il diverso elemento soggettivo (la colpa generica nei primi, la colpa specifica nei secondi, nell'ipotesi aggravate di cui al comma 2 dell'art. 589 e al comma 3 dell'art. 590), i diversi interessi tutelati (la prevalente finalità di prevenzione dei primi, e lo specifico bene giuridico della vita e dell'incolumità individuale protetto dai secondi), impongono di ritenere non applicabile il principio di specialità di cui all'art. 15 del codice penale. Né è violato il principio del ne bis in idem che impedisce al giudice di procedere contro la stessa persona per il medesimo fatto su cui si è formato il giudicato, ma non di prendere in esame lo stesso fatto storico e di valutarlo in riferimento a diverso reato, dovendo la vicenda criminosa essere valutata alla luce di tutte le sue implicazioni penali».
«Gli imputati erano stati tratti a giudizio per il reato di lesione personale colposa, perché, in qualità di responsabili legali di una s.n.c., per colpa avevano cagionato al proprio dipendente, con la qualifica di autista, lesioni personali gravi mentre era intento ad effettuare con l'autocarro da lui condotto, operazioni di scarico di materiale inerte. La colpa addebitata agli imputati è consistita nel tenere l'autocarro affidato alla parte lesa in condizioni di degrado strutturale delle membrature portanti del sistema di sollevamento culla e pistone telescopico, traverse collegate ai longheroni del telaio dell'autocarro travi di fiancata, e nel consentire e disporre che il suddetto mezzo trasportasse solitamente un peso di materiale inerte di 3,3 o 3,9 volte maggiore del peso utile consentito per tale tipo di autocarro. Il giudice di primo grado ha ritenuto che l'assoluzione degli imputati in diverso procedimento penale dall'imputazione relativa al cattivo stato di manutenzione dell'autocarro, impediva un nuovo giudizio per il medesimo incidente avente ad oggetto il medesimo profilo di colpa per cui, per il principio del ne bis in idem, ha escluso l'aggravante di cui al comma 3 dell'art. 590 c.p. ed ha conseguentemente ritenuto che l'azione penale non poteva essere iniziata per tardività della querela. A seguito di appello proposto dal procuratore della Repubblica, la corte d'appello ha riformato la suddetta sentenza di primo grado, ed ha dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati per essere il reato loro ascritto estinto per prescrizione. La corte territoriale ha motivato tale decisione ritenendo non applicabile il principio del ne bis in idem ritenuto dal giudice di primo grado, in quanto, benché per il medesimo fatto fosse intervenuta una pronuncia assolutoria, nel processo in questione era stato contestato un diverso profilo di colpa costituito dall'avere consentito e disposto che il mezzo condotto dalla parte lesa trasportasse solitamente un peso di materiale inerte di 3,3 o 3,9 volte maggiore del peso utile consentito per tale tipo di autocarro, profilo non contestato e conseguentemente non considerato nel procedimento conclusosi con sentenza assolutoria. La corte territoriale ha correttamente ed esaurientemente motivato riguardo all'irrilevanza della pronuncia assolutoria intervenuta nel processo riguardante il medesimo fatto ma sotto un profilo di colpa completamente diverso costituito dalla violazione di determinate norme che nulla hanno a che fare con il diverso profilo di colpa contestato nel presente procedimento e relativo, non solo all'omessa manutenzione del veicolo che ha provocato l'incidente, ma anche al carico eccessivo e superiore alla portata del mezzo, trasportato dal veicolo in questione al momento dell'incidente. Corretta è stata quindi l'esclusione dell'applicazione del reclamato principio del ne bis in idem al caso in questione».
``L'istituto della rimessione implica una deroga alla competenza territoriale, imposta dalla necessità di garantire un sereno svolgimento del processo, costituente, a sua volta, la precondizione per assicurare, almeno in astratto, l'affidabilità del suo esito. L'eccezionalità dell'istituto della rimessione si coglie tenendo conto del fatto che, in tanto con la rimessione si deroga alla competenza territoriale e, quindi, al principio del giudice naturale precostituito per legge, in quanto vi siano motivi (`gravi motivi di ordine pubblico', o `gravi situazioni locali') per sospettare il giudice di non essere imparziale: la non imparzialità (o il sospetto della non imparzialità) del giudice non può che essere eccezionale. ``La natura eccezionale dell'istituto della rimessione è stata, altresì, messa in luce sotto un altro profilo, laddove è stato evidenziato che il giudice non imparziale o sospetto di non esserlo non è il giudice (o non è soltanto il giudice) del processo, ma è, per definizione, l'organo giudicante nel suo complesso e che i fattori inquinanti l'imparzialità debbono riverberarsi sull'intero ufficio giudiziario astrattamente considerato, non su singoli magistrati o su un singolo organo in cui si articoli l'ufficio giudiziario stesso. Dal carattere eccezionale dell'istituto, si desume, come indefettibile corollario, l'interpretazione restrittiva delle norme che lo disciplinano e ciò proprio perché le stesse incidono in maniera significativa sulle regole attributive della competenza inerenti alla precostituzione del giudice naturale (art. 25 Cost.). La `gravità della situazione locale' rappresenta l'imprescindibile requisito condizionante l'intero meccanismo derogatorio ai criteri di competenza territoriale che acquisisce valore prioritario, lasciando fuori ciò che è avvenuto nell'ambito del processo. Per `grave situazione locale' che può determinare la rimessione deve intendersi un fenomeno esterno alla dialettica processuale e riguardante l'ambiente territoriale nel quale il processo si svolge, connotato da tale abnormità e consistenza da dover essere ritenuto idoneo ad incidere in modo oggettivo e rilevante sulla serenità funzionale del giudice e destinato a costituire un concreto pericolo per la imparzialità del giudice - inteso come l'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito - e fonte di possibile pregiudizio alla libertà delle persone che partecipano al processo, sicché il turbamento non possa essere `altrimenti eliminabile' che tramite un provvedimento radicale, quale il trasferimento del processo. L'art. 45 c.p.p., così come modificato dalla legge 7 novembre 2002, n. 248, art. 1, attribuisce rilievo alle situazioni locali sotto tre profili alternativi; pregiudizio per la libera determinazione delle persone che partecipano al processo; pregiudizio per la sicurezza o l'incolumità pubblica; motivi di legittimo sospetto. Il pregiudizio alla libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo consiste nel condizionamento che queste persone subiscono, in quanto soggetti passivi di vera e propria coartazione fisica o psichica che incide sulla loro libertà morale, imponendo una determinata scelta, quella della parzialità o della non serenità, precludendone altre di segno contrario. Il legittimo sospetto è, invece, costituito dal ragionevole dubbio che la gravità di un'obiettiva situazione locale giustifichi la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice - inteso come l'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito - e possa portare quest'ultimo a non essere, comunque, imparziale o sereno, dovendosi intendere per imparzialità la neutralità del giudice rispetto all'esito del processo. Connotato del sospetto deve essere la `legittimità', così da ancorarne la ricorrenza solo in presenza di dati obiettivi e concreti che consentano di asserire il venir meno della imparzialità del giudice che, con la sua naturalità, assicura il `giudice giusto'. I motivi di legittimo sospetto sono configurabili quando si è in presenza di una grave ed oggettiva situazione locale, idonea a giustificare la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice, inteso questo come l'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito. La nozione di `legittimo sospetto' è più ampia rispetto alla formula `libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo', in quanto pone l'accento sull'effetto, cioè sul pericolo concreto che possano essere pregiudicate la imparzialità o la serenità, e non richiede che quell'effetto sia conseguenza della impossibilità per il giudice di essere imparziale per essere stato coartato fisicamente o psichicamente''. Nel caso di specie, la Sez. I dichiara l'inammissibilità della richiesta di rimessione: ``L'eccezionale rilevanza mediatica attribuita alla vicenda della morte sul lavoro di alcuni operai della `Thyssenkrupp' ha assunto un rilievo nazionale. Siffatta dimensione delle campagne di stampa e televisive riservate alla vicenda processuale incide su uno dei fondamentali presupposti dell'istituto della rimessione, ossia la `gravità della situazione locale', nel senso che lo spazio attribuito anche dagli organi di informazione e dalle radiotelevisioni locali alle notizie sul processo non costituisce altro che il riflesso della più generale rilevanza ad esso attribuita a livello nazionale. Anche l'ipotetico spostamento del processo in altre parti del territorio nazionale non eliminerebbe l'eccezionale clamore mediatico nazionale, né l'interesse dell'opinione pubblica da esso alimentato, sicché ogni ufficio giudiziario verrebbe a trovarsi in una situazione di potenziale condizionamento''. Senza che ``la massiccia campagna mediatica sviluppatasi su tutto il territorio nazionale abbia in alcun modo influito, menomandola, sul sereno ed imparziale esercizio delle funzione giudiziarie da parte dei magistrati di Torino e abbia condizionato le loro scelte processuali o il contenuto dei provvedimenti di loro rispettiva competenza''. E ancora: ``Gli accadimenti richiamati dai richiedenti a sostegno della loro domanda si riferiscono a prese di posizione assunte dalla stampa e da vari settori della cittadinanza in epoca antecedente e concomitante alla celebrazione del processo e, quindi, ormai temporalmente superati, atteso che resta da celebrare il giudizio di rinvio susseguente ad annullamento da parte di questa Corte della decisione di secondo grado, con oggetto circoscritto alla rideterminazione delle pene. Non è fondato l'assunto dei richiedenti che ravvisano l'attualità della `grave situazione locale' nelle potenzialità lato sensu inibitorie o risolutrici del processo penale che è stato caricato dal tessuto sociale di aspettative repressive e, quindi, di un valore quasi simbolico. Non pertinenti, a tale proposito, sono i richiami effettuati dai richiedenti alle molteplici iniziative assunte dalla cittadinanza in ambito politico, ecclesiastico, sindacale e culturale, convergenti nell'alimentare un clima `giustizialista'. Ritenere che la libera espressione del pensiero e l'adozione delle iniziative consentite dall'ordinamento per esprimerle, per sensibilizzare i competenti organi nazionali e locali e per stimolare la coscienza critica dell'opinione pubblica su una vicenda di rilievo nazionale costituiscano, in quanto tali, altrettante forme di condizionamento oggettivo e rilevante dell'esercizio sereno ed imparziale della funzione giudiziaria, idonee a giustificare lo spostamento della celebrazione di un processo dalla sede naturale, significa prospettare una lettura dell'art. 45 c.p.p. inconciliabile con il quadro di riferimento costituzionale (artt. 21, 17 e 40 Cost.) e alterare il fisiologico rapporto dialettico, insito in ogni democrazia evoluta, tra collettività, istituzioni e funzione giudiziaria in un contesto socio-culturale sempre più connotato da esigenze di conoscenza e dall'accresciuta consapevolezza dei diritti del cittadino sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si sviluppa la sua personalità''.
Con questa sentenza, la Sez. I rigetta la richiesta presentata da difensori e procuratori speciali al fine di ottenere ai sensi dell'art. 45 c.p.p. la rimessione all'autorità giudiziaria di Potenza di un processo penale relativo all'ILVA per il quale era stata fissata udienza preliminare dinanzi al giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Taranto. Dopo aver sottolineato che ``l'istituto della rimessione ha natura eccezionale, attesa la sua natura derogatoria rispetto al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge, a sua volta finalizzato ad assicurare non solo la prevedibilità del giudice, ma anche la non manipolabilità a posteriori della competenza'' e che, pertanto, si rende necessario ``un approccio esegetico rigoroso, che impone di considerare tassative - e, dunque, soggette ad un criterio di stretta interpretazione - le fattispecie legittimanti il trasferimento del processo'', la Sez. I chiarisce che ``per `grave situazione locale' che può determinare la rimessione deve intendersi un fenomeno esterno alla dialettica processuale e riguardante l'ambiente territoriale nel quale il processo si svolge, connotato da tale abnormità e consistenza da dover essere ritenuto idoneo ad incidere in modo oggettivo e rilevante sulla serenità funzionale del giudice e destinato a costituire un concreto pericolo per la imparzialità del giudice - inteso come l'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito - e fonte di possibile pregiudizio alla libertà delle persone che partecipano al processo, sicché il turbamento non possa essere `altrimenti eliminabile' che tramite un provvedimento radicale, quale il trasferimento del processo''. Aggiunge che ``l'art. 45 c.p.p. così come modificato dall'art. 1 della legge 7 novembre 2002 n. 248, legge, attribuisce rilievo alle situazioni locali sotto tre profili alternativi: pregiudizio per la libera determinazione delle persone che partecipano al processo; pregiudizio per la sicurezza o l'incolumità pubblica; motivi di legittimo sospetto''. Precisa che ``il pregiudizio alla libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo consiste nel condizionamento che queste persone subiscono, in quanto soggetti passivi di vera e propria coartazione fisica o psichica che incide sulla loro libertà morale, imponendo una determinata scelta, quella della parzialità o della non serenità, precludendone altre di segno contrario'', e che ``il legittimo sospetto è costituito dal ragionevole dubbio che la gravità di un'obiettiva situazione locale giustifichi la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice - inteso come l'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito - e possa portare quest'ultimo a non essere, comunque, imparziale o sereno, dovendosi intendere per imparzialità la neutralità del giudice rispetto all'esito del processo''. Ciò premesso, la Sez. I nega il presupposto della ``grave situazione locale''. Addebita agli istanti ``un'impropria correlazione logica tra la centralità dell'Ilva per la realtà economica e sociale di Taranto, la sua interazione con il territorio inteso in senso ampio e complesso, le vicende processuali interessanti le persone che hanno lavorato o collaborato con la stessa e la loro forza condizionante sul processo''. Osserva che ``tale premessa metodologica: -introduce un inaccettabile automatismo, fondato su una logica meramente presuntiva, tra rilevanza di una specifica attività industriale in un determinato territorio e impossibilità di sereno svolgimento in quel contesto di processi concernenti fatti e persone che abbiano attinenza con tale attività''; -``muove dall'erronea considerazione che oggetto del processo siano le complessive vicende legate al mantenimento in funzione o meno dello stabilimento Ilva e, quindi, il futuro economico-sociale della città di Taranto e le ricadute delle possibili diverse scelte sulle prospettive occupazionali e sull'ambiente, piuttosto che specifici delitti (concussione, corruzione, abuso, favoreggiamento) contestati a singoli imputati in relazione alla gestione dell'attività d' impresa''; -``confonde, sino a sovrapporli, due profili ben distinti: la nozione di `grave situazione locale', intesa come situazione radicata nell'ambiente circostante la sede giudiziaria e, per sua natura, destinata ad incidere in modo oggettivo e rilevante sul sereno funzionamento dell'ufficio giudiziario complessivamente inteso; la complessità dei valori sottesi a questo processo (come ad altri) che il giudice deve attentamente analizzare e bilanciare nell'ambito di un'attività interpretativa rispettosa del quadro di riferimento costituzionale''. A proposito della ``situazione `ambientale' idonea a configurare la tipica fattispecie di rimessione ad altra sede ai sensi dell'art. 45 c.p.p.'', la Sez. I nota che essa ``deve essere, oltre che concreta, effettiva e non opinabile, anche di incontrovertibile attualità e tale da non essere superabile se non con il trasferimento del processo ad altro ufficio giudiziario''. Rammenta che ``gli accadimenti richiamati dai richiedenti a sostegno della loro domanda si riferiscono a non univoche prese di posizione assunte da una parte della cittadinanza con riguardo provvedimenti disposti nella fase delle indagini preliminari - e, quindi, in epoca antecedente all'esercizio dell'azione penale e all'instaurazione del processo tecnicamente inteso - e ormai superati non solo per la loro collocazione temporale, ma anche in molti dei loro effetti, tenuto conto anche dell'intervenuta autorizzazione ambientale integrata''. La Sez. I, poi, pone in risalto come ``ritenere che la libera espressione del pensiero e l'adozione delle iniziative consentite dall'ordinamento per esprimerle, per sensibilizzare i competenti organi nazionali e locali e per stimolare la coscienza critica dell'opinione pubblica su una vicenda di rilievo nazionale costituiscano, in quanto tali, altrettante forme di condizionamento oggettivo e rilevante dell'esercizio sereno ed imparziale della funzione giudiziaria, idonee a giustificare lo spostamento della celebrazione di un processo dalla sede naturale, significa prospettare una lettura dell'art. 45 c.p.p. inconciliabile con il quadro di riferimento costituzionale (artt. 21, 17, 40 Cost.) e alterare il fisiologico rapporto dialettico, insito in ogni democrazia evoluta, tra collettività, istituzioni, e funzione giudiziaria in un contesto socio-culturale sempre più connotato da esigenze di conoscenza e dall'accresciuta consapevolezza dei diritti del cittadino sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si sviluppa la sua personalità''. Altra considerazione è che ``la dimensione non locale bensì nazionale delle campagne di stampa e televisive riservate alla vicenda processuale incide su uno dei fondamentali presupposti dell'istituto della rimessione, ossia la `gravità della situazione locale', essendo indubbio che lo spazio attribuito anche dagli organi di informazione e dalle radiotelevisioni locali alle notizie sul processo costituisce il riflesso della più generale rilevanza attribuita a livello nazionale'', e che, pertanto, ``anche l'ipotetico spostamento del processo in altre parti del territorio nazionale non eliminerebbe l'eccezionale clamore mediatico nazionale né l'interesse dell'opinione pubblica da esso alimentato, sicché ogni ufficio giudiziario verrebbe a trovarsi in una situazione di potenziale condizionamento''. Infine, la notazione che ``i provvedimenti adottati dall'Ufficio di Procura, dal giudice per le indagini preliminari e dal Tribunale del riesame non costituiscono il frutto del condizionamento operato da una `grave situazione locale', ma rappresentano piuttosto l'espressione fisiologica dell'esercizio della funzione giudiziaria e non denotano in alcun modo mancanza di imparzialità dell'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo medesimo''. Né, d'altra parte, ``la categoria dell'atto abnorme, elaborata dalla giurisprudenza con l'intento dichiarato di introdurre un correttivo al principio della tassatività dei mezzi di impugnazione e di apprestare il rimedio del ricorso per cessazione contro determinati provvedimenti che, pur non essendo oggettivamente impugnabili, risultino, tuttavia, affetti da anomalie genetiche o funzionali così radicali da non poter essere inquadrati in nessuno schema legale, può essere snaturata nella sua ratio per dar luogo a impropri automatismi e per giungere ad affermare che l'adozione di un atto abnorme è di per sé espressione della mancanza di serenità e imparzialità del giudice''. Infine, la Sez. I sgombra il terreno da argomenti quali: i discorsi inaugurali tenuti dal Presidente della Corte d'Appello di Lecce; la lettera indirizzata dal Procuratore della Repubblica di Taranto ai competenti enti locali; l'introduzione ad un libro pedagogico ad opera del Procuratore della Repubblica e le dichiarazioni rilasciate dai Magistrati, rientranti ``nell'ambito della libertà di manifestazione del pensiero di cui i magistrati godono al pari di ogni cittadino'', ``non lesive di diritti e libertà altrui o dei valori di imparzialità e indipendenza, e non contrastanti nella forma, nei tempi e nella modalità di estrinsecazione, con i principi costantemente enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, riguardando fatti e vicende di rilievo pubblico e, come tali, oggetto di dibattito culturale e sociale''; le attività di prevenzione e di tutela di obiettivi sensibili assicurate dalle Forze dell'ordine, da non confondere con l'effettivo verificarsi di gravi disordini, il cui pericolo deve essere effettivo ed attuale.
Nell'ambito di un processo penale celebrato davanti al tribunale per plurimi omicidi colposi nei confronti di lavoratori e di altri soggetti conseguenti a patologie collegate all'esposizione a polveri di amianto, un imputato propone ai sensi dell'art. 45 c.p.p. istanza di remissione, e deduce «la esistenza di `una grave situazioni locale', sviluppatasi nel corso del processo, che ne avrebbe turbato lo svolgimento, situazione non altrimenti eliminabile e che pregiudicherebbe in maniera obiettiva la libera determinazione delle persone che partecipano al procedimento stesso, determinante motivi di legittimo sospetto tali da imporre la celebrazione del giudizio in altra sede». In particolare, l'istante sottolinea «l'invito alla mobilitazione per le date delle prossime udienze, con il richiamo alla c.d. carta delle rivendicazioni (nella quale è scritto `vogliamo far sapere che non accetteremo sentenze nelle quali moralità e legalità non coincidano') diramato dall'associazione esposti amianto, i cui vertici erano stati tutti sentiti come testimoni nel corso del processo, già oggetto dell'attenzione del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica». Segnala, altresì, che «a seguito della predetta iniziativa la locale procura della repubblica aveva richiesto al presidente del tribunale di autorizzare le riprese in video-conferenza, `anche ai fini di ordine pubblico', per evitare un'affluenza eccessiva di pubblico, precisando che la richiesta non era indirizzata alla realizzazione di una ripresa televisiva, eventualmente di rilevanza nazionale, ma ad un collegamento con il locale polo ospedaliero, con una sorta di estensione virtuale dell'aula di udienza e che le riprese non erano state autorizzate sul rilievo che l'interesse sociale alla conoscenza del dibattimento era pienamente assicurata dalla presenza dei mezzi di informazione». Osserva ancora che, «nel riportare tale notizia, la stampa locale aveva segnalato che la decisione aveva di fatto preferito garantire la presenza di quante più persone coinvolte nel processo nell'aula delle udienze del tribunale, piuttosto che consentire adunate esterne in cui sarebbe stato più problematico il controllo da parte delle forze dell'ordine e che la stessa non aveva mancato di sollevare qualche preoccupazione, temendosi `che possa presagire ad una sentenza `morbida' rispetto alle richieste di condanna dei pubblici ministeri». Sul fronte opposto, il Pubblico Ministero rileva, in particolare, che, «oltre la portata del processo - a carico di 41 persone e con 87 parti offese, di cui 82 decedute per neoplasie polmonari - la richiesta è intervenuta dopo la celebrazione di tre anni di udienze dibattimentali e dopo l'esaurimento della requisitoria del P.M., che aveva impegnato oltre sei udienze e delle arringhe delle difese, alla vigilia di trasferimento ad altra sede del giudice relatore e di uno dei due pubblici ministeri, che aveva partecipato alla istruttoria dibattimentale».
Nel rigettare la richiesta di rimessione, la Sez. IV considera tale richiesta «infondata perché dagli atti non emergono gli elementi tanto abnormi e di cosi consistente spessore, da rendere plausibile l'ipotesi che la situazione creatasi sia idonea a compromettere, o, comunque, ad influire sulla libera determinazione di coloro che partecipano al processo». Ricorda che, «secondo la conforme e consolidata giurisprudenza di questa Corte, l'istituto della rimessione ha carattere eccezionale, implicando una deroga al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge e, come tale, comporta la necessità di un'interpretazione restrittiva delle disposizioni che lo regolano, in esse comprese quelle che stabiliscono i presupposti per la translatio iudicii». Ne ricava che, «da un lato, per grave situazione locale deve intendersi un fenomeno esterno alla dialettica processuale, riguardante l'ambiente territoriale nel quale il processo si svolge e connotato da tale abnormità e consistenza da non poter essere interpretato se non nel senso di un pericolo concreto per la non imparzialità del giudice (inteso come l'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito) o di un pregiudizio alla libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo medesimo, e, dall'altro, che i motivi di legittimo sospetto possono configurarsi solo in presenza di questa grave situazione locale e come conseguenza di essa». Insegna che «non ricorrono, invece, gli estremi per la rimessione del processo quando l'istante si limiti a prospettare soltanto il probabile rischio di turbamento della libertà valutativa e decisoria del giudice, fondato su illazioni o sull'adduzione di timori o sospetti, non espressi da fatti oggettivi né muniti di intrinseca capacità dimostrativa, senza indicare alcuna situazione locale di una tale gravità e dotata di una oggettiva rilevanza da coinvolgere l'ordine processuale dell'ufficio giudiziario di cui sia espressione il giudice procedente». Osserva che «la situazione di fatto esposta dal richiedente non integra la fattispecie prevista dalla norma, cosi come specificata dalle decisioni di questa Corte». Spiega che, «contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, la situazione locale, intesa come fenomeno esterno alla dialettica processuale e riguardante l'ambiente territoriale nel quale il processo si svolge, non appare connotata da tale abnormità e consistenza da generare il legittimo sospetto che la serenità e l'imparzialità dei giudici possano essere seriamente incise e menomate, con la compromissione della corretta esplicazione della funzione giurisdizionale», che «l'esistenza di un quadro del genere non emerge né dall'iniziativa assunta dall'associazione esposti amianto né dai due articoli di stampa, allegati all'istanza», che, «quanto al sit-in davanti al palazzo di giustizia, proclamato dall'anzidetta associazione, I'annuncio di tali pubbliche manifestazioni, con l'indicato richiamo alla c.d. carta delle rivendicazioni, rientra nella libera espressione del pensiero a proposito di vicende socialmente rilevanti e costituisce dato ineliminabile nell'assetto democratico della società, per cui da essa, quando non trasmodi in attacchi diretti e insistiti, non possono sorgere pericoli effettivi per la capacità di determinazione del giudice, tenuto anche conto delle qualità morali, psicologiche e di esperienza che normalmente corredano le persone di coloro che sono chiamati al disimpegno di funzioni giurisdizionali», e che «altrettanto deve dirsi con riferimento ai due articoli di stampa, allegati all'istanza, dei quali il secondo riferisce della decisione del presidente del tribunale di non autorizzare le riprese in video-conferenza, rappresentando la preoccupazione manifestata da talune parti sociali che la decisione possa presagire ad una sentenza `morbida' rispetto alle richieste di condanna dei pubblici ministeri». Osserva sul punto, «innanzitutto, in via generale, che in più occasioni questa Corte ha avuto modo di precisare che le campagne di stampa, quantunque accese, astiose e martellanti o le pressioni dell'opinione pubblica non sono di per sé idonee a condizionare la libertà di determinazione del giudice, abituato ad essere oggetto di attenzione e critica senza che per ciò solo ne resti menomata la sua indipendenza di giudizio o minata la sua imparzialità», e, del resto, che, nel caso in questione, all'evidenza, nemmeno si è in presenza di una campagna di stampa, né di pressioni della pubblica opinione». La conclusione è che «difettano, nella fattispecie in esame, elementi tanto abnormi e di cosi consistente spessore da rendere plausibile l'ipotesi che la situazione creatasi abbia comportato la perdita della libertà morale di coloro che al processo partecipano», e che, «non è in conseguenza integrata la fattispecie della quale si richiede l'applicazione, non essendo dimostrata, per l'appunto, né l'abnormità e la particolare consistenza della situazione, né la capacità di questa a influire sulla libera determinazione di coloro che al processo partecipano».
(Per il rigetto di un'analoga richiesta di rimessione ad altra sede di un processo per i reati di avvelenamento doloso di acque e di disastro ambientale doloso Cass. 1° agosto 2014, n. 34137).
Nel richiamare i principi giurisprudenziali destinati a delineare l'ambito della ipotesi di mancata correlazione tra contestazione e sentenza, la Sez. IV annulla con rinvio la condanna dell'amministratore di una s.r.l. committente per l'infortunio subito da due dipendenti della ditta appaltatrice ``perché venga assicurato il contraddittorio sui nuovi profili di addebito colposo riconosciuti nella motivazione della sentenza impugnata'': ``I fatti di cui agli addebiti di colpa ascritti all'imputato, come risultanti dal tenore motivazionale della sentenza impugnata, in nessun modo, neppure in termini di continenza, possono essere ricondotti allo spettro dell'originaria contestazione in quanto, a fronte della genericità dell'addebito colposo in imputazione (imprudenza, imperizia e negligenza), il giudice di appello ha introdotto elementi di colpa specifici connessi alla inosservanza di regole cautelari desunte dall'applicazione di disciplina settoriale e specialistica, che avrebbero richiesto una adeguata esplicitazione nel contraddittorio dibattimentale che non vi è stata, finendo per porsi in rotta di collisione con la giurisprudenza secondo la quale la parte deve essere ammessa ad esercitare, con riferimento ai nuovi addebiti di colpa specifica, la concreta possibilità di apprestare in modo completo la sua difesa in relazione ad ogni profilo di contestazione''.
``Perché possa dirsi integrata una violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui all'art. 521 c.p.p., non è sufficiente qualsiasi modificazione dell'accusa originaria, ma è necessaria una modifica che pregiudichi la possibilità di difesa dell'imputato. Ne consegue che detta violazione non sussiste quando, nel capo di imputazione, siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l'imputato in condizioni di difendersi dal fatto successivamente ritenuto in sentenza, da intendersi come accadimento storico oggetto di qualificazione giuridica da parte della legge penale, che spetta al giudice individuare nei suoi esatti contorni. Tali principi sono coerenti con quelli costituzionali racchiusi nella norma di cui al novellato art. 111 Costituzione, ma anche con l'art. 6 della Convenzione E.D.U., siccome interpretato, in base alla sua competenza esclusiva, dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, a partire dalla nota pronuncia Drassïch c. Italia (CEDU, II Sez., 11 dicembre 2007); ma anche, più di recente, con la pronuncia dei 22 febbraio 2018, Drassich c. Italia, con la quale la Corte di Strasburgo ha escluso la violazione dell'art. 6 cit. nel caso in cui l'interessato abbia avuto una possibilità di preparare adeguatamente la propria difesa e di discutere in contraddittorio sull'accusa alla fine formulata nei suoi confronti''. Peraltro, tali principi sono stati ulteriormente calibrati in tema di reati colposi, affermandosi che non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa''.
``In materia di reati colposi, si è ritenuta insussistente la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa. Siffatto approccio si giustifica in ragione dalle caratteristiche intrinseche della condotta colposa che può essere identificata solo attraverso la integrazione del dato fattuale con quello normativo, tanto che la precisazione del quadro fattuale, come risultante in giudizio, nel quale si è trovato ad operare il soggetto cui viene addebitata la violazione, può sinanco determinare una modifica del quadro nomologico di riferimento. Da ciò deriva la necessità di tener conto della complessiva condotta addebitata come colposa e di quanto è emerso dagli atti processuali. Al giudice è consentito di aggiungere agli elementi di fatto contestati, altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, perché sostanzialmente non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa''. (V. anche Cass. 11 aprile 2022 n. 13720 e Cass. n. 16148 del 28 aprile 2021).
``Condanna per falsità materiale in atto pubblico e truffa aggravata ai danni di ente pubblico, perché la situazione di non conformità di un centro medico alla normativa vigente (in particolare, ma non solo, per quanto attiene alla prevenzione degli infortuni sul luogo di lavoro) sarebbe stata celata alla competente Azienda sanitaria locale, mediante la trasmissione di documentazione artefatta, attestante attività di manutenzione viceversa mai posta in essere''.
Esclude la lamentata eccessività della pena irrogata al datore di lavoro, non solo per ``la mancanza totale di qualsivoglia forma di formazione sul posto di lavoro'' (denominato ``angolo della morte''), bensì anche per il comportamento dell'imputato dopo l'infortunio: ``non aveva allertato immediatamente i soccorsi, ma aveva dato disposizioni affinché il corpo del lavoratore venisse spostato in altro luogo, dichiarando in seguito ai primi operanti sopraggiunti di non conoscere la vittima, asserendo di essersi imbattuto per puro caso nel corpo''.
Un socio, padre del rappresentante legale, di una s.r.l. viene condannato per violenza privata ai danni di un dipendente ``costretto a riferire falsamente ai sanitari del pronto soccorso che un infortunio subito era stato accidentale ed a tacere che, invece, esso si era verificato nell'ambito dell'attività lavorativa presso la s.r.l.''. La Sez. V riconosce che la circostanza aggravante di cui all'art. 61, n. 11, c.p. ``prescinde dall'esistenza di un rapporto di dipendenza formale tra autore del fatto e persona offesa e valorizza l'abuso di un rapporto d'opera ancorché intercorrente con altro soggetto''.
Il legale rappresentante di una s.r.l. committente viene condannato in concorso con il titolare della ditta individuale appaltatrice per il reato di cui all'art. 593, comma 2, c.p., ``per aver avere omesso di prestare la necessaria assistenza al muratore dipendente della ditta individuale vittima di un grave incidente nel cantiere allestito presso la sede della s.r.l. committente dei lavori, e di dare immediato avviso alla competente autorità di quanto era accaduto''. Si accertò che il muratore, ``mentre era intento con altri lavoratori a sostituire il manto di copertura di un fabbricato posto a circa 2,9 metri di altezza, era caduto nel locale sottostante, attraverso una botola non adeguatamente protetta o segnalata, riportando lesioni personali gravi''. Nel confermare la condanna, la Sez. V osserva che ``l'affermazione della responsabilità dell'imputato trova la sua giustificazione nella violazione del dovere di assistenza previsto dall'art. 593, comma 2, c.p., che, pur in presenza di altre persone del pari astrattamente destinatarie del medesimo dovere, comunque incombeva su di lui, non in qualità di committente dei lavori o di datore di lavoro della persona offesa, ma di soggetto entrato in contatto diretto con la persona pericolante, vale a dire bisognosa di assistenza, dopo il verificarsi del sinistro, in ragione delle conseguenze riportate a causa della caduta da un'altezza di circa tre metri''. Precisa che ``tale dovere egli ha violato, quanto meno non avvisando immediatamente, cioè senza alcuna dilazione non indispensabile, le autorità sanitarie e di polizia dell'incidente verificatosi presso la sede della sua azienda, attendendo, piuttosto, l'arrivo del datore di lavoro, senza che ve ne fosse ragione ai fini del soccorso, per accompagnare l'infortunato presso il nosocomio''. Con riguardo poi all'elemento soggettivo del reato, ne afferma la sussistenza ``in termini di dolo generico integrato dalla consapevolezza della necessità del soccorso e dell'omissione''. Rileva che, ``in tema di omissione di soccorso, lo stato di pericolo è elemento costitutivo delle diverse ipotesi di reato previste nel primo e secondo comma dell'art. 593 c.p., e in quest'ultima fattispecie -a differenza della prima nella quale il pericolo è `presunto' in presenza delle situazioni descritte- lo stato di pericolo deve essere accertato, in base agli elementi che caratterizzano il reato, con valutazione `ex ante' e non `ex post'. E prende atto che, nel caso di specie, ``proprio le modalità dell'incidente e la condizione di oggettiva sofferenza dell'infortunato immediatamente percepibili e percepite dall'imputato quando entrò in contatto diretto con il medesimo, gli consentivano di avere piena consapevolezza dell'esistenza di una condizione di pericolo quanto meno per l'integrità fisica dell'infortunato, che richiedeva un soccorso immediato attraverso la subitanea allerta delle competenti autorità sanitarie, per cui l'omesso adempimento del dovere di soccorso correttamente è stato ritenuto frutto di una consapevole e volontaria scelta''.
Il dipendente di una s.r.l. intento ad operare sul tetto di un immobile in ristrutturazione di proprietà dello stesso amministratore unico della s.r.l. cade a terra in seguito alla rottura di un travicello in assenza di un ponteggio sottostante. Il datore di lavoro raccomanda all'infortunato di dire che si era trattato di un incidente avvenuto per strada mentre andava a fare un giro in bicicletta. Quindi, mediante un furgone del datore di lavoro, il lavoratore ferito viene trasportato con una bicicletta in una zona poco frequentata ritenuta idonea a simulare un incidente stradale in bicicletta, qui è soccorso dall'ambulanza, e dichiara ai sanitari di essere stato investito da un'autovettura mentre si trovava in bicicletta. Nel corso di successivi contatti con il lavoratore ricoverato in ospedale, il datore di lavoro, nel frattempo consultatosi con il proprio commercialista, chiede all'infortunato di firmare un foglio scritto recante una diversa versione ove ammette che l'infortunio si era verificato per caduta dal tetto del fabbricato in ristrutturazione, ma afferma di essere salito sul tetto all'insaputa del datore di lavoro. Solo che l'infortunato non acconsente a firmare una simile dichiarazione, invece già sottoscritta dal collega. La Sez. IV conferma la condanna dell'imputato - oltre che per lesione personale colposa in danno del dipendente infortunatosi - per i delitti di tentata violenza privata, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, e favoreggiamento personale, di cui rispettivamente agli artt. 56-610, 611, e 378 c.p. A sua discolpa, l'imputato lamenta l'omessa ``individuazione dell'elemento materiale della violenza o minaccia penalmente rilevante'', deduce di non poter essere ``accusato di auto favoreggiamento per aver aiutato sé medesimo'', eccepisce che non si vede ``come la scrittura in oggetto potesse aiutarlo ad eludere le investigazioni a suo carico'' e che ``la richiesta di redazione di detta scrittura non è frutto di violenza o di minaccia, avendo egli solo segnalato al lavoratore l'opportunità di correggere la falsa rappresentazione dei fatti inizialmente fornita alle forze dell'ordine''. La Sez. IV non accoglie queste argomentazioni. Pone in rilievo ``i profili di violenza e minaccia riscontrati nel comportamento adottato dall'imputato nel corso dei successivi contatti avuti in ospedale con il lavoratore infortunato, finalizzati a cercare di ottenerne la firma su un foglio scritto, riportante una diversa versione dell'incidente, rispetto a quanto era stato inizialmente dichiarato dal lavoratore stesso, non veritiera nella parte in cui costui avrebbe dovuto dichiarare di essere salito sul tetto, da cui poi era caduto, all'insaputa del datore di lavoro''. E quanto al delitto di cui all'art. 378 c.p., considera ``evidente che l'imputato non è stato accusato di auto favoreggiamento, bensì di avere costretto altro soggetto a commettere il reato di favoreggiamento''.
L'amministratore di una società di trasporti venne condannato - oltre che per le lesioni subite da due dipendenti in distinti infortuni cagionati dall'omessa osservanza delle norme antinfortunistiche - per i reati di frode processuale di cui all'art. 374 c.p. e di minaccia per costringere a commettere un reato di cui all'art. 611 c.p., ``per avere, in occasione di uno degli infortuni, e prima dell'intervento dei soccorsi e degli inquirenti, immutato lo stato dei luoghi, e successivamente minacciato di licenziamento alcuni dipendenti affinché rilasciassero alla polizia giudiziaria dichiarazioni compiacenti sulla dinamica dell'infortunio''. A propria discolpa, con riguardo al reato di frode processuale ex art. 374 c.p., lamenta il mancato riconoscimento dell'esimente di cui all'art. 384, comma 1, c.p. (``nei casi previsti dagli articoli 361, 362, 363, 364, 365, 366, 369, 371-bis, 371-ter, 372, 373, 374 e 378, non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore''). La Sez. dà ragione all'imputato: ``inequivocabile il rapporto di immediata consequenzialità tra l'incidente occorso ed il pericolo per l'imputato di vedersi attribuire la responsabilità per le conseguenze subite dal dipendente, e altrettanto indubitabile che, nella sua qualità di datore di lavoro, egli fosse perfettamente consapevole del mancato rispetto delle norme antinfortunistiche poi effettivamente contestatogli, talché il suo comportamento risulta coerente con il fine di evitare quella che gli appariva una altrimenti inevitabile condanna per quanto accaduto''. Di qui l'annullamento della condanna per la frode processuale perché il fatto non costituisce reato.
``Il rinvenimento casuale di un cadavere in via di decomposizione ed irriconoscibile, essendo il volto schiacciato da un divano, e recante tracce di vernice sugli abiti, da parte di due cacciatori di cinghiali in una zona di campagna isolata del Piemonte, con segni di pneumatici nei pressi, ha dato avvio alle indagini che hanno condotto al processo. Due imprendiori edili lavoravano in un cantiere presso una villetta, avvalendosi anche di un dipendente in nero, il quale reperì un altro operaio in nero, il quale mentre stava lavorando in piedi sopra un cavalletto, senza alcun sistema di protezione e senza alcuna formazione, maneggiando un martello pneumatico, cadeva, con esito mortale. Il cadavere fu poi stato trasportato dagli imputati ovvero nell'interesse degli imputati con un autoveicolo in una lontana località e abbandonato in una zona umida e boschiva''. Condanna per omicidio colposo e per sottrazione e distruzione/soppressione parziale di cadavere (art. 411 c.p.).
In precedenza:
Infortunio in azienda agricola a un lavoratore assunto subito dopo essere condotto agonizzante in ospedale ove decede. Le prime indicazioni suggeriscono che l'uomo sarebbe caduto accidentalmente da un albero di ulivo. I carabinieri accertano, però, che ``la vittima era caduta dalla tettoia di un capannone sito in quella stessa azienda e di recente costruzione'' e che ``il suo corpo era stato spostato in prossimità dell'albero, in maniera strumentale a ingenerare la convinzione che il lavoratore fosse, per l'appunto, caduto dall'albero che stava sfrondando''. In particolare, l'ispezione del capannone consente di ``rinvenire tracce ematiche coperte dall'autovettura di proprietà del titolare dell'azienda agricola, posizionata proprio sopra di esse; in corrispondenza della zona ove vi erano dette macchie e guardando in alto, insisteva un lucernaio con un pannello in plexiglass la cui estremità era spezzata; alcune lamiere in plexiglass, una delle quali parzialmente rotta e con vistose tracce ematiche oggetto di dilavamento, erano state rinvenute nei pressi e il fabbricato presentava un tratto completamente bagnato con l'acqua''. Successivamente, emerge che l'infortunato, ``intento quel giorno alla potatura degli alberi, era stato chiamato verso mezzogiorno da un operaio della ditta, intento ai lavori edili che interessavano il capannone, per aiutarlo con il lavoro di copertura da svolgersi sulla tettoia''. Emerge, inoltre, che ``il cantiere era privo di qualsiasi misura di prevenzione intesa a evitare il rischio di caduta dall'alto durante lo svolgimento dei lavori in quota, cosi come altrettanto certa la assenza del P.O.S., del D. V.R. e la mancata verifica da parte del datore di lavoro dell'utilizzo dei dispositivi di sicurezza assertivamente distribuiti''.
Per omicidio colposo venne condannato il titolare dell'azienda agricola, ``per non aver fatto sì che gli operai impegnati in lavori in quota avessero le attrezzature idonee a garantire e mantenere le condizioni di lavoro sicure (cinture di sicurezza e imbracature) e sistemi di sicurezza quali camminamenti protetti sul tetto, impalcature, parapetti perimetrali, sistemi di posizionamento tramite funi, atti ad impedire la caduta dall'alto; per non aver adottato misure appropriate affinché solo i lavoratori specificamente addestrati accedessero alle zone che li esponevano a un grave e specifico rischio; infine, per non aver richiesto ai singoli lavoratori l'osservanza delle norme vigenti e l'utilizzo dei dispositivi di protezione collettivi e individuali''. Inoltre, sia il titolare, sia l'operaio della ditta, furono condannati per il reato di frode processuale di cui all'art. 374 c.p. per ``aver immutato artificiosamente lo stato dei luoghi dell'infortunio, spostando il corpo dell'infortunato dalla zona di caduta in altro luogo, in prossimità di un albero di ulivo, al fine di simulare la caduta accidentale dell'uomo dall'albero, cercando di coprire le tracce di sangue presenti all'interno del capannone presso il punto di caduta (mediante il posizionamento di un'autovettura di proprietà del titolare), e quelle presenti sul plexiglass rotto (rinvenuto spostato e lavato)''. Per quel che concerne il reato di cui all'art. 374 c.p., la Sez. IV insegna che ``l'immutazione integra il delitto di frode processuale ogni qual volta sia percepibile soltanto grazie ad un esame non superficiale e possa sfuggire, pertanto, al controllo di una persona non particolarmente esperta, risultando invece irrilevante solo quando la stessa sia talmente grossolana e così agevolmente percepibile a prima vista, da escludere qualsiasi potenzialità ingannatoria''; a proposito della ripulitura di tracce ematiche, precisa che ``essa non integra la condotta di cui alla norma citata allorché sia grossolana e maldestra, facendo difetto in tal caso ogni potenzialità ingannatoria'' (in argomento v. Alibrandi, Codice penale commentato con la giurisprudenza, 2018, 1112 s.). Con riguardo al caso di specie, prende atto che ``la condotta fraudolenta era stata congegnata in maniera tutt'altro che grossolana, mediante lo spostamento del corpo della vittima, il dilavamento delle tracce di sangue dalle lastre di plexiglass, rotte e spostate altrove, il posizionamento dell'auto a copertura del punto di caduta del lavoratore'', e che ``solo l'acquisizione delle informazioni dai testimoni presenti e il proseguimento delle indagini all'interno del capannone avevano consentito di ricostruire gli esatti termini dell'intera vicenda''.
(Da tener presente è ora, in tema di sicurezza sul lavoro oltre che ambientale, il delitto di impedimento del controllo di cui all'art. 452-septies c.p., introdotto dalla legge sui c.d. ecoreati 22 maggio 2015 n. 68, in forza del quale, ``salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, negando l'accesso, predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisce, intralcia o elude l'attività di vigilanza e controllo ambientali e di sicurezza e igiene del lavoro, ovvero ne compromette gli esiti, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”. E si noti che il reato di cui all'art. 374 c.p. è punito più severamente con la reclusione da uno a cinque anni, a condizione peraltro che “il fatto non sia preveduto come reato da una particolare disposizione di legge”).
La Sez. IV conferma la condanna di un datore di lavoro, oltre che per la lesione colposa in danno di un dipendente caduto da un ponteggio mobile a un'altezza di circa sei metri, ``per il reato di cui all'art. 483 c.p., perché, al fine di occultare il reato di lesione colposa, aveva falsamente attestato nella denuncia all'INAIL che il lavoratore era caduto da una scala da altezza inferiore ai due metri'', e in proposito prende atto ``della circostanza documentale rappresentata dalla falsata descrizione della dinamica dell'incidente, integrando la denuncia al competente istituto una dichiarazione a contenuto convenzionale giuridicamente rilevante, la cui natura condiziona il denunciante all'obbligo di dichiarare il vero, derivando da essa conseguenze in ordine alla liquidazione dell'indennizzo''.
La Sez. III conferma la condanna di un datore di lavoro per il reato di cui all'art. 374, commi 1 e 2, c.p., perché, in concorso con il custode dell'area di cantiere sottoposta a sequestro dagli Ispettori ASL, nel corso del procedimento penale relativo a infortunio sul lavoro, «immutavano artificiosamente lo stato dei luoghi sottoposti a sequestro su disposizione del P.M. titolare delle indagini dagli ufficiali di P.G. appartenenti all'ASL 8 territorialmente competente per l'inchiesta relativa al predetto infortunio, installando sul colmo del tetto la tesata - sino ad allora inesistente - a cui l'infortunato avrebbe dovuto agganciare la cintura di sicurezza e che non era presente nel rilievi fotografici eseguiti nell'immediatezza dell'infortunio ex art. 354 c.p.p., non impedendo che ciò avvenisse il primo ed impartendo direttive in tal senso, il secondo».
(Significativa è anche Cass. 1° ottobre 2014, n. 40612, che conferma la condanna per i reati di cui agli artt. 374 e 378 c.p. di persona che, ``riferendo alla polizia municipale di non ricordare se il ponteggio era installato al momento dell'infortunio, aiutava gli imputati di un infortunio mortale a eludere le investigazioni dell'autorità, pur essendo a conoscenza che il ponteggio era stato montato successivamente al fatto, poiché aveva partecipato a tale montaggio''. V., inoltre, Cass. 29 aprile 2019 n. 17764, che conferma la condanna di chi dichiarò il falso su modalità, luogo e dinamica dell'infortunio occorso in un cantiere a un lavoratore caduto dal ponteggio per aiutare il datore di lavoro a eludere le indagini).
Il GUP del Tribunale di Trento dichiarò non doversi procedere perché il fatto non costituisce reato in rapporto all'omicidio colposo addebitato ai legali rappresentanti di un centro assistenziale per la morte di un lavoratore esposto ad amianto e deceduto per mesotelioma pleurico. La Sez. IV annulla la sentenza del GUP: ``Secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, anche all'esito delle modificazioni introdotte dalla legge n. 47919/1999, l'udienza preliminare deve ritenersi tale da aver conservato la propria originaria natura di provvedimento d'indole processuale (e non di merito). In sintesi, al fine di pervenire a una sentenza di non luogo a procedere, il quadro probatorio e valutativo complessivamente delineatosi ad esito dall'udienza preliminare dev'essere tale da apparire, secondo un criterio di ragionevolezza, di per sé immutabile. Il giudice dell'udienza preliminare ha il potere di pronunziare la sentenza di non luogo a procedere in quei soli casi nei quali non esista una prevedibile possibilità che il dibattimento possa pervenire a una diversa soluzione; ossia, in tutti i casi in cui il dibattimento deve indubitabilmente ritenersi superfluo. Il provvedimento impugnato risulta nella sua sostanziale impostazione, incentrato sulla verifica dell'insussistenza del delitto contestato agli imputati, e di fatto governato da una logica di giudizio sovrapponibile a quella propria dell'esame dibattimentale, piuttosto che a quella coerente alle specifiche finalità dell'udienza preliminare, avendo la sentenza impugnata apoditticamente correlato l'asserzione dell'indimostrabilità dell'eventuale rilievo causale positivo delle condotte alternative lecite omesse dagli imputati (tale da escludere che l'approfondimento istruttorio dibattimentale avrebbe potuto condurre ad esiti diversi) alle indicazioni fornite dal perito nel corso dell'incidente probatorio (di per sé oggettivamente discusse in ambito scientifico), secondo cui lo stato delle conoscenze scientifiche e l'efficacia dei presidi antinfortunistici disponibili all'epoca di attività degli imputati non avrebbero consentito di esprimere un giudizio certo circa la possibilità, mediante l'adozione di adeguati comportamenti cautelari, di sottrarre il lavoratore alla patologia dallo stesso contratta o, quantomeno, di differirne l'emersione in un periodo significativamente posteriore, con la conseguente obiettiva incertezza circa la `scongiurabilità' o la `differibilità' dell'evento per effetto della condotta alternativa lecita di ciascun singolo imputato. Le valutazioni assertivamente compendiate dal giudice appaiano tali da lasciare ancora interamente scoperta l'area delle possibili differenti valutazioni del materiale probatorio complessivamente acquisito; e ciò, non solo nella prospettiva della rilevabile diversità delle possibili letture degli elementi di prova acquisiti (possibilità fondatamente adombrata dalle parti civili attraverso il pertinente richiamo dei precedenti giurisprudenziali di legittimità invocabili nel caso di specie), bensì anche sotto il profilo della ragionevole prevedibilità di un differente approccio alla ricostruzione del ragionamento controfattuale e della relativa caratterizzazione probatoria, sì da condurre a una differente interpretazione delle possibilità di un diverso andamento nel tempo del decorso della patologia contratta dal lavoratore, nonché dei profili di colpevolezza degli imputati rilevabili nelle condotte assunte nel corso del rapporto di lavoro intrattenuto con il lavoratore deceduto. La mancata analitica specificazione, da parte del giudice, delle ragioni dell'assoluta e certa superfluità della celebrazione del dibattimento, a causa della sicura inesistenza di possibili sviluppi probatori e/o argomentativi degli elementi acquisiti o di possibili interpretazioni alternative di questi, impone la pronuncia dell'annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al Tribunale di Trento per nuovo esame''.
(V. anche Cass. 25 agosto 2015, n. 35560; e Cass. 19 gennaio 2018, n. 2536).
La Sez. IV rigetta il ricorso dell'imputato avverso l'ordinanza di inammissibilità dell'istanza di ricusazione: ``Nell'ambito di procedimento per omicidio colposo in danno di lavoratore infortunato, l'imputato propone istanza di ricusazione nei confronti di un giudice del tribunale sulla base della perdita da parte del giudice dei requisiti di terzietà ed imparzialità, avendo egli disposto, con provvedimento emesso inaudita altera parte, il sequestro conservativo dei beni di proprietà dell'imputato ancor prima dell'accertamento della sua responsabilità in ordine al decesso del lavoratore e del deposito della relazione peritale poi redatta. Dalla lettura della ordinanza impugnata si evince la coerenza dell'apparato argomentativo coi principi di diritto ripetutamente applicati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la valutazione espressa dal giudice in un provvedimento reso nell'ambito di una sequenza procedimentale necessaria e funzionale alla decisione - come, nella specie, quella di tipo istruttorio - non costituisce affatto un'indebita manifestazione del proprio convincimento, suscettibile di fondare una richiesta di ricusazione ai sensi dell'art. 37, comma 1, lett. b), c.p.p., non potendo configurarsi alcuna compromissione del principio dell'imparzialità, inteso sia in chiave costituzionale che convenzionale. Emerge chiaramente la pertinenzialità di tutte le decisioni evocate dalla difesa (anche a volerle considerare congiuntamente) rispetto al procedimento applicativo del sequestro conservativo. Al riguardo, l'imputato contesta il rigetto della richiesta di confronto tra il perito e il consulente, diniego motivato in ragione delle divergenze emerse nei rispettivi esami e relazioni medico-legali. In tema di ricusazione, costituisce indebita manifestazione del proprio convincimento da parte del giudice, rilevante ai sensi dell'art. 37, comma 1, lett. b), c.p.p., l'anticipazione di valutazioni sul merito della res iudicanda, ovvero sulla colpevolezza o innocenza dell'imputato in ordine ai fatti oggetto del processo, compiuta, sia all'interno del medesimo procedimento che in un procedimento diverso, senza che tali valutazioni siano imposte o giustificate dalle sequenze procedimentali previste dalla legge o allorché esse invadano, senza necessità e senza nesso funzionale con l'atto da compiere, l'ambito della decisione finale di merito, anticipandone in tutto o in parte gli esiti. Tale nesso funzionale non è escluso da eventuali violazioni di legge in quanto, ai fini della revocazione per indebita manifestazione del proprio convincimento da parte del giudice, rileva non il vizio dell'atto in sé, ma la sua eccentricità rispetto alla funzione definitoria del procedimento in trattazione. È inammissibile la richiesta di ricusazione in relazione alle funzioni legittimamente esercitate dal giudice nella stessa fase del procedimento, in quanto, altrimenti, ne deriverebbe la frammentazione di quest'ultimo e si consentirebbe alle parti, per mezzo della reiterazione di istanze incidentali, di determinare la rimozione del giudice già investito del processo''.
Nell'ambito di un procedimento penale pendente in primo grado per plurimi omicidi colposi e lesioni personali colpose connessi all'esposizione ad amianto di lavoratori di uno stabilimento, un imputato già direttore ricorre avverso l'ordinanza della corte di appello che dichiara inammissibile l'istanza di ricusazione nei confronti di un magistrato. La Sez. IV dichiara inammissibile il ricorso, in quanto l'istanza di ricusazione era stata proposta fuori termine.
Nel caso esaminato da questa sentenza, un giudice del tribunale pronunciò sentenza di applicazione di pena nei confronti di un imputato del reato di cui all'art. 590 c.p. (lesioni personali colpose aggravate dalla violazione di norme sulla tutela della salute nei luoghi di lavoro), e successivamente celebrò l'udienza a carico di altro imputato dei connessi reati di cui agli artt. 378 e 593 c.p.
Nel ricorrere contro l'ordinanza della corte d'appello che rigetta la dichiarazione di ricusazione, l'imputato dei reati connessi deduce che ``le ragioni addotte a supporto della dichiarazione di ricusazione formulata nei confronti del giudice sono, in sintesi, rappresentate dal fatto che il giudice del dibattimento ha pronunciato, all'interno dello stesso processo, sentenza di patteggiamento nei confronti di un coimputato accusato di reati probatoriamente collegati e teleologicamente connessi a quelli contestati all'odierno incolpato assumendo, peraltro, piena contezza dell'intero fascicolo delle indagini preliminari contenente le sommarie informazioni testimoniali rese dalle persone informate sui fatti che hanno già assunto ed assumeranno nel processo la veste di testimoni''. Afferma che ``da tali patologiche condizioni - alle quali, normalmente e non per caso, tutti i giudici del dibattimento ovviano rinviando la decisione sul patteggiamento a data successiva alla definizione dell'istruzione dibattimentale - sarebbe derivata l'integrazione dell'ipotesi di incompatibilità ai sensi dell'art. 34, comma 2, c.p.p. interpretato alla luce della giurisprudenza costituzionale''. Sostiene ancora che il giudice ricusato, nel pronunciare sentenza di patteggiamento per il delitto di lesioni personali colpose aggravate dalla violazione di norme sulla tutela della salute nei luoghi di lavoro, confermò che il lavoratore si infortunò sul luogo di lavoro anziché presso l'abitazione dello stesso imputato, in tal guisa determinando un pregiudizio a sfavore del ricusante.
La Sez. IV non si lascia convincere da queste argomentazioni. Rileva che ``nella imputazione di cui all'art. 590 c.p. non risultava coinvolto l'imputato odierno ricorrente, che risponde di altre imputazioni (di cui agli artt. 378 e 593 c.p.), evidentemente al di fuori di ogni ipotesi di concorso necessario''. Ne desume che ``per le riportate imputazioni non si pone neppure la tematica del `pregiudizio' derivante dalla sentenza di patteggiamento''. Ricorda che ``l'ipotesi di incompatibilità del giudice derivante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1996 - che ha dichiarato la incostituzionalità dell'art. 34, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata - sussiste anche con riferimento alla ipotesi in cui il giudice del dibattimento abbia, in separato procedimento, pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente necessario dello stesso reato'', ma che ``la sentenza di patteggiamento si pone al di fuori della tematica del concorso necessario presa direttamente in esame dalla sentenza n. 371 del 1996''. Si chiede poi se tale sentenza ``sia stata in concreto idonea a pregiudicare la posizione dell'odierno ricorrente''. Al riguardo, osserva che ``nella sentenza di applicazione della pena, assunta come atto pregiudicante, non vi è il minimo cenno alla posizione ad altri imputati e la motivazione, con riferimento all'imputato patteggiante, si basa correttamente, quali dati probatori, su atti di indagine (probatoriamente non utilizzabili nei confronti degli imputati giudicati secondo il rito ordinario) e sul criterio della esatta qualificazione del fatto e della non ravvisabilità di alcuna causa di proscioglimento ex art. 129, comma 1, c.p.p., con riguardo alle imputazioni mosse al predetto imputato, e quindi solo con specifico riferimento a quella di cui all'art. 590 c.p. e senza valutazioni nel merito''. Aggiunge che ``le norme che prevedono le cause di ricusazione sono norme eccezionali e, come tali, di stretta interpretazione, sia perché determinano limiti all'esercizio del potere giurisdizionale e alla capacità del giudice sia perché consentono un'ingerenza delle parti nella materia dell'ordinamento giudiziario, che attiene al rapporto di diritto pubblico fra Stato e giudice, sicché la mera connessione probatoria tra due procedimenti che non comporti una valutazione di merito svolta .da uno stesso giudice non determina la sussistenza di una ipotesi di ricusazione''.
La Corte di Appello di Lecce - Sezione Distaccata di Taranto - aveva respinto l'istanza di ricusazione dei periti (esperti in medicina del lavoro ed epidemiologia) formulata dalla difesa degli imputati, ``rinviati a giudizio e condannati in primo grado nel giudizio relativo all'istanza (in riferimento alle ipotesi di reato di cui gli artt. 589, comma 2, e 449 c.p.) pendente in grado di appello''. Nell'accogliere il ricorso presentato dagli imputati, la Sez. I evoca ``uno specifico profilo di doglianza'', concernente ``la particolare condizione di fatto rappresentata dalle seguenti circostanze: a) l'essere entrambi i periti componenti (l'uno nella articolazione nazionale, l'altro in quella della Lombardia) del comitato scientifico della onlus Legambiente; b) l'esistenza di procedimento pendente nel medesimo distretto nei confronti - tra gli altri - degli attuali ricorrenti, per fatti che appaiono prima facie strettamente correlati a quello nel corso del quale si è avanzata l'istanza di ricusazione e nel cui ambito la onlus Legambiente risulta costituita parte civile''. Osserva che ``il tema introdotto dal ricorso concerne, in primo luogo - ed in modo assorbente - la ricognizione della locuzione `interesse nel procedimento' che compare nel testo dell'art. 36, comma 1, lettera a), c.p.p.'', e ``ciò in rapporto al fatto che - per espresso dettato normativo - le disposizioni che regolamentano i casi di astensione (e ricusazione) del giudice (esclusa la generale clausola atipica dell'art. 36, comma 1, lettera h, si applicano al perito e pertanto ne configurano la posizione processuale in termini di `doverosa essenza nonché obiettiva apparenza di imparzialità' rispetto all'oggetto della controversia''. Ritiene ``utile evidenziare come tale scelta (l'estensione al perito della disciplina della ricusazione, modellata sulla falsariga di quella prevista per il giudice) risalga all'intervento legislativo adottato con legge n. 517 del 18 giugno 1955, posto che il codice emanato nel 1930, innovando rispetto a quello promulgato nel 1913, aveva eliminato l'istituto in questione (perché, secondo i contenuti della Relazione del Guardasigilli dell'epoca, `il perito non decide, ma esprime semplicemente un parere')''. Afferma che ``le ragioni della reintroduzione, nel 1955, dell'istituto della ricusazione del perito, vennero espresse (con non scarsa lungimiranza e senso pratico) nella relazione di accompagnamento, con sottolineatura della particolare incidenza della perizia sulla decisione della causa, posto che `la complessità delle cognizioni scientifiche, necessarie assai spesso per esercitare un efficiente controllo di natura tecnica sui metodi ed i risultati delle indagini peritali, praticamente rende difficile al giudice - la cultura tecnica è per lo più generica - discostarsi dal parere del suo ausiliare'''. Precisa che ``la ragione logico-sistematica - peraltro ribadita con la codificazione del 1989 - si accresce di pregnanza ove si considerino due aspetti tra loro speculari e consistenti da un lato nella confermata tendenza storica del giudice togato ad affidare, dato il progresso tecnologico e scientifico, compiti sempre più elaborati (e spesso decisivi, ferma restando la verifica metodologica) al soggetto esperto, dall'altro la accresciuta consapevolezza dei possibili margini di errore nella ricostruzione degli accadimenti rilevanti e dei nessi tra i medesimi anche lì dove l'apporto ricostruttivo si accompagni al sapere scientifico, in costante evoluzione e autoverifica dei propri risultati''. Ne desume che ``la verifica di `imparzialità' del perito, anche nel senso di eliminazione dei fattori potenzialmente idonei ad appannare l'immagine di equidistanza di tale soggetto rispetto agli interessi in gioco, è aspetto che rientra a pieno titolo nella protezione costituzionale dei valori del giusto processo, sia in rapporto ai contenuti costituzionali che in riferimento a quelli sovranazionali''. A questo punto, la Sez. I rileva che ``l'estensione al perito delle norme dettate per la tutela della imparzialità del soggetto giudicante, sin qui ricostruita nelle sue finalità primarie, determina una necessità di interpretazione adeguatrice delle singole disposizioni, posto che se da un lato il valore della `equidistanza' dai poli della controversia accomuna le due figure, è pur vero che il `valore aggiunto' del perito, ossia il tasso di conoscenza specialistica che costui è in grado di apportare è tanto più elevato quanto il soggetto in questione sia effettivo portatore di una esperienza, sovente maturata - preferibilmente in ambito non processuale - attraverso l'esame di numerosi casi e il costante aggiornamento culturale''. Conferma, quindi, in esplicita coerenza con Cass. 2 dicembre 2014 (ibid., 667), che ``non costituisce valido motivo di ricusazione del perito l'avere espresso pareri in altri procedimenti, o in sede scientifica e divulgativa, a meno che non emergano elementi concreti dai quali desumere un ragionevole dubbio circa la riconducibilità dell'opzione dell'ausiliario ad interessi precostituiti invece che al libero ed autonomo convincimento scientifico''. Conferma, altresì, ``la doverosità - a fini di tutela dell'apparenza obiettiva di imparzialità - di una verifica circa l'assenza di ruoli stabili svolti dai soggetti nominati periti in enti, associazioni, imprese, comitati che perseguano finalità al cui soddisfacimento risulti utile assumere una posizione scientifica piuttosto che un'altra''. Asserisce che ``tale ultima considerazione ricade nel caso in esame, sia pure sotto un diverso profilo, rappresentato dalla identificazione dell'interesse di cui all'art. 36, comma 1, lettera a, c.p.p.'', e che, ``in particolare, non può essere accolta - specie in rapporto alla posizione del perito - la lettura riduttiva del contenuto della disposizione, considerando come rilevante il solo interesse patrimonialmente apprezzabile (in tal senso, di recente, Sez. V, n. 6805 del 21 maggio 2015)''. Assume che ``la nozione postula, nella accezione risultante dalla elaborazione giurisprudenziale (in prevalenza maturata in tema di ricusazione del giudice), la riconduzione della situazione investigata ad un interesse `giuridicamente rilevante, tale da determinare in rapporto all'esito della controversia un vantaggio economico o morale', ferma restando la irrilevanza di un mero, presunto interesse di tipo `ideologico'``. Ne ricava che ``l'interesse morale - giuridicamente apprezzabile - prescinde dall'ipotesi dell'accrescimento patrimoniale (diretto o indiretto) e si pone in correlazione con la specifica vicenda oggetto del procedimento, da un lato, e le iniziative visibili e apprezzabili tenute, in precedenza, dal soggetto chiamato a svolgere la funzione di perito dall'altro, tale da consentire la formulazione, in chiave oggettiva, anche di un semplice `sospetto' di parzialità''. Sostiene che ``nel caso in esame detto interesse morale - sulla base delle allegazioni delle parti e dello stesso contenuto del provvedimento - va ritenuto, in concreto, sussistente'', in quanto ``il ruolo di componente del comitato scientifico di una onlus - nel caso in esame trattasi di Legambiente - non va ipotizzato in astratto ma va ricostruito sulla base dell'esame del relativo Statuto, presente in atti in quanto allegato alla costituzione di parte civile esibita dalla difesa''. Reputa rilevante ``l'articolo 27 che testualmente recita `Il comitato scientifico è organismo di consulenza e ricerca di Legambiente. Opera in completa autonomia mediante un apposito regolamento che ne definisce le modalità e i termini di funzionamento, ma in stretto contatto con l'Assemblea dei delegati. Ne fanno parte esperti particolarmente impegnati nei vari temi che costituiscono i campi di intervento di Legambiente''. Ritiene di cogliere ``in tale costruzione sintattica da un lato una riaffermazione di autonomia, dall'altro quella di un obiettivo legame operativo (in stretto contatto con l'Assemblea dei delegati)'', e ne trae, ``per logica comune, una condivisione di iniziative e uno scambio di informazioni costante tra il cultore dell'aspetto scientifico e l'organo che incarna la volontà degli associati, a fini di realizzazione (più che legittima) degli scopi statutari di tutela dell'ambiente''. Si preoccupa di tener ferma ``la condizione di buona fede degli esperti nominati (e non essendo in rilievo il valore della produzione scientifica dei medesimi)''. Ma subito aggiunge che ``ciò che rileva, al fine di rendere efficace la previsione di legge in punto di imparzialità `percepita' dal destinatario del giudizio, è l'analisi delle ricadute di tale rapporto nello specifico caso oggetto di trattazione''. Di qui l'opinione che ``l'avvenuta costituzione di parte civile dell'associazione Legambiente, in un processo che vede imputati i medesimi soggetti e che vede analizzate condotte del tutto similari a quelle contestate nel giudizio in corso, quanto a luogo, tempi e modalità, è fatto idoneo a realizzare il pregiudizio che l'art. 36 del codice di rito mira ad evitare'', e ciò, si badi, ``non perché dall'eventuale accoglimento della domanda - nel procedimento correlato - deriverebbe un vantaggio anche patrimoniale per la onlus, ma perché l'avvenuta costituzione di parte civile è `azione privata' con la quale il soggetto esponenziale afferma una volontà di punizione e dunque, sempre per logica deduttiva, un sottostante convincimento di colpevolezza dei soggetti tratti a giudizio''. E ancora, in linea con ``la ricostruzione del ruolo dei componenti tecnici del comitato scientifico della onlus che proprio in virtù della esperienza maturata sono chiamati a dare consigli all'Assemblea'', dichiara che ``non può negarsi l'esistenza di un percepibile `interesse morale' all'assenza di smentita rispetto alle ragioni complessive sostenute dalla onlus con l'atto di esercizio dell'azione civile, nel correlato procedimento, tale da pregiudicare l'apparenza obiettiva di imparzialità''. (Per un altro caso di ricusazione del perito v. Cass. 19 gennaio 2018, n. 2356).
Con questa sentenza, la Sez. IV affronta un problema sollevato nell'ambito di un procedimento penale avente per oggetto patologie asbesto-correlate insorte ai danni di due ex-dipendenti di uno stabilimento e della moglie di un altro. (Per un caso di ricusazione proposta da direttori e legali rappresentanti in tempi diversi di una società, imputati dei reati di omicidio colposo in pregiudizio di cinque lavoratori e di lesioni colpose gravissime in danno di quattro lavoratori nei confronti del GUP presso il Tribunale, e ciò per ``l'esternata preoccupazione che il predetto giudice nel decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio avanzata contro i medesimi imputati, fosse negativamente condizionato dall'avere in precedenza definito, con sentenza di condanna, altro procedimento penale a carico dei medesimi ricusanti, allora imputati di omicidio colposo in pregiudizio di altro lavoratore, avendo in quel procedimento esternato la convinzione che il mancato apprestamento di qualsiasi misura di prevenzione contro l'inalazione di fibre di amianto, presenti negli ambienti di lavoro, fosse imputabile a detti legali rappresentanti e che la loro condotta omissiva fosse collegata causalmente alla morte per mesotelioma pleurico del dipendente'' v. Cass. 6 aprile 2010, Chino e altri, in ISL, 2019, 6, 383. In quella occasione, nel rigettare il ricorso degli indagati, la Sez. IV Nel rigettare il ricorso proposto dagli imputati avverso il provvedimento di reiezione dell'istanza di ricusazione emesso dalla corte d'appello, la Sez. IV rilevò che ``la questione di fondo, sulla quale è basata la prospettazione dell'effetto pregiudicante che la precedente sentenza di condanna avrebbe sicuramente sull'esito del procedimento in corso di svolgimento davanti allo stesso decidente in funzione di giudice dell'udienza preliminare, è minata in radice dalla innegabile diversità dei fatti oggetto dei due procedimenti, perché essi, pur vedendo imputati le stesse persone, tuttavia, riguardano condotte diverse, eventi ontologicamente diversi e non omologhe sequenze causali tra condotta ed evento, da individuare caso per caso, in relazione alla specificità di ciascuno di essi''. Affermò il ``principio di diritto, secondo cui se l'evento-morte è diverso, in quanto riguarda vittime differenti, anche l'eventuale identità del materiale probatorio valutato e da valutare non è sufficiente ad integrare quella medesimezza ed identità del fatto che giustifica l'accoglimento di un'istanza di ricusazione ai sensi dell'art. 37 c.p.p., anche dopo la dichiarazione di parziale illegittimità, di cui alla sentenza della Corte Cost. n. 283 del 2000''. Precisò che, ``nella fattispecie, v'è di più, posto che, oltre alla diversità degli eventi-morte, gli è che le patologie indicate nel presente procedimento quali causa della morte dei cinque lavoratori non sono tutte sovrapponibili a quella che aveva cagionato, nel presunto procedimento pregiudicante, il decesso di un lavoratore, cioè il mesotelioma pleurico: tant'è vero che, nel caso di un lavoratore si ipotizza un carcinoma vescicale uroteliale; inoltre, diversa è la malattia professionale da cui è affetto altro lavoratore, consistente nella presenza di placche pleuriche bilaterali ialine, di natura non neoplastica''. Ne ricavò che ``l'esposizione alle microfibre di amianto non costituisce l'unico fattore di rischio che gli imputati avrebbero, secondo l'accusa, omesso di prevenire, posto che in imputazione si fa riferimento anche all'esposizione ad ammine aromatiche e ad idrocarburi policiclici aromatici''. Notò ancora che ``i soggetti passivi erano addetti a reparti diversi l'uno dall'altro, onde il grado di esposizione di ciascuno ai fattori di rischio era anche diverso: il che vale ad avere contezza della diversità anche della condotta attribuibile agli imputati, non potendosi prescindere dalla disanima, caso per caso, dei concreti provvedimenti che avrebbero dovuto adottarsi, per prevenire o contenere l'esposizione dei lavoratori ai fattori di rischio''). Nel caso affrontato dalla presente sentenza, gli indagati, che avevano ricoperto cariche di rilievo nello stabilimento, avevano avanzato istanza di ricusazione nei confronti di due componenti del collegio peritale nominato dal GIP del Tribunale di Crotone in sede d'incidente probatorio al fine di compiere accertamenti e svolgere valutazioni tecniche rilevanti allo scopo di consentire al giudice di determinarsi in ordine alla loro responsabilità. Ma il GIP aveva rigettato l'istanza. Nel ricorrere avverso l'ordinanza del GIP, gli indagati lamentano che ``il Giudice aveva travisato il senso della loro istanza, in quanto non avevano affatto inteso muovere il rimprovero di `un eccesso di perizia', quanto porre in luce che i due esperti nel passato, anche recente, sia svolgendo la funzione di periti del giudice, sia esprimendo la loro opinione su riviste specialistiche (sul punto venivano allegati al ricorso ampi stralci di relazioni ed articoli), i due professionisti avevano finito per manifestare un vero e proprio pregiudizio, negando financo dignità alle tesi avverse, in ordine al processo di cancerogenesi e di iniziazione del mesotelioma, correlato alla esposizione all'amianto'', e, ``in particolare, avevano affermato come unica conclusione plausibile con l'osservazione scientifica quella che considera la latenza, l'iniziazione e la malattia dose-correlate, svilendo a mere congetture asservite agli interessi degli imputati e delle imprese coinvolte in processi produttivi che prevedevano il contatto con le polveri d'amianto ogni diversa altra opinione''. Deducono che ``il GIP aveva fatto erronea applicazione dell'art. 36, comma 1, lettera c), c.p.p., il quale impone al giudice di astenersi dalla trattazione ove abbia manifestato il suo parere `sull'oggetto del procedimento fuori dall'esercizio delle funzioni giudiziarie''', e che ``l'ipotesi ha contenuto più ampio di quella delineata dall'art. 37, lettera b), stesso codice, la quale impone l'astensione ove il giudice, nell'esercizio delle funzioni e prima che sia pronunciata sentenza, abbia manifestato `indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell'imputazione'''. Sostengono che ``solo in questo secondo caso l'oggetto che la legge si preoccupa da lasciare libero da preconcetti è circoscritto all'imputazione, mentre nel primo si estende fino a ricomprendere tout court il procedimento'', e che ``nel primo caso risulta pregiudizievole la manifestazione anche di un mero parere, mentre nel secondo è ostativa l'esternazione di un vero e proprio convincimento, cioè di una opinione approfonditamente vagliata sulla base dei `fatti oggetto dell'imputazione'''. Soggiungono che ``le reiterate e radicali esternazioni dei due periti, pregiudizialmente ostili alla tesi favorevole alla linea difensiva degli imputati, manifestavano `il pregiudizio di fondo, inteso come assenza di neutralità ed imparzialità' che giustificava la di loro ricusazione''. Altra doglianza degli indagati è che ``errando il Giudice del merito aveva affermato che il diritto di difesa risultava comunque essere assicurato dalla possibilità di nominare consulenti di parte, il cui sapere avrebbe trovato ingresso processuale attraverso le regole del contraddittorio'': ``una tale impostazione formalistica non poteva essere condivisa in quanto l'istituto della ricusazione era teso a garantire in senso pieno e sostanziale il diritto di difesa attribuendo il potere di ricusare il giudice e, di conseguenza, i periti, ove questi non appaia veramente terzo ed imparziale, richiamando le pronunce emesse in materia dalla Corte Costituzionale (n. 155 del 1996), dalla Cassazione a Sez. Un. (n. 13626 del 2011) e siccome previsto dalla CEDU all'art. 6, comma 1''. La Sez. IV non condivide alcuna delle argomentazioni esposte dagli indagati. È costretta, anzitutto, a ricordare che, in forza dell'art. 36, comma 1, lettera c), il giudice ha l'obbligo di astenersi, e, quindi, può essere dalle parti ricusato se ciò non faccia (art. 37, comma 1, lettera a), `se ha dato consigli o manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento fuori dall'esercizio delle funzioni giudiziarie'''. Ne desume che ``con il sostantivo procedimento la legge abbia inteso perimetrare un'area maggiore rispetto a quella definita dalla fattispecie di cui alla lettera b) di cui al comma 1 dell'art. 37, c.p.p., la quale risulta circoscritta ai `fatti oggetto dell'imputazione''', e che ``resta investita dal divieto qualsivoglia esternazione sul procedimento nel suo complesso e, in particolare, sulla composizione del collegio o in tema di sospensione dei termini di custodia cautelare e quant'altro possa turbare il regolare svolgimento del processo stesso''. Del pari, considera ``certo che con il termine parere si sia inteso includere anche la manifestazione di pensiero non approfonditamente meditata, superficialmente motivata ed occasionalmente rilasciata, salvo a risolversi in espressioni generiche e non attinenti al caso specifico, pronunziate nell'àmbito di conversazioni su temi generalisti o riguardanti orientamenti dottrinari o giurisprudenziali'', e che, ``per contro, il `convincimento' richiesto dall'art. 37, comma 1, lettera b), c.p.p. ha un significato più ristretto, implicante un'analisi ed una riflessione, rispetto al `parere' di cui agli artt. 36, comma 1, lettera c), e 37, comma 1, lettera a), c.p.p., che indica un'opinione non preceduta necessariamente da un ragionamento fondato sulla conoscenza dei fatti o degli atti processuali''. Insegna che ``l'Ordinamento, nell'ipotesi di cui all'art. 37, comma 1, lettera b), assegna alle parti lo strumento della ricusazione ove il giudice, procedendo nell'esercizio delle sue funzioni e decidendo, quindi, questioni rilevanti, senza che ancora, tuttavia, la legge gli abbia attribuito il compito di risolvere definitivamente il processo, anticipi `indebitamente', cioè prima che ne abbia il potere, `il proprio convincimento', cioè la sua opinione compiutamente formatasi sui dati rilevanti di causa, `sui fatti oggetto dell'imputazione', cioè sulle circostanze rilevanti per esprimere il conclusivo giudizio sulla penale responsabilità dell'imputato in ordine alla specifica accusa che a costui viene mossa'', e che, ``per contro nella fattispecie che qui rileva (quella descritta dall'art. 36, comma 1, lettera c), assume sintomatico significato incrinante l'immagine di imparzialità e terzietà del giudice la circostanza che costui si sia intruso o abbia manifestato pareri (nel significato che si è chiarito) `sull'oggetto del procedimento fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie''', sicché ``viene colpito dal sospetto l'opinamento, non generico, concernente un procedimento, espresso al di fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie'' e ``in definitiva suscita allarme l'evenienza che il giudice, al di fuori della sede che gli è propria, si sia interessato gratuitamente, esternando il suo pensiero, di vicende giudiziarie non attribuite alla sua cognizione''. Proprio a quest'ultimo riguardo, la Sez. IV afferma che ``il ricorso non coglie nel segno'', in quanto ``addebita ai due periti di aver espresso le loro marcate opinioni non `sull'oggetto del [presente] procedimento', ma sull'oggetto di altri procedimenti, i quali ponevano al giudice la risoluzione di questioni che si assumono assimilabili''. Spiega che, ``se, per un verso, lo scandaglio della causalità della colpa avuto riguardo alle patologie dipendenti dall'assorbimento delle polveri di amianto trova rilevante contributo negli studi di settore, ed anzi, nel miglior sapere scientifico, reso fruibile dal giudice attraverso l'apporto dei periti, è, del pari, indubitabile che `l'oggetto del procedimento' è circoscritto dall'imputazione elevata nei confronti di determinati imputati, con la conseguenza che l'esperienza peritale sperimentata in altro processo, perciò stesso, non equivale ad affermare che la stessa sia maturala `sull'oggetto del procedimento' in ordine al quale si assume l'effetto pregiudizievole''. In secondo luogo, osserva che ``il parere pregiudicante deve apparire inopinato, espresso al di fuori della sede propria e certamente tale non è quella giudiziaria: ``siccome il giudice non può essere ricusato perché in altri procedimenti ha manifestato, soddisfacendo l'obbligo motivazionale, la propria opinione a riguardo di questioni, anche fortemente controverse, concernenti l'imputazione e l'applicazione di norme processuali, per le medesime ragioni non può essere ricusato il perito del giudice, che doverosamente esprimendo la propria opinione nelle sedi proprie processuali, abbia apportato al giudice un sapere apprezzato dissonante rispetto all'interesse di altre parti in gioco in altro procedimento''. Inoltre, chiarisce che ``la pretesa di assoluta `verginità' in capo al perito, per un verso, si mostra irragionevole e contraddittoria, in quanto al perito, esattamente al contrario, si chiede una piena conoscenza della materia e delle questioni che il giudice gli sottopone e, per altro verso, contrasta con i principi informatori dell'Ordinamento in materia di libertà di espressione e formazione del pensiero scientifico (artt. 21 e 33 Cost.)'': ``contribuire al dibattito scientifico nelle sedi proprie della formazione e divulgazione, partecipando a convegni, illustrando relazioni, tenendo lezioni in sede accademica o altrove, redigendo monografie e articoli, affrontando specifiche tematiche controverse o, comunque, meritevoli di approfondimento e scandaglio (come per il caso dello sviluppo delle patologie asbesto-dipendenti) non può giammai integrare quell'intrusione pregiudizievole `sull'oggetto del procedimento' che la legge indica a sospetto''. Rileva che ``sarà compito e dovere del giudice aver cura di verificare, attingendo alle emergenze processuali e al dibattito processuale, che include la voce non secondaria dei consulenti di parte, che i pareri e le opzioni valutative dei consulenti, piuttosto che esprimere isolate e non condivise posizioni, si trovino allineate con la miglior scienza e conoscenza condivisa del momento''. Sottolinea, infine, che, ``ma non è questo il caso, giustificata ragione di sospetto può insorgere laddove resti dimostrato che il perito sia legato ad una opzione piuttosto che ad un'altra sulla base di scelte che potrebbero non essere dipendenti dal libero ed autonomo convincimento scientifico, come quando costui abbia assunto ruolo significativamente stabile all'interno o su incarico di enti, associazioni, imprese, comitati che perseguano finalità al cui soddisfacimento risulti utile assumere una posizione scientifica piuttosto che un'altra''.
L'imputato propone istanza di ricusazione del perito nominato dal tribunale nel procedimento penale instaurato nei suoi confronti concernente lesioni colpose derivanti dall'esposizione dei lavoratori al rischio dell'amianto ``e ciò per una serie di ragioni, riconducibili all'impegno speso dal predetto contro i rischi connessi all'amianto nel luogo di lavoro, sia come consulente di parte civile in analoghi processi che nell'ambito dell'attività scientifica svolta e di quella compiuta con la collaborazione di sindacati e associazioni''. Il Got presso il tribunale di Reggio Emilia dichiara inammissibile l'istanza di ricusazione e la manifesta infondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale in relazione all'art. 36, lettera h), c.p.p. La Sez. IV osserva: ``Questa Corte, con costante e condivisibile indirizzo, ha affermato che la declaratoria d'inammissibilità della istanza di ricusazione può essere dichiarata mediante procedura camerale `de plano', senza che sia richiesta l'instaurazione del procedimento di cui all'art. 127 c.p.p., previsto, invece, per il caso in cui debba rigettarsi la richiesta di ricusazione nel merito, precisando, inoltre, che in tema di ricusazione, qualora il giudice di merito abbia ritenuto la manifesta infondatezza della relativa dichiarazione e ne abbia, di conseguenza, dichiarato l'inammissibilità con provvedimento adottato `de plano', non sussiste, in capo all'istante, interesse a proporre ricorso per cassazione per inosservanza dell'art. 127 c.p.p., previsto per il caso in cui debba rigettarsi la richiesta di ricusazione nel merito, non potendo egli conseguire alcun vantaggio da una decisione di rigetto in luogo di quella di inammissibilità''. Peraltro, annulla con rinvio il provvedimento del Got, per mancata o generica motivazione in ordine ad alcuni dei motivi di ricusazione addotti.
(Per l'inammissibilità di un'istanza di ricusazione nei confronti del presidente e del giudice a latere della corte d'assise in procedimento attinente a ``disastro innominato'', Cass. 8 novembre 2018, n. 50848 e Cass. 8 novembre 2018, n. 50847).
``Il giudice di appello ha evidenziato innanzitutto l'indebito utilizzo da parte del giudice di primo grado delle dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni dalla lavoratrice infortunata, parzialmente modificate dalla donna, durante una drammatica testimonianza in dibattimento. Ciò premesso, il giudicante ha, comunque, ritenuto che il nucleo delle dichiarazioni originarie, riguardante le questioni più importanti, era stato confermato dalla lavoratrice, la quale ha ammesso di avere eliminato la protezione, precisando di avere chiesto l'autorizzazione al datore di lavoro imputato. Il sistema previsto dagli artt. 500 e 501 c.p.p. non sarebbe di alcuna utilità, e darebbe anzi luogo a un vano dispendio di attività processuale, se le citate disposizioni dovessero essere intese nel senso che, una volta stabilita nei modi ivi indicati l'inattendibilità della deposizione testimoniale resa in dibattimento a ritrattazione delle precedenti dichiarazioni, di queste non potesse ugualmente tenersi conto ai fini probatori. Ne consegue che in materia di valutazione della prova testimoniale, deve tenersi conto delle dichiarazioni rese dal testimone durante le indagini preliminari legittimamente utilizzate per le contestazioni, laddove le stesse permettano di accertare l'inattendibilità della ritrattazione effettuata dal medesimo testimone in dibattimento. Il riferimento all'asserita inosservanza da parte del primo giudice al disposto dell'art. 500, comma 2, c.p.p. non altera, comunque, la tenuta della motivazione della sentenza impugnata, laddove il giudice di secondo grado sottolinea che il nucleo delle dichiarazioni originarie, riguardante le questioni più importanti, era stato confermato dalla lavoratrice, la quale ha ammesso di avere eliminato la protezione, precisando di avere chiesto l'autorizzazione all'imputato''.
``Sequestro probatorio di un mezzo composto da motrice e annesso rimorchio di proprietà di una s.r.l., in quanto ritenuto causa dell'evento mortale occorso a un dipendente, avvenuto all'interno di un autolavaggio, situato nella cittadina tedesca di Freiberg''. La Sez. IV annulla con rinvio: ``Il tribunale ha ritenuto corretta l'affermazione della giurisdizione italiana e l'individuazione del giudice competente per territorio, trattandosi di delitto comune (infortunio sul lavoro) astrattamente ascrivibile a un cittadino italiano, ossia al datore di lavoro, commesso all'estero e come tale punibile, ai sensi dell'art. 9, comma 2, c.p., su istanza della persona offesa, nella specie sussistente essendo stata avanzata querela - denuncia dal prossimo congiunto della vittima. Pur essendo condivisibile quanto asserito nel ricorso, ossia che l'istanza della persona offesa fosse comunque necessaria anche per consentire la procedibilità in Italia in ordine al reato di cui si tratta, in quanto commesso all'estero, si tratta di argomentazione inidonea ad evidenziare vizi del provvedimento da sottoporre al sindacato di legittimità. È, in proposito, ricorrente nella giurisprudenza di legittimità la massima per cui la questione dell'improcedibilità per difetto di querela del reato ipotizzato esula dall'ambito del giudizio di legittimità sulla decisione di riesame del provvedimento applicativo di una misura cautelare reale, perché attiene al merito In altre parole, la mancanza di una condizione di procedibilità può considerarsi elemento ostativo all'esercizio dell'azione penale ma è inidonea ad inficiare la legittimità del sequestro probatorio, in quanto atto d'indagine diretto ad assicurare le fonti di prova. Non ignora il Collegio che, in taluni casi, la mancanza di una condizione di procedibilità possa configurarsi come situazione ostativa al compimento di singoli atti del procedimento anche nella fase delle indagini preliminari, come avviene nel caso di assenza dell'indagato dal territorio dello Stato ai fini dell'esecuzione di una misura cautelare personale. Si tratta, tuttavia, di ipotesi diversa dal caso che qui occupa, in cui trova applicazione il diverso principio per cui la mancanza di una condizione di procedibilità può essere dichiarata solo nella fase processuale, come si evince dal contesto degli artt. 343 e 344 c.p.p., e soprattutto dal combinato disposto dagli artt. 50 e 129 stesso codice''. ``Ai fini della legittimità del provvedimento di sequestro probatorio non è necessaria la prova del carattere di pertinenza o di corpo di reato delle cose oggetto del vincolo, essendo sufficiente la semplice possibilità del rapporto di queste con il reato. Come più volte affermato nella giurisprudenza della Corte di legittimità, il sequestro probatorio è una misura di ricerca della prova; ai fini della legittimità del decreto di perquisizione e del conseguente sequestro, il fumus necessario per la ricerca della prova è, dunque, quello inerente all'avvenuta commissione dei reati, nella loro materiale accezione, e non già alla colpevolezza del singolo, sicché il mezzo è ritualmente disposto anche qualora il fatto non sia materialmente accertato, ma ne sia ragionevolmente presumibile o probabile la commissione, desumibile anche da elementi logici). Il sequestro probatorio, proprio perché mezzo di ricerca della prova dei fatti costituenti reato, non può per ciò stesso essere fondato sulla prova del carattere di pertinenza ovvero di corpo di reato delle cose oggetto del vincolo, ma sul fumus di esso, cioè sulla mera possibilità del rapporto di esse con il reato. Qualora, quindi, dal complesso delle prime indagini tale fumus emerga, il sequestro si appalesa non solo legittimo ma opportuno, in quanto volto a stabilire, di per sé o attraverso le successive indagini che da esso scaturiscono, se esista il collegamento pertinenziale tra res e illecito. Una motivazione che non sia meramente apparente deve, tuttavia, svolgere argomentazioni in merito al fumus di cui si è detto che siano ancorate alle peculiarità del caso concreto, qui caratterizzato dalla pendenza di un procedimento contro ignoti relativo a fatti verificatisi nell'anno 2011 in Germania, dove le indagini si sono rivolte verso soggetti che non hanno alcun legame con il mezzo sequestrato. Apodittica e fittizia è, in particolare, l'affermazione per cui il provvedimento di sequestro, disposto a notevole distanza di tempo dai fatti, indicherebbe il fumus del nesso di pertinenzialità degli automezzi con il reato in quanto gli stessi sarebbero «ritenuti possibile causa dell'evento mortale occorso, dovendosi pertanto considerare indispensabile procedere ad accertamenti tecnici volti a verificarne la funzionalità, nonché la presenza di eventuali difetti di costruzione e/o manutenzione che possano avere determinato l'evento mortale, senza alcun riferimento alle acquisizioni d'indagine denotanti le ragioni di tale affermazione''.
``Accertata la regolarità della revoca della costituzione di parte civile, va esaminato quali ne siano le conseguenze in ordine al procedimento penale, limitatamente alle statuizioni civili e, in particolare, alla provvisionale liquidata. La prima conseguenza di tale revoca è che il rapporto instaurato nel procedimento penale è ormai estinto. La seconda conseguenza è che la revoca della costituzione di parte civile, determinando l'estinzione del rapporto processuale civile inserito nel processo penale, impedisce al giudice penale di mantenere ferme le statuizioni civili relative ad un rapporto processuale ormai estinto. E ciò deve avvenire anche di ufficio''.
``Deve escludersi che il danneggiato dal reato che abbia esercitato l'azione risarcitoria nel processo civile sia legittimato a costituirsi parte civile nel processo penale per far valere ulteriori profili di danno derivanti dalla stessa causa, qualora sia intervenuta la pronuncia di una sentenza di merito, anche non passata in giudicato, nella sede civile. L'effetto preclusivo sancito dall'art. 75, comma 1, c.p.p., cioè, in base al quale il trasferimento dell'azione civile nel processo penale comporta l'automatica rinuncia agli atti del giudizio civile che, di conseguenza, deve essere dichiarato estinto, opera nel caso in cui sia stata pronunciata sentenza di merito, anche non definitiva, nel giudizio civile; e allorché tra l'azione promossa in sede civile e quella esercitata con la costituzione di parte civile nel processo penale sussista identità di soggetti e di causa petendi. La specifica ipotesi della revoca tacita della costituzione di parte civile di cui all'art. 82, comma 2, c.p.p. opera nel caso in cui l'azione risarcitoria venga promossa `anche' davanti al giudice civile, da parte del soggetto danneggiato, già costituito parte civile; e detto meccanismo trova applicazione solo quando sussiste una compiuta coincidenza fra le due domande, trattandosi di disposizione finalizzata ad escludere la duplicazione dei giudizi. Devono ritenersi sussistenti i presupposti della revoca tacita della costituzione di parte civile, qualora nell'azione civile successivamente proposta davanti al giudice civile, non siano determinati gli elementi di autonomia che contraddistinguono la diversità della nuova domanda risarcitoria o restitutoria rispetto all'atto di costituzione di parte civile, così da realizzare un'inequivoca coincidenza fra le due domande civili e, quindi, un duplice esercizio della medesima azione che integra l'ipotesi della revoca di cui all'art. 82, comma 2, c.p.p. Nel caso di specie, l'azione risarcitoria non costituiva duplicazione di quella proposta in sede civile. Ciò in quanto il giudizio civile successivamente promosso dall'infortunato concerneva il danno biologico differenziale, al netto di quanto corrisposto dall'INAIL, laddove l'azione esercitata in sede penale riguardava i danni morali, derivanti dal medesimo fatto generatore. A diverse conclusioni non conduce l'arresto delle Sezioni Unite civili n. 7305 del 22 marzo 2017, che riguarda il diverso caso in cui il possibile frazionamento della tutela giurisdizionale riguardava il reparto di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo, rispetto alle controversie di lavoro riguardanti il pubblico impiego contrattualizzato''.
``In ragione del principio di immanenza della costituzione di parte civile., normativamente previsto dall'art. 76, comma 2, c.p.p., secondo il quale `la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo', la parte civile, una volta costituita, deve ritenersi presente nel processo anche se non compaia, debba essere citata anche nei successivi gradi di giudizio anche se non impugnante e senza che sia necessario per ogni grado di giudizio un nuovo atto di costituzione. Corollario di questo principio generale è che l'immanenza viene meno soltanto nel caso di revoca espressa e che i casi di revoca implicita - previsti dall'art. 82, comma 2, c.p.p, nel caso di mancata presentazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado o di promozione dell'azione davanti al giudice civile - non possono essere estesi al di fuori delle ipotesi espressamente contemplate dalla norma indicata''.
``La sopravvenuta proposizione, da parte degli eredi del lavoratore deceduto, della domanda di risarcimento dei danni dinanzi al tribunale civile vale a integrare un atto di revoca tacita della costituzione di parte civile ex art. 82 c.p.p. (ai sensi del quale la costituzione s'intende revocata se la parte civile promuove l'azione davanti al giudice civile). Devono ritenersi sussistenti i presupposti della revoca tacita della costituzione di parte civile, qualora nell'atto di citazione, successivamente proposto davanti al giudice civile, non siano determinati gli elementi di autonomia che contraddistinguono la diversità della nuova domanda risarcitoria o restitutoria rispetto all'atto di costituzione di parte civile, in guisa da realizzare un'inequivoca coincidenza fra le due domande civili e, quindi, un duplice esercizio della medesima azione che integra l'ipotesi della revoca di cui all'art. 82, comma 2, c.p.p. Nel caso di specie, con la domanda da ultimo avanzata dinanzi al giudice civile, le odierne parti civili - lungi dal limitarsi alla rivendicazione della sola liquidazione dei danni a seguito dell'intervenuta condanna in sede penale - hanno espressamente invocato l'accertamento (recte, un nuovo accertamento) della responsabilità dei convenuti per i medesimi fatti già oggetto del presente procedimento penale. Tale azione, per i caratteri costitutivi che la individuano negli elementi essenziali della causa petendi e del petitum, valgono a integrare il ricorso della medesima domanda civile già proposta in sede di costituzione di parte civile nel processo penale, non avendo gli attori evidenziato alcun elemento di autonomia idoneo a contraddistinguere la diversità della nuova domanda risarcitoria rispetto a quella proposto attraverso l'originario atto di costituzione di parte civile. Sulla base di tali premesse, preso atto dell'intervenuta revoca della costituzione di parte civile, dev'essere disposto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata. La revoca della costituzione di parte civile, determinando l'estinzione del rapporto processuale civile inserito nel processo penale, impedisce al giudice penale di mantenere ferme le statuizioni civili relative a un rapporto processuale ormai estinto. Di conseguenza il giudice di legittimità, investito di un ricorso proposto dall'imputato e relativo alla responsabilità penale, preso atto della revoca, deve annullare senza rinvio la sentenza in ordine alle statuizioni civili in essa contenute, senza adozione di alcun provvedimento in ordine alla liquidazione delle spese del giudizio in favore delle parti civili''.
``La graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale assolve al relativo obbligo di motivazione se dà conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 c.p., essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale. La pena media edittale non deve essere calcolata dimezzando il massimo edittale previsto per il reato, ma dividendo per due il numero di mesi o anni che separano il minimo dal massimo edittale ed aggiungendo il risultato così ottenuto al minimo. Nel caso in esame la pena è stata determinata in misura inferiore alla media edittale. La Corte d'Appello, peraltro, ha motivato congruamente la scelta di confermare la pena irrogata, pari ad anni 1 di reclusione, spiegando che detta pena era in linea con i canoni di cui all'art. 133 c.p. e si giustificava in ragione del grado elevato della colpa, consistita in plurimi profili di rimproverabilità''. Quanto alle circostanze attenuanti generiche, ``nel motivarne il diniego'', non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione. Peraltro, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo. La Corte di Appello ha fatto buon governo di tali principi. I giudici hanno ritenuto che gli elementi evidenziati nel ricorso (ovvero la richiesta da parte dell'imputato di procedere ad incidente probatorio e di essere sottoposto ad interrogatorio) erano già stati tenuti in conto nella commisurazione della pena; che, al di là della mera incensuratezza, non erano stati allegati motivi per una ulteriore mitigazione del trattamento sanzionatorio e che non poteva essere valorizzato a tal fine il legame di amicizia fra l'imputato e la vittima, in quanto tale legame aveva semmai agevolato il conferimento, in maniera sconsiderata, dell'incarico di effettuare lavori e perciò valeva ad accentuare la gravità del reato posto in essere''.
``Le circostanze attenuanti generiche costituiscono uno strumento avente la funzione di mitigare la rigidità dell'originario sistema di calcolo della pena nell'ipotesi di concorso di circostanze di specie diversa e tale funzione, ridotta a seguito della modifica del giudizio di comparazione delle circostanze concorrenti, ha modo di esplicarsi efficacemente solo per rimuovere il limite posto al giudice con la fissazione del minimo edittale, allorché questi intenda determinare la pena al di sotto di tale limite, con la conseguenza che, ove questa situazione non ricorra, perché il giudice valuta la pena da applicare al di sopra del limite, il diniego della prevalenza delle generiche diviene solo elemento di calcolo e non costituisce mezzo di determinazione della sanzione e non può, quindi, dar luogo né a violazione di legge, né al corrispondente difetto di motivazione''.
``La concessione o meno delle circostanze attenuanti generiche risponde ad una facoltà discrezionale del giudice, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del decidente circa l'adeguamento della pena in concreto inflitta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. Tali attenuanti non vanno intese, comunque, come oggetto di una `benevola concessione' da parte del giudice, né l'applicazione di esse costituisce un diritto in assenza di elementi negativi, ma la loro concessione deve avvenire come riconoscimento dell'esistenza di elementi di segno positivo, suscettibili di positivo apprezzamento. Da queste premesse, pur dovendosi apprezzare la sinteticità del diniego, vi è da rilevare che non risultano spiegati e dimostrati specifici elementi, riconducibili ai parametri di cui all'articolo 133 c.p., che avrebbero dovuto essere positivamente considerati dalla Corte territoriale, In proposito, l'unico elemento in proposito prospettato è lo stato di incensuratezza dell'imputato che, dopo la modifica dell'art. 62 bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, non è più bastevole, da solo, ai fini della concessione della diminuente. Pienamente congrua e corretta risulta dunque la motivazione offerta dalla sentenza impugnata, secondo cui, in ragione della gravità dei fatti ascritti all'imputato [infortunio mortale], le attenuanti generiche non potevano concedersi''.
``L'art. 187, comma 2, c.p., quando dispone che `i condannati per uno stesso reato sono obbligati in solido al risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale', stabilisce che le obbligazioni ex delicto siano indivisibili e solidali. Secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, il presupposto unificante della responsabilità solidale civile deve essere colto nell'unicità dell'evento dannoso e non nell'unicità del fatto produttivo del pregiudizio. Per queste ragioni si è ritenuto che la responsabilità solidale sussista anche quando più condotte, sia pure a titolo diverso, abbiano concorso a cagionare un unico evento dannoso. È coerente con questi principi l'affermazione secondo la quale dal principio di solidarietà discende che il problema della determinazione delle colpe si porrà solo allorché nei rapporti interni tra i vari responsabili dell'illecito, si dovrà ripartire il danno. Il danneggiato da un fatto illecito imputabile a più persone, infatti, proprio in forza del principio di solidarietà, può pretendere l'intero risarcimento anche da una sola delle persone obbligate, mentre la diversa gravità delle rispettive colpe e l'eventuale diseguale efficienza causale può avere rilevanze solo ai fini della ripartizione intera dell'obbligazione passiva di risarcimento tra i vari responsabili del concorso. La sentenza della Sez. IV, 5 ottobre 2017 n. 45797, non rileva in senso contrario perché si riferisce al caso (ben diverso) della quantificazione delle percentuali di concorso delle colpe del reo e della vittima nella determinazione causale dell'evento. Il vicolo della solidarietà tra più obbligati ritenuti responsabili del medesimo reato è dunque imposto dalla legge e non v'è ragione di ritenere che debba venire meno quando il giudice penale provvede alla liquidazione del danno''.
Di notte, un lavoratore invalido al 70%, ``mentre si trovava a piedi in autostrada, impegnato a segnalare ai veicoli in transito il restringimento della carreggiata interessata dai lavori eseguiti dalla ditta di cui era dipendente, veniva investito da un'autovettura, a sua volta tamponata violentemente da un furgone, e a seguito dell'urto decedeva. Più in particolare, il furgone, per la velocità eccessiva, 112-120 km/h a fronte del limite di 80 e del segnale di restringimento della carreggiata per lavori in corso, tamponava violentemente l'auto che lo precedeva che ruotava verso destra, travolgendo la vittima mentre era intento ad effettuare la segnalazione del cantiere''. Furono condannati per omicidio colposo ad un anno di reclusione ciascuno ed al risarcimento del danno in favore delle parti civili sia il conducente del furgone, sia il presidente del consiglio di amministrazione e il consigliere del consiglio di amministrazione responsabile tecnico nonché responsabile della gestione dei rapporti con gli enti autostradali, della direzione tecnica ed ambientale, ritenuto il concorso di colpa nella misura del 50% tra il conducente e gli altri due imputati. Nel confermare la condanna, la Sez. IV osserva: ``I responsabili della ditta censurano le statuizioni civili sostenendo in sostanza che il contributo causale e l'imprudenza del conducente è maggiore e pertanto doveva comportare una maggiore percentuale del suo obbligo risarcitorio. Una tale censura, al pari di quella attinente alla ripartizione dell'obbligazione risarcitoria tra gli attuali imputati, non tiene conto che a norma dell'art. 2055 c.c., in caso di danno imputabile a più persone, l'obbligazione risarcitoria è solidale, salvo eventuale diversa quantificazione da parte del giudice in sede di azione di regresso. La questione non può essere introdotta nel giudizio penale, dove vale il principio secondo cui, atteso che nel processo penale l'unico rapporto civilistico che viene in considerazione è quello tra la parte civile e l'imputato e l'eventuale responsabile civile, è preclusa al giudice la valutazione quantificatoria delle colpe concorrenti degli imputati, ciascuno dei quali, ai sensi dell'art. 2055 c.c., risponde per l'intero verso il danneggiato. Questa, al più, può essere compiuta al fine di graduare la responsabilità penale dei prevenuti, senza alcuna efficacia vincolante nell'eventuale giudizio civile di regresso. Sarà dunque il giudice civile che potrà eventualmente prendere in considerazione la questione di che trattasi''.
``Per potersi dire integrata la circostanza aggravante del `fatto commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro', è necessario che venga violata una regola cautelare volta a eliminare o ridurre lo specifico rischio - derivante dallo svolgimento di attività lavorativa - di morte o lesioni in danno dei lavoratori o di terzi esposti alla medesima situazione di rischio e pertanto assimilabili ai lavoratori, e che l'evento sia concretizzazione di tale rischio `lavorativo', non essendo sufficiente che lo stesso si verifichi in occasione dello svolgimento di un'attività lavorativa''. (Nella fattispecie, si è esclusa l'aggravante in un caso in cui il rappresentante legale di uno stabilimento balneare e il rappresentante legale della ditta incaricata di certificare la conformità dell'impianto elettrico dello stabilimento furono condannati dal giudice di pace per lesione personale colposa subita da un minore intento ad utilizzare in cabina un asciugacapelli e folgorato da una scarica elettrica).
La Sez. IV ritiene manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 589, comma 2, c.p. ``per non essere stata prevista per tale reato un'ipotesi di responsabilità attenuata in caso di concorrente colpa della persona offesa, come avvenuto a seguito dell'introduzione dell'art. 589-bis, comma 7, c.p. in relazione all'analoga figura di reato colposo riscontrabile nell'ambito della circolazione stradale: ``La Corte costituzionale, di recente, ha dichiarato inammissibile la medesima questione, sollevata in riferimento all'art. 3 della Costituzione (Corte Cost., 27-31 maggio 2021 n. 114). La questione proposta si palesa manifestamente infondata in quanto, con le modifiche apportate dalla Legge n. 41/2016, al reato di cui all'art. 589 c.p., il legislatore, nell'esercizio della sua ampia discrezionalità, ha inteso assicurare le esigenze di maggior protezione, come quelle connesse alle frequenti violazioni del codice della strada, foriere di eventi lesivi o mortali, e, quindi, all'allarme sociale suscitato dal fenomeno ricorrente delle `vittime della strada'. E per farlo, da un lato, ha inserito una norma quale l'art. 590-quater c.p., secondo cui ``quando ricorrono le circostanze aggravanti di cui agli articoli 589-bis, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, 589-ter, 590-bis, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, e 590-ter, le concorrenti circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni si operano sulla quantità di pena determinata ai sensi delle predette circostanze aggravanti'. Dall'altro, con un'evidente funzione di equilibrio sanzionatorio, ha introdotto il comma 7 dell'art. 589-bis e dell'art. 590-bis c.p. secondo cui `qualora l'evento non sia esclusiva conseguenza dell'azione o dell'omissione del colpevole, la pena è diminuita fino alla metà'. È stata la stessa la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 88 del 2019, a chiarire che il legislatore, nel rendere autonoma la fattispecie dell'omicidio stradale, ha operato un tipico esercizio di discrezionalità legislativa. E nell'ambito di questa è corretto stabilire un diverso regime sanzionatorio in ambiti tanto diversi. Tra l'altro, se è vero che, rispetto a quanto accade per la circolazione stradale, manca un'analoga figura di reato attenuato in caso di comportamento colposo del lavoratore (il che appare del tutto ragionevole laddove l'intera normativa in materia e sicurezza del lavoro è incentrata sulla tutela del lavoratore e quindi vuole che siano predisposte le necessarie tutele anche nel caso di comportamenti imprudenti del lavoratore stesso), è altrettanto vero che manca una norma che preveda un divieto di bilanciamento delle circostanze attenuanti generiche analogo all'art. 590-quater c.p. Pertanto - e ciò rende del tutto ragionevole la diversità di disciplina con quelli derivanti da circolazione stradale - per omicidi e lesioni colpose derivanti da violazioni della normativa in materia di sicurezza del lavoro, il comportamento colposo della persona offesa può essere valutato ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche, bilanciabili con le circostanze aggravanti, il che porta, qualora si propenda per un giudizio di prevalenza, ad una concreta riduzione del trattamento sanzionatorio''. (Analogamente Cass. 26 settembre 2022 n. 36040).
``In materia di reati colposi derivanti da infortunio sul lavoro, per la configurabilità dell'aggravante speciale della violazione delle norme antinfortunistiche (rilevante per la procedibilità di ufficio in caso di lesioni gravi e gravissime e per il raddoppio della prescrizione ai sensi dell'art. 157 c.p.), non occorre che sia integrata la violazione di norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, giacché per l'addebito di colpa specifica, è sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa della violazione dell'art. 2087 c.c., che fa carico all'imprenditore di adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori. Infatti, il datore di lavoro e gli altri soggetti investiti della posizione di garanzia devono in proposito ispirare la loro condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza, per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza''.
``La terminologia adoperata negli artt. 589 e 590 c.p. `norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro' è riferibile non solo alle norme inserite nelle leggi specificamente antinfortunistiche, ma anche a tutte quelle che, direttamente o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali e che, in genere, tendono a garantire la sicurezza del lavoro in relazione all'ambiente in cui esso deve svolgersi. Ne consegue che anche la violazione di una norma del codice della strada, come quella che riguarda anche l'obbligo della distanza di sicurezza tra i veicoli può dare luogo ad una trasgressione di un precetto antinfortunistico se questa, verificandosi in ambiente o in occasione di lavoro, integra la violazione di una misura di sicurezza atta ad evitare pregiudizi per i lavoratori e per gli altri. Il dato di rilievo è quindi la proiezione finalistica della norma - che positivizza una regola cautelare - verso un rischio connesso all'attività lavorativa. Ben si comprende, quindi, come sia possibile che anche norme raccolte in testi esplicitamente destinati a disciplinare ambiti diversi dalle attività lavorative possano venire in considerazione come norme prevenzionistiche. Il d.m. 22.1.2008 n. 37 reca prescrizioni che intendono garantire la sicurezza dei lavori attinenti agli impianti da esso menzionati [`impianti posti al servizio degli edifici, indipendentemente dalla destinazione d'uso, collocati all'interno degli stessi o delle relative pertinenze'], sia per chi attende ad essi - e quindi i lavoratori impegnati nelle attività sugli impianti - che per gli utilizzatori''.
``Non è possibile distinguere tra le norme poste a tutela del lavoro quelle di prevenzione degli infortuni e quelle che tutelano la salute, avendo molte disposizioni il duplice scopo di salvaguardare i lavoratori sia dal rischio di infortuni sia da malattie professionali. Del resto, le leggi più recenti in materia non distinguono, già nel titolo, tra la tutela dagli infortuni e la salute, in tal modo riconducendole al concetto unitario di normativa a tutela dei lavoratori. Inoltre, se l'evento morte è previsto dall'aggravante di cui all'art. 589, comma 2, c.p., non può ritenersi ragionevole non equiparare gli infortuni sul lavoro, della più disparata eziologia, idonei a cagionare il decesso del lavoratore, alla malattia professionale che, sebbene analogamente originata dalla prestazione di lavoro, conduce ugualmente alla morte, benché dopo un lasso di tempo più lungo e che, dunque, dev'essere ricompresa nel concetto stesso di infortunio sul lavoro, rappresentando le alternative indicazioni di cui alle sopra richiamate norme, specificazioni meramente illustrative ad abundantiam. Quindi, la terminologia adoperata negli artt. 589 e 590 c.p. `Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro' è riferibile non solo alle norme inserite nelle leggi specificamente antinfortunistiche, ma anche a tutte quelle che, direttamente o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali e che, in genere, tendono a garantire la sicurezza del lavoro in relazione all'ambiente in cui esso deve svolgersi''.
Nell'ambito di un procedimento penale avente per oggetto tumori professionali in uno stabilimento cantieristico, la Sez. IV esamina la questione attinente alla sussistenza dell'aggravante di cui al comma 2 dell'art. 589 c.p. nel caso di verificazione di malattia professionale. Al riguardo, la difesa richiama ``la differenziazione contenuta negli artt. 2 e 3 D.P.R. n. 1124/1965 (in materia di assicurazione obbligatoria), il comma 3 dell'art. 590 c.p. e la parte motiva della sentenza della Corte Cost. n. 232/1983 in relazione alla ritenuta manifesta inammissibilità dell'illegittimità costituzionale dell'art. 437 c.p. (che richiama il concetto di `infortunio', oggettivamente diverso da quello di `malattia' e come tale insuscettibile dell'interpretazione estensiva di cui infra) per sostenere che la distinzione operata dal legislatore tra infortunio sul lavoro da cui sia derivata la morte o inabilità permanente o temporanea assoluta o parziale, e malattia professionale - della quale tacciono il comma 3 dell'art. 590 c.p. (a differenza del comma 5 dell'art. 590 c.p. medesimo relativo alla procedibilità d'ufficio), nonché l'art. 589, comma 2, c.p., escludeva l'applicabilità dell'aggravante laddove fossero insorte malattie professionali''. La Sez. IV respinge questa argomentazione difensiva (e accolta pur senza motivazione dalla ``lontana ed isolata sentenza di questa Corte n. 9981 del 12 marzo 1987). Premette che, ``pur non essendo possibile distinguere tra le norme poste a tutela del lavoro quelle di prevenzione degli infortuni e quelle che tutelano la salute, di fatto molte disposizioni hanno il duplice scopo di salvaguardare i lavoratori sia dal rischio infortuni, sia da malattie professionali'', e che ``le leggi più recenti in materia non distinguono, già nel titolo, tra la tutela dagli infortuni (cioè la `sicurezza' sul lavoro) e la salute (cioè la `salute') accomunandole indifferenziatamente entrambe ed in tal modo riconducendole al concetto unitario di normativa a tutela dei lavoratori''. Osserva che, ``sotto il profilo della ragionevolezza, non avrebbe senso prevedere una procedibilità ex officio (con un aggravamento di pena) per un infortunio sul lavoro consistito esclusivamente in una incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per più di quaranta giorni ed invece punire in misura meno grave e a querela di parte, una malattia professionale gravissima ed invalidante unicamente perché non scaturisce dalla violazione di una norma di prevenzione dagli infortuni bensì da una di quelle a tutela della salute ed igiene sul lavoro, che l'imprenditore è tenuto specificamente a salvaguardare ai sensi dell'art. 2087 c.c.''. Aggiunge che, se l'evento morte è previsto dall'aggravante di cui al comma 2 dell'art. 589 c.p., non può ritenersi ragionevole non equiparare gl'infortuni sul lavoro, della più disparata eziologia, idonei a cagionare il decesso del lavoratore, alla malattia professionale che, sebbene analogamente originata dalla prestazione di lavoro, conduce ugualmente alla morte, benché dopo un lasso di tempo più lungo e che, dunque, dev'essere ricompresa nel concetto stesso di infortunio sul lavoro, rappresentando le alternative indicazioni di cui alle sopra richiamate norme, specificazioni meramente illustrative ad abundantiam''. Ne desume che ``la terminologia adoperata negli artt. 589 e 590 c.p. `norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro' è riferibile non solo alle norme inserite nelle leggi specificamente antinfortunistiche, ma anche a tutte quelle che, direttamente o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali e che, in genere, tendono a garantire la sicurezza del lavoro in relazione all'ambiente in cui esso deve svolgersi (v. Cass., Sez. IV, n. 1146 del 30 novembre 1984; Sez. IV, n. 14199 del 25 giugno 1990; Sez. IV, n. 37666 del 2 luglio 2004; Sez. IV, n. 8641 dell'11 febbraio 2010)''. In particolare, sottolinea che, ``per la configurazione della circostanza aggravante di cui all'art. 590, comma 3, c.p., non occorre la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, ma è sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa dell'omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti all'imprenditore dall'art. 2087 c.c. ai fini della più efficace tutela dell'integrità fisica del lavoratore''.
a) Attenuante del fatto doloso del lavoratore
Il titolare di una ditta individuale riceve da un privato il compito di eseguire la potatura di due cipressi in un giardino. A taglio ultimato, il ramo cade a terra e, impattando sul terreno dalla parte della chioma, rimbalza e colpisce al capo un familiare del committente che si trovava nel giardino e che muore sul colpo. Condanna del titolare della ditta per colpa consistita nella violazione degli artt. 109 e 116, comma 1, lett. e), D.Lgs. n. 81/2008 per non aver preso le misure necessarie e idonee ad impedire l'avvicinamento di persone estranee alla zona di pericolo interessata dai lavori, quali in particolare la delimitazione della zona con transenne ovvero con nastro segnaletico. In particolare, la Sez. IV nega l'applicabilità della circostanza attenuante del fatto doloso della persona offesa. Afferma che siffatta circostanza ``richiede l'integrazione di un elemento materiale, ovvero l'inserimento del comportamento della persona offesa nella serie delle cause determinatrici dell'evento, e di un elemento psichico, consistente nella volontà di concorrere a determinare lo stesso evento'', e che, quindi, ``è necessario, sul piano psicologico, che la persona offesa abbia coscienza e volontà non della sola condotta, ma anche dell'evento del reato sub iudice, ovvero che abbia voluto lo stesso evento avuto di mira dall'agente''. Spiega che ``l'attenuante, nel richiedere la sussistenza del fatto doloso della persona offesa, rinvia, per la definizione della nozione di dolo, all'art. 43 c.p. e presuppone, quindi, che la persona offesa preveda e voglia l'evento dannoso come conseguenza della propria cooperazione attiva o passiva al fatto delittuoso dell'agente''. E prende atto che ``nel caso di specie non è configurabile la circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 5 c.p.'', poiché ``la vittima con il suo comportamento non aveva avuto coscienza e volontà dell'evento, a meno di non voler ipotizzare, con ricorso ad un evidente paradosso, la volontà di suicidarsi''.
``L'attenuante di cui all'art. 62, n. 5, c.p., richiedendo la sussistenza del fatto doloso della persona offesa, rinvia, per la nozione del dolo, al precedente art. 43 c.p. e quindi presuppone che la persona offesa preveda e voglia l'evento dannoso come conseguenza della propria cooperazione attiva o passiva al fatto delittuoso dell'agente. La circostanza attenuante del concorso del fatto doloso della persona offesa ricorre quando la condotta di quest'ultima non solo si inserisce nella serie casuale di produzione dell'evento, ma si collega sul piano della causalità psicologica a quella del soggetto attivo, nel senso della necessità che la persona offesa abbia voluto lo stesso evento avuto di mira dal soggetto attivo: nel caso in esame, si è del tutto al di fuori dal fatto doloso; si tratta invero di un fatto di natura colposa per definizione non voluto dall'agente, che certamente non aveva inteso e programmato di procurarsi le gravi lesioni subite''.
``Quanto alla invocata circostanza di cui all'art. 62 n. 5 c.p., va rammentato che tale attenuante, richiedendo la sussistenza del fatto doloso della persona offesa, rinvia, per la nozione del dolo, all'art. 43 c.p. e, quindi, presuppone che la persona offesa preveda e voglia l'evento dannoso come conseguenza della propria cooperazione attiva o passiva al fatto delittuoso dell'agente. È di tutta evidenza che in capo alla vittima non vi fosse la volontà diretta alla produzione dell'evento lesivo''. (Conforme Cass. 11 agosto 2015, n. 34818).
b) Attenuante della riparazione del danno
``La circostanza attenuante prevista dall'art. 62, comma 1, n. 6, c.p., implicando che le condotte riparatorie siano efficaci e che quindi concretamente elidano o attenuino le conseguenze dannose o pericolose del reato, non può essere applicata al reato di omicidio colposo, produttivo della irreversibile distruzione del bene giuridico protetto dalla norma''.
Nell'art. 62 n. 6 c.p., ``l'espressione `prima del giudizio' si riferisce alla fase antecedente le formalità di apertura del dibattimento e non a quella antecedente la prima udienza'', né ``pare rilevante, ai fini del diniego, anzi si pone in contraddizione con quest'ultimo, la circostanza che dell'avvenuto risarcimento del danno il giudice di primo grado abbia tenuto conto ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche''.
``L'imputato ha provveduto a risarcire la persona offesa prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, sicché è errata in diritto la motivazione della corte territoriale, là dove pretende che il risarcimento, ai fini della concessione della detta attenuante, debba essere effettuato prima del decreto di citazione a giudizio. Il risarcimento che dà luogo alla circostanza attenuante dell'integrale risarcimento del danno deve (e può) intervenire prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, posto che l'attenuante presuppone una dimostrazione di spontaneo ravvedimento, non condizionata dall'andamento del dibattimento''.
``È ormai prevalente l'indirizzo secondo il quale, ai fini della sussistenza dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 c.p., il risarcimento, ancorché effettuato da una società di assicurazione, deve ritenersi eseguito personalmente dall'imputato medesimo se questi ne abbia avuto conoscenza ed abbia dimostrato la volontà di farlo proprio e sia integrale nei confronti di tutte le persone offese. Al requisito della integralità deve aggiungersi l'ulteriore indefettibile requisito della tempestività del risarcimento del danno, il quale, ai sensi dell'art. 62 n, 6 c.p., deve intervenire prima del giudizio, cioè in una fase antecedente alle formalità di apertura del dibattimento di primo grado. Non rileva, pertanto, che successivamente alla proposizione dell'appello siano intervenute ulteriori integrazioni delle somme inizialmente corrisposte''.
``Ai fini della configurabilità della circostanza attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n. 6 c.p., il risarcimento del danno deve essere integrale e la valutazione sulla sua congruità è rimessa al giudice, che può anche disattendere un eventuale accordo transattivo intervenuto tra le parti''.
``Pertinente è l'evocazione della sentenza n. 138 del 1998 della Corte costituzionale. Con essa si è affermato che l'attenuante di cui all'art. 62, n. 6 prima parte, c.p. trova applicazione in ogni caso in cui l'integrale risarcimento sia comunque riferibile all'imputato; il che deve riconoscersi quando il risarcimento sia stato eseguito da ente assicurativo con il quale l'imputato abbia stipulato un contratto di assicurazione. Ma tale pronunciamento non consente di ritenere riconoscibile l'attenuante anche nel caso in cui somme siano state versate dall'Inail. Stabilendo che, in tema di violazioni antinfortunistiche, la circostanza attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n. 6, c.p. non può essere riconosciuta in favore del responsabile in materia di sicurezza e prevenzione allorquando il risarcimento del danno sia stato effettuato dalla compagnia assicuratrice del datore di lavoro in virtù di contratto stipulato da quest'ultimo, questa Corte ha ribadito l'orientamento già espresso da Sez. Un. n. 5941 del 22 gennaio 2009, la quale giudicando in merito alla possibilità di comunicare detta circostanza ai concorrenti nel reato, ha affermato che, nei reati colposi, il criterio di ragionevolezza impone di rilevare la condotta riparatoria, per una visione socialmente adeguata del fenomeno, anche nell'aver stipulato un'assicurazione o nell'aver rispettato gli obblighi assicurativi per salvaguardare la copertura dei danni derivati dall'attività pericolosa. Ma con specifico riferimento alle somme versate dall'Inali, esse non consentono di riconoscere l'attenuante in parola perché il risarcimento ad opera dell'INAIL avviene in adempimento dell'obbligo di tenere indenni i lavoratori assicurati dai danni da infortunio. Può aggiungersi che la prestazione economica erogata dall'Inail in caso di infortunio o malattia professionali non ha carattere risarcitorio bensì di indennizzo. Essa, infatti, non tende al completo ristoro dei danni subiti ma sulla base di taluni parametri di generale valenza è volta a garantire mezzi adeguati alle esigenze di vite dell'infortunato o dei superstiti; tanto da parlarsi a riguardo della eventuale non coincidenza tra danno risarcibile (secondo il diritto civile) e danno indennizzabile (dall'Inail) di `danno differenziale'''. (In senso conforme Cass. 3 novembre 2022 n. 41340).
``In ipotesi di reato commesso da più persone in concorso, qualora un solo concorrente abbia provveduto alla integrale risarcimento del danno, la relativa circostanza attenuante non si estende ai compartecipi, a meno che essi non manifestino una tempestiva volontà di riparazione del danno. Non può essere riconosciuta la circostanza attenuante della riparazione ovvero del risarcimento del danno qualora il risarcimento non sia direttamente riferibile all'imputato, come nell'ipotesi in cui alla ristorazione del pregiudizio abbiano provveduto i familiari del reo, mentre è riconoscibile quando abbia provveduto l'assicuratore sulla base di garanzia negoziale per il ristoro di danni da responsabilità del datore di lavoro e più in generale tutte le volte in cui l'imputato abbia conoscenza dell'intervento dell'assicuratore in chiave risarcitoria e mostri la volontà di farlo proprio Ai fini del riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 4 c.p. non è sufficiente che il pregiudizio venga ristorato da parte di soggetto il quale abbia con l'imputato rapporti contrattuali e personali che ne giustificano l'intervento, ma è necessario che o il ristoro risulti direttamente riferibile all'imputato (come in ipotesi di assicurazione per la responsabilità civile), ovvero - quando il ristoro sia eseguito da persona diversa dall'imputato, quale il concorrente nello stesso reato (coimputato) - che questi manifesti una concreta e tempestiva volontà riparatoria. Nella specie è del tutto irrilevante acquisire il lodo arbitrale con il quale le parti private hanno definito i rapporti contrattuali ed economici relativi all'appalto di opere, in corso delle quali si realizzò il tragico incidente, poiché se i motivi della decisione possono fare emergere le ragioni per le quali l'imputato non intese procedere nella immediatezza al risarcimento del danno, rimettendo la definizione dei propri obblighi indennitari ad una intesa tra assicuratori dei diversi soggetti coinvolti nell'appalto (committente, appaltatore, sub appaltatori), in nessun modo può giustificare la inerzia dell'imputato pur dopo la sentenza di condanna di primo grado, sul presupposto che ormai il danno era stato liquidato''.
``Ai fini dell'integrazione delta circostanza attenuante della minima partecipazione di cui all'art. 114 c.p., non è sufficiente una minore efficacia causale dell'attività prestata da un correo rispetto a quella realizzata dagli altri, in quanto è necessario che il contributo dato si sia concretizzato nell'assunzione di un ruolo di rilevanza dei tutto marginale, ossia di efficacia causale così lieve rispetto all'evento da risultare trascurabile nell'economia generale dell'iter criminoso''.
``Ai fini dell'integrazione della circostanza attenuante della minima partecipazione di cui all'art. 114 c.p., non è sufficiente una minore efficacia causale dell'attività prestata da un correo rispetto a quella realizzata dagli altri, in quanto è necessario che il contributo dato si sia concretizzato nell'assunzione di un ruolo di rilevanza del tutto marginale, ossia di efficacia causale così lieve rispetto all'evento da risultare trascurabile nell'economia generale dell'iter criminoso, ed è evidente che la riconosciuta posizione apicale e datoriale assunta di fatto dall'imputato esclude che al medesimo possano assegnarsi una posizione e un ruolo inquadrabili nella suddetta circostanza attenuante''.
``Ai fini dell'applicazione della circostanza attenuante del contributo di minima importanza, il giudice deve comparare i contributi dei vari concorrenti, effettuando una valutazione delle condotte di ciascuno. Tuttavia la predetta attenuante è configurabile quando l'apporto del concorrente non ha avuto soltanto una minore rilevanza causale rispetto alla partecipazione degli altri concorrenti ma ha assunto un'importanza obiettivamente marginale, ossia un'efficienza eziologica così lieve rispetto all'evento da risultare trascurabile nell'economia generale dell'iter criminoso. Infatti, l'attenuante non può trovare applicazione sulla base di una semplice graduazione della gravità delle condotte ma comporta un esame dell'apporto causale di queste ultime''.
``Prive di fondamento sono le doglianze del capocantiere (condannato per un infortunio mortale sul lavoro) in ordine al diniego dell'attenuante prevista dall'art. 114 c.p. (minima partecipazione al fatto): la Corte territoriale - con argomentazioni lineari, logiche ed in sintonia con i princìpi affermati da questa Corte in materia - ha ritenuto di non poter riconoscere connotazioni di marginalità al ruolo svolto dall'imputato, avuto riguardo alla dinamica dell'infortunio ed alle cause dello stesso riconducibili all'inosservanza di specifiche misure di prevenzione di infortuni di cui egli era ben consapevole; giova ricordare il consolidato indirizzo interpretativo affermatosi in materia nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui «in tema di concorso di persone nel reato, la circostanza attenuante di cui all'art. 114 c.p. è configurabile a condizione che sia possibile, attraverso l'esame delle modalità di commissione del fatto, stabilire che l'imputato abbia svolto un ruolo assolutamente marginale di efficacia causale così lieve nella determinazione dell'evento criminoso da risultare del tutto trascurabile''.
Condannato alla pena dell'ammenda per violazione antinfortunistica, un datore di lavoro si duole della concessa sospensione condizionale della pena. La Sez. III replica che ``non assumono rilevanza l'opportunità di riservare il beneficio per eventuali condanne a pene più gravi, né mere valutazioni di convenienza o semplici considerazioni soggettive''.
``La reiterazione del beneficio della sospensione condizionale della pena è possibile se, nel periodo compreso tra la precedente condanna sospesa e quella per la quale esso viene invocato, sia stata pronunciata condanna (cosiddetta intermedia) a pena pecuniaria per delitto o a pena detentiva o pecuniaria per contravvenzione, altrimenti ostandovi la previsione di cui all'art. 164, comma 2, n. 1 c.p.''. (Nel caso di specie, la Sez. IV annulla con rinvio limitatamente al punto concernente il diniego del beneficio della sospensione condizionale della pena la condanna di un datore di lavoro per infortunio mortale a dieci mesi e venti giorni di reclusione).
``Non contravviene al divieto della `reformatio in peius' il giudice di appello che, pur in presenza di impugnazione proposto dal solo imputato, revochi il beneficio della sospensione condizionale, nelle ipotesi previste dai commi 1 e 3 dell'art. 168 c.p., in quanto, in entrambi i casi, si tratta di provvedimenti dichiarativi, riguardanti effetti che si producono `ope legis' e presuppongono un'attività puramente ricognitiva e non discrezionale o valutativa, a differenza dell'ipotesi di cui al comma 2 del medesimo articolo che, invece, ha natura costitutiva e implica un giudizio sull'indole e sulla gravità del reato, rispetto al quale l'imputato deve essere posto nella condizione di potersi difendere. Nel caso di specie, dal certificato del casellario giudiziale dell'imputato risultano plurimi precedenti, con condanne superiori ad anni 2 di reclusione (anche prescindendo dai condoni e dall'indulto di cui l'imputato ha beneficiato, residua, comunque, una condanna a anni 2 e mesi 8 di reclusione, oltre alla multa di E 4.000.000). Mentre è illegittima per violazione del divieto di `reformatio in peius', nel caso di impugnazione proposta dal solo imputato, la revoca della sospensione condizionale della pena disposta dal giudice d'appello ai sensi dell'art. 168, comma 2, c.p., attesa la natura discrezionale e costitutiva di detto provvedimento. Ne consegue che la revoca della sospensione condizionale è avvenuta ai sensi dell'art. 168, comma 3, c.p., in considerazione dei precedenti penali ostativi, sicché non si riscontra alcuna violazione dell'art. 597 c.p.p. Per mera completezza, va precisato che si presenta manifestante infondata la questione di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 3 Cost, in relazione alla diversa disciplina della recidiva, che è limitata alla sola reiterazione di delitti non colposi. In proposito è sufficiente osservare che risulta del tutto ragionevole che i presupposti di un aggravamento della pena siano diversi da quelli che consentono di accedere al beneficio della sospensione condizionale''.
Il datore di lavoro di uno studio medico odontoiatrico - condannato per più contravvenzioni antinfortunistiche alla pena di euro 3.050 di ammenda con i doppi benefici di legge (non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e sospensione condizionale della pena) - lamenta che, ``una volta irrogata la sanzione pecuniaria, non era più interessato al riconoscimento della sospensione condizionale della pena'', e ne sollecita l'eliminazione. La Sez. III replica: ``La sospensione condizionale non può risolversi in un pregiudizio per l'imputato in termini di compromissione del carattere personalistico e rieducativo della pena. L'interesse all'impugnazione, condizionante l'ammissibilità del ricorso, si configura tutte le volte in cui il provvedimento di concessione del beneficio sia idoneo a produrre in concreto la lesione della sfera giuridica dell'impugnante e la sua eliminazione consenta il conseguimento di una situazione giuridica più vantaggiosa, con la precisazione tuttavia che il pregiudizio addotto dall'interessato in tanto è rilevante in quanto non attenga a valutazioni meramente soggettive di opportunità e di ordine pratico, ma concerna interessi giuridicamente apprezzabili, perché correlati alla funzione stessa della sospensione condizionale, consistente nella `individualizzazione' della pena e nella sua finalizzazione alla reintegrazione sociale del condannato. Non può assumere rilevanza giuridica la mera opportunità, prospettata dall'imputato, di riservare il beneficio per eventuali condanne a pene più gravi, perché valutazione di opportunità del tutto soggettiva e per giunta eventuale, e comunque in contraddizione con la prognosi di non reiterazione criminale, e quindi di ravvedimento, imposta dall'art. 164, comma 1, c.p. per la concessione del beneficio. In ogni caso, in sede di conclusioni, la difesa non ha avanzato una specifica sollecitazione volta a escludere il riconoscimento della sospensione condizionale in caso di eventuale condanna solo all'ammenda''.
Condannato per una contravvenzione antinfortunistica, l'imputato lamenta ``l'irragionevolezza del diniego della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna motivato con la capacità a delinquere dell'imputato apoditticamente desunta dalla modalità della condotta in palese contraddizione con la condizione di incensuratezza, con la natura formale della contravvenzione e con l'episodicità del fatto'', nonché con ``il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche''. La Sez. III ribatte: ``Non è rilevabile alcun vizio motivazionale tra il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, correlato alla condotta susseguente al reato per avere l'imputato ottemperato alle prescrizioni dell'organo di controllo, nonché alla sua condizione di incensuratezza, ed il diniego della sospensione condizionale della pena, fondato sull'esito negativo della prognosi sul futuro comportamento dell'imputato, da effettuarsi sulla base di una valutazione discrezionale collegata agli elementi di cui all'art. 133 c.p. Da nessuna illogicità può ritenersi inficiata la motivazione resa dal tribunale che ha evidenziato, quale elemento ostativo alla concessione del beneficio di cui all'art. 163 c.p., la estrema gravità del pericolo cui erano stati esposti gli operai nell'operare sul ponteggio carente per plurime violazioni dei requisiti di sicurezza e la conseguente, implicita, noncuranza del prevenuto dei rischi conseguenti al suo inadempimento richiamata dal puntuale riferimento alla capacità a delinquere di costui. Neppure in astratto è ravvisabile, attesa la diversa finalità degli istituti, alcun contrasto tra il diniego della sospensione condizionale della pena, fondato su un giudizio prognostico sul futuro comportamento dell'imputato circa la commissione di ulteriori reati, ed il diniego delle attenuanti generiche incidenti, invece, sulla concreta commisurazione della pena al fine di adeguarla all'effettivo disvalore del fatto ed alla personalità del colpevole''. Quanto poi alla non menzione della condanna, la Sez. III precisa che l'imputato ``non può dolersi dell'omessa pronuncia sul punto posto che la previsione dell'art. 125, comma 3, c.p.p. è circoscritta alle questioni che, anche per effetto di istanza di parte, devono essere decise o che lo siano effettivamente state''.
``Ritiene il Collegio che vada ribadito l'orientamento che appare assolutamente maggioritario secondo cui, in tema di sospensione condizionale della pena, nel caso in cui il beneficio venga subordinato all'adempimento dell'obbligo risarcitorio, il giudice della cognizione non è tenuto a svolgere alcun accertamento sulle condizioni economiche dell'imputato. Ciò in quanto la verifica dell'eventuale impossibilità di adempiere da parte del condannato rientra nella competenza del giudice dell'esecuzione''.
``In caso di sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento di una somma liquidata a titolo di risarcimento del danno, il termine entro il quale l'imputato deve provvedere all'adempimento dell'obbligo risarcitorio, qualora non sia stato fissato in sentenza, coincide con quello del passaggio in giudicato della stessa, trattandosi di obbligazione pecuniaria immediatamente esigibile. Pertanto, in linea di principio, quando la sospensione condizionale della pena sia stata subordinata al risarcimento del danno o alla eliminazione delle conseguenze del reato, il termine per la esecuzione decorre dal passaggio in giudicato della sentenza, dal momento che non è possibile una esecuzione ante iudicatum dei capi penali della pronuncia, tra i quali sono comprese le statuizioni sulla sospensione condizionale della pena. La giurisprudenza è, tuttavia, divisa quanto alla possibilità di subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena al pagamento della somma liquidata a titolo di provvisionale. Secondo un orientamento, nel condizionare la sospensione condizionale della pena al pagamento di una provvisionale in favore della parte civile, il giudice può legittimamente subordinare il beneficio al versamento della somma entro un termine anteriore al passaggio in giudicato della sentenza, in quanto la condanna, nella parte concernente la provvisionale, è immediatamente esecutiva per legge. Pare orientata implicitamente nello stesso senso anche quella giurisprudenza che, in applicazione dei principi di legalità e tassatività, che escludono la sottoposizione del beneficio ad obblighi diversi da quelli previsti dall'art. 165 c.p., afferma l'illegittimità della subordinazione della sospensione condizionale della pena all'obbligo del risarcimento dei danni entro un termine predefinito nella sentenza, nel caso in cui il giudice penale abbia pronunciato condanna generica e demandato al giudice civile la liquidazione del predetto danno, giacché la disposizione di cui all'art. 165 c.p. attribuisce al giudice di merito l'esercizio di tale facoltà solo ove abbia proceduto direttamente alla quantificazione dell'obbligo risarcitorio del condannato, ovvero abbia assegnato una provvisionale. L'opposto orientamento ritiene, invece, che il beneficio della sospensione condizionale della pena non possa essere subordinato al pagamento della provvisionale, riconosciuta alla parte civile, anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza, determinandosi, altrimenti, una esecuzione ante iudicatum delle statuizioni penali della pronuncia, ovvero che il beneficio della sospensione condizionale della pena possa essere subordinato al pagamento della provvisionale riconosciuta alla parte civile da effettuarsi dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Il Collegio reputa corretta tale seconda soluzione proprio perché, altrimenti ragionando, verrebbe a realizzarsi una esecuzione ante iudicatum delle statuizioni penali della pronuncia: il punto essenziale è che l'immediata esecutorietà della condanna provvisionale vale solo nella prospettiva civilistica e non può assumere rilievo ai fini delle statuizioni penali''. (Su un caso di revoca per omesso adempimento da parte del giudice dell'esecuzione del beneficio della sospensione condizionale della pena subordinato al risarcimento del danno all'infortunato liquidato in euro 40.770,00 v. Cass. 24 marzo 2021, n. 11345).
``Il riconoscimento della sospensione condizionale della pena, subordinato, ai sensi dell'art. 165 c.p., al pagamento della somma liquidata a titolo di provvisionale, produce i suoi effetti, e dunque l'esecuzione della pena rimane sospesa, fino a quando, a cagione della inottemperanza del condannato agli obblighi cui detta sospensione era stata subordinata, la stessa non venga revocata dal giudice dell'esecuzione, secondo quanto previsto dall'art. 674 c.p.p., su impulso del pubblico ministero, sulla base della regola generale di cui all'art. 665 c.p.p. Benché, infatti, il provvedimento di revoca della sospensione condizionale della pena previsto dall'art. 168, comma 1, c.p.p., abbia natura dichiarativa e richieda al giudice una attività meramente ricognitiva del mancato assolvimento della condizione, occorre comunque che il provvedimento di riconoscimento del beneficio della sospensione venga rimosso, mediante un provvedimento di revoca, da adottare su richiesta del pubblico ministero, rimanendo, altrimenti, produttivo dell'effetto suo proprio, e cioè preclusivo dell'esecuzione della pena''.
Il titolare di un'impresa edile, per occultare l'infortunio mortale occorso a un lavoratore in un cantiere, ``aveva trasportato, il cadavere dell'operaio in altra località abbandonandolo in una cunetta per simulare un incidente stradale previo danneggiamento della bicicletta della vittima''. La Sez. IV rileva: ``La condotta complessivamente tenuta dall'imputato, improntata all'inquinamento del fatto con frapposizione di ostacoli alla sua ricostruzione e connotata da assenza di resipiscenza, non consentiva di applicare le circostanze attenuanti generiche, ed ha influito anche sul giudizio prognostico funzionale al diniego della sospensione condizionale della pena, corroborato dalla rilevata reiterazione di condotte penalmente rilevanti in materia antinfortunistica''.
``La subordinazione della sospensione condizionale della pena all'adempimento degli obblighi risarcitori può essere disposta solo con riferimento a prestazioni certe e determinate, in modo da assicurare - e da consentire di verificare- l'esatta corrispondenza tra obbligo imposto e corretto adempimento di esso. Non si può dunque ancorare la subordinazione ad una condanna generica al risarcimento del danno, che sarebbe di impossibile adempimento senza un'ulteriore pronuncia. È dunque illegittima la subordinazione della sospensione condizionale della pena all'adempimento dell'obbligo di risarcire il danno, ove il giudice penale abbia pronunciato condanna generica e demandato al giudice civile la liquidazione del predetto danno, giacché la disposizione di cui all'art. 165 c.p. attribuisce al giudice di merito l'esercizio di tale facoltà solo qualora egli abbia proceduto direttamente alla quantificazione dell'obbligo risarcitorio del condannato. Nel caso in esame, la corte d'appello, avendo revocato la liquidazione definitiva del risarcimento dei danni, stabilita dal tribunale, e demandato il relativo giudizio al giudice civile, avrebbe dovuto revocare la statuizione relativa alla subordinazione della sospensione condizionale della pena all'adempimento dell'obbligo dell'integrale risarcimento del danno, emessa dal tribunale. Né il giudice di secondo grado, pur avendo confermato la condanna al pagamento della provvisionale di euro 200.000, ha subordinato a quest'ultimo la sospensione condizionale della pena, come pur sarebbe stato legittimo. La corte d'appello, infatti, sebbene abbia revocato la statuizione relativa alla liquidazione definitiva del risarcimento dei danni, ha confermato, per il resto, la sentenza di primo grado, così subordinando il beneficio della sospensione condizionale della pena a una condanna divenuta generica: ciò che, sulla base delle considerazioni appena esposte, le era precluso''.
``L'art. 165, comma 2, c.p. prevede l'obbligatorietà della subordinazione della sospensione condizionale della pena all'adempimento di uno degli obblighi previsti dal comma 1, allorché il beneficio venga concesso a persona che ne ha già fruito. Questo è appunto il caso dell'imputato di omicidio colposo in danno di lavoratore, che, con sentenza divenuta irrevocabile il 13-3-2000, è stato condannato, per il reato di truffa, alla pena di mesi 4 di reclusione e lire 300.000 di multa, condizionalmente sospesa. Dunque, stante l'obbligatorietà della statuizione relativa alla predetta subordinazione, non è censurabile la mancanza di un'esplicita motivazione ad hoc nella sentenza impugnata. Occorre comunque osservare come l'interessato, in sede di esecuzione, possa allegare la comprovata, assoluta impossibilità dell'adempimento e il giudice possa valutare l'attendibilità e la rilevanza dell'impedimento dedotto''.
``Il giudice, nell'esercizio del potere discrezionale riconosciutogli dall'art. 163 c.p. e, nel giudizio di appello, dall'art. 597, comma 5, c.p.p., può disporre d'ufficio la sospensione condizionale della pena, proprio sulla base di una valutazione di utilità in rapporto alle finalità di prevenzione speciale e di risocializzazione; e tuttavia, una siffatta pronuncia esige che venga data in concreto dimostrazione di una siffatta utilità. Ciò a fronte del contrario interesse dell'imputato a non giovarsene, cui l'ordinamento riconosce, pacificamente, giuridica rilevanza, considerato che la misura è, secondo una consolidata prassi applicativa, certamente rinunciabile Tale circostanza ne giustifica la riconducibilità alla sfera dei cd. `benefici', consentendo, dunque, di attribuire uno spazio significativo all'interesse dell'imputato, conformemente ad una evoluzione del sistema dell'esecuzione penale che, comunque, attribuisce un ruolo attivo e determinante al condannato nella concreta individuazione del percorso esecutivo (si pensi alla previsione dell'art. 656, comma 5, c.p.p., che consente all'interessato, prima dello scadere del termine di 30 giorni dalla notifica del decreto di sospensione dell'ordine di esecuzione, di presentare richiesta di misura alternativa alla pena detentiva; o ancora, su altro versante, alla possibilità per l'imputato di scegliere la modalità esecutiva della pena attraverso la richiesta di ammissione al lavoro di pubblica utilità, alla quale, peraltro, viene riconosciuto il valore di tacita rinuncia proprio del beneficio della sospensione condizionale della pena''.
Quanto alla subordinazione del beneficio della sospensione condizionale della pena al versamento di un acconto sul danno liquidato in favore delle parti civili, l'imputato - datore di lavoro di un trattorista mortalmente infortunatosi - lamenta sotto un primo profilo il difetto di una richiesta della parte interessata: la doglianza è infondata, trattandosi di un potere discrezionale attribuito al giudice dall' art.165 c.p., che prescinde dalla richiesta di parte e presuppone soltanto una formale costituzione di parte civile. Non si tratta quindi dell'imposizione di una condizione illegittima. Sotto altro profilo l'imputato si duole del mancato apprezzamento sulle sue condizioni economiche e sulla sua concreta possibilità di sopportare l'onere del versamento dell'acconto. Anche tale doglianza è infondata. In tema di sospensione condizionale della pena subordinata al risarcimento del danno, ovvero al pagamento - come nel caso - di un acconto sul danno già liquidato, il giudice non è tenuto a svolgere alcun preventivo accertamento sulle condizioni economiche dell'obbligato: deve tuttavia effettuare un motivato apprezzamento di esse, qualora l'imputato abbia diligentemente allegato specifiche circostanze dirette a dimostrare l'assoluta incapacità a soddisfare le condizione imposta, ovvero se dagli atti emergano elementi in tal senso. Nel caso di specie nulla è stato allegato.
``La corte d'appello ha adeguatamente motivato in ordine alla negazione del beneficio della sospensione condizionale della pena in quanto ha ritenuto che elementi ostativi fossero la mancata resipiscenza dell'imputato, il quale non solo non aveva risarcito il danno, ma aveva altresì tentato di sottrarsi alla sua responsabilità addossandola all'infortunato deceduto che era impossibilitato a difendersi. Ha poi individuato altro elemento ostativo alla concessione del beneficio in parola nella particolare modalità del fatto, avendo l'imputato, in spregio alle regole a tutela dell'incolumità dei lavoratori, fatto proseguire i lavori consentendo che si operasse con un fronte verticale e privo di armatura''.
``Infondata è la censura sulla mancata concessione dei benefici di legge, a fronte di una determinazione giudiziale congruamente motivata con riferimento alla sussistenza di un precedente specifico, in linea con il principio in forza del quale la sospensione condizionale della pena è caratterizzata da un massimo ambito di autonomia e facoltatività (`il giudice può ordinare che l'esecuzione della pena rimanga sospesa...': art. 163, comma 1, c.p.), in assenza di automatismi applicativi. Al riguardo, il giudice, ai fini del giudizio prognostico richiesto dall'art. 164, comma 1, c.p., non è certo neppure obbligato a prendere in esame tutti gli elementi indicati dall'art. 133 c.p., ma può limitarsi a far menzione di quelli ritenuti prevalenti, sia per negare che per concedere il beneficio: il relativo giudizio, se effettuato nel rispetto dei parametri valutativi di cui agli artt. 163 e 164 c.p., è censurabile in cassazione solo quando sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico''.
A) In generale, sul reato di disastro colposo, v.:
``Nei delitti contro l'incolumità pubblica, ai quali è dedicato il Titolo VI del c.p., il danno o il pericolo alle cose viene in considerazione soltanto qualora possa derivarne un rischio a carico di esseri umani diversamente da quanto avviene nel disastro ambientale in cui tale rischio non è elemento costitutivo della fattispecie. L'art. 449 c.p. sanziona la causazione colposa degli eventi disastrosi previsti dalle fattispecie tipizzate al capo primo, tra le quali la frana ex art. 426 e il disastro innominato ex art. 434 c.p., comma 2. Per la configurabilità del delitto di disastro colposo ex artt. 434 e 449 c.p. è necessario che l'evento si verifichi, diversamente dall'ipotesi dolosa (art. 434, comma 1), nella quale la soglia per integrare il reato è anticipata al momento in cui sorge il pericolo per la pubblica incolumità e, qualora il disastro si verifichi, risulterà integrata la fattispecie aggravata di cui all'art. 434 c.p., comma 2. La nozione di disastro richiamata nelle varie ipotesi contenute nell'art. 449 cod. pen. è omogenea sul piano delle caratteristiche strutturali rispetto a quella prevista dai corrispondenti delitti dolosi. In riferimento all'evento tipico del disastro innominato ex art. 434 c.p., comma 2, il momento di consumazione del reato coincide con l'evento tipico della fattispecie e quindi con il verificarsi del disastro, da intendersi come fenomeno distruttivo naturale di proporzioni straordinarie dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità, ma rispetto al quale sono effetti estranei ed ulteriori il persistere del pericolo o il suo inveramento nelle forme di una concreta lesione''.
All'interno di un edificio adibito a centro culturale di proprietà di un comune, e affidato in comodato d'uso ad altro comune, crolla l'intero controsoffitto interno. Per il reato di crollo colposo di cui all'art. 449 c.p. vengono condannati sia un ingegnere del comune affidatario direttore dei lavori di costruzione del controsoffitto per conto di tale comune, sia un altro ingegnere incaricato del collaudo tecnico in corso d'opera. A proposito della differenza tra il delitto di crollo colposo e la contravvenzione di rovina di edifici, la Sez. IV osserva: ``Nel delitto di crollo colposo si richiede che il crollo assuma la fisionomia del disastro, cioè di un avvenimento di tale gravità da porre in concreto pericolo la vita delle persone, indeterminatamente considerate, in conseguenza della diffusività degli effetti dannosi nello spazio circostante; invece, per la sussistenza della contravvenzione di rovina di edifici non è necessaria una tale diffusività e non si richiede che dal crollo derivi un pericolo per un numero indeterminato di persone''. E nel caso di specie mette in luce ``le dimensioni del soffitto crollato (330 metri quadri al centro della sala, più di 5 metri x 60 metri) e la zona interessata dal crollo, destinata al pubblico (varie decine di persone), all'interno di un edificio adibito ad eventi culturali, pubblico che solo per puro caso in quel momento non era presente''. Aggiunge che ``si è trattato di crollo avvenuto all'improvviso e rapidamente e non preceduto da avvisaglie che potessero mettere in allarme; ciò con valutazione necessariamente ex ante''.
La legale rappresentante di una s.a.s. gestore di un deposito di GPL sito all'interno di un distributore di carburanti fu condannata per i reati di cui agli artt. 449 e 451 c.p.: il primo per ``avere omesso il controllo dovuto sul corretto funzionamento dei dispositivi di sicurezza e di allarme dell'impianto; avere fatto riempire il serbatoio di gas propano liquido in misura eccedente 1'85% della capienza, in violazione della normativa di settore, e averne consentito il riempimento fino al 98,5% senza tenere conto delle anomalie dei dispositivi di sicurezza, che erano state già segnalate dal tecnico manutentore; avere fatto installare due ulteriori tubazioni prive di dispositivi di intercettazione automatizzata, in difformità rispetto agli schemi d'impianto depositati presso le competenti autorità. Tali condotte cagionavano sovrapressioni e sollecitazioni anomale su tutto l'impianto, nonché il blocco dei galleggianti della sonda di livello del GPL, con rottura di una delle pompe presenti nell'impianto, con conseguente fuoriuscita di gas combustibile dall'impianto stesso e pericolo di un'esplosione dell'intero impianto e di disfacimento e crollo dello stesso: ciò che determinava la chiusura di tutte le attività commerciali, industriali e artigianali della zona, la chiusura al traffico di una strada provinciale e l'evacuazione delle abitazioni vicine per il periodo durante il quale venivano eseguite le operazioni di messa in sicurezza dell'area''; il secondo per ``avere reso inservibili (attraverso le predette condotte i dispositivi di allarme e di sicurezza dell'impianto di distribuzione di carburanti, destinati al salvataggio o al soccorso contro disastri o infortuni sul lavoro''. (V. anche Cass. n. 45316/2019).
``La definizione del disastro in termini di `avvenimento di tale gravità e complessità da porre in concreto pericolo la vita e l'incolumità delle persone, indeterminatamente considerate, in conseguenza della diffusività degli effetti dannosi nello spazio circostante' ha connotato le più recenti pronunce del giudice di legittimità. Ai fini della configurabilità del delitto di disastro colposo, costituente un reato di pericolo astratto, va comunque verificata l'offensività del fatto alla luce del criterio della `contestualizzazione dell'evento', con giudizio ex ante, nel senso che occorre verificare alla luce degli elementi concretamente determinatisi se il fatto sia in grado di esporre a pericolo l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone, richiedendosi la verosimiglianza della presenza di un numero indeterminato di persone nella sfera di esplicazione del fatto. Dal Titolo VI del codice penale, emerge che si tratta di figure nelle quali non è affidata al giudice la concreta valutazione ex post della pericolosità della condotta, ma è la norma che descrive alcune situazioni tipicamente caratterizzate, nella comune esperienza, per il fatto di recare con sé una rilevante possibilità di danno alla vita o all'incolumità personale. Si è, infatti, in presenza di eventi dotati di forza dirompente e quindi in grado di coinvolgere numerose persone, in un modo che non è precisamente definibile o calcolabile. Rispetto a tali eventi, non è richiesta l'analisi a posteriori di specifici decorsi causali, che è invece propria degli illeciti che coinvolgono una o più persone determinate. Al contrario, ciò che caratterizza il pericolo per la pubblica incolumità è semplicemente la tipica, qualificata possibilità che le persone si trovino coinvolte nella sfera d'azione dell'evento disastroso descritto dalla fattispecie, esposte alla sua forza distruttiva. È necessaria, quindi, una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità, nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; ed, inoltre, l'effettività della capacità diffusiva del nocumento (cosiddetto pericolo comune) deve essere accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, casualmente, l'evento dannoso non si sia verificato''.
A causa di un movimento franoso nella zona sottostante la struttura di un hotel, ``1.700 metri cubi di rocce avevano ricoperto un'area di circa mille metri quadri, comprensiva della zona adibita a solarium e a piscina''. La Sez. IV conferma la condanna per frana colposa dell'amministratore unico della s.r.l. esercente l'albergo: ``La prevedibilità della frana deve essere accertata in relazione ai fattori che ne rendono possibile la verificazione; mentre altra cosa è la previsione dei danni che dalla frana possono conseguire. L'imputato confonde l'evento di danno tipico della fattispecie di cui al combinato disposto agli artt. 426 e 449 c.p. con l'evento di danno a cose o a persone derivante dalla frana. Per la tradizione giurisprudenziale il delitto di `frana colposa' richiede un evento di danno alle cose, quale è una frana, di proporzioni ragguardevoli per vastità e difficoltà di contenimento, non essendo sufficiente il verificarsi di un mero smottamento; in presenza di tali condizioni, non rientra né nella fattispecie dolosa né in quella colposa la sussistenza di un concreto ed effettivo pericolo per la pubblica incolumità, che è presunto dalla legge e non va, pertanto, specificamente provato''. ``L'orientamento del reato di frana al principio di offensività si realizza attribuendo alla nozione di frana contenuti che rendono l'evento idoneo a porre concretamente in pericolo l'incolumità pubblica, ancorché non sia richiesto l'accertamento di tale pericolo come elemento autonomo essenziale alla integrazione del reato. Nel caso di specie non vi è alcun dubbio che si è in presenza di un fenomeno di cospicue dimensioni, non contenibile dall'uomo nel momento del suo verificarsi, in grado di porre in pericolo l'incolumità pubblica anche in considerazione delle caratteristiche tipologiche dell'area nella quale si è determinato''. (Sul delitto di frana colposa v. pure Cass. 20 maggio 2020, n. 15496, concernente “smottamenti di terreno, poi culminati in una vera e propria frana che ha riguardato i terreni a valle e una strada comunale e che, stante la lentezza del fenomeno, era ancora in corso durante la celebrazione del processo di primo grado”).
All'indomani della tragedia accaduta sull'autostrada di Genova, appaiono di particolare rilievo gli insegnamenti della Suprema Corte in merito al delitto di disastro colposo.
Con la presente sentenza - relativa a un'ipotesi di cui all'art. 449 c.p. contestata a più soggetti (direttore dei lavori responsabile del procedimento, coordinatore per la salute e sicurezza dell'ANAS, rappresentanti legali di s.p.a., componente della commissione per il collaudo tecnico amministrativo) in relazione a lavori di adeguamento di un'autostrada - la Sez. IV conferma l'assoluzione degli imputati perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Rileva che ``viene ipotizzato un delitto di crollo colposo come reato di pericolo, in assenza di evento dannoso, che, secondo il vigente codice penale, non è previsto dalla legge come reato''. Spiega che ``l'art. 449 c.p., non a caso rubricato `delitti colposi di danno' punisce anche a titolo di colpa la sola ipotesi dolosa aggravata di cui al comma 2 dell'articolo 434 c.p., e non anche quella di pericolo di cui al comma 1'', e, che dunque ``occorre che si realizzi un evento di danno''.
A questo punto, la Sez. IV approfondisce l'analisi. Nota che, ``per la configurabilità del delitto di disastro colposo, è necessario che l'evento sì verifichi, diversamente dall'ipotesi dolosa, nella quale la soglia di punibilità è anticipata al momento in cui sorge il pericolo per la pubblica incolumità e, qualora il disastro si verifichi, risulterà integrata la fattispecie aggravata prevista dall'art. 434 c.p., comma 2, c.p.'', e che, quindi, ``le condotte meramente prodromiche rispetto al già indicato evento di pericolo non rilevano''. Sostiene che ``una tale lettura della norma trova ulteriore conforto nel successivo art. 450 c.p., che in contrapposizione al precedente, relativo ai delitti colposi di danno, riguarda i delitti colposi di mero pericolo''. Ne desume che ``tale fattispecie anticipa la tutela rispetto a quella delineata dal precedente art. 449 c.p., incriminando anche le condotte che fanno solo sorgere o persistere il pericolo di un evento disastroso'', e che, tuttavia, ``la norma non si riferisce indiscriminatamente a tutte le fattispecie di disastro, bensì solo ad alcune analiticamente indicate: disastro ferroviario, inondazione, naufragio sommersione''. Aggiunge che ``si tratta di un'opzione normativa che non è casuale e trova esplicita spiegazione anche nella relazione ministeriale al progetto di codice, ove si spiega che l'esclusione della fattispecie colposa di pericolo di crollo trova giustificazione nella preoccupazione che lo sviluppo edilizio possa essere frenato da frequenti accertamenti tecnici connessi a tale fattispecie''. Chiarisce che ``la stessa differenziazione nell'anticipazione del punto di rilevanza penale delle ipotesi di disastro nominato rispetto a quelle di natura innominata, se da un lato si aggancia alla voluntas legis di tutelare maggiormente le situazioni di pericolo relative ai cd. disastri catalogati (che per loro natura hanno una notevole carica di dannosità), dall'altro può giustificare la indicazione per la punibilità di fattispecie apparentemente anche meno distruttive come possono essere appunto i crolli delle civili abitazioni'', per le quali ``deve necessariamente lasciarsi un ambito discrezionale al giudice per consentire di discernere (per escluderne la rilevanza penale) le ipotesi limite come potrebbe essere quella del crollo di un modesto appartamento (in zona isolata) abitato da una sola persona''. Richiama la consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale per configurare il delitto di crollo colposo è necessario che il crollo assuma la fisionomia del disastro, cioè di un avvenimento di tale gravità da porre in concreto pericolo la vita delle persone, indeterminatamente considerate, in conseguenza della diffusività degli effetti dannosi nello spazio circostante.
(Sul reato di disastro colposo v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza integrato con i commenti al Codice penale, sesta edizione, Milano, 2014, 1135 s., cui aggiungi in particolare Cass. 8 novembre 2017, n. 51734: ``Per crollo di costruzione, totale o parziale, deve intendersi la caduta violenta ed improvvisa della stessa accompagnata dal pericolo della produzione di un danno notevole alle persone, senza che sia necessaria la disintegrazione delle strutture essenziali dell'edificio.
Quanto al profilo riguardante il pericolo, per la sussistenza del delitto di disastro colposo previsto dagli artt. 434 e 449 c.p., è necessario che il crollo della costruzione abbia assunto la fisionomia di un disastro, cioè di un avvenimento di tale gravità e complessità da porre in concreto pericolo la vita e l'incolumità delle persone, indeterminatamente considerate, dal momento che il pericolo da esso cagionato deve essere caratterizzato dalia potenzialità di diffondersi ampiamente nello spazio circostante la zona interessata dall'evento, sicché il solo elemento oggettivo del crollo, diversamente da quanto previsto per la contravvenzione di cui all'art. 676, comma 2, c.p., non è sufficiente per la configurabilità del delitto in questione. Tale situazione di pericolo, tuttavia, va valutata ex ante, in base ad un giudizio di probabilità circa l'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero indeterminato di persone, cosicché l'effettività della capacità diffusiva del nocumento [c.d. pericolo comune] deve essere accertata in concreto)''.
(V. anche Cass. 2 aprile 2019, n. 14263; sul crollo in una chiesa Cass. 29 gennaio 2021, n. 3727; circa il crollo colposo Cass. 1° febbraio 2019, n. 5022, Cass. 29 novembre 2018, n. 53452, Cass. 15 gennaio 2018, n. 6499; per un'ipotesi di frana colposa in concorso con l'ecoreato di cui all'art. 452-bis c.p. Cass. 5 agosto 2019, n. 35636; sull'esplosione di un serbatoio in un vano tecnico sito all'esterno di un centro benessere contenente il reattivo clorante per la sanificazione delle acque della piscina, che causava a una dipendente lesioni gravissime, nonché l'intossicazione di una dozzina di utenti del centro Cass. 3 dicembre 2018, n. 54005; su un caso di crollo di parte di un palazzo causato da una gru Cass. 25 settembre 2918, n. 41348; su una colata detritica torrentizia staccatasi in concomitanza con intensi rovesci a carattere temporalesco che aveva provocato il crollo di una parte dell'opera di contenimento frontale della vasca appositamente costruita per fronteggiare simili fenomeni e aveva raggiunto poi la frazione di un comune provocando la morte di due persone nonché danni ingenti all'abitato e alla popolazione Cass. 29 agosto 2018, n. 39124; una condanna inflitta per il crollo di un immobile in seguito all'esplosione di un impianto di gas GPL è annullata con rinvio da Cass. 13 luglio 2016, n. 32216; per ipotesi di crollo derubricato nella contravvenzione di cui all'art. 676, comma 2, c.p. Cass. 11 marzo 2021, n. 9749 e Cass. 29 gennaio 2020, n. 3727; in merito alla vicenda relativa all'urto di una nave contro la Torre Piloti nel porto di Genova Cass. 25 giugno 2020, n. 19221).
B) In passato, la Suprema Corte si era già occupata di disastro ambientale (v. al proposito Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), sesta edizione, Milano, 2014, 1140 s.). Basilare al riguardo fu, in particolare, Cass. 6 febbraio 2007, P.M., P.C., R.C., Bartalini e altri, in ISL, 2007, 4, 218. Ove la Sez. IV prese in considerazione il ``disastro interno allo stabilimento del petrolchimico con riferimento alla situazione ambientale creatasi all'interno della struttura che aveva provocato i decessi e le lesioni'' e il ``disastro esterno riferito alla situazione di inquinamento ambientale dei siti su cui insiste il petrolchimico, di quelli prossimi nonché delle falde acquifere, delle acque lagunari e dell'atmosfera''. Non ritenne convincente che, ``per potersi configurare l'ipotesi del disastro innominato, previsto dall'art. 434 c.p., sia necessario il verificarsi di un `macroevento' se con questa definizione si intende fare riferimento ad eventi analoghi a quelli che la sentenza impugnata richiama come esempi significativi del macroevento (`sia un incendio che devasta quanto incontra, sia il naufragio di una nave, la caduta di un aeromobile, il deragliamento di un treno, il crollo di un edificio, o quant'altro abbia appunto queste caratteristiche che i casi tipici individuati dal legislatore fanno cogliere')''. Spiegò che ``quegli eventi sono caratterizzati da un fatto tipico che si esaurisce, di per se stesso (non gli effetti che possono perdurare per lungo tempo), in un arco di tempo assai ristretto e con il verificarsi di un evento di grande evidenza immediata (il crollo, il naufragio, il deragliamento ecc.)'', ma che ``il disastro può anche non avere queste caratteristiche di immediatezza perché può realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, senza che si verifichi un evento disastroso immediatamente percepibile e purché si verifichi quella compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività che consentono di affermare l'esistenza di una lesione della pubblica incolumità''. Aggiunse che ``questa situazione può anche essere qualificata `macroevento' purché si precisi che la compromissione di cui trattasi (riguardi la situazione ambientale o un luogo diverso quale l'ambiente di lavoro o altra situazione tipica prevista dalla legge) può avere caratteristiche di durata che non richiedono il verificarsi di un evento eccezionale dotato di caratteristiche di immediatezza''. E condivise l'interpretazione del disastro innominato data in primo grado dal tribunale là dove osservò che `nel caso che ci occupa il rischio costituito dall'esposizione a cvm ha causato gli otto angiosarcomi contestati in tal modo dimostrando di avere idoneità lesiva dell'integrità fisica e di avere efficienza diffusiva nell'ambito della comunità dei lavoratori esposti alle alte dosi di tale sostanza e addetti alle mansioni più a rischio'''.
Nel caso Eternit, come già mesi prima nel caso Sacelit (v. Cass. 21 luglio 2014 n. 32170), la Sez. I cambia opinione:
L'art. 434, comma 2, c.p. prevede ``un'ipotesi di reato aggravato dall'evento'', e, tuttavia, in questa ipotesi, ``la data di consumazione del reato comunque coincide con il momento in cui l'evento si è realizzato'', e, dunque, con il momento in cui ``la causa imputabile ha prodotto interamente l'evento che forma oggetto della norma incriminatrice'', e, cioè, con il momento in cui la causa imputabile ha prodotto interamente ``il disastro che costituisce l'evento tipico della fattispecie dell'art. 434, comma 2, c.p.''. Il disastro, si badi, e non quindi le lesioni o morti. Il disastro da intendersi come ``fatto distruttivo di proporzioni straordinarie, qualitativamente caratterizzato dalla pericolosità per la pubblica incolumità''. Con questa conseguenza: che ``la consumazione del reato di disastro non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri e dei residui della lavorazione dell'amianto prodotti dagli stabilimenti della cui gestione è attribuita la responsabilità all'imputato: non oltre, perciò, il mese di giugno dell'anno 1986, in cui venne dichiarato il fallimento delle società del gruppo, venne meno ogni potere gestorio riferibile all'imputato e al gruppo svizzero e gli stabilimenti cessarono l'attività produttiva che aveva determinato e completato per accumulo e progressivo incessante incremento la disastrosa contaminazione dell'ambiente lavorativo e del territorio circostante''.
(Non diversa la sorte decretata da Cass. 24 ottobre 2018, n. 48548 alla condanna inflitta dai magistrati di merito in un caso di avvelenamento di acque destinate al consumo umano per effetto di rilevanti quantitativi di idrocarburi e da Cass. 19 ottobre 2018, n. 47779 in un'ipotesi di disastro ambientale per una discarica posta a venti metri di distanza da un fiume e per dispersione di piombo nel sottosuolo. In argomento, v. Cass. 19 gennaio 2018, n. 2209, relativa a una centrale termoelettrica; Cass. 29 dicembre 2017, n. 58023, in tema di rifiuti; Cass. 13 dicembre 2017, n. 55514, per omessa bonifica dello stabilimento della Isochimica; Cass. 5 ottobre 2017, n. 45836, concernente un disastro ambientale determinato dal rilascio di prodotti petroliferi e di scarico di acque reflue industriali in pubblica fognatura). In questo quadro, non desta sorpresa:
Nell'aderire all'impostazione accolta in merito al caso Eternit, la Sez. I asserisce che, ``nel delitto previsto dal capoverso dell'art. 434 c.p., il momento di consumazione del reato coincide con l'evento tipico della fattispecie e quindi con il verificarsi del disastro, da intendersi come fatto distruttivo di proporzioni straordinarie dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità, ma rispetto al quale sono effetti estranei ed ulteriori il persistere del pericolo o il suo inveramento nelle forme di una concreta lesione'', e ne ricava che ``non rilevano, ai fini dell'individuazione del `dies a quo' per la decorrenza del termine di prescrizione, eventuali successivi decessi o lesioni pur riconducibili al disastro''. Aggiunge che ``i pregiudizi effettivi per la salute di singoli individui o l'ulteriore deterioramento del sito, verificatisi successivamente al realizzarsi del disastro, non sono idonei a determinare lo slittamento in avanti del momento di decorrenza iniziale del termine prescrizionale, che va individuato nel tempo della cessazione dell'attività produttiva, dalla quale si era generata la contaminazione dell'ambiente lavorativo e del territorio circostante''. Senza che possa ``assegnarsi rilievo all'omessa bonifica del sito nel periodo successivo alla chiusura dello stabilimento''. Non solo perché ``si tratta di comportamento omissivo non contemplato nell'imputazione'', ma anche perché ``la norma incriminatrice non contempla e non punisce una condotta omissiva distinta e successiva a quella commissiva, consistente nella mancata rimozione della situazione illecita determinata, sicché ritenere la stessa implicita nella contestazione di un comportamento antigiuridico attivo comporterebbe la violazione del principio di tipicità e di tassatività, che presidiano il sistema di diritto penale sostanziale''.
Da richiamare è poi l'ampia analisi dedicata al rapporto tra il delitto di cui all'art. 434 c.p. e gli ecoreati di inquinamento e disastro ambientali previsti dagli artt. 452-bis e 452-quater c.p. In proposito, la Sez. I afferma che ``l'analisi comparativa delle fattispecie dei reati ambientali rispetto a quella di disastro innominato induce ad escludere che quest'ultima sia interessata da abrogazione espressa o implicita per effetto dell'introduzione delle nuove ipotesi di reato''. Rileva che ``l'art. 434, al comma 1, configura un delitto di attentato che anticipa la tutela rispetto al prodursi del disastro e, in riferimento all'ipotesi delineata al comma 2, nell'inserire quale evento il disastro avvenuto, pretende la verificazione di un fenomeno naturale di ampia dimensione, diffusivo e di straordinaria importanza, che pregiudica il bene protetto in misura più grave rispetto all'inquinamento significativo e misurabile dell'ambiente di cui all'art. 452-bis, caratterizzato da una portata offensiva di gran lunga inferiore rispetto al fatto disastroso, ma anche della forma di maggiore gravità prevista dall'art. 452-quater, comma 1, n. 3)''. E conclude che ``la clausola di riserva a favore dell'applicazione dell'art. 434 c.p., inserita formalmente nel solo testo dell'art. 452-quater, deve ritenersi operante anche in riferimento alla previsione dell'art. 452-bis, norma che, pertanto, non è applicabile ai processi in corso di celebrazione per fatti di disastro ambientale, commessi prima della sua entrata in vigore''. (In proposito v. anche Cass. 7 maggio 2020, n. 13843).
C) A proposito del reato di cui all'art. 450 c.p.:
Condanna per il reato di cui all'art. 450 c.p. dei proprietari per aver fatto sorgere e persistere il pericolo di frana in occasione dei lavori di realizzazione di due capannoni in cemento armato, a causa del reiterarsi di condotte omissive colpose che avevano alterato lo stato dei luoghi occupati da un ammasso di terra e roccia da scavo, ``modificando il sistema idrografico di smaltimento delle acque piovane e esponendo a pericolo gli abitanti dei fondi collocati nei piani inferiori, non essendo stata prevista, né realizzata alcuna opera idonea a contenere il materiale accatastato e a impedire allo stesso di precipitare verso valle''. La Sez. IV assolve gli imputati perché il fatto non è previsto dalla legge come reato: ``L'art. 450 c.p. riguarda i delitti colposi di mero pericolo. Tale fattispecie anticipa la tutela rispetto a quella delineata dal precedente art. 449, incriminando anche le condotte che fanno solo sorgere, o persistere, il pericolo di determinati eventi disastrosi, sanzionando alcune determinate situazioni fattuali nelle quali l'evento di pericolo, cioè il disastro quale accadimento macroscopico, non si è verificato, ma si è determinata una situazione concreta che ne ha implicato il pericolo di verificazione. L'art. 450 c.p. punisce la condotta consistita nel far sorgere o persistere, per colpa, il pericolo di un evento; l'art. 449 c.p. punisce, invece, la condotta consistita nel cagionare per colpa, non già il pericolo dell'evento, bensì l'evento. Inoltre l'art. 450 c.p. contempla quale evento solo il pericolo del disastro ferroviario, di inondazione, di naufragio o di sommersione di nave o altro edificio natante, mentre l'art. 449 c.p. contempla, quale evento, l'incendio e altro disastro preveduto dal capo primo dello stesso titolo, ovvero l'inondazione, la frana, la valanga, il naufragio la sommersione, il disastro aviatorio, il disastro ferroviario, il crollo di costruzioni e il c.d. disastro innominato. Evidentemente, il legislatore ha ritenuto che, con riferimento a tali situazioni, la tutela dei beni giuridici dovesse essere ampiamente anticipata, in considerazione degli immani rischi ad esse connessi. Nella sistematica del codice penale, è punita solo la condotta di chi cagioni una frana, intesa come evento di danno idoneo a porre concretamente in pericolo la pubblica incolumità, per dolo (art. 426 c.p.) o per colpa (art. 449 c.p.). Per scelta legislativa, stante la elencazione contenuta nell'art. 450 c.p., da ritenersi tassativa in ragione del principio di legalità, non è invece punita la condotta di chi faccia sorgere o persistere il pericolo che si verifichi una frana: la tutela anticipata rispetto ad eventi potenzialmente in grado di porre in pericolo la incolumità pubblica è stata limitata solo ad alcuni di quegli eventi, fra cui non è ricompresa la frana''.
Sul fronte dei tumori professionali, e, segnatamente, dei tumori asbesto-correlati, la Sez. IV - dopo aver confermato per oltre vent'anni una condanna dopo l'altra - dal 2016 non è stata più così implacabile (v. Cass. 21 settembre 2016 n. 5273, depositata il 3 febbraio 2017, attinente a un caso poi definito da Cass. 11 gennaio 2024 n. 1255). E non perché fosse in discussione il nesso amianto-mesotelioma, ma perché nella comunità scientifica non si sarebbe formato un sufficiente consenso con riguardo al c.d. effetto acceleratore delle esposizioni successive a quelle che hanno determinato l'insorgenza del processo patogenetico. Con una conseguenza: che i soggetti imputati nei procedimenti penali per tumori da amianto hanno spesso gestito l'azienda incriminata solo per una parte del periodo in cui i lavoratori colpiti da tumore sono stati esposti all'agente cancerogeno presso quell'azienda. Ecco quindi che, a propria discolpa, gli imputati sostengono che non è conosciuta la data di effettiva insorgenza delle patologie. E perciò, non essendo accertata la data di effettiva insorgenza delle patologie, le morti non potrebbero attribuirsi ad essi. Di qui numerose, conformi sentenze della Sezione Quarta che non affermano la responsabilità di aziende situate in diversi parti del nostro Paese. Con un ulteriore risultato: quello di produrre smarrimento tra i Pubblici Ministeri e i Giudici di merito (per un resoconto cfr. Guariniello, Due Cassazioni in tema di tumori professionali?, in Dir.prat.lav., 2022, 32-33, 2043). Tra il 2022 e il 2023, tuttavia, hanno destato interesse, in particolare, sei pronunce di condanna che sembrano segnare una ripresa della giurisprudenza di merito in tema di tumori professionali, e, in particolare, di tumori asbesto-correlati: Tribunale di Avellino 28 gennaio 2022; Tribunale di Palermo 12 aprile 2022; Corte d'Appello di Venezia 21 giugno 2022; Corte d'Assise di Napoli 22 giugno 2022; Corte d'Appello di Torino 2 maggio 2023; Corte d'Assise di Novara 7 giugno 2023. Una ripresa giurisprudenziale che a ben vedere si sviluppa sull'onda delle sentenze emesse in materia da un'altra Sezione della Cassazione, la Sez. III, ove si affaccia un orientamento contrastante con le attuali impostazioni della Sezione IV e, invece, coerenti piuttosto con la giurisprudenza della stessa Sez. IV dei precedenti vent'anni. Quella giurisprudenza secondo cui la colpa per le morti da amianto deve essere attribuita egualmente alle condotte omissive dei vari responsabili della gestione aziendale susseguitisi nel tempo, anche se per una parte soltanto del periodo di esposizione delle vittime, in quanto tali condotte riducono i tempi di latenza della malattia nel caso di patologie già insorte, oppure ne accelerano i tempi di insorgenza nel caso di patologie insorte successivamente.
A loro modo significative dal punto di vista della Sez. IV sono ultimamente queste sentenze:
Con riguardo a decessi per mesotelioma, la Sez. IV annulla con rinvio la condanna: ``La Corte d'Appello non ha minimamente affrontato la problematica dell'accertamento della causalità individuale in rapporto alla tesi del c.d. effetto acceleratore, liquidando la questione con l'affermazione che si tratterebbe di una `prova diabolica' e facendo assurgere a valore di legge universale quella che la Corte stessa definisce una legge probabilistica, in quanto risultante da dati statistici a carattere epidemiologico, e come tale necessitante di una corroborazione induttiva basata su una analisi dei dati probatori riguardanti i singoli decessi''. Quanto a un caso di decesso per tumore polmonare, conferma la condanna: ``Il decesso è da attribuire a carcinoma polmonare metastatizzato, causato da elevata esposizione ad amianto, come rivelato, secondo gli esperti, da una `ben documentata' pleuropatia benigna (placche pleuriche calcifiche) asbesto correlata; mentre la presenza di asbestosi polmonare nel paziente non viene esclusa in via assoluta. In ogni caso, le conclusioni dei periti sono inequivocabilmente nel senso che, pur tenuto conto dell'accertata qualità di fumatore del soggetto, la prolungata esposizione della vittima ad amianto ha avuto un ruolo concausale con il fumo di sigaretta nella genesi del tumore polmonare''.
Ipotesi in cui si era addebitato ai datori di lavoro di una s.p.a. ``di aver esposto i lavoratori a polveri di amianto all'interno dello stabilimento, omettendo di adottare le misure che sarebbero valse a tutelarne l'integrità fisica, sicché undici lavoratori si erano ammalati di mesotelioma; due lavoratori si erano ammalati di carcinoma polmonare, un ultimo di asbestosi''. Nel ricorrere avverso la sentenza di assoluzione di alcuni imputati per non aver commesso il fatto o per insussistenza del fatto, e di proscioglimento di altri imputati per essere estinto il reato per morte del reo, il P.M. sviluppò molteplici argomenti. Ma in uno scarno brano, la Sez. IV si limitò a ribattere testualmente: ``Ciò posto, il ricorso, il cui testo è stato supra riportato quasi integralmente, è articolato su ripetute prospettazioni meramente avversative alle argomentazioni dei giudici di merito, unico essendo il punto che può con qualche verosimiglianza dare corpo ad una censura motivazionale; ovvero l'aver applicato erroneamente il giudizio causale: ciò si tradurrebbe nella manifesta illogicità della motivazione. Vizio che però è del tutto assente, risultando piuttosto il ricorso animato da un assunto erroneo, ovvero che la Corte di appello abbia finito per il negare, affrontando l'impegno dell'accertamento della causalità individuale, proprio quella legge esplicativa di carattere generale che ha assunto di adottare''.
La Corte di Appello aveva assolto gli imputati dai reati di omicidio colposo e di lesione personale colposa consistiti in malattia professionale ai danni vuoi di dipendenti esposti ad amianto nello stabilimento di una s.p.a., vuoi di prossimi congiunti: perché il fatto non sussiste in relazione a decessi e lesioni derivate da carcinoma polmonare, adeno-carcinoma polmonare e asbestosi; per non avere commesso il fatto in relazione a decessi e lesioni derivate da mesotelioma pleurico, placche pleuriche e ispessimenti pleurici. Ed anche questa volta la Sez. IV dichiara inammissibile il ricorso del P.M., per giunta, testualmente, con le medesime parole impiegate dalla sentenza n. 6561/2023: ``Ciò posto, il ricorso, le cui ragioni di doglianza sono state riportate quasi integralmente, è articolato su ripetute prospettazioni meramente avversative alle argomentazioni dei giudici di merito, unico essendo il punto che può con qualche verosimiglianza dare corpo ad una censura motivazionale; ovvero l'aver applicato erroneamente il giudizio causale: ciò si traduce però nella manifesta illogicità della motivazione. Vizio che non poteva essere dedotto ai sensi dell'art. 608 comma 1 bis c.p.p. e che comunque risulta del tutto assente, essendo piuttosto il ricorso animato da un assunto erroneo, ovvero che la Corte di appello abbia finito per il negare, affrontando l'impegno dell'accertamento della causalità individuale, proprio quella legge esplicativa di carattere generale che il giudice distrettuale ha ritenuto non utilizzabile, quantomeno in relazione al caso in oggetto, attraverso una serie di argomenti logico giuridici puntuali e privi di fratture''.
Il socio accomandatario di un'azienda dal 1974 al 1978 era imputato della morte per mesotelioma pleurico, di una dipendente dal 1961 al 1980 addetta a telai e presse del tessuto in amianto trattato e quindi esposta ad inalazioni di amianto. Nel confermare la declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di omicidio colposo pronunciata dalla corte d'appello, la Sez. IV esclude che ``l'istituto della prescrizione si collochi al di fuori dell'ambito di applicabilità del principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole'': In quest' ottica, la prolungata inerzia dei pubblici poteri rende manifesta la mancanza di interesse, da parte dello Stato, a perseguire penalmente un determinato fatto-reato, con la inevitabile conseguenza della estinzione del reato, sancita dall'art. 157 c.p. Trascorso un certo lasso di tempo dalla commissione del fatto, stante l'attenuarsi delle esigenze di punizione, matura un diritto all'oblio in capo all'autore del reato. Proprio il contesto fenomenologico delle morti da amianto conferma, sul piano applicativo, l'esattezza dell'opzione ermeneutica in esame, poiché la rilevanza del lasso di tempo intercorrente fra la condotta e l'evento dà la misura dell'incongruità del contrario indirizzo interpretativo, in forza del quale dovrebbe trovare applicazione un regime della prescrizione derivante da una normativa introdotta talora a distanza di decenni dalla condotta incriminata e dunque in una prospettiva del tutto avulsa dall'agire dell'imputato. Né ciò comporterebbe una declaratoria di estinzione del reato pressoché generalizzata in materia di esposizione ad amianto, poiché il reato si prescrive in sette anni e sei mesi soltanto qualora il giudice di merito, nell'esercizio di un potere discrezionale, insindacabile in sede di legittimità solo se congruamente motivato, decida non solo di concedere le circostanze attenuanti generiche - o altra circostanza attenuante - ma di ritenerne la prevalenza sull'aggravante di cui all'art. 589, comma 2, c.p.''.
In linea, sul fronte dell'asbestosi:
Operaio esposto ad amianto presso un cantiere navale, dal 1965 al 1974 alle dipendenze di una cooperativa appaltatrice, e dal 1974 al 1993 in qualità di socio lavoratore di altra cooperativa. Imputato di omicidio colposo in suo danno il legale rappresentante della seconda cooperativa nel quadriennio compreso tra il 1989 ed il 1993. Tribunale e Corte di appello ritengono ``insussistente il nesso di causa tra la asbestosi polmonare da inalazione di amianto, malattia professionale, peraltro riconosciuta dall'Inail, da cui era affetto l'operaio, conclamata almeno dal 1998 e pacificamente cagionata dal protratto contatto con l'amianto, e il decesso avvenuto per collasso cardiocircolatorio all'età di quasi settantotto anni, quando era in pensione da più di venti anni''. Nel dichiarare inammissibile il ricorso del P.M. e nel rigettare il ricorso delle Parti Civili, la Sez. IV osserva, anzitutto, che ``i riferimenti delle parti civili alla giurisprudenza della Sezione Lavoro della Corte di legittimità non sono rilevanti in ragione sia delle diverse finalità dei due sistemi (penale: l'accertamento dei fatti dli reato; civile-lavoro: l'attribuzione di un indennizzo, ricorrendone le condizioni), sia delle differenti regole di valutazione da applicarsi nei processi (penale: `al di là di ogni ragionevole dubbio'; civile: `più probabile che non')''. Rimprovera poi alle parti civili di non confrontarsi con il tema della ``causalità individuale'', poiché ``il solo ricorso alla causalità generale, anche attraverso dati statistici, in ipotesi astratta, non sarebbe sufficiente'', e di essersi limitate a ``sviluppare argomenti in termini non già di vera e propria causalità in senso giuridico, ma soltanto di causalità statistico-epidemiologica, peraltro alla stregua di dati statistici che non risultano essere pacifici''. Conclusione: ``manca la prova di un nesso di causa tra asbestosi e decesso''.
Sul fronte opposto si collocano più sentenze della Sez. III. Tra le più recenti:
La Sez. IV annulla con rinvio una condanna per omicidio colposo plurimo in danno di lavoratori esposti ad amianto. In sede di rinvio, la Corte d'Appello ribadisce la condanna. Ed eloquentemente la Sez. III annulla la condanna nei confronti di un imputato deceduto, ma dichiara l'irrevocabilità della condanna di altro imputato, salvo che per la morte di due lavoratori stante l'intervenuta prescrizione del reato. Questo un brano dell'ampia motivazione: ``Deve essere qui confermato il principio in forza del quale in tema di rapporto di causalità tra esposizione ad amianto e morte del lavoratore, in mancanza di una legge scientifica di copertura universale, la legge di copertura statistica in base alla quale taluni eventi possono essere ricondotti, con elevata probabilità, a determinati antecedenti causali, rappresenta un grave indizio a sostegno del nesso eziologico, la cui rilevanza è rapportata alla significatività dei dati e alla persuasività degli studi su cui si fonda e la cui ricorrenza va verificata dal giudice nel caso concreto, mediante l'esclusione, con alta probabilità logica, dell'esistenza di fattori causali alternativi; ebbene, proprio in questi termini si è espressa la sentenza impugnata, valorizzando con adeguato argomento la legge di copertura scientifica individuata, ampiamente motivata, anche in ragione dell'assenza di fattori eziologici alternativi, dei quali l'istruttoria non ha espresso alcun segno, per quanto si ricava dallo stesso ricorso in esame''.
L'occasione è fornita da un'istanza di revisione avverso la sentenza emessa dalla Corte d'Appello in seguito alla pronuncia n. 4675/2007 della Sez. IV su Porto Marghera. In particolare, la Corte d'Appello aveva condannato, fra gli altri, un dirigente della società interessata, ``per aver cagionato colposamente, in conseguenza della omissione di cautele e di dispositivi diretti a prevenire il verificarsi di eventi tesivi esposti alta produzione del CVM-PVC, la morte di un autoclavista presso lo stabilimento deceduto per angiosarcoma epatico cagionato dalla prolungata esposizione a dosi elevate di cloruro di vinile monomero''. Di notevole rilievo è un profilo dell'istanza di revisione: ``l'esistenza di una prova scientifica nuova sopravvenuta al provvedimento definitivo'', e, segnatamente, una Consulenza Tecnica alla stregua della quale ``i più recenti studi avrebbero dimostrato che la formazione della neoplasia è originata da una combinazione di eventi puntuali e casuali che possono avere maggiori probabilità di accadere in presenza di circostanze cancerogene'', e che ``tale innovativa teoria, da un punto di vista penalistico, avrebbe determinato l'impossibilità di ricostruire `quale evento e in quale momento sia stato causato dall'agente cancerogeno', essendo ciascun periodo di esposizione caratterizzato da una probabilità di aver causato un effetto chiave nell'evoluzione della neoplasia, che sarà proporzionale alla durata e all'intensità rispetto agli altri periodo di esposizione''. Di qui ``l'impossibilità di attribuire l'insorgenza della malattia a specifiche condotte attive o omissive tenute dai soggetti succedutisi nella posizione di garanzia ognuno per un limitato periodo di tempo, con conseguente non dimostrabilità della avvenuta irreversibilità della patologia del lavoratore durante il periodo di esposizione coincidente con quello nei quale l'stante aveva ricoperto il ruolo di vice capo divisione da maggio 1971 all'ottobre 1971 e di direttore generale della divisione dall'ottobre 1971 al gennaio 1973''. Ed è proprio sulla base delle nuove teorie illustrate nella Consulenza Tecnica che, in un distinto procedimento, il tribunale aveva assolto l'istante dall'accusa di aver cagionato, per colpa, il decesso per angiosarcoma epatico di altro lavoratore con mansioni analoghe anch'egli esposto al CVM per lunghi anni. Agevole è indovinare dietro queste argomentazioni difensive l'implacabile svolta impressa dall'attuale Sez. IV negli ultimi anni sul fronte dei tumori professionali, e, in specie, dei tumori asbesto-correlati. Sul presupposto che ``nella comunità scientifica non si sarebbe formato un sufficiente consenso con riguardo all'effetto acceleratore delle esposizioni successive a quelle che hanno determinato l'insorgenza del processo patogenetico''. E con la conseguenza che ``i soggetti imputati nei procedimenti penali per tumori hanno spesso gestito l'azienda incriminata solo per una parte del periodo in cui i lavoratori colpiti da tumore sono stati esposti all'agente cancerogeno presso quell'azienda''. Ecco allora che, a propria discolpa, questi imputati sostengono che non è conosciuta la data di effettiva insorgenza delle patologie. E quindi, non essendo stata accertata la data di effettiva insorgenza delle patologie, non potrebbero essere attribuite agli imputati le morti provocate. Ben diversa la soluzione accolta dalla stessa Sez. IV nei precedenti venti anni: ``le esposizioni successive aggravano, comunque, il decorso del processo patogeno, nel senso che il protrarsi dell'esposizione riduce i tempi di latenza della malattia, nel caso di patologie già insorte, oppure accelera i tempi di insorgenza, nel caso di affezioni insorte successivamente''. E, si badi, una soluzione che, a sua volta, la Sez. III - e, quindi, la Sezione che interviene in processi per tumori nei casi in cui la Sez. IV si sia già pronunciata - sta invece attualmente perpetuando. A ben vedere, la sentenza n. 21911/2022 fornisce una conferma della linea seguita dalla Sez. III, diametralmente opposta a quella della Sez. IV. In particolare, la Sez. III rileva che ``la prospettazione della teoria illustrata dalla difesa non è in grado di scardinare il giudizio di per il quale è stata avanzata istanza di revisione''. Spiega che ``di fatto la teoria del Consulente Tecnico non solo non contesta le evidenze epidemiologiche che costituiscono un riferimento fondamentale nella ricostruzione del nesso di causalità, ma, in tema di oncogenesi, non offrono tesi idonee a individuare il meccanismo di innesco della malattia tumorale per poter conseguentemente escludere che tale attivazione sia coincisa con il periodo in cui l'imputato ricopriva le citate posizioni di garanzia''. Precisa che ``la teoria, per quanto nuova rispetto a quelle illustrate nei gradi di merito, non apporta conclusioni in grado di scardinare il ragionamento della Corte d'Appello in cui già si era chiaramente tenuto conto dell'impossibilità di individuare con certezza i tempi di sviluppo della malattia, non reputando tale elemento dirimente ai fini della prova del nesso di causalità generale''. Aggiunge che ``diverso sarebbe stato se la decisione di primo grado avesse fondato il nesso di causalità non tenendo conto delle teorie epidemiologiche e basandosi su teorie in grado di individuare con precisione il momento di innesco della malattia'', in quanto ``è evidente che in questo caso, e solo in questo caso, la prospettazione di una nuova teoria in grado di mettere in discussione un dato certo posto a fondamento della pronuncia sarebbe stata assolutamente idonea a sovvertire il giudicato''. E conclude che ``ciò non è avvenuto nel caso di specie, poiché la difesa ha prospettato una tesi che non fornisce certezze ma che, di fatto, offre un dato, quello dell'incertezza del momento di innesco della malattia, già patrimonio dei giudici di primo grado e che comunque, ricorrendo all'ausilio delle teorie epidemiologiche, non ha impedito di ritenere sussistente il nesso di causalità generale e individuale pur prescindendo dall'individuazione di un esatto momento di meccanismo di innesco della neoplasia''.
La Sez. III premette che, ``in mancanza di una legge di copertura universale che consenta di ricondurre ad una determinata causa tutti gli eventi di un certo tipo - evenienza, peraltro, tutt'altro che frequente, per non dire rara - una legge di copertura statistica impone al giudice di merito un'attenta valutazione dei singoli casi per verificare se e quali tra gli stessi possano essere spiegati alla luce di essa''. Precisa che trattasi di ``una legge statistica in base alla quale certi eventi possano essere con molta probabilità ricondotti a determinati antecedenti causali'', e che questa legge statistica ``rappresenta un grave indizio a sostegno del nesso eziologico, tanto più forte quanto più elevata è la significatività dei dati e la persuasività degli studi sui quali essa si fonda''. Spiega che ``una larga parte della letteratura scientifica è addirittura orientata nel senso che l'effetto acceleratore della cancerogenesi legata alla prolungata esposizione ad amianto sia predicabile come ineluttabile conseguenza riconducibile ad una legge scientifica universale e che quella parte di esperti che rifiuta la conclusione, non ritenendola sufficientemente dimostrata soprattutto per l'assenza di una spiegazione biologica di supporto, sostanzialmente non nega che in concreto ciò avvenga in un numero statisticamente significativo di casi''. Ne trae ``la conclusione giusta la quale la teoria dell'effetto acceleratore va interpretata come legge statistica o probabilistica che integra gli estremi di un grave indizio a sostegno della sussistenza del nesso causale''. Aggiunge che, ``per poter poi affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, la sussistenza della causalità nel singolo caso specifico con riguardo all'esposizione in determinati periodi, occorre individuare ulteriori elementi di fatto che supportino la conclusione''. Sulla scia della decisione resa da Sez. Un., 10 luglio 2002 n. 328 nel caso Franzese, sottolinea che ``la giurisprudenza di legittimità insegna che il giudizio di elevata probabilità logica costituisce il criterio con il quale il giudice deve procedere all'accertamento probatorio del nesso causale, verificando se tale legge statistica di riferimento trovi applicazione nel caso concreto di giudizio, stante l'alta probabilità logica che siano da escludere fattori causali alternativi''. Nella specie, pone in luce l'esigenza di ``valutare se possa o meno ritenersi che il mesotelioma pleurico diagnosticato al lavoratore sia esclusivamente imputabile al lavoro svolto nei primi due anni e sette mesi di esposizione professionale a fibre di amianto in azienda (per non dire, eventualmente, in epoca precedente o successiva a quel rapporto di lavoro), ovvero se sia affermabile con alta credibilità razionale, tenendo anche conto del non particolarmente elevato grado di esposizione cumulativa e del contenuto lasso temporale, che sia stata causalmente efficace anche l'esposizione avvenuta nel periodo, di apprezzabile durata rispetto a quello di occupazione complessiva, in cui gli imputati ricoprirono il ruolo di garanzia''. Non considera ``calzante il rilievo, semmai valido per gli altri lavoratori deceduti per la medesima patologia e in altre analoghe vicende non illogicamente speso, secondo cui la mancanza di prova del nesso causale può fondarsi sul fatto che gli imputati abbiano assunto la posizione di garanzia a distanza di molti anni dalla cosiddetta `iniziazione' della malattia tumorale''. Per contro, com'è possibile fare anche laddove l'accertamento con giudizio controfattuale del nesso di causalità tra condotta ed evento non sia fondato su una legge scientifica di spiegazione di natura universale o meramente statistica dovuta all'assenza di una rilevazione di frequenza dei casi esaminati, saranno utilizzabili - sempre che si superi la soglia del ragionevole dubbio - anche generalizzate massime di esperienza e del senso comune che consentano di dare un giudizio attendibile secondo criteri di elevata credibilità razionale, fondati sulla verifica, anche empirica, ma scientificamente condotta, di tutti gli elementi di giudizio disponibili, criticamente esaminati, così come potrà utilizzarsi anche un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto''.
Componenti del consiglio di amministrazione, amministratori delegati, direttori di stabilimento, in un arco temporale compreso tra l'aprile del 1972 e l'aprile del 1988 - imputati di omicidio o lesione personale colposi in danno di lavoratori esposti ad amianto - furono prosciolti in sede di rinvio dalla Corte d'Appello. Ma a sua volta la Sez. III annulla con rinvio la sentenza della corte d'appello in rapporto ad alcuni dei reati di omicidio colposo. Premette che è stato ``fortemente dibattuto nei vari giudizi il tema della riconducibilità delle patologie subite dai lavoratori all'esposizione all'amianto nello stabilimento, in particolare nei periodi in cui gli imputati hanno ricoperto cariche gestionali''. Con riguardo ai casi di tumore polmonare, rileva come ``il ragionamento seguito nella sentenza impugnata non sia immune da censure, dovendosi in primo luogo ribadire che il discostamento dalle conclusioni dei periti e la condivisione delle tesi dei consulenti della difesa, secondo cui i rischi connessi con esposizioni cumulative modeste fossero molto bassi, non risultano adeguatamente argomentati, mancando sia un riferimento alla maggiore o minore attendibilità degli studi che sorreggono le tesi antagoniste, sia un richiamo al grado di indipendenza e autorevolezza degli esperti''. E annulla la sentenza impugnata ``sul punto concernente la valutazione del nesso causale''. Quanto ai casi di mesotelioma pleurico, la Sez. III prende atto che ``è controverso il momento dell'insorgenza della patologia''. Ribadisce ``il principio secondo cui il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo, ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o anche con minore intensità lesiva''. Non esclude, quindi, che ``anche coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di causalità tra condotta ed evento''. Osserva che ``l'acquisizione della tesi della rilevanza causale di tutte le esposizioni non comporta automaticamente l'affermazione della colpevolezza di tutti i soggetti che hanno avuto ruoli apicali negli anni coincidenti con la fase di induzione, occorrendo in tal senso una valutazione attenta della durata dei singoli periodi di responsabilità, dell'incidenza degli stessi sul ciclo evolutivo della malattia e della storia lavorativa e clinica del singolo dipendente, tenendo presente altresì la tipologia dei comportamenti omessi dai soggetti investiti di ruoli operativi, dovendo cioè il giudice valutare se le condotte doverose, invero puntualmente descritte nelle imputazioni, avrebbero o meno, ed eventualmente in che misura, scongiurato l'evento lesivo o almeno ritardato significativamente il manifestarsi''. Riallacciandosi a ben vedere alla sentenza n. 4560/2018, insegna che, ``in caso di successione di posizioni di garanzia, in base al principio dell'equivalenza delle cause di cui all'art. 41 c.p., il comportamento colposo del garante sopravvenuto non è sufficiente ad interrompere il rapporto di causalità tra la violazione di una norma precauzionale operata dal primo garante e l'evento, quando tale comportamento non abbia fatto venir meno la situazione di pericolo originariamente determinata''. Pone in luce che ``tale profilo valutativo non risulta sufficientemente affrontato nella sentenza impugnata, nella quale non è stato spiegato in che senso e in che misura le esposizioni alle fibre di amianto dei lavoratori nei singoli periodi di responsabilità siano state eziologicamente irrilevanti nella formazione progressiva delle malattie''. Spiega che la corte d'appello, ``affermando che hanno valenza causale ai fini della contrazione del mesotelioma tutte le esposizioni verificatesi nella fase di induzione, ovvero fino al decennio antecedente la diagnosi clinica, avrebbe dovuto illustrare le ragioni per cui le esposizioni avvenute nei periodi in cui gli imputati erano in carica erano eziologicamente irrilevanti, risultando generica e comunque non esauriente l'affermazione secondo cui `le esposizioni più remote assumono un peso maggiore nel determinismo della malattia', non comprendendosi in che termini le esposizioni successive alle prime abbiano minore efficienza causale e dovendo in ogni caso tale postulato, da un lato, essere coordinato con il dato della lunghezza dei tempi di insorgenza della malattia e, dall'altro, essere calato nella dimensione specifica della storia clinica di ciascun lavoratore e della durata dei periodi di responsabilità, non potendosi sottacere che i relativi dati non sono tra loro omogenei''.
Resta da notare che uno spiraglio pur minimo sembra aprirsi in:
Alcuni componenti del consiglio di amministrazione di una s.p.a., imputati dei reati di omicidio colposo o lesione personale colposa in danno di più lavoratori esposti ad amianto, furono, in particolare, prosciolti per prescrizione intervenuta previa concessione delle attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante. Ricorrono per cassazione, in quanto mirano ad ottenere una sentenza irrevocabile di assoluzione avente efficacia di giudicato nel giudizio civile promosso dal danneggiato, e lamentano che ``la palese contraddittorietà della motivazione sul punto concernente la loro posizione di garanzia è idonea ad arrecare un significativo pregiudizio, ove si consideri che la dichiarazione della causa estintiva è avvenuta previa concessione delle circostanze attenuanti generiche sul presupposto della sussistenza della prova positiva della loro colpevolezza''. La Sez. IV non accoglie queste argomentazioni difensive. Prende in esame i lavoratori che avevano prestato attività lavorativa presso la s.p.a. con permanenza di almeno quattro anni successiva all'assunzione della carica di consigliere di amministrazione. Nota che ``la censura mossa dagli imputati tende a dimostrare la violazione di legge o, comunque, la manifesta contraddittorietà della motivazione relativa alle prove scientifiche concernenti il processo di cancerogenesi''. Al riguardo, osserva che ``il tema proposto attiene all'accertamento della cd. causalità individuale; ovvero della attribuzione del singolo decesso all'esposizione della persona offesa durante il tempo in cui gli imputati assunsero la posizione di garanzia''. Ribatte che ``si tratta di assunto del tutto destituito di fondamento, non riscontrandosi nel percorso motivazionale l'applicazione di teorie scientifiche diverse dalla teoria c.d. multistadio, oltre che inammissibile laddove tende ad avvalorare la tesi scientifica sostenuta dal consulente tecnico della difesa''. Segnala che ``il giudice di primo grado ha svolto ampia motivazione per giustificare le seguenti conclusioni: che la data di dismissione dell'amianto sia databile intorno al 1985; che fino a quella data l'esposizione dei lavoratori ad amianto non fosse protetta; che la tesi scientifica più attendibile in ordine al processo di cancerogenesi è quella sposata dai consulenti tecnici del pubblico ministero, confermata in dibattimento dalle deposizioni dei due periti nominati dal tribunale nei precedenti processi (teoria multistadio correlata alla dose-dipendenza); che la comunità scientifica ha individuato la durata della latenza propriamente detta in un periodo stimabile in circa 10 anni; che, in ogni caso, pur avendo rilevanza nel processo di cancerogenesi tutte le esposizioni a fibre di amianto successive alla prima, nessuna incidenza debba riconoscersi alle dosi inalate dopo l'innesco del processo di cancerogenesi irreversibile (termine della fase di induzione), nè sotto il profilo della gravità né sotto il profilo dei tempi di latenza della malattia''. Aggiunge che ``il giudice ha richiamato la giurisprudenza di legittimità per affermare l'irrilevanza della impossibilità di individuare il momento in cui si completa la fase dell'induzione ai fini dell'accertamento causale delle patologie tumorali asbesto-correlate anche qualora si sia verificato un avvicendamento nelle posizioni di garanzia, ritenendo sufficiente che il giudice accerti indici significativi secondo la legge scientifica di copertura, come la correttezza della diagnosi della patologia tumorale, l'esposizione all'agente cancerogeno e la relativa durata, l'assenza di fattori causali alternativi''. A questo punto, la Sez. IV afferma che ``il sindacato del giudice di legittimità, nel caso di ricorso proposto dall'imputato che non ha rinunciato alla prescrizione, non può spingersi oltre la verifica dell'evidenza probatoria circa l'assenza del nesso di causa tra le condotte ascritte agli imputati e gli eventi che ne sono derivati secondo l'ipotesi accusatoria'', e che ``tale evidenza probatoria non è desumibile dall'asserita opinabilità di una legge di copertura, neppure essendo consentito verificare se la teoria scientifica seguita, comunque autorevolmente proposta e condivisa dalla comunità scientifica, sia stata motivatamente falsificata, dovendosi altrimenti ammettere la possibilità, negata in premessa, dell'annullamento con rinvio della sentenza per vizio di motivazione''. Mette in rilievo che, ``nel caso concreto, non risulta alcuna certezza che, nel periodo di riferimento, l'esposizione dei lavoratori non abbia avuto incidenza sui decessi per mesotelioma, trattandosi di lavoratori che hanno prestato continuativamente la loro attività nel periodo in cui gli imputati ricoprivano la carica di consiglieri di amministrazione e che sono deceduti tutti negli anni 2009-2011''. Non considera ``corretto, in questa sede, richiamare le pronunce di legittimità nelle quali si è affrontata la questione della maggiore o minore attendibilità della tesi del c.d. effetto acceleratore sulla base dei dati relativi ai tempi di latenza in correlazione ai tempi di esposizione dei lavoratori ad amianto, essendo estranea al presente giudizio'', poiché ``manca, soprattutto, specifica evidenza che il processo patogenetico riguardante una o più tra le persone offese si sia sviluppato in un periodo significativamente più breve, tanto da consentire di datare con certezza il termine della fase di induzione in epoca antecedente agli anni 1977-1979''.
A sua volta:
Morte di alcuni dipendenti deceduti per mesotelioma pleurico, per carcinoma polmonare e per carcinoma uroteliale della vescica. La Corte d'Appello dichiara l'estinzione del reato per prescrizione. La Sez. IV rigetta i ricorsi degli imputati: ``Il percorso logico-giuridico seguito dal giudice di primo grado per collegare l'evento morte dei lavoratori a una patologia da esposizione professionale ad agenti cancerogeni, che non può essere intaccato in questa sede in ragione dei limiti del sindacato del giudice di legittimità sulla sentenza d'improcedibilità per prescrizione del reato, è stato fatto proprio dalla Corte d'Appello laddove ha escluso l'evidenza della prova dell'insussistenza del nesso causale; tale percorso logico-giuridico non presenta il vizio denunciato. In esso si ravvisa l'indicazione ex ante delle leggi scientifiche applicabili, l'inferenza induttiva ex post dell'inscrivibilità del caso concreto, con razionale certezza, entro l'ambito di operatività di quelle leggi e l'insussistenza di valide ipotesi alternative. Seppur con l'insopprimibile margine di incertezza che caratterizza il giudizio regolato da leggi di copertura non universali, e con la complessità dei giudizi concernenti l'eziopatogenesi di malattie multifattoriali, il caso in esame è ben lungi dall'offrire quell'evidenza dell'assenza di prove circa il nesso causale tra condotte contestate ed evento o della presenza di prove positive dell'operatività autonoma di fattori alternativi tali da condurre all'esito assolutorio in questa sede richiesto''.
Primo chiarimento: l'omissione dolosa di cautele antinfortunistiche è ``un reato proprio che può essere commesso da chiunque ricopra la posizione di garanzia, indipendentemente dalle attribuzioni formali, sicché resta necessario che, a fondamento della responsabilità, sussista l'obbligo di approntare le misure la cui mancata adozione determina la violazione della fattispecie incriminatrice in discorso''.
Inoltre, sotto il profilo dell'elemento psicologico, la Sez. I pone in risalto ``la preordinazione e la spregiudicatezza con la quale l'imputato ha assunto i lavori e le maestranze, senza preoccuparsi della palese mancanza di qualsivoglia misura di prevenzione degli infortuni, circostanza che risulta, oltre che dalle dichiarazioni dei dipendenti, anche dai numerosi rilievi e accessi effettuati dalla polizia giudiziaria'', e nota che, ``in tutto il periodo in cui il cantiere è stato monitorato, nel corso del quale si sono succedute varie imprese tutte riferibili agli imputati, è stata rilevata la già indicata assoluta carenza di misure preventive''.
E ancora: ``il reato di cui all'art. 437, comma 1, c.p., ove la condotta consista nell'omissione (e non nella rimozione) di cautele contro infortuni sul lavoro, ha natura permanente, e la permanenza cessa quando il dispositivo omesso sia collocato o non sia più utilmente collocabile ovvero, trattandosi di reato proprio, quando la posizione di garanzia venga dismessa'', e ``perciò, almeno fino al definitivo sequestro del cantiere, sussiste la permanenza della condotta omissiva ascritta''.
Quarto insegnamento: ``ai fini della configurabilità dell'ipotesi delittuosa descritta dall'art. 437 c.p., è necessario che l'omissione, la rimozione o il danneggiamento dolosi degli impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire infortuni sul lavoro si inserisca in un contesto imprenditoriale nel quale la mancanza o l'inefficienza di quei presidi antinfortunistici abbia l'attitudine, almeno in via astratta, a pregiudicare l'integrità fisica di una collettività di lavoratori, o, comunque, di un numero di persone gravitanti attorno all'ambiente di lavoro sufficiente a realizzare la condizione di una indeterminata estensione del pericolo''. Con riguardo al caso di specie, si osserva che ``nel cantiere si avvicendavano per un ampio periodo di tempo molti operai, anche di imprese diverse, tutti privi di dispositivi personali di protezione, chiamati a operare senza parapetti, cinture di sicurezza, sistemi antifolgorazione e caduta, nonché privi di alcuna informazione e formazione sui rischi specifici delle opere in corso di realizzazione''.
È da notare che la giurisprudenza appariva divisa su un delicato problema interpretativo: per la configurabilità del delitto di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche descritto dall'art. 437 c.p., occorre che il pericolo di infortunio sul lavoro investa un numero rilevante di lavoratori (o comunque di persone gravitanti attorno all'ambiente di lavoro), o è sufficiente che minacci un numero anche limitato, esiguo, di soggetti, o persino un unico individuo? Nella sentenza del 2 maggio 2016, n. 18168. la Sez. I precisò che ``per la configurabilità del reato di cui all'art. 437 c.p., il pericolo presunto che la norma in esame intende prevenire non deve necessariamente interessare la collettività dei cittadini o, comunque, un numero rilevante di persone, potendo esso riguardare anche gli operai di una piccola fabbrica, in quanto questa norma prevede anche il pericolo di semplici infortuni individuali sul lavoro e tutela anche l'incolumità dei singoli lavoratori''. Nello stesso senso si espresse la Sez. IV nella sentenza del 28 dicembre 2017 n. 57673: ``la norma di cui all'art. 437 c.p. è diretta alla tutela della pubblica incolumità contro eventi lesivi che possono verificarsi nello specifico ambiente di lavoro, per effetto di omissioni, rimozioni o danneggiamenti di apparecchi antinfortunistici, e comprende tra gli anzidetti eventi lesivi non solo il disastro, ma anche il semplice infortunio individuale: poiché in materia di prevenzione degli infortuni il concetto della pubblica incolumità è caratterizzato dall'indeterminatezza delle persone e non dal numero rilevante di esse che si possono trovare in una situazione di pericolo, la tutela concerne anche gli operai di una piccola fabbrica ed il delitto deve considerarsi realizzato anche nel caso in cui la situazione di pericolo possa coinvolgere la sola persona che si trovi ad essere addetta alla macchina priva di dispositivi e congegni atti a prevenire gli infortuni''. Di opposto avviso fu la Sez. I nella sentenza n. 4890 del 31 gennaio 2019. Osservò: ``la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato che è necessario, per la configurabilità dell'ipotesi delittuosa descritta dall'art. 437 c.p., che l'omissione, la rimozione o il danneggiamento dolosi degli impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro inserisca in un contesto imprenditoriale nel quale la mancanza o l'inefficienza di quei presidi antinfortunistici abbia l'attitudine, almeno astratta, anche se non abbisognevole di concreta verifica, a pregiudicare l'integrità fisica di una collettività lavorativa, intesa come un numero di lavoratori (o comunque di persone gravitanti attorno all'ambiente di lavoro) sufficiente, secondo l'apprezzamento del giudice di merito, a realizzare la condizione di una indeterminata estensione del pericolo, senza di che mancherebbe in radice la possibilità di una offesa al bene giuridico tutelato''. Sorprendentemente, richiamò a proprio favore la sentenza del 2 maggio 2016, n. 18168, sostenendo che, stando a questa sentenza, ``è presupposto per la configurabilità della ipotesi delittuosa descritta dall'art. 437 c.p. l'attitudine, almeno astratta, dei presidi antinfortunistici, la cui mancanza ovvero inefficienza dolosa sia in discussione, a pregiudicare l'integrità fisica di una collettività lavorativa, e la cui verifica costituisce oggetto di una indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità''. Asserì che ``a detto indirizzo, neppure contrastato argomentativamente da diverso successivo orientamento (tale non potendo ritenersi Sez. IV, n. 57673 del 28 dicembre 2017, che ne ha omesso ogni critico cenno), deve darsi convinta continuità, implicando il delitto di cui all'art. 437 c.p., come tutti i delitti previsti nel titolo sesto del libro secondo del detto codice, per la integrazione della fattispecie delittuosa ivi descritta, secondo condivisi principi, la sussistenza, sia pure in astratto, di un pericolo per la pubblica incolumità, nella misura in cui il comportamento addebitato al giudicabile risulti atto a mettere a repentaglio la vita o la integrità fisica di una comunità o collettività di persone, e dovendo, per l'effetto, apprezzarsi la direzione della condotta di omissione, rimozione o danneggiamento doloso di impianti, apparecchi, segnali, destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, in rapporto a una collettività lavorativa, intesa come un numero di lavoratori (o comunque di persone gravitanti attorno all'ambiente di lavoro) sufficiente a realizzare la condizione di una indeterminata estensione del pericolo sì da delinearsi la specificità della previsione normativa rispetto al disastro innominato (`altro disastro'), previsto con carattere integrativo dei vuoti di tutela dall'art. 434 c.p. e con il quale può comunque logicamente concorrere, essendo dei due reati, peraltro diversamente puniti, l'uno (ex art. 437 c.p.) destinato a prevenire il pericolo per la pubblica incolumità per una collettività lavorativa e l'altro (ex art. 434 c.p.) all'esterno dell'ambiente di lavoro''. Sostenne che ``tale approccio interpretativo è stato contrastato sulla base del rilievo che il pericolo presunto che la ridetta norma intende prevenire non deve necessariamente interessare la collettività dei cittadini o, comunque, un numero rilevante di persone, potendo esso riguardare anche gli operai di una piccola fabbrica, in quanto la norma prevede anche il pericolo di semplici infortuni individuali sul lavoro e tutela anche l'incolumità dei singoli lavoratori''. Osservò che, ``nel prendere atto di detto contrasto, questa Corte ha riaffermato che è presupposto per la configurabilità della ipotesi delittuosa descritta dall'art. 437 c.p. l'attitudine, almeno astratta, dei presidi antinfortunistici, la cui mancanza ovvero inefficienza dolosa sia in discussione, a pregiudicare l'integrità fisica di una collettività lavorativa''. In questo quadro contrastato, si collocano:
L'ipotesi è quella in cui la misura cautelare del divieto di esercitare per la durata di sei mesi determinate funzioni all'interno di entità imprenditoriali adottata dal GIP nei confronti di un datore di lavoro edile indagato per il reato di cui all'art. 437 c.p. era stata annullata dal Tribunale del riesame sul presupposto che in un cantiere avente per oggetto lavori di smantellamento del tetto spiovente di un fabbricato risultava messa in pericolo l'integrità fisica di uno o, al più, due lavoratori. In seguito a ricorso del P.M., la Sez. I opta per l'indirizzo che ritiene ``necessario che l'omissione, la rimozione o il danneggiamento dolosi degli impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire infortuni sul lavoro si inserisca in un contesto imprenditoriale nel quale la mancanza o l'inefficienza di quei presidi antinfortunistici abbia l'attitudine, almeno in via astratta, a pregiudicare l'integrità fisica di una collettività di lavoratori, o, comunque, di un numero di persone gravitanti attorno all'ambiente di lavoro sufficiente a realizzare la condizione di una indeterminata estensione del pericolo''. E rileva come ``tale indirizzo, che assegna centrale rilevanza al carattere di diffusività del pericolo derivante dalla rimozione od omissione di apparecchi destinati a prevenire infortuni sul lavoro, deve essere preferito a quello, che pure ha trovato eco, ancora in tempi non remoti, presso la Corte di cassazione, che riconosce penale rilevanza anche alle condotte che, attraverso la violazione della normativa prevenzionale, abbiano messo a repentaglio l'incolumità di un singolo lavoratore''. Si riferisce in proposito alla ``dichiarata finalità cautelare ed alla collocazione sistematica della disposizione, la cui interpretazione deve essere parametrata all'astratta attitudine della condotta illecita a provocare l'esposizione a pericolo della pubblica incolumità e ad amplificare, per tale via, il rischio, non più circoscritto ad uno o più soggetti e diretto, invero, nei confronti di un'intera, ancorché, se del caso, numericamente contenuta, comunità di lavoratori''. E ne ricava che ``l'indagine demandata all'ermeneuta deve essere svolta sul piano della potenziale offensività del comportamento irrispettoso della normativa prevenzionale - in chiave, essenzialmente, di sua attitudine ad attingere tutti coloro che, a diverso titolo, vengano a contatto con quell'ambiente lavorativo - piuttosto che su quello della individuazione della platea dei soggetti materialmente coinvolti''. Peraltro, la Sez. I non è convinta dalla ``precipua rilevanza attribuita dal Tribunale del riesame al riscontrato coinvolgimento, nelle opere di ristrutturazione del tetto del fabbricato di due soli lavoratori'', e dalla esclusione che ``altri soggetti - dipendenti dell'impresa gestita dall'indagato ovvero persone che, per altre ragioni, avessero avuto occasione di transitare nei pressi del cantiere - potessero restare esposti ai rischi derivanti dalla trasgressione alla normativa antinfortunistica''. E sviluppa una analisi di particolare interesse, proficua anche al di là del caso specifico. Invero, rimprovera al tribunale del riesame di aver ``trascurato, per un verso, la gravità delle riscontrate carenze, talune delle quali suscettibili di arrecare pregiudizio anche a soggetti estranei all'impresa appaltatrice'' (ad esempio, la scala metallica utilizzata per l'accesso al piano sottotetto, che, per la mancanza di fissaggi e di dispositivi antiscivolo, avrebbe potuto essere rovesciata all'indietro con una lieve spinta della mano, ovvero l'assenza di parapetti, che avrebbe potuto agevolare la caduta di materiali, oggetti e persone, o, ancora, l'assenza di recinzione, tale da consentire a chiunque l'accesso al cantiere nel quale si svolgeva attività obiettivamente pericolosa). Aggiunge che ``la diffusione del pericolo nei confronti di un numero indeterminato di persone risulta, per altro verso, più concreta a cagione dell'insistenza, nella stessa struttura, di un locale aperto al pubblico, una palestra, e dell'ubicazione del fabbricato nel centro storico, zona, deve logicamente presumersi, interessata da un intenso afflusso di persone''. Sottolinea ancora che ``nella stessa direzione militano, ancora, la consistenza, tutt'altro che minimale, delle opere appaltate e la gravità ed estensione delle violazioni - anche in termini di omessa valutazione del rischio elettrico e carente informazione e formazione dei lavoratori occupati in cantiere - per porre rimedio alle quali furono impartite prescrizioni severe e radicali''. In questa cornice, la Sez. I afferma che, ``l'attribuzione di portata decisiva, nel contesto di una delibazione orientata al riscontro di gravi indizi di colpevolezza, al numero degli operai che, il giorno dell'accesso ispettivo e quello precedente, hanno curato l'esecuzione delle opere si pone in contrasto con la richiamata esegesi dell'istituto, che impone un vaglio globale ed unitario, che tenga conto di tutte le evidenze disponibili, ivi compresa la complessiva entità della forza lavoro della quale l'impresa poteva disporre ben superiore - deve ragionevolmente inferirsi, atteso l'impegno successivamente profuso per riportare la legalità nel cantiere ed ottenerne, nel più breve tempo possibile, il dissequestro - a quella indicata dal tribunale del riesame''. Con riferimento poi alla palestra posta al primo piano dello stabile, non ritiene che possa ``assegnarsi significativa rilevanza alla contingente chiusura determinata dall'emergenza pandemica, condizione eccezionale e transeunte, ovvero alla precisa individuazione del punto di accesso a quel locale ed al tragitto da compiere per entrare all'interno del cantiere, circostanze che non interferiscono con la questione di centrale importanza, che attiene alla conclamata possibilità che un numero imprecisato, e potenzialmente elevato, di terzi, quali il personale e gli utenti di una struttura sportiva sita nel centro di una cittadina, restasse esposto al pericolo derivante dall'omissione di fondamentali presidi di sicurezza, tra cui la recinzione dell'area, la collocazione di parapetti, il fissaggio della scala''.
``Laddove l'impianto o l'apparecchiatura difettante delle cautele destinate a prevenire infortuni, per la volontaria omissione o rimozione delle medesime, non preveda l'utilizzazione contemporanea da parte di una pluralità di lavoratori o non sia idonea a sprigionare una forza dirompente, in grado di coinvolgere numerose persone, in un modo che non è precisamente definibile o calcolabile, il reato di cui all'art. 437 c.p. non può ritenersi integrato perché non è configurabile il pericolo comune, non avendo l'azione criminosa l'attitudine a coinvolgere una molteplicità di individui''. Nel caso di specie, si esclude ``la configurabilità del reato contestato, contrariamente a quanto ritenuto dalla decisione impugnata, in un'ipotesi in cui al macchinario, privato della cautele antinfortunistiche, sia destinato un lavoratore per turno''.
La Sez. I afferma che, ``secondo il condiviso indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità dell'art. 437 c.p., è necessario che l'omissione, la rimozione o il danneggiamento dolosi degli impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire infortuni sul lavoro si inserisca in un contesto imprenditoriale nel quale la mancanza o l'inefficienza di quei presidi antinfortunistici abbia l'attitudine, almeno astratta, anche se non bisognevole di concreta verifica, a pregiudicare l'integrità fisica di una collettività di lavoratori, o, comunque, di persone gravitanti attorno all'ambiente di lavoro''. Evoca a proprio sostegno sia esattamente la n. 4890/2019, sia impropriamente la n. 18168/2026. E con riguardo al caso di specie, prende atto che ``la condotta omissiva dell'imputato, consistita nella mancata adozione dei dispositivi di protezione, emergenza e riparo, destinati a prevenire infortuni sul lavoro, specie in relazione alle attrezzature meccaniche, persistente nonostante le espresse prescrizioni emanate in vista della loro regolarizzazione e, dunque, volontaria, integrava un inadempimento sicuramente idoneo a pregiudicare l'integrità fisica dei lavoratori addetti alle lavorazioni effettuate sui macchinari presenti nello stabilimento, e ciò indipendentemente dalla effettiva verificazione, a loro danno, di eventi infortunistici''.
Di particolare interesse sono:
Condannato per il delitto di cui all'art. 437 c.p. per ``la rimozione di un apparecchio destinato alla prevenzione di disastri o infortuni sul lavoro e, segnatamente, di un estintore allocato nell'area di servizio carburanti'' situato su una strada provinciale, l'imputato che, nel caso di specie, ``difetterebbe l'elemento del pericolo per l'incolumità pubblica''. La Sez. I accoglie la tesi per cui ``ai fini della configurabilità dell' ipotesi delittuosa descritta dall'art. 437 c.p., è necessario che l'omissione, la rimozione o il danneggiamento dolosi degli impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire infortuni sul lavoro si inserisca in un contesto imprenditoriale nel quale la mancanza o l'inefficienza di quei presidi antinfortunistici abbia l'attitudine, almeno in via astratta, a pregiudicare l'integrità fisica di una collettività di lavoratori, o, comunque, di un numero di persone gravitanti attorno all'ambiente di lavoro sufficiente a realizzare la condizione di una indeterminata estensione del pericolo''. Tuttavia, con riguardo al caso di specie, afferma che ``l'asportazione dal distributore di carburante anche di un solo estintore, sicuro presidio indispensabile alla sicurezza del luogo sotto il profilo della prevenzione d'incendi, era senz'altro idoneo - quanto meno in via astratta - a pregiudicare l'integrità fisica dei lavoratori e di tutte le persone gravitanti attorno a quell'area o che avevano accesso, trattandosi di un luogo caratterizzato da elevatissima concentrazione di sostanze infiammabili''. E aggiunge che ``si trattava di un distributore di carburante situato su una strada provinciale, a traffico veicolare ordinario''.
Il caso riguarda il datore di lavoro di un magazzino che, nonostante i provvedimenti prescrittivi adottati nei suoi confronti, aveva omesso di collocare idonea cartellonistica relativa ai carichi di alcuni scaffali e alle emergenze antincendio, mezzi e impianti di estinzione, uscite di emergenza adeguate. A sua discolpa, l'imputato deduce che ``non sussisterebbe alcun pericolo per una pluralità di persone''. Ma la Sez. I rigetta il ricorso. Prende atto che, nel magazzino, ``avevano avuto e avevano accesso anche altre e diverse persone'', in rapporto ``alle necessità connesse al trasporto e allo scarico delle merci pesanti e ingombranti all'interno del magazzino e, da ultimo, anche all'ingresso di estranei, come in effetti in concreto avvenuto alla presenza dei tecnici della S.Pre.S.A.L., pure presenti all'interno del magazzino per motivi di servizio''. E pertanto condivide l'interpretazione accolta dai magistrati di merito: ``il delitto, posto a tutela dell'incolumità pubblica, è configurabile ogni volta che possa prefigurarsi un pericolo anche per terzi, estranei all'impresa, che dovessero accidentalmente accedere ai luoghi di lavoro''.
Con riguardo al delitto di cui all'art. 437 c.p., fanno spicco le drammatiche vicende esplorate da:
Nell'occuparsi dell'evento accaduto sulla funivia che collega Stresa al Mottarone, la Sez. I rileva come ``un primo indirizzo, che pure ha trovato eco, ancora in tempi non remoti, presso la Corte di Cassazione, riconosce penale rilevanza anche alle condotte che, attraverso la violazione della normativa prevenzionale, abbiano messo a repentaglio l'incolumità di un singolo lavoratore''. Aderisce, però, all'indirizzo che ``assegna centrale rilevanza al carattere di diffusività del pericolo derivante dalla rimozione od omissione di apparecchi destinati a prevenire infortuni sul lavoro'', e, dunque, all'indirizzo per cui ``ai fini della configurabilità dell'ipotesi delittuosa descritta dall'art. 437 c.p., è necessario che l'omissione, la rimozione o il danneggiamento dolosi degli impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire infortuni sul lavoro si inserisca in un contesto imprenditoriale nel quale la mancanza o l'inefficienza di quei presidi antinfortunistici abbia l'attitudine, almeno in via astratta, a pregiudicare l'integrità fisica di una collettività di lavoratori, o, comunque, di un numero di persone gravitanti attorno all'ambiente di lavoro sufficiente a realizzare la condizione di una indeterminata estensione del pericolo''. E ciò ``in ragione, tra l'altro, della dichiarata finalità cautelare e della collocazione sistematica della disposizione, la cui interpretazione deve essere parametrata all'astratta attitudine della condotta illecita a provocare l'esposizione a pericolo della pubblica incolumità e ad amplificare, per tale via, il rischio, non più circoscritto ad uno o più soggetti e diretto, invero, nei confronti di un'intera, ancorché, se del caso, numericamente contenuta, comunità di lavoratori''. Ne desume che ``l'indagine demandata all'ermeneuta deve essere svolta sul piano della potenziale offensività del comportamento irrispettoso della normativa prevenzionale in chiave, essenzialmente, di sua attitudine ad attingere tutti coloro che, a diverso titolo, vengano a contatto con quell'ambiente lavorativo, piuttosto che su quello della individuazione della platea dei soggetti materialmente coinvolti''. Con riguardo al caso di specie, prende atto che ``la cabina veniva regolarmente utilizzata, oltre che da turisti e viaggiatori, dai dipendenti della s.r.l. per i giri di prova, le verifiche di funzionalità, gli spostamenti dall'una all'altra postazione e delle ditte incaricate della manutenzione, onde è dato senz'altro apprezzarsi la sussistenza del carattere di diffusività del pericolo creato mediante la volontaria, e illecita, omissione delle cautele prescritte''.
``Presso il capannone di un'impresa sita in Prato, due cittadine cinesi avevano preso in locazione da una s.a.s. un locale adibito non solo a unità produttiva, ma altresì ad alloggio degli operai, essendovi stati realizzati locali dormitorio loro destinati, in assenza di autorizzazioni amministrative e in violazione di quanto disposto dalla normativa in materia prevenzionistica e antincendio; molti di questi operai erano, inoltre, irregolari sul territorio italiano in quanto sprovvisti di permesso di soggiorno, ed erano retribuiti con salari di gran lunga inferiori a quelli minimi previsti dai contratti collettivi di settore, oltreché costretti a sostenere orari e turni di lavoro assolutamente inconciliabili con le disposizioni a tutela dei lavoratori. In dipendenza delle suddette violazioni di norme prevenzionistiche, si venivano a determinare le condizioni per lo sprigionarsi di un incendio, verosimilmente a causa di un malfunzionamento dell'impianto elettrico, in prossimità della scala d'accesso al soppalco-dormitorio'', Le due gestrici dell'impresa (l'una titolare di fatto, l'altra vicaria della sorella) vengono condannate l'una per omissione dolosa di cautele antinfortunistiche e l'altra per omissione colposa in essa assorbito l'incendio colposo, nonché entrambe per favoreggiamento di permanenza illegale di soggetti clandestini a fine di ingiusto profitto e omicidio colposo in danno di sette operai impiegati presso la suddetta impresa in conseguenza di asfissia acuta da intossicazione di monossido di carbonio e/o da cianuri, e infine la prima per incendio colposo.
Quanto al reato di cui all'art. 437 c.p., la Sez. IV osserva: ``Era onere della titolare, nella sua posizione datoriale, di verificare le condizioni dei locali della ditta sotto il profilo del rispetto della normativa prevenzionistica. Ella aveva conferito incarico professionale a soggetti tecnici qualificati per la verifica di eventuali rischi d'incendio, in esito al quale fu redatta una relazione che necessariamente le fu consegnata, quale soggetto che conferì l'incarico. Nella sua condotta devono dunque ravvisarsi gli estremi del dolo generico del delitto di cui all'art. 437 c.p., inteso come coscienza e volontà di omettere le cautele dovute e della destinazione di dette cautele, e dunque come rappresentazione della presenza di violazioni alla normativa suddetta e come accettazione dei rischi connessi, consentendo l'operatività dello stabilimento nelle condizioni date''.
Con riguardo alla ``vicaria'', la Sez. IV sottolinea ``le mansioni espletate dalla `vicaria' in loco della sorella maggiore, con compiti di reclutamento di lavoratori per esigenze straordinarie e di vigilanza sull'esecuzione delle direttive datoriali. Una posizione de facto rapportabile a quella del dirigente, che in base alla definizione datane dall'art. 2, comma 1, lettera d), D.Lgs. n. 81/2008, è la `persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa'; trattasi di un soggetto che si colloca ad un livello di responsabilità intermedio che dirige appunto, ad un qualche livello, l'attività lavorativa, un suo settore o una sua articolazione. Tale soggetto non porta le responsabilità inerenti alle scelte gestionali generali; ma ha poteri posti ad un livello inferiore: il fatto che in diversi casi si tratti di soggetti provvisti di potere di spesa non costituisce requisito ineludibile della posizione dirigenziale (ed invero, in plurime pronunzie della Corte di legittimità si afferma che la figura del dirigente dispone `solitamente' - e dunque non necessariamente - di siffatto potere). In forza di tale posizione, deve ritenersi corretta l'attribuzione alla vicaria del ruolo di garante ai fini della prevenzione degli infortuni, anche attraverso la segnalazione dei rischi presenti nell'ambiente di lavoro, atteso che, in base al principio di effettività, assume la posizione di garante colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto''.
Altra notazione è che ``l'avere preso in locazione un capannone che già in origine presentava evidenti lacune sotto il profilo dell'osservanza delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro (anche sotto il profilo del rischio incendi) e di sicurezza dei lavoratori non esimeva di certo le due imputate (non solo la titolare di fatto della ditta, ma anche la sorella e vicaria) dall'obbligo di riportare a norma i luoghi di lavoro ove si svolgeva l'attività dell'impresa ed in cui lavoravano, e addirittura vivevano, diversi operai. Del resto è censurabile in sede penale la condotta del datore di lavoro che, avendo ricevuto in locazione i locali in cui si svolge la prestazione lavorativa, ometta di mantenere in buono stato di conservazione e di efficienza tali luoghi, a meno che non dimostri che l'esecuzione degli interventi di adeguamento sia stata resa impossibile dal comportamento del locatore. Nella specie, quindi, era onere delle imputate (quanto meno) quello di assumere preventivamente informazioni circa la rispondenza alla normativa prevenzionistica dei locali adibiti a luogo di lavoro e, quindi, di procedere ai necessari adeguamenti a tal fine''.
D'altra parte, in ordine alla presunta ignoranza, da parte della titolare, delle violazioni della normativa antinfortunistica, la Sez. IV rileva che ``non è in alcun modo configurabile nella specie un'ipotesi di `ignoranza inevitabile' della legge penale (o delle disposizioni extrapenali di riferimento): è ben vero che, a seguito della sentenza 23 marzo 1988 n. 364 della Corte Costituzionale, l'ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l'autore dell'illecito; tuttavia, la giurisprudenza anche apicale di legittimità afferma che, per il comune cittadino, tale condizione è sussistente solo qualora egli abbia assolto, con il criterio dell'ordinaria diligenza, al cosiddetto `dovere di informazione', attraverso l'espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia: obbligo particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell'illecito anche in virtù di una culpa levis nello svolgimento dell'indagine giuridica. Per l'affermazione della scusabilità dell'ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l'agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell'interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto. L'ipotesi di un soggetto sano e maturo di mente che commetta fatti criminosi ignorandone la antigiuridicità è concepibile soltanto quando si tratti di reati che, sebbene presentino un generico disvalore sociale, non siano sempre e dovunque previsti come illeciti penali, ovvero di reati che non presentino neppure un generico disvalore sociale. Ora, pur a fronte della condizione di straniera alloglotta, la titolare era - da un lato - dimorante in Italia da diversi anni e - dall'altro - aveva deliberatamente deciso di intraprendere l'esercizio di un'attività produttiva, assumendosene non solo gli oneri e i rischi economici, ma anche i correlativi doveri nei confronti dei dipendenti, ivi compresi quelli in tema di sicurezza e prevenzione degli infortuni; di tal che era onere della stessa attivarsi perché, nei locali della sua azienda, si operasse in sicurezza e si prevenissero i rischi connessi a infortuni o a incendi, attraverso l'adeguamento dei locali stessi alla vigente normativa''.
Infine, ``l'approfittamento della condizione di clandestinità di almeno una parte dei dipendenti della ditta, in base al quale venivano imposte condizioni di lavoro ed economiche comunque ben al disotto del normale sinallagma, integra in effetti il dolo specifico del fine di trarre un ingiusto profitto dallo stato di illegalità dei cittadini stranieri, situazione questa che si realizza quando l'agente, approfittando di tale stato, imponga condizioni particolarmente onerose; e non è escluso dal fatto che analoghe condizioni sarebbero state praticate anche nei confronti di dipendenti in regola con ii permesso di soggiorno. Il fatto che venissero oggettivamente sfruttati anche gli operai regolari sul territorio significa unicamente che vi era un identico, disumano trattamento tra tutti i lavoratori operanti nel capannone e che, tra le ragioni che concorrevano a consentire alle imputate di praticare condizioni retributive e contrattuali estremamente onerose, e che inducevano i lavoratori ad accettare tali condizioni, vi era certamente anche la situazione di clandestinità di molti tra gli operai assunti''.
V., inoltre:
In precedenza, Cass. 12 novembre 2019, n. 45935 prese in considerazione la morte o la malattia professionale di sedici lavoratori esposti a una particolare miscela di elementi dannosi per la salute costituita da acidi tossici, apirolo, diossina, amianto, polveri sottili e sottilissime, carbone, silice, ferro, IPA, metalli pesanti, solidi e inerti, PCB, mercurio, anidride carbonica e fibrosanti; e, inoltre, il decesso di altri quindici lavoratori esposti ad amianto e deceduti per mesotelioma pleurico, mesotelioma peritoneale o cancro al polmone. E annullò con rinvio la condanna inflitta dalla corte d'appello per omicidio colposo. Nell'occuparsi della medesima azienda, la Sez. IV proscioglie un imputato dal reato di omicidio colposo in danno di due lavoratori perché il fatto non sussiste, e il medesimo e altro imputato dal reato di cui all'art. 437, comma 1, c.p. per prescrizione. A questo secondo riguardo, la Sez. IV afferma: ``Il reato di cui all'art. 437, comma 1, c.p., ove la condotta consista nell'omissione (e non nella rimozione) di cautele contro infortuni sul lavoro, ha natura permanente, e la permanenza cessa quando il dispositivo omesso sia collocato o non sia più utilmente collocabile ovvero, trattandosi di reato proprio, quando la posizione di garanzia venga dismessa. Solo da tali momenti può iniziare a decorrere il termine di prescrizione. Il principio di diritto affermato dalla sentenza n. 45935/2019 relativa agli altri coimputati, con riferimento all'individuazione del dies a quo del termine di prescrizione, non risulta pertinente, in quanto relativo alla diversa fattispecie di cui all'art. 437, comma 2, c.p. (omissione dolosa di cautele antinfortunistiche aggravata da disastro colposo e/o da infortuni)''. Peraltro, perviene egualmente al proscioglimento per prescrizione del reato: con riguardo a un imputato sul presupposto che nel caso ``l'imputazione indica il tempus commissi delicti con la precisazione della data di cessazione della condotta illecita, e, quindi, il dies a quo del termine di prescrizione coincide con la data finale della contestazione; e con riguardo all'altro imputato, tenuto conto della sua cessazione dalla carica''.
B) Del pari laborioso è il proscioglimento di un imputato dal reato di omicidio colposo. In proposito, su ricorso del pubblico ministero, la Sez. IV critica aspramente l'assoluzione per non aver commesso il fatto pronunciata dalla corte d'appello. Infatti, osserva che, ``nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia''. Spiega che,'' in tema di sicurezza e di igiene del lavoro, nelle società di capitali il datore di lavoro si identifica con i soggetti effettivamente titolari dei poteri decisionali e di spesa all'interno dell'azienda e, cioè, con i vertici dell'azienda stessa, ovvero col presidente del consiglio di amministrazione o amministratore delegato o componente del consiglio di amministrazione cui siano state attribuite le relative funzioni''. Rileva che ``la delega di gestione conferita ad uno o più amministratori, se specifica e comprensiva dei poteri di deliberazione e spesa, può ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del consiglio, ma non escluderla interamente, poiché non possono, comunque, essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso di mancato esercizio della delega''. Nel caso di specie, richiama il ``ruolo dell'imputato di vice-presidente della società, di membro del consiglio di amministrazione e la specifica delega, in materia di sicurezza del lavoro, risultante dal verbale del consiglio di amministrazione''. Fatto sta, peraltro, che la Sez. IV annulla, sì, la sentenza pronunciata dalla corte d'appello per non aver commesso il fatto, ma senza rinvio perché il fatto non sussiste ``per difetto del nesso causale tra la condotta contestata ed il decesso dei due lavoratori''.
Infortunio nel reparto fonderia di uno stabilimento a tre lavoratori, uno deceduto, intenti alla rimozione dei residui della colata di alluminio solidificatisi all'interno del pozzo di raffreddamento del processo di fusione e ustionati a causa di un'esplosione. Per omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, oltre che per omicidio e lesioni personali colpose, furono condannati l'amministratore unico della s.p.a. esercente lo stabilimento e il capo reparto manutenzione. A propria discolpa, gli imputati lamentano, in particolare, che ``l'unico argomento dedotto a supporto della natura dolosa delle omissioni era costituito dall'accadimento di altri infortuni nel passato'', che ``non era stata omessa alcuna collocazione di apparecchi strutturalmente predisposti a prevenire i pericoli per la pubblica incolumità'', e che ``l'oggetto dell'accertamento penale aveva riguardato esclusivamente il rispetto delle norme antinfortunistiche e la manutenzione degli strumenti a disposizione dei lavoratori per lo svolgimento delle loro mansioni, e dunque una condotta, di natura colposa, del tutto diversa da quella descritta dall'art. 437 c.p., sia per obiettività giuridica che per contenuto materiale che per la natura dell'elemento psicologico''. La Sez. I replica che ``la violazione dell'art. 437 c.p. può concorrere con quella degli artt. 589 e 590 c.p., non sussistendo rapporto di specialità o continenza tra le norme incriminatrici delle rispettive fattispecie''. E individua una significativa serie di elementi rivelatori del dolo: ``La prova della natura dolosa dell'omissione delle cautele è stata coerentemente tratta dalla natura generalizzata e sistematica, anche nel tempo, della mancanza delle misure di prevenzione e dell'organizzazione della sicurezza del lavoro, a fronte della pericolosità delle lavorazioni in atto presso la s.p.a. e della frequenza periodica degli infortuni, secondo una condotta ritenuta perciò connotata da una piena rappresentazione e da una consapevole accettazione della sua attitudine a pregiudicare l'integrità psicofisica dei lavoratori impiegati nell'azienda, la cui pervicacia ha trovato ulteriore riscontro (a posteriori) nell'accertata inottemperanza delle prescrizioni, imposte dallo SPISAL al fine di mettere in sicurezza il processo produttivo, anche dopo l'infortunio''.
Un consigliere delegato per la sicurezza di una s.p.a. fu condannato - oltre che per il delitto di lesione personale colposa in danno di un lavoratore infortunatosi a una macchina - anche per il reato di cui all'art. 437, comma 2, c.p., ``per aver rimosso il carter di protezione della zona degli ingranaggi degli alberi di stampa nonché manomesso il macchinario, in quanto il microinterruttore di sicurezza posto nel carter di protezione era stato disattivato''. A questo secondo riguardo, deduce che non erano ``assimilabili la condotta di rimozione del dispositivo (e, cioè la condotta contestata, di natura commissiva) e la condotta di omesso ripristino''; e, inoltre, che, ai fini della sussistenza del reato di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, un numero indeterminato di lavoratori dovrebbe ``essere attinto da infortunio a seguito della rimozione dei dispositivi di sicurezza'', Di rimando, la Sez. IV osserva che ``non sussiste radicale diversità ed eterogeneità tra le condotte: entrambe, invero, non solo sono ricomprese nella stessa fattispecie incriminatrice, ma risultano altresì caratterizzate dai medesimi elementi, ossia la volontà dolosa, la compromissione della funzione antinfortunistica, ed il riferimento al medesimo oggetto (ossia, il medesimo macchinario industriale, privo del carter di protezione che era stato rimosso e di regolare dispositivo di interblocco collegato a carter, che era stato manomesso)''. E precisa che ``non provvedere al ripristino di un dispositivo antinfortunistico esistente costituisce una condotta minore, contenuta in quella di rimozione del medesimo dispositivo di prevenzione''. Infine, quanto al profilo soggettivo, prende atto che, nel caso di specie, ``l'imputato era stato compiutamente reso edotto della mancanza dei carter di sicurezza, e ciononostante aveva continuato per mesi ad ometterne il ripristino''. Rileva che ``la fattispecie in esame è fattispecie a dolo generico, il quale deve necessariamente investire la condotta tipica ed altresì la consapevolezza della destinazione prevenzionistica dei dispositivi'' e che, ``nel caso di specie, l'imputato era stato altresì più volte avvisato dal lavoratore addetto al macchinario della carenza dei dispositivi e, ciononostante, aveva con coscienza e volontà consentito il proseguimento dell'ordinario processo produttivo''.
La Sez. IV ribadisce alcuni principi di rilevante spessore:
- ``per quanto riguarda l'elemento psicologico del reato in questione, è sufficiente la coscienza e volontà di omettere le cautele prescritte, nonostante la consapevolezza del pericolo per l'incolumità delle persone'';
- ``è discutibile che le baie o ceste possano considerarsi uno degli `apparecchi' menzionati dall'art. 437 c.p.: tra le ipotesi delittuose previste dalla citata norma rientrano l'omissione dolosa di una apparecchiatura infortunistica o l'omissione del ripristino della stessa che, per precedente manomissione, abbia perso la sua efficacia di prevenzione; entrambe queste omissioni frustrano in egual misura e senza differenziazione di sorta il funzionamento di macchinari in relazione alla finalità antinfortunistica cui essi sono predisposti, rendendo possibile il verificarsi di un infortunio che sarebbe, per contro, impossibile in caso di normale funzionamento delle apparecchiature antinfortunio realizzate e poste sulla macchina stessa; la nozione di apparecchio antinfortunistico si connota per una finalità propria del dispositivo, che invece le ceste non hanno se non in misura soltanto collaterale, trattandosi di strumenti atti a vincolare alle gru i carichi da collocare sulle navi'';
- l'omissione, la rimozione o il danneggiamento doloso degli impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire infortuni sul lavoro, si inserisce in un contesto imprenditoriale nel quale la mancanza o l'inefficienza di quei presidi antinfortunistici deve avere l'attitudine, almeno astratta, anche se non abbisognevole di concreta verifica, a pregiudicare l'integrità fisica di una collettività di lavoratori, intesa come un numero di lavoratori o, comunque, di persone gravitanti attorno all'ambiente di lavoro''.
V'era da immaginarsi che le divergenze esplose in ordine alla configurabilità del delitto di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche in caso di manomissione del cronotachigrafo avrebbero condotto prima o poi a sollevare la questione relativa al principio di legalità collegato ai valori dell'accessibilità della norma violata e della prevedibilità della sanzione:
Dal 2010 al 2013, l'amministratore di più società ``aveva utilizzato specifici accorgimenti (magneti) per impedire il corretto funzionamento del disco cronotachigrafo di bordo, così impedendo la registrazione della velocità dei veicoli, dei tempi di guida e sosta, in sostanza consentendo ai 14 autisti dipendenti la guida degli articolati per un numero di ore superiore a quello di legge, determinando, peraltro, un'incidenza della condotta sui periodi di riposo dei conducenti dei veicoli e, quindi, determinando maggior rischio di causare incidenti, a danno della propria incolumità e della sicurezza pubblica''. A sua discolpa, l'imputato deduce il difetto di elemento soggettivo del reato, ``perché la condotta si consuma in momento precedente alla pronuncia della sentenza della Sezione Prima penale di questa Corte n. 47211/2016, indicando come principio pacifico, fino a quel momento affermato dalla giurisprudenza, quello che riteneva punibile soltanto ai sensi dell'art. 179 c.s. la manomissione del cronotachigrafo''. E richiama ``la sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte (n. 1235/2011) che esplicita che il principio di legalità si collega ai valori dell'accessibilità della norma violata e della prevedibilità della sanzione, nonché la giurisprudenza comunitaria secondo la quale è riconosciuta la violazione del principio di legalità in caso di mutamento sfavorevole non prevedibile e di sua applicazione retroattiva contra reum''. La Sez. I ribatte che, ``sotto il profilo prospettato, non si ravvisano precedenti di legittimità anteriori rispetto a quello del 2016 che abbiano affermato il principio della insussistenza di rapporto di specialità tra l'art. 179 c.s. e l'art. 437 c.p. quando, come nel caso di specie, gli strumenti atti ad eludere la corretta registrazione dei dati sui cronotachigrafi digitali installati sugli automezzi erano stati apposti non dai singoli lavoratori, ma dal datore di lavoro per loro tramite, attraverso condotte intimidatorie''.
Notiamo che ``per prima, Cass., Sez. I, 9 novembre 2016, n. 47211 insegnò che commette il delitto di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche di cui all'art. 437 c.p., oltre che la violazione amministrativa dell'art. 179 c.d.s. ove ne ricorrano i presupposti, il datore di lavoro che imponga ai conducenti degli automezzi di utilizzare accorgimenti e/o dispositivi che eludano la corretta registrazione dei dati sui cronotachigrafi digitali installati sugli automezzi medesimi, occultando il mancato rispetto del periodo di riposo attraverso modalità quali l'apposizione di un magnete sul sensore del cambio che, alterando il congegno elettronico, impedisce il regolare flusso dei dati del tachigrafo digitale''. I primi arretramenti si ebbero con Cass. 19 gennaio 2018 n. 2200 e ancor più con Cass. 31 gennaio 2019 n. 4890. Tra le più recenti:
Il rappresentante legale di una ditta di trasporti - condannato per il reato di cui all'art. 437 c.p. per avere manomesso il cronotachigrafo di un autoarticolato condotto da un dipendente - deduce che ``l'illecito amministrativo previsto dal codice della strada avrebbe dei caratteri di specialità rispetto alla fattispecie penale prevista dall'art. 437 c.p. e pertanto, considerato che i fatti sono sovrapponibili sotto il profilo naturalistico, alla manomissione del cronotachigrafo dovrebbe applicarsi la disciplina di cui all'art. 9 L. n. 689/1981''. La Sez. I non è d'accordo: ``Tra gli elementi essenziali della fattispecie astratta punita dall'art. 437 c.p. - che incrimina il fatto in sé dell'alterazione o danneggiamento del cronotachigrafo - e la condotta invece sanzionata in via amministrativa dall'art. 179, comma 2, del codice della strada -consistente nella circolazione alla guida di un veicolo privo di cronotachigrafo, ovvero munito di un cronotachigrafo manomesso o alterato, o comunque non rispondente alle caratteristiche tecniche stabilite dalla normativa di settore - non vi è la coincidenza strutturale che costituisce il presupposto dell'applicazione del criterio della specialità sancito dagli artt. 15 c.p. e 9 L. n. 689/1981. Alle due fattispecie, pertanto, non si applica il principio di specialità in alcuna delle sue declinazioni, `per specificazione' o `per aggiunta', che postulano l'esistenza di un nucleo essenziale comune e sovrapponibile tra le due fattispecie astratte, nel senso che, eliminando l'elemento di specificazione ovvero l'elemento aggiuntivo che caratterizza la fattispecie speciale, il fatto deve ricadere nella fattispecie generale, di cui deve presentare tutti gli elementi costitutivi. Non sussiste alcun rapporto di specialità tra la disposizione di cui all'art. 179, comma 2, c.s. e quella di cui all'art. 437 c.p., in quanto è diverso, non solo e non tanto, il bene giuridico tutelato da ognuna - rispettivamente costituiti dalla sicurezza della circolazione stradale (comprensiva di quella degli utenti terzi, diversi da colui che circoli alla guida del veicolo col cronotachigrafo manomesso) e dalla sicurezza dei lavoratori (e dunque in primis dello stesso autore della violazione, se conducente del veicolo) quanto, soprattutto, è la stessa natura strutturale delle due fattispecie a essere differente, sia sotto l'aspetto soggettivo che oggettivo: I) il reato di cui all'art. 437 c.p. è un delitto di pericolo punito a titolo di dolo, mentre la violazione dell'art. 179 c.s. è un illecito amministrativo sanzionato indifferentemente a titolo di dolo o colpa, tanto che il conducente è sanzionato per avere circolato alla guida di un veicolo con cronotachigrafo alterato sul solo presupposto della rappresentabilità colposa della relativa manomissione, anche se l'alterazione dello strumento è stata realizzata da un altro soggetto; II) la condotta sanzionata dall'art. 179 c.s. non presuppone, dunque, che l'autore della violazione, consistente nella circolazione alla guida di un veicolo con cronotachigrafo alterato, coincida necessariamente con l'autore della condotta incriminata dall'art. 437 c.p., e cioè col soggetto responsabile dell'alterazione, che ben potrebbe essere diverso (e identificarsi, ad esempio, nel datore di lavoro o nel proprietario del veicolo che sia diverso dal conducente); III. la condotta di rimozione, alterazione o danneggiamento dello strumento, concretamente idonea a mettere in pericolo la sicurezza del lavoro, punita a titolo di delitto di pericolo dal codice penale, inoltre, prescinde dal fatto materiale costituito dalla messa in circolazione del mezzo ed è pertanto configurabile anche prima e a prescindere dalla messa in circolazione del veicolo''. Di qui la conferma della condanna che ``si riferisce al solo datore di lavoro, persona diversa dal lavoratore che era alla guida del mezzo''. (V. altresì Cass. 25 febbraio 2022 n. 6908).
Condanna del conducente di un mezzo per i reati di cui agli artt. 437 e 484 c.p., per ``l'utilizzo di una calamita applicata sul sensore di velocità montato sul cambio, con modifica del funzionamento del cronotachigrafo'': ``Si tratta di una violazione dell'art. 437 c.p. Il cronotachigrafo è essenziale per il rispetto dei tempi di lavoro e quindi della sicurezza del guidatore, consentendo di valutare il rispetto dei tempi di lavoro e delle pause imposte dalla lunga durata dei viaggi. La norma tutela non solo dai disastri, ma anche dai semplici infortuni individuali come si rileva leggendo la norma e chiaramente il cronotachigrafo è strumento atto a prevenire gli infortuni. Deve ritenersi integrata anche la fattispecie di cui all'art. 484 c.p., in quanto il cronotachigrafo è oggettivamente un registro che attesta la circolazione del mezzo su cui è apposto e serve alla polizia stradale, che ha la tutela della sicurezza stradale, al fine di controllare appunto la regolarità della circolazione del conducente del mezzo sulla strada''.
La Sez. I conferma la condanna del proprietario di un trattore stradale per il delitto di cui all'art. 437 c.p., ``perché, agendo in concorso con l'autista, danneggiava gli impianti e le apparecchiature di sicurezza destinati a prevenire infortuni sul lavoro, apportandovi modifiche dirette ad alterare il funzionamento del cronotachigrafo le quali comportavano l'inefficienza di alcuni sistemi di sicurezza attiva e passiva tra cui il limitatore di velocità ed il sistema di controllo della frenata ABS, con conseguente rischio per gli altri utenti della strada e per lo stesso autista''. Tre i chiarimenti forniti. Primo. A sua discolpa, l'imputato lamenta la ``non riconosciuta natura di atto irripetibile degli accertamenti tecnici svolti dagli inquirenti sull'apparecchiatura elettronica in dotazione al veicolo''. La Sez. I, oltre a prendere atto che ``gli accertamenti effettuati sul veicolo non sarebbero un'attività tecnica irripetibile'', nota come ``non se ne sia richiesta la ripetizione''. Quanto poi all'asserita ``assenza di prova della consapevolezza della manomissione da parte del proprietario del mezzo'', la Sez. I replica che l'imputato, ``quale rappresentante legale dell'impresa proprietaria del veicolo, è certamente il primo interessato dagli effetti economico-produttivi della manomissione, poiché con essa ha potuto eludere i limiti di velocità e le norme limitative degli orari di guida fissati a tutela dei lavoratori, così incrementando la produttività dell'impresa''. Né miglior sorte riceve l'ultima doglianza dell'imputato: ``mancata applicazione della pur invocata particolare tenuità del fatto negata a causa dell'affermata pericolosità della condotta posta in essere rispetto alla circolazione del veicolo con strumentazione di sicurezza oggetto di manomissione'', ``pericolosità sfornita di prova specifica sull'effettività della stessa rispetto alla pubblica incolumità ovvero sulla sostenuta inefficienza dei dispositivi così modificati''. Incisivamente, la Corte Suprema pone in risalto ``la pericolosità derivante dal sabotaggio dei sistemi di sicurezza, sia per il lavoratore conducente del mezzo che per gli altri utenti della strada''.
La sentenza n. 36705/2019 esamina un'ipotesi di condanna per il delitto di cui all'art. 349 c.p. e di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato dal delitto di cui all'art. 437 c.p., con trasmissione di copia degli atti al prefetto. L'imputato contesta, in particolare, ``l'esclusione di un rapporto di specialità tra il reato ex art. 349 c.p. e la fattispecie ex art. 179 c.s. alla luce dell'art. 9 L. n. 689/1981, che in presenza di due norme distinte relative al medesimo fatto (con elemento specializzante del cronotachigrafo contenuto nell'art. 179 c.s.) impone l'applicazione della sanzione amministrativa in luogo di quella penale prevista dall'altra norma''. La Sez. III ribatte che ``diversi risultano i beni giuridici tutelati dalle due fattispecie, atteso che l'art. 179 c.s. considera i rischi derivanti dalla circolazione stradale e quindi tutela la sicurezza di detta circolazione, mentre l'art. 349 c.p. mira a preservare l'identità della cosa cui fa riferimento il sigillo'', e che ``quest'ultimo delitto è punito esclusivamente a titolo di dolo, mentre la fattispecie di cui al codice della strada, essendo sanzionata solo in via amministrativa, può essere punita sia a titolo di dolo che di colpa''. Aggiunge che ``anche i destinatari e le condotte delle due disposizioni sono diverse: l'art. 349, comma 1, c.p. punisce `chiunque' viola i sigilli, mentre l'art. 179 c.s. solo chi `circola' o `il titolare della licenza o dell'autorizzazione al trasporto che mette in circolazione' un veicolo sprovvisto di cronotachigrafo o con `cronotachigrafo manomesso oppure non funzionante', punendoli anche se non sono autori della manomissione, a differenza della norma penale, o anche se non sono a conoscenza della stessa''.
Nel caso esaminato dalla sentenza n. 41406/2019, ``all'imputato era contestato di aver danneggiato l'impianto cronotachigrafo installato su un trattore stradale, per aver egli collocato un magnete sul sensore di movimento che trasmetteva i dati all'apparecchiatura analogica, inibendo, così, la trasmissione di dati veritieri al cronotachigrafo, destinato per sua natura a prevenire infortuni sul lavoro''. Nel dichiarare inammissibile il ricorso presentato dal P.M. avverso l'assoluzione dell'imputato dal reato di cui all'art. 437 c.p. perché il fatto non sussiste, la Sez. I, pur dando atto del contrasto giurisprudenziale, ritiene che ``la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 437 c.p. presenta una maggiore `ampiezza' rispetto a quella prevista dall'art. 179 c.s., dal momento che, mentre la prima, individua, tra i soggetti attivi, tutti coloro in capo ai quali incomba l'obbligo di prevenire - tramite impianti, apparecchi o segnali - disastri o infortuni sul lavoro, la seconda ha come destinatario unicamente il conducente del mezzo di trasporto'', e che ``anche l'ambito delle condotte tipiche è assai più esteso rispetto a quello della fattispecie amministrativa, concernente la sola messa in circolazione di un veicolo con cronotachigrafo mancante o manomesso''. Aggiunge che ``il delitto previsto dall'art. 437 c.p. è posto a tutela della pubblica incolumità con riferimento all'ambiente di lavoro, imponendo l'adozione dei necessari strumenti preventivi circa il rischio di disastri o infortuni, sicché la fattispecie in questione appare chiaramente finalizzata a regolamentare le attività di impresa''. Ne ricava che, ``in ogni caso in cui l'alterazione del cronotachigrafo sia stata direttamente eseguita dal conducente del mezzo per ragioni non riconducibili all'esercizio dell'attività di impresa, dovrà ritenersi integrata la fattispecie di illecito amministrativo di cui all'art. 179 c.s., con conseguente esclusione, secondo quanto previsto dall'art. 9 L. n. 689/1981, dell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 437 c.p.'', e che, ``viceversa, ove la violazione sia stata commessa direttamente dal datore di lavoro, o comunque su sua disposizione, e in ogni caso per ragioni attinenti allo svolgimento dell'attività di impresa, appare del tutto coerente con la ratio del delitto previsto dall'art. 437 c.p. configurare tale fattispecie incriminatrice''. E prende atto che, nel caso di specie, si è escluso che ``la condotta illecita dell'imputato sia stata imposta o indotta dal datore di lavoro''.
Non altrettanto drastica è la n. 39587/2019. Il tribunale aveva applicato all'imputato, su sua richiesta, la pena di mesi due e giorni venti di reclusione per il concorso nel delitto di cui all'art. 437 c.p., ``per aver danneggiato, in concorso con il titolare di una ditta di trasporti, il cronotachigrafo, destinato a prevenire disastri e infortuni sul lavoro, installato sull'autoarticolato di cui era autista''. La Sez. I rigetta il ricorso dell'imputato. Osserva che ``il tema della qualificazione del fatto dell'alterazione del cronotachigrafo ad opera del conducente del mezzo è interessato da orientamenti interpretativi diversi, che rende, allo stato, le diverse soluzioni opinabili e quindi impedisce di ravvisare nell'adozione dell'una o dell'altra un errore denunciabile in termini di errore manifesto''. Ne desume che ``si è fuori dell'area della deducibilità del vizio asseritamente commesso nell'emissione di una sentenza di patteggiamento''. Precisa al proposito che ``la sentenza di patteggiamento può essere impugnata mediante ricorso per cassazione per la deduzione del vizio di qualificazione giuridica del fatto imputato, seppure su quella qualificazione le parti hanno raggiunto l'accordo per la pena, ma la deducibilità di questo vizio è limitata ai soli casi di errore manifesto, con conseguente inammissibilità della denuncia di errori valutativi in diritto che non risultino evidenti dal testo del provvedimento impugnato''.
Infine, la n. 10436/2020, tornando ai primi pronunciamenti del 2016 e 2017, conferma la condanna per il delitto di cui all'art. 437 c.p., consistito nel danneggiamento del cronotachigrafo installato su un trattore stradale condotto dal dipendente di una s.r.l. proprietaria del mezzo ``mediante il posizionamento di un magnete sul sensore di movimento in modo da inibire la trasmissione di dati veritieri all'apparecchio, destinato alla prevenzione di infortuni sul lavoro''. Premette che ``costituisce ius receptum, nella giurisprudenza di questa Corte, che la questione relativa all'esistenza (o meno) di un conflitto apparente di norme regolanti il medesimo fatto deve essere risolta mediante l'applicazione - in via esclusiva - del criterio di specialità previsto dall'art. 15 c.p., fondato sulla comparazione delta struttura astratta delle fattispecie poste a raffronto, al fine di apprezzare l'implicita valutazione di correlazione tra le norme effettuata dal legislatore'', e che ``il principio è stato affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte anche con specifico riguardo al tema, che qui interessa, del concorso tra una disposizione penale incriminatrice e una disposizione amministrativa sanzionatoria apparentemente regolanti lo stesso fatto, nel qual caso deve trovare applicazione esclusivamente - una volta positivamente riconosciuto il conflitto - la disposizione che risulti speciale (rispetto all'altra) all'esito del confronto compiuto tra le rispettive fattispecie astratte''. Rileva, con riguardo al caso in esame, che ``la fattispecie oggetto di giudizio è rappresentata dal danneggiamento dell'impianto cronotachigrafo installato su un trattore stradale, realizzato mediante il posizionamento di un magnete sul sensore di movimento che trasmette i dati dell'apparecchiatura analogica inibendo in tal modo la trasmissione di dati veritieri al cronotachigrafo, che costituisce un apparecchio per sua natura destinato alla prevenzione di infortuni sul lavoro''. Prende atto che ``la condotta di posizionamento del magnete in grado di alterare il corretto funzionamento del cronotachigrafo era stata materialmente posta in essere proprio dall'imputato''. Ritiene, dunque, ``evidente l'assenza di coincidenza strutturale, che costituisce il presupposto dell'applicazione del criterio della specialità sancito dagli artt. 15 c.p. e 9 legge n. 689/1981, tra gli elementi essenziali della fattispecie astratta oggetto del presente giudizio, punita dall'art. 437 c.p., che incrimina il fatto in sé dell'alterazione o danneggiamento del cronotachigrafo, e la condotta invece sanzionata in via amministrativa dall'art. 179, comma 2, c.s., consistente nella circolazione alla guida di un veicolo privo di cronotachigrafo, ovvero munito di un cronotachigrafo manomesso o alterato, o comunque non rispondente alle caratteristiche tecniche stabilite dalla normativa di settore''. Ne desume che ``si tratta di fattispecie e di condotte strutturalmente diverse, rispetto alle quali non può trovare applicazione il principio di specialità in alcuna delle sue declinazioni, `per specificazione' o `per aggiunta', che postulano l'esistenza di un nucleo essenziale comune e sovrapponibile tra le due fattispecie astratte, nel senso che, eliminando l'elemento di specificazione ovvero l'elemento aggiuntivo che caratterizza la fattispecie speciale, il fatto deve ricadere nella fattispecie generale, di cui deve presentare tutti gli elementi costitutivi''. Nel richiamare le sentenze n. 47211/2016 e n. 34107/2017, ribadisce che ``non sussiste alcun rapporto di specialità tra la disposizione di cui all'art. 179, comma 2, c.s. e quella di cui all'art. 437 c.p., stante la diversità non solo (e non tanto) dei beni giuridici tutelati - rispettivamente costituiti dalla sicurezza della circolazione stradale (comprensiva di quella degli utenti terzi, diversi da colui che circoli alla guida del veicolo col cronotachigrafo manomesso) e dalla sicurezza dei lavoratori (e dunque in primis dello stesso autore della violazione, se conducente del veicolo) - quanto soprattutto della natura strutturale delle due fattispecie sotto l'aspetto oggettivo e soggettivo''. Sottolinea che, in particolare, ``la sentenza n. 34107/2017, riguardante un caso, speculare a quello in esame, di alterazione fraudolenta del funzionamento dell'apparecchio del cronotachigrafo realizzata dallo stesso conducente del veicolo interessato, ha puntualmente chiarito come risultino differenti tanto l'elemento soggettivo quanto la condotta materiale e gli stessi destinatari delle due fattispecie tipiche, essendo da un lato il reato di cui all'art. 437 c.p. un delitto di pericolo punito a titolo di dolo, e la violazione dell'art. 179 c.s. invece un illecito amministrativo sanzionato indifferentemente a titolo di dolo o colpa, ed essendo dall'altro la circolazione alla guida di un veicolo con cronotachigrafo alterato sanzionata in capo al conducente, sul solo presupposto della rappresentabilità colposa della relativa manomissione, anche se l'alterazione dello strumento sia stata realizzata da un altro soggetto''. Ne trae che ``la condotta sanzionata dall'art. 179 c.s. non presuppone che l'autore della violazione, consistente nella circolazione alla guida di un veicolo con cronotachigrafo alterato, coincida necessariamente con l'autore della condotta incriminata dall'art. 437 c.p., e cioè col soggetto responsabile dell'alterazione, che ben potrebbe essere diverso (e identificarsi, ad esempio, nel datore di lavoro o nel proprietario del veicolo che sia diverso dal conducente)'', e che, ``d'altro canto, la condotta di rimozione, alterazione o danneggiamento dello strumento, concretamente idonea a mettere in pericolo la sicurezza del lavoro, punita a titolo di delitto di pericolo dal codice penale, ben potrebbe essere commessa dallo stesso lavoratore/autista - e accertata nei suoi confronti - anche prima e a prescindere dalla messa in circolazione del veicolo, nel qual caso l'integrazione di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie astratta dell'art. 437 c.p., e la sua conseguente punibilità a carico dell'autore della relativa manomissione non potrebbe certamente essere posta in dubbio anche se non fosse stata seguita dal fatto materiale della guida e della circolazione del veicolo''. (V. pure Cass. 23 marzo 2020, n. 10494).
La Sez. IV esclude ``il rapporto di specialità tra la disposizione di cui all'art. 437 c.p. che prevede il delitto di rimozione od omissione dolosa di cautele e quella di cui all'art. 590, comma 2, c.p., mancando un rapporto di continenza tra tali norme, per la diversità, nei due reati, dell'elemento soggettivo (dolo nel primo caso e colpa nel secondo), della condotta (non essendo inclusa nello schema legale del primo la condotta costitutiva del secondo) e dell'evento (costituito, nel primo caso, dal comune pericolo di disastro o di un infortunio - il cui effettivo verificarsi non è elemento costitutivo del reato medesimo perché costituisce ove si realizzi, circostanza aggravante - e dalle lesioni nel secondo caso)''.
Nel caso affrontato da questa sentenza, l'amministratore delegato di una s.r.l. - imputato del reato di lesione personale colposa in danno di una dipendente infortunatasi a una pressa sprovvista dei prescritti dispositivi di sicurezza, nonché del reato di cui all'art. 437 c.p. per ``la dolosa rimozione del sistema di sicurezza con il pedale di azionamento'' - fu condannato per il primo reato, e assolto dal secondo perché il fatto non sussiste. E deduce ``un concorso apparente di norme tra l'art. 437 e l'art. 590 c.p., quest'ultimo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica, e la conseguente violazione del principio di specialità di cui all'art. 15 c.p. e del ne bis in idem sostanziale'', ``cosicché, dovendosi considerare più grave il primo dei due reati, avrebbe dovuto essere assolto anche dal secondo, stante il divieto di sottoporre a giudizio un soggetto per lo stesso fatto, per due titoli diversi''.
La Sez. IV non è d'accordo: ``In caso di concorso di norme penali che regolano la stessa materia, il criterio di specialità (art. 15 c.p.) richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle. Con specifico riferimento agli elementi differenziali tra il reato di rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro e le lesioni personali colpose, aggravate dalla violazione della normativa antinfortunistica, si è anche in passato precisato che il contenuto costitutivo del reato descritto dall'art. 437 c.p. e quello del reato di lesioni colpose sono tra loro sostanzialmente diversi e l'uno non comprende l'altro. Nel reato di lesioni colpose l'elemento soggettivo è costituito appunto dalla colpa, mentre nel reato ex art. 437 c.p. è richiesto il dolo, che consiste nella coscienza di non adempiere l'obbligo giuridico di collocare gli impianti. Nello schema legale tipico del primo non è inclusa la condotta costitutiva descritta nella fattispecie legale del secondo. I due reati si differenziano anche per la diversità dell'evento che nel delitto di cui all'art. 437 c.p. è costituito dal comune pericolo di disastro o di un infortunio il cui effettivo verificarsi non è elemento costitutivo del reato medesimo perché costituisce ove si realizzi, circostanza aggravante, invece, nel delitto di cui all'art. 590 c.p., l'evento è costituito dalle lesioni subite dalla parte offesa. il datore di lavoro ha l'obbligo di garantire la sicurezza del posto di lavoro, sì che la condotta contraria, oltre che integrare gli estremi del delitto di cui all'art. 437 c.p., si atteggia anche ad elemento costitutivo della colpa per inosservanza di leggi che connota il delitto di lesioni di cui all'art. 590 c.p.''.
Il titolare e responsabile di una s.n.c. fu condannato sia per il delitto di omicidio colposo, per aver cagionato la morte di un lavoratore addetto a una macchina adibita alla lavorazione degli stracci, sia per il reato di cui all'art. 437, comma 2, c.p., per avere rimosso in modo permanente la protezione metallica del tappeto a punte del caricatore, destinata a impedire il contatto del lavoratore con il tappeto medesimo mentre la macchina era in funzione (``una volta smontata la protezione, questa non veniva più rimessa al suo posto per economizzare il tempo nelle successive pulizie senza rallentare la produzione con la tolleranza del datore di lavoro''). La corte d'appello ``riteneva il concorso formale tra i reati di cui agli artt. 589 c.p. e 437 c.p., osservando che le previsioni normative considerano distinte situazioni tipiche, vale a dire la dolosa omissione di misure antinfortunistiche con conseguente disastro e la morte non voluta di una o più persone e tutelano interessi differenti cioè la pubblica incolumità e la vita umana''. Per contro, l'imputato sosteneva che, ``anche a voler ritenere l'evento morte come rientrante nel concetto di infortunio di cui all'art. 437, comma 2, c.p., la fattispecie di cui all'art. 589, comma 2, c.p. rimarrebbe assorbita dalla prima, in base a un raffronto effettuato secondo il principio di specialità'', e che ``sono ravvisabili nella specie i caratteri del reato complesso''. Nell'evocare la celebre sentenza sul caso Mecnavi (Cass. 8 novembre 1993, in Dir.prat.lav., 1994, 1, 55), la Sez. IV ribatte: ``Tali previsioni normative considerano distinte situazioni tipiche, vale a dire la dolosa omissione di misure antinfortunistiche con conseguente disastro e la morte non voluta di una o più persone, e tutelano interessi differenti cioè la pubblica incolumità e la vita umana'': ``poiché il danno alla persona non è compreso nell'ipotesi complessa di cui all'art. 437, comma 2, c.p., costituendo effetto soltanto eventuale e non essenziale del disastro e dell'infortunio, causato dall'omissione delle cautele, la morte, sia pure in conseguenza dell'omissione stessa, non viene assorbita dal reato ex art. 437, comma 2, c.p., ma costituisce reato autonomo'', e, quindi, ``la punizione dell'uno e dell'altro reato non comporta duplice condanna per lo stesso fatto e quindi non viola il principio del `ne bis in idem'. Venendo alla fattispecie concreta, le modalità delle lavorazioni svolte presso l'azienda, comportanti la periodica e prolungata - anche per due o tre giorni - asportazione della rete metallica di protezione, sì da lasciare libero accesso al nastro rotante munito di punte, sconfessano la tesi dell'imputato, in quanto danno conto del fatto che ciò che l'indicata condotta imprudente determina è proprio la messa in pericolo di un numero indeterminato di persone''.
(In precedenza, nel caso della ThissenKrupp, Sez.Un., 18 settembre 2014, Espenhahn e altri, accogliendo l'impostazione proposta dall'accusa, affermarono che ``il concorso formale tra più illeciti è configurabile ex art. 81 c.p. solo quando essi siano stati posti in essere con la medesima condotta'', e che, ``mentre il reato di cui all'art. 437 c.p. è caratterizzato dalla dolosa omissione di una specifica cautela doverosa, quello di omicidio colposo plurimo discende da una fitta serie di condotte colpose''. V. pure Cass., Sez. Un., 6 maggio 2015 n. 18651, concernente il ricorso straordinario proposto da un imputato avverso la predetta sentenza del 18 settembre 2014).
Ultimamente, la Corte Suprema ha richiamato l'attenzione sull'art. 131-bis c.p. per reati in materia di sicurezza del lavoro nella prospettiva aperta dalla Riforma Cartabia, e, quindi, alla luce delle modifiche apportate dall'art. 1, comma 1, lett. c), n. 2), D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150 a decorrere dal 30 dicembre 2022 ai sensi di quanto disposto dall'art. 99-bis, comma 1, del medesimo D. Lgs., aggiunto dall'art. 6, comma 1, D.L. 31 ottobre 2022 n. 162, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 dicembre 2022 n. 199:
La Sez. III premette che ``le novità introdotte nell'art. 131-bis c.p. si colgono in una triplice direzione, ossia: 1) la generale estensione dell'ambito di applicabilità dell'istituto ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni di reclusione e, quindi, indipendentemente dal massimo edittale, come previsto dalla previgente formulazione; 2) la rilevanza, ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell'offesa, anche alla condotta susseguente al reato; 3) l'esclusione del carattere di particolare tenuità dell'offesa in relazione ai reati riconducibili alla Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l'11 maggio 2011, e ad ulteriori reati di ritenuti di particolare gravità''. Considera indubbio che, ``in applicazione dell'art. 2, comma 3, c.p., la nuova formulazione dell'art. 131-bis c.p., nella parte in cui amplia la portata dalla causa di non punibilità (e quindi in relazione alle modifiche di cui ai punti 1 e 2), sia applicabile retroattivamente, e quindi anche ai reati commessi prima del 30 dicembre 2022''. Prende atto che, nel caso di specie, ``assume particolare rilevanza la considerazione, ai fini della valutazione delta gravità dell'offesa, anche della condotta susseguente al reato, elemento che la giurisprudenza di questa Corte, con riferimento alla previgente formulazione della norma, escludeva dal novero degli elementi da apprezzare proprio perché non espressamente previsto, e dovendosi perciò valutare la misura dell'offesa nel momento di consumazione del reato. Ne desume che, ``per effetto dell'indicata modifica, la condotta post factum è uno - ma non certamente l'unico, né il principale - degli elementi che il giudice è chiamato ad apprezzare ai fini del giudizio avente ad oggetto l'offesa''. Chiarisce che, ``come si desume dalla Relazione illustrativa all'indicato D.Lgs., il legislatore delegato ha volutamente utilizzato un'espressione ampia e scarsamente selettiva - quale, appunto, `condotta susseguente al reato' - allo scopo di `non limitare la discrezionalità del giudice che, nel valorizzare le condotte post delictum, potrà fare affidamento su una locuzione elastica ben nota alla prassi giurisprudenziale, figurando tra i criteri di commisurazione della pena di cui all'art. 133, comma 2, n. 3 c.p.''. Ritiene, pertanto, che ``il giudice potrà valutare una vasta gamma di condotte definite solo dal punto di vista cronologico-temporale, dovendo essere `susseguenti' al reato, ed evidentemente in grado di incidere sulla misura dell'offesa''. Aggiunge che ``ciò vale non solo nel caso in cui le condotte susseguenti riducano il grado dell'offesa - quali le restituzioni, il risarcimento del danno, le condotte riparatorie, le condotte di ripristino dello stato dei luoghi, l'accesso a programmi di giustizia riparativa, o, come nel caso in esame, l'intervenuta eliminazione delle violazioni accertate dagli organi ispettivi - ma anche, e specularmente, quando delle condotte aggravino la lesione - inizialmente `tenue' - del bene protetto''. Precisa, infine, in linea con la ``Relazione illustrativa (p. 346)'', che ``la condotta susseguente al reato acquista rilievo, nella disciplina dell'art. 131-bis c.p., non come esclusivo e autosufficiente indice-requisito di tenuità dell'offesa, bensì come ulteriore criterio, accanto a tutti quelli contemplati dall'art. 133, comma 1, c.p., ossia la natura, la specie, i mezzi, l'oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell'azione; la gravità del danno o del pericolo; l'intensità del dolo o della colpa: elementi tutti che, nell'ambito di un giudizio complessivo e unitario, il giudice è chiamato a valutare per apprezzare il grado dell'offesa''. Con la conseguenza che ``le condotte post delictum non potranno di per sé sole rendere di particolare tenuità un'offesa che tale non era al momento della commissione del fatto - dando così luogo a una sorta di esiguità sopravvenuta di un'offesa in precedenza non tenue - ma potranno essere valorizzate nel complessivo giudizio sulla misura dell'offesa, giudizio in cui rimane centrale, come primo termine di relazione, il momento della commissione del fatto, e, quindi, la valutazione del danno o del pericolo verificatisi in conseguenza della condotta''. Conclusione: ``In considerazione della manifesta illogicità della motivazione e stante la mancata valutazione dell'accertata estinzione della violazione quale condotta susseguente al reato, la sentenza dovrebbe essere annullata limitatamente all'applicabilità dell'art. 131-bis c.p., con rinvio, sul punto, al Tribunale. Nondimeno, essendo nel frattempo maturata la prescrizione del reato, va richiamata la uniforme giurisprudenza di legittimità secondo cui, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva, cosicché la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione. Infatti, la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sulla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p., in quanto essa, estinguendo il reato, rappresenta un esito più favorevole per l'imputato, mentre la seconda lascia inalterato l'illecito penale nella sua materialità storica e giuridica''. (Conforme, successivamente, Cass. 26 luglio 2023 n. 32435).
Condanna dei datori di lavoro di una s.r.l. per lesione personale colposa in danno di un lavoratore addetto a una macchina e infortunatosi alla mano sinistra. In particolare, la Sez. III, nel porsi il problema relativo all'applicabilità dell'art. 131-bis c.p., osserva che ``la norma in esame è stata recentemente novellata dalla c.d. riforma Cartabia, la quale, con la legge delega n. 134/2021, aveva individuato, tra i princìpi e i criteri direttivi cui avrebbe dovuto attenersi il governo nell'attuazione della delega, la necessità di attribuire rilievo alla condotta susseguente al reato ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell'offesa''. Ricorda che già una pronuncia delle Sez. Un. 12 maggio 2022 n. 18891 ritenne ``ormai superato l'orientamento secondo cui è irrilevante la condotta susseguente al reato, a fronte della direttiva di segno opposto contenuta all'interno della legge delega n. 134/2021, che può considerarsi già diritto vigente, prima ancora che venisse adottato il D.Lgs. n. 150/2022, entrato in vigore lo scorso 30 dicembre, con cui sono state formalmente inserite, al primo comma dell'art. 131-bis c.p., le parole `anche in considerazione della condotta susseguente al reato'''. Ne desume che, ad avviso delle Sezioni Unite, ``la valorizzazione da parte del legislatore di tale specifico criterio di delega - ora espressamente introdotto dal D.Lgs. n. 150/2022 - comporta la necessità di superare l'indirizzo al riguardo seguito dalla giurisprudenza di questa Corte, includendo, nel catalogo degli indicatori dianzi richiamati, anche il profilo di valutazione inerente alla `condotta susseguente al reato'''. Aggiunge, in linea con le Sezioni Unite, che, ``entro tale prospettiva, le condotte successive al reato ben possono `integrare nel caso concreto un elemento suscettibile di essere preso in considerazione nell'ambito del giudizio di particolare tenuità dell'offesa, rilevando ai fini dell'apprezzamento della entità del danno, ovvero come possibile spia dell'intensità dell'elemento soggettivo'''. Con riguardo al caso di specie, la Sez. III sottolinea che ``il giudice di appello dimostra di aver già preso in considerazione il comportamento tenuto successivamente dagli imputati e, segnatamente, il fatto di aver apportato le modifiche tecniche alla macchina, in conformità alle prescrizioni della ASL, e di aver predisposto un sistema di sicurezza aggiuntivo denominato laser scanner, giudicando, tuttavia, tali fatti come `neutri' ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità in quanto inidonei ad incidere favorevolmente sul grado di offensività dell'illecito''. Precisa che, ``per di più, con riguardo al sistema di sicurezza aggiuntivo, il giudice segnala un passaggio della relazione del consulente della difesa in cui emerge chiaramente tale inidoneità, laddove si afferma che, in ogni caso, l'attrezzaggio del macchinario si sarebbe dovuto effettuare disattivando temporaneamente il laser scanner, in assenza, dunque, di ulteriori garanzie di sicurezza''. Sicché ``la gravità dell'offesa e l'elevata pericolosità delle condizioni di lavoro consapevolmente non è scalfita, secondo i giudici del merito, dalla condotta susseguente di messa a norma del macchinario''. Per giunta, nota che ``l'adeguamento del macchinario alle prescrizioni ASL è un comportamento post delicto imposto per la prosecuzione dell'attività lavorativa, dunque non significativo ai fini di valutazione della particolare tenuità dell'offesa''.
Condannato per violazione dell'art. 64, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008, il contravventore lamenta la mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. La Sez. III premette che ``le novità introdotte nell'art. 131-bis c.p. si colgono in una triplice direzione, ossia: 1) la generale estensione dell'ambito di applicabilità dell'istituto ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni di reclusione e, quindi, indipendentemente dal massimo edittale, come previsto dalla previgente formulazione; 2) la rilevanza, ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell'offesa, anche alla condotta susseguente al reato; 3) l'esclusione del carattere di particolare tenuità dell'offesa in relazione ai reati riconducibili alla Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l'11 maggio 2011, e ad ulteriori reati di ritenuti di particolare gravità''. Considera indubbio che, ``in applicazione dell'art. 2, comma 3, c.p., la nuova formulazione dell'art. 131-bis c.p., nella parte in cui amplia la portata dalla causa di non punibilità (e quindi in relazione alle modifiche di cui ai punti 1 e 2), sia applicabile retroattivamente, e quindi anche ai reati commessi prima del 30 dicembre 2022''. Prende atto che, nel caso di specie, ``assume particolare rilevanza la considerazione, ai fini della valutazione delta gravità dell'offesa, anche della condotta susseguente al reato, elemento che la giurisprudenza di questa Corte, con riferimento alla previgente formulazione della norma, escludeva dal novero degli elementi da apprezzare proprio perché non espressamente previsto, e dovendosi perciò valutare la misura dell'offesa nel momento di consumazione del reato. Ne desume che, ``per effetto dell'indicata modifica, la condotta post factum è uno - ma non certamente l'unico, né il principale - degli elementi che il giudice è chiamato ad apprezzare ai fini del giudizio avente ad oggetto l'offesa''. Chiarisce che, ``come si desume dalla Relazione illustrativa all'indicato D.Lgs., il legislatore delegato ha volutamente utilizzato un'espressione ampia e scarsamente selettiva - quale, appunto, `condotta susseguente al reato' - allo scopo di non limitare la discrezionalità del giudice che, nel valorizzare le condotte post delictum, potrà fare affidamento su una locuzione elastica ben nota alla prassi giurisprudenziale, figurando tra i criteri di commisurazione della pena di cui all'art. 133, comma 2, n. 3 c.p.''. Ritiene, pertanto, che ``il giudice potrà valutare una vasta gamma di condotte definite solo dal punto di vista cronologico-temporale, dovendo essere `susseguenti' al reato, ed evidentemente in grado di incidere sulla misura dell'offesa''. Aggiunge che ``ciò vale non solo nel caso in cui le condotte susseguenti riducano il grado dell'offesa - quali le restituzioni, il risarcimento del danno, le condotte riparatorie, le condotte di ripristino dello stato dei luoghi, l'accesso a programmi di giustizia riparativa, o, come nel caso in esame, l'intervenuta eliminazione delle violazioni accertate dagli organi ispettivi - ma anche, e specularmente, quando delle condotte aggravino la lesione - inizialmente `tenue' - del bene protetto''. Precisa, infine, in linea con la ``Relazione illustrativa (p. 346)'', che ``la condotta susseguente al reato acquista rilievo, nella disciplina dell'art. 131-bis c.p., non come esclusivo e autosufficiente indice-requisito di tenuità dell'offesa, bensì come ulteriore criterio, accanto a tutti quelli contemplati dall'art. 133, comma 1, c.p., ossia la natura, la specie, i mezzi, l'oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell'azione; la gravità del danno o del pericolo; l'intensità del dolo o della colpa: elementi tutti che, nell'ambito di un giudizio complessivo e unitario, il giudice è chiamato a valutare per apprezzare il grado dell'offesa''. Con la conseguenza che ``le condotte post delictum non potranno di per sé sole rendere di particolare tenuità un'offesa che tale non era al momento della commissione del fatto - dando così luogo a una sorta di esiguità sopravvenuta di un'offesa in precedenza non tenue - ma potranno essere valorizzate nel complessivo giudizio sulla misura dell'offesa, giudizio in cui rimane centrale, come primo termine di relazione, il momento della commissione del fatto, e, quindi, la valutazione del danno o del pericolo verificatisi in conseguenza della condotta''.
Conclusione: ``In considerazione della manifesta illogicità della motivazione e stante la mancata valutazione dell'accertata estinzione della violazione quale condotta susseguente al reato, la sentenza dovrebbe essere annullata limitatamente all'applicabilità dell'art. 131-bis c.p., con rinvio, sul punto, al Tribunale. Nondimeno, essendo nel frattempo maturata la prescrizione del reato, va richiamata la uniforme giurisprudenza di legittimità secondo cui, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva, cosicché la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione. Infatti, la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sulla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p., in quanto essa, estinguendo il reato, rappresenta un esito più favorevole per l'imputato, mentre la seconda lascia inalterato l'illecito penale nella sua materialità storica e giuridica''. (V. anche Cass. 29 marzo 2023 n. 13048).
In generale, v.:
Nel respingere la doglianza di un condannato per contravvenzioni antinfortunistiche in relazione alla ``mancata assoluzione per particolare tenuità del fatto'', la Sez. III osserva che tale doglianza ``sembra postulare, in contrasto col chiaro tenore dell'art. 131-bis, comma 1, c.p. - sul punto non modificato dalla recente `novella' approvata con D.Lgs. n. 152/2022 - che il diniego della fattispecie esiga l'accertamento o la declaratoria di delinquenza abituale''.
Infortunio a un dipendente di s.a.s. intento ad effettuare operazioni di potatura in quota e caduto da una scala portatile doppia telescopica in alluminio. Addebito di colpa al datore di lavoro: violazione degli artt. 70, comma 1, e 71, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, per non aver messo a disposizione del lavoratore attrezzature idonee ai fini della sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere, in particolare, nel caso di specie in ragione del rischio caduta dall'alto, quali una scala a palchetto. La Sez. IV osserva: ``La Corte di appello ha dato conto delle ragioni per le quali il fatto non poteva essere considerato di particolare tenuità con un richiamo, pertinente e conforme al dettato normativo, al grado della colpa e alla gravità delle lesioni: sotto tale ultimo profilo i giudici hanno inteso riferirsi alla entità in concreto delle lesioni patite dalla persona offesa e non già al titolo di reato in astratto. A fronte della valorizzazione di tali elementi, i giudici non erano tenuti a prendere in considerazione, nello specifico, i presunti elementi di segno contrario prospettati dall'imputato (quale quello relativo al numero asseritamente contenuto di infortuni registrati nell'azienda), peraltro estranei ai parametri che il giudice deve prendere in considerazione nella valutazione della tenuità dell'offesa''.
``Con riguardo all'applicazione dell'art. 131-bis c.p. in questa sede invocata, osserva il Collegio come la ricorrente non alleghi di averne fatto richiesta nel giudizio di merito e, infatti, non lamenta l'omessa motivazione sul punto, ma la violazione della legge penale per non aver il giudice (deve intendersi, d'ufficio) riconosciuto la particolare tenuità del fatto. In tema di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, la questione dell'applicabilità dell'art. 131-bis c.p. non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, ostandovi il disposto di cui all'art. 606, comma 3, c.p.p., se il predetto articolo era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza impugnata, né sul giudice di merito grava, in difetto di una specifica richiesta, alcun obbligo di pronunciare comunque sulla relativa causa di esclusione della punibilità''. (Fattispecie inerente a contravvenzioni antinfortunistiche).
Condannato all'ammenda di 4.500 Euro per plurime contravvenzioni antinfortunistiche ritenute avvinte dalla continuazione, l'imputato lamenta il mancato riconoscimento dell'ipotesi di non punibilità per particolare tenuità del fatto. La Sez, III gli dà ragione: ``Trattandosi di contravvenzioni punite con limiti edittali che certamente rientrano nel campo di operatività della fattispecie, la pena è stata inflitta nella sola specie pecuniaria, in termini prossimi al minimo edittale e sono state concesse le circostanze attenuanti generiche, avendo il tribunale attestato che l'imputato incensurato aveva tenuto un atteggiamento collaborativo ed adempiuto alle prescrizioni imposte dall'organo di vigilanza, sanando le omissioni riscontrate nel termine assegnatogli, tanto da essere ammesso alta possibilità di estinguere i reati mediante il pagamento di una sanzione amministrativa. È ben vero che l'imputato è stato ritenuto responsabile di una pluralità di distinte contravvenzioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, tra le quali è stato ritenuto vincolo della continuazione. Questa circostanza, tuttavia, non è di per sé ostativa, non potendosene automaticamente dedurre l'abitualità del comportamento. Ed invero, ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p., non osta in astratto, che il reato sia posto in continuazione con altri, dovendosi, tuttavia, valutare, anche in ragione del suo inserimento in un contesto più articolato, se la condotta sia espressione di una situazione episodica, se la lesione all'interesse tutelato dalla norma sia comunque minimale e, in definitiva, se il fatto nella sua complessità sia meritevole di un apprezzamento in termini di speciale tenuità dovendosi altresì considerare se i reati legati dal vincolo della continuazione riguardino azioni commesse nelle medesime circostanze di tempo e di luogo e non siano in numero tale da costituire ex se dimostrazione di serialità, ovvero di progressione criminosa indicativa di particolare intensità del dolo o versatilità offensiva''. (In proposito v. anche Cass. 1 aprile 2022 n. 11992).
``La declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sull'esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all'art. 131-bis c.p., sia perché diverse sono le conseguenze che scaturiscono dai due istituti, sia perché il primo di essi estingue il reato, mentre il secondo lascia inalterato l'illecito penale nella sua materialità storica e giuridica. Perciò, la questione del concorso tra le due cause di estinzione del reato e non punibilità può porsi solo quando le stesse siano entrambe contemporaneamente applicabili `in partenza', con la conseguenza che - quando, come nella specie, la Corte di cassazione, non essendosi verificata la causa estintiva della prescrizione del reato, annulli la sentenza con rinvio al giudice di merito per l'applicabilità o meno dell'art. 131-bis c.p. (e quindi al cospetto di un annullamento parziale avente ad oggetto statuizioni diverse ed autonome rispetto al riconoscimento dell'esistenza del fatto-reato e della responsabilità dell'imputato) - nel giudizio di rinvio non può essere dichiarato prescritto il reato quando la causa estintiva sia sopravvenuta alla sentenza di annullamento parziale''.
La Sez. IV annulla senza rinvio la condanna di una datrice di lavoro per l'infortuno a una sega a nastro ``per essere il reato non punibile per particolare tenuità del fatto'': ``La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, nel giudizio di legittimità, può essere rilevata d'ufficio, in presenza di un ricorso ammissibile, anche se non dedotta nel corso del giudizio di appello pendente alla data di entrata in vigore della norma, a condizione che i presupposti per la sua applicazione siano immediatamente rilevabili dagli atti e non siano necessari ulteriori accertamenti fattuali a tal fine. In particolare, depongono in senso favorevole all'imputata i seguenti elementi ricavabili dal contenuto delle sentenze di merito: a) la mancata indicazione di precedenti penali, circostanza da cui è possibile desumere l'incensuratezza dell'imputata; b) l'avvenuto risarcimento del danno; c) la valutazione di non eccessiva entità del fatto tenuto conto della condanna ad una pena solo pecuniaria, in entità estremamente ridotta già con la sentenza di primo grado; d) l'acclarata esclusione della possibilità di qualificare la perdita della falange come indebolimento permanente''.
Il datore di lavoro di un cantiere edile condannato per più violazioni antinfortunistiche deduce che ``le proprie precarie condizioni economiche gli avevano permesso soltanto di ottemperare, considerata anche la ristrettezza del tempo all'uopo concessogli, pari a soli otto giorni, alle prescrizioni impartitegli dagli ispettori del lavoro senza poter versare l'oblazione'', e che ``comunque tale puntuale adempimento avrebbe imposto, unitamente al suo stato di incensuratezza e alla non abitualità del comportamento, il riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131-bis c,p.''. Nel disattendere questa doglianza, la Sez. III osserva: ``Le circostanze attinenti alla capacità a delinquere del colpevole ex art. 133, comma 2, c.p., nell'ambito delle quali viene valorizzata dalla difesa l'ottemperanza dell'imputato alle prescrizioni impostegli dagli ispettori del lavoro unitamente alle sue difficoltà economiche che non gli avrebbero consentito di provvedere al pagamento dell'oblazione, esulano dalla valutazione della particolare tenuità del fatto che impone, secondo la previsione testuale dell'art. 131-bis, comma 1, c.p., di commisurare il primo indice-requisito, ovverosia la particolare tenuità dell'offesa, alle modalità della condotta e all'entità del danno o del pericolo i quali fanno parte dei criteri afferenti alla gravità del reato previsti dal comma 1 dell'art. 133. Le contravvenzioni in esame risultavano essersi già perfezionate in tutti i loro elementi costitutivi al momento della constatazione, coincidente con il sopralluogo eseguito nel cantiere dal competente organo di controllo, Dal momento che la causa di non punibilità è l'espressione di una valutazione riferibile, essendo l'esclusione della pena rimessa al potere discrezionale del giudice, soltanto a un momento successivo a quello del perfezionamento di tutti gli estremi del reato, per la cui ontologica e giuridica esistenza è necessariamente richiesta la presenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, e non anche l'assoggettamento, in concreto, alla sanzione penale di colui che lo ha commesso, ne consegue che il tardivo adempimento alle prescrizioni dell'organo amministrativo resta un post factum del tutto neutro rispetto al disvalore, anche in termini di offensività, dell'illecito penale che va invece commisurato alla condotta criminosa accertata, da valutarsi in correlazione con la lesione arrecata al bene giuridico tutelato (la sicurezza sul lavoro), nel suo complesso e dunque tenendo conto di tutte le peculiarità della fattispecie concreta in applicazione dei criteri dj cui al comma 1 dell'art. 133 c.p. Il successivo adempimento dell'imputato alle prescrizioni impartitegli pur senza versare l'oblazione, non può rilevare ai fini della non abitualità della condotta, ovverosia dell'ulteriore indice-requisito previsto dall'art. 131bis c.p.''. . In proposito, la Sez. III dichiara esplicitamente di non condividere ``il principio affermato da un precedente arresto di questa Sezione secondo il quale, ai fini dell'apprezzamento della condizione della non abitualità della condotta, assumono rilievo anche i comportamenti successivi alla commissione del reato (Sez. III, n. 4123 del 29 gennaio 2018, in una fattispecie afferente ad un abuso edilizio in cui la non abitualità del comportamento dell'imputato è stata desunta dalla successiva attività di demolizione, rimozione e sanatoria delle opere realizzate). Il predetto arresto fa leva sull'argomento per cui `la nozione di comportamento abituale che ricorre quando l'autore ha commesso almeno altri due illeciti oltre quello preso in esame non possa essere assimilata a quella della recidiva, che opera in un ambito diverso ed è fondata su un distinto apprezzamento', ma tale argomento non autorizza a trarne la conseguenza che assumano rilievo anche le condotte successive al reato né sul piano logico, posto che l'essersi adoperato per l'eliminazione delle conseguenze dannose prodotte dall'azione criminosa specificamente contestata non elimina i reati commessi antecedentemente a quello per cui si procede, né su quello giuridico. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella sentenza Tushaj (n. 13681 del 25 febbraio 2016), hanno precisato che la nozione di `comportamento non abituale' è frutto del sottosistema generato dal 131 bis c.p. ed al suo interno deve essere letto, la cui ratio è quella di escludere dall'ambito della particolare tenuità del fatto comportamenti `seriali'''. Il requisito soggettivo previsto per l'applicabilità della causa di non punibilità, la cui ratio è strettamente legata al concetto di devianza non occasionale, postula una valutazione esclusivamente riferita agli illeciti penalmente rilevanti commessi dall'imputato e non già alla condotta da costui tenuta successivamente alla commissione dell'illecito, conclusione che del resto anche l'interpretazione testuale, facendosi menzione nel comma 3 di `reati' e non di `condotte', ineludibilmente conferma. Anche sul piano strettamente sistematico ritenere che nella nozione di non abitualità possa rientrare la condotta post delictum equivale ad introdurre un elemento che, in quanto contemplato nel comma 2 dell'art. 133 c.p. ai fini della valutazione della capacità a delinquere del colpevole, il legislatore ha invece ritenuto di espungere dalla valutazione relativa al fatto''.
``Il giudice. nel valutare, con riferimento alla causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p., la condotta contestata all'imputato, ha escluso la sussistenza dei presupposti per l'applicazione della stessa dando conto in particolare della `gravità della condotta'' - alla luce di violazioni certamente rilevanti nell'ambito della tutela dei lavoratori, quali l'accertata inottemperanza agli obblighi di sottoposizione di due lavoratori a visita medica, oltre a riscontrare la violazione di obblighi in materia di formazione professionale, nonché il successivo mancato adempimento delle prescrizioni impartite dagli organi competenti) - secondo una ricostruzione operata anche nel quadro di una pluralità di omissioni, della medesima indole, siccome correlate alla materia del lavoro.
Condannata per il reato di cui agli artt. 15 e 26, legge n. 977/1967 per aver adibito una minore al lavoro notturno, una datrice di lavoro lamenta la mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. La Sez. III disattende questa doglianza. Prende atto che, nel caso di specie, ``la violazione è stata commessa per tre giorni consecutivamente''. Rileva che ``la speciale causa di non punibilità prevista dall'art. 131 bis c.p. applicabile in presenza di un duplice condizione essendo congiuntamente richieste la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento'', e che ``la causa di esclusione della punibilità non trova applicazione, ai sensi del terzo comma dell'art. 131 bis c.p., qualora l'imputato abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima ratio punendi)''. Aggiunge che ``la menzionata disposizione normativa esclude, tra l'altro, di poter riconoscere siffatta causa in favore di chi abbia commesso più reati della stessa indole, anche nell'ipotesi in cui ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità'', e che ``nulla autorizza a ritenere che, con tale previsione, il legislatore abbia voluto riferirsi solo ai casi in cui l'autore del reato sia gravato da precedenti penali specifici, posto che altrimenti si sarebbe espresso in termini di recidiva specifica, apparendo, invece, logicamente coerente dedurre dalla menzionata disposizione normativa che, quando il soggetto agente abbia violato più volte la stessa o più disposizioni penali sorrette dalla medesima ratio punendi, egli non possa avvantaggiarsi della menzionata causa di non punibilità, in quanto, in tale evenienza, è la stessa norma a considerare il `fatto', secondo una valutazione complessiva in cui perde rilevanza l'eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso si articola, connotato, nella sua dimensione `plurima', da una gravità tale da non potere essere considerato di particolare tenuità''. Ne desume che ``la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131 bis c.p. non può essere applicata, ai sensi del terzo comma del predetto articolo, qualora l'imputato, anche se non gravato da precedenti penali specifici, abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima ratio punendi), anche nell'ipotesi in cui ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità''. (V. pure Cass. 5 luglio 2018, n. 30171).
``Alla valutazione della condotta, del danno e della colpevolezza del reo, resta estranea la valutazione della condotta non abnorme di soggetti diversi ed in particolare della persona offesa, posto che senza la condotta del primo l'evento non si sarebbe comunque realizzato. Ed è quindi solo a quella condotta colposa, al danno cagionato ed al grado di colpevolezza del primo che occorre guardare per valutare la lievità della condotta ai sensi dell'art. 131 bis c.p.''.
``Il tribunale ha disatteso la richiesta di applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, facendo generico riferimento alla fattispecie astratta, relativa a misure di sicurezza e prevenzione negli ambienti di lavoro, volte a prevenire rischi alla salute e alla incolumità dei lavoratori, senza alcun riferimento alla vicenda concreta, nella quale l'imputato, dopo l'accertamento delle irregolarità del ponteggio allestito dalla propria impresa (in quanto caratterizzato da una parete a sbalzo non prevista e non montato secondo le indicazioni presenti nel PI.M.U.S., perché privo dei correnti nei punti dove le scale erano sistemate all'esterno), aveva provveduto a rimuoverlo, cosicché non risultano essere stati adeguatamente approfonditi dal tribunale né l'aspetto della non occasionalità della condotta, né quello della esiguità del danno o del pericolo, che non possono essere esclusi sulla base di quanto esposto al riguardo nella sentenza impugnata, nella quale non vi sono specificazioni sulle dimensioni del cantiere e del ponteggio, sul numero di lavoratori addetti, sulla durata del mantenimento in opera del ponteggio irregolare (che parrebbe essersi protratto per 23 giorni)''.
Condannato per la violazione dell'art. 159, comma 2, lettera c), D.Lgs. n. 81/2008, l'amministratore unico di una s.r.l. deduce ``la sussistenza della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p.''. La Sez. III ribatte: ``La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131 bis c.p. non può essere applicata, ai sensi del comma 3 del predetto articolo, qualora l'imputato, anche se non gravato da precedenti penali specifici, abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima ratio punendi), anche nell'ipotesi in cui ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità. Nel caso di specie, i precedenti penali dell'imputato riguardano una condanna per altra violazione in materia di sicurezza sul lavoro, quindi lesiva del medesimo bene giuridico tutelato. Si è in presenza della condizione ostativa, relativa alla plurima violazione di norme afferenti a reati della stessa indole''.
``Due sono i presupposti applicativi dell'istituto, introdotto nel nostro ordinamento con l'art. 1, comma 2, del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28: la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento. Si tratta di requisiti - il primo (di natura oggettiva) riguardante il fatto di reato e il secondo (di natura più soggettiva) inerente all'autore - che devono necessariamente sussistere congiuntamente. In tale ambito, il fatto particolarmente tenue va individuato alla stregua di caratteri riconducibili a tre categorie di indicatori: le modalità della condotta, l'esiguità del danno o del pericolo, il grado della colpevolezza. L'art. 131-bis non definisce il concetto di abitualità, ma le Sezioni Unite di questa Corte (n. 13681 del 25 febbraio 2016) hanno anche chiarito che la norma intende escludere dall'ambito della particolare tenuità del fatto comportamenti `seriali'. La sentenza impugnata si rivela del tutto conforme ai principi affermati delle Sezioni Unite laddove - pur concedendo all'imputato (anch'egli lavoratore dipendente) le attenuanti generiche (in considerazione del fatto che lo stesso era, al pari del preposto pure condannato, nell'ambito di una attività lavorativa complessa, articolata anche in orari notturni e probabilmente usurante) - ha ritenuto ostativo al riconoscimento della invocata esimente il comportamento gravemente colposo dell'imputato (per non aver neutralizzato un pericolo particolarmente insidioso ed idoneo a ledere l'incolumità altrui). D'altronde la natura e l'entità delle lesioni riportate dall'infortunato escludono comunque che l'offesa arrecata alla salute dello stesso possa essere ritenuta di particolare tenuità''.
Il tribunale, riconosciute le attenuanti generiche, aveva condannato un datore di lavoro per il reato di cui all'art. 122 D.Lgs. n. 81/2008, ``perché, avendo omesso di istallare una serie di misura antinfortunistiche a tutela dei propri dipendenti, non ha poi provveduto, pur avendo rimosso le predette omissioni, al versamento della sanzione prevista per le stesse in via amministrativa''. A propria discolpa, l'imputato deduce ``il mancato riconoscimento della non punibilità del fatto commesso, stante la sua particolare tenuità, o, meglio, stante la particolare tenuità della offesa da esso cagionata al bene interesse tutelato dalla norma violata (si veda, infatti, a tale proposito, al di là della rubrica dell'art. 131-bis c.p., in cui si parla di particolare tenuità del fatto - ma è cosa nota che la rubrica di una disposizione normativa non ha valore di fonte del diritto - il testo del novellato art. 131-bis c.p. il quale espressamente si riferisce alla `offesa di particolare tenuità')''. La Sez. III prende atto che ``il tribunale - sebbene abbia riconosciuto l'imputato meritevole delle circostanze attenuanti generiche a cagione della solerte eliminazione delle situazioni di pericolo e della pronta ottemperanza alle prescrizioni a tale scopo impartite al prevenuto dalla competente Asl - ha inflitto al medesimo la sanzione di cui egli era meritevole partendo da una pena base superiore al minimo edittale''. Si chiede se l'applicazione di una pena base superiore al minimo edittale ``valga quale implicita esclusione della ricorrenza della particolare tenuità della offesa inferta dall'imputato al bene interesse tutelato''. Rileva che ``tale argomento in linea di principio già è stato utilizzato da questa Corte, onde escludere la qualificabilità di un determinato fatto di reato entro l'ambito della particolare tenuità ai sensi dell'art. 131-bis c.p.''. Ma subito osserva che quell'argomento ``non appare pertinente al caso ora in esame''. Spiega che, ``anche a volere prescindere dalla circostanza che nella fattispecie l'imputato è stato insignito delle circostanze attenuanti generiche - dato questo che di per sé non sarebbe ovviamente ostativo alla esclusione della applicazione dell'art. 131-bis c.p. - la ragione per la quale la pena nel caso ora in scrutinio è stata determinata sulla base di una sanzione superiore al minimo edittale è, expressis verbis, legata al fatto che l'imputato vanta dei precedenti penali, sia pure legati a reati aventi diversa natura rispetto a quello ora in discorso''. Ne desume che ``un simile ordine di argomentare, pur in sé legittimo, non possa nel caso ora in esame valere quale implicita risposta alla richiesta di applicazione della particolare causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p.''. Ricorda che ``il criterio di commisurazione della pena basato sulla capacità criminale del prevenuto, pur pienamente corretto se considerato in relazione alla predetta finalità dosimetrica, si fonda, tuttavia, su elementi estranei alla materialità del reato commesso e sulla gravità o meno della lesione inferta tramite esso al bene interesse tutelato''. Precisa che ``la rilevata presenza di numerosi precedenti penali a carico dell'imputato non può costituire implicita motivazione del mancato accoglimento della richiesta dell'imputato di applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, atteso che i parametri di valutazione previsti dal comma 1 dell'art. 131-bis c.p. hanno natura e struttura oggettiva (pena edittale, modalità e particolare tenuità della condotta, esiguità del danno), mentre quelli connessi al corredo penale gravante sull'imputato attengono ad aspetti evidentemente collegati ai profili soggettivi del reo e, pertanto, non significativi ai fini della valutazione concernente la tenuità o meno della offesa arrecata attraverso la commissione del reato, dovendosi infatti tenere distinto il piano della valutazione della personalità del reo da quello avente specificamente ad oggetto la offensività della condotta dal medesimo posta in essere''. Esclude, pertanto, che ``la circostanza che a carico dell'imputato il tribunale abbia ritenuto, in ragione del fatto che lo stesso fosse gravato da precedenti penali, di dovere irrogare una pena commisurata ad una sanzione superiore, quale sua base di calcolo, alla pena edittale minima, possa valere quale implicita legittima motivazione volta ad escludere che la fattispecie potesse essere sussunta entro l'ambito della non punibilità ex art. 131-bis c.p.''.
``Nel caso di specie (contravvenzioni antinfortunistiche), la causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis cod. pen., introdotta dal d.lgs. n. 28 del 2015, risulta astrattamente ammissibile, risultando dagli atti che l'imputata abbia provveduto, dopo l'ispezione, ad adempiere alle prescrizioni impartitele dall'Ispettore del lavoro, omettendo tuttavia il pagamento della sanzione pecuniaria (deducendo al riguardo proprie difficoltà finanziarie)''.
È inammissibile la richiesta di non punibilità per particolare tenuità del fatto, atteso che non ne è consentita la proposizione della questione per la prima volta in sede di legittimità, in base al disposto di cui all'art. 609, comma 3, c.p.p., atteso che l'art. 131-bis c.p. era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza d'appello. Del resto la valutazione operata dalla corte d'appello dà conto di elementi caratterizzanti il fatto e l'offesa in modo da dare d essi una connotazione di non particolare tenuità (non solo con riguardo alla gravità delle lesioni patite dalla persona offesa, ma altresì con riferimento alla gravità di una condotta colposa relativa a lavori in corso d'esecuzione su una recinzione prospiciente la pubblica via, ossia una zona ove transitavano di consueto molte persone).
``Ricorrono i presupposti per riconoscere in termini obiettivi il requisito della modestia del fatto reato, avuto riguardo in particolare alle modalità della condotta e alla gravità del pericolo, che pure assumono rilievo ai sensi dell'art.133 cod.pen., requisiti espressamente richiamati dalla disciplina introdotta con l'art.131 bis c.p., nonché ai profili di antidoverosità della condotta, pure valorizzato dall'art.133 c.p. sub specie della graduabilità della colpa, sulla quale non può non incidere la grave disattenzione in cui incorse lo stesso lavoratore. Né possono di per sé ritenersi fattori impeditivi al riconoscimento della causa di non punibilità l'ambito lavoristico in cui si è realizzato l'infortunio, con inosservanza di specifiche regole cautelari o il fatto che il legislatore abbia inteso definire `gravi' il tipo di lesioni derivate all'infortunato (per un periodo superiore a 40 giorni) in conseguenza dell'infortunio''. ``Quanto ai profili oggettivi della condotta e dell'offesa, l'azienda non era del tutto priva di un sistema di controllo per garantire che le opere di manutenzione. D'altro canto l'imputato, avendo realizzato che i presidi adottati si erano dimostrati insufficienti, aveva apportato, dopo l'infortunio, i correttivi del caso, dotando gli impianti di una serie di accorgimenti di sicurezza e aveva provveduto a segregare le parti mobili e pericolose della macchina, sostituendo nuove tecnologie al sistema procedimentalizzato, in pratica rimesso all'autoresponsabilità dello stesso manutentore. Sotto diverso profilo si è riconosciuta la tenuità dell'offesa in presenza di una iniziale diagnosi di riabilitazione in gg. 20 successivamente stabilizzata in gg. 80 e, sebbene tale termine di durata della malattia comporti una definizione giuridica di `lesioni gravi, la originaria durata temporanea delle lesioni giustificava una valutazione in termini di tenuità, laddove il prolungamento della malattia era verosimilmente dipeso da postumi incidenti sulla capacità lavorativa ma non su quella di attendere alle normali occupazioni. D'altro canto ai fini del riconoscimento della tenuità dell'offesa non si può non tenere in considerazione, nel diverso ambito prospettico di cui all'art. 131 bis c.p., il non trascurabile concorso di colpa ascrivibile alla persona offesa, che da un lato vale a ridurre il grado di antidoverosità della condotta del datore di lavoro, dall'altra concorre a mitigare i profili di offensività attribuibili alla di lui condotta omissiva. Infine si è tenuto altresì conto, ai fini della graduazione del pregiudizio subito dal lavoratore, della misura risarcitoria, che manifesta gli intenti riparatori post factum del reo e al contempo vale quale parametro dell'entità del pregiudizio sofferto dalla persona offesa, in considerazione del danno conseguito alla validità biologica dell'infortunato''. (Sul concorso di colpa della persona offesa v. anche Cass. n. 20332 del 28 aprile 2017).
``Ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità prevista dall'art. 131-bis c.p., il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, comma 1, c.p., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo. Orbene, è soprattutto sotto quest'ultimo, dirimente profilo che il fatto storico non può definirsi come caratterizzato da particolare tenuità, ove si considerino gli esiti lesivi (la cui gravità è stata riconosciuta nel giudizio di merito) della condotta colposa ascritta all'imputato''.
``Il riferimento alla `prassi consolidata' di operare in condizioni di minorata sicurezza, nonché alla gravità delle lesioni riportate dal lavoratore (trauma da sguantamento secondo dito mano destra e infrazione testa falange media, lesioni giudicate guaribili in 85 giorni), risponde appieno ai criteri indicati dalla giurisprudenza di legittimità ai fini del giudizio sulla tenuità: giudizio che richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta''.
Condannato per il reato di cui agli artt. 63, in relazione all'art. 64 comma 1, lett. a), 68 comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 81/2008 per non avere richiesto il certificato di prevenzione antincendi per le attività soggette a controllo dei Vigili del Fuoco, il legale rappresentate di una s.p.a. lamenta che il giudice, per un verso, ``aveva respinto l'istanza di oblazione, ex art. 162-bis c.p., nel dibattimento sul rilievo che questa era preclusa dallo sbarramento dell'art. 464, comma 3, c.p.p.'', e, per l'altro, aveva indebitamente negato l'applicazione della causa di non punibilità della speciale tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p.
La Sez. III prende atto che, a seguito di opposizione a decreto penale, l'imputato aveva presentato istanza di oblazione ex art. 162-bis c.p., e che ``l'istanza era stata respinta dal Giudice delle indagini preliminari perché non erano state eliminate le conseguenze del reato (non era stato richiesto e ottenuto il certificato prevenzione antincendio)''. Rileva che, in questo quadro, l'imputato non poteva riproporre l'istanza di oblazione nel dibattimento. Spiega che, ``a norma dell'art. 461 c.p.p., qualora l'imputato proponga opposizione al decreto penale di condanna, può chiedere il giudizio immediato, ovvero il giudizio abbreviato o l'applicazione di pena'', e che ``tale disposizione deve essere coordinata con la previsione dell'art. 464, comma 3, c.p.p. e dell'art. 557, comma 2, c.p.p., che, per effetto della legge n. 497/1999, hanno introdotto uno sbarramento alla proposizione dell'istanza d'oblazione, nel senso che nel giudizio conseguente all'opposizione, l'imputato non può chiedere il giudizio abbreviato o l'applicazione della pena su richiesta, né presentare domanda di oblazione''. Precisa che ``il principio della preclusione processuale, introdotta dalle citate disposizioni di cui agli artt. 464, comma 3, c.p.p. e dell'art. 557, comma 2, c.p.p., come modificate dalla legge n. 497/1999 (che non ha operato il coordinamento con l'art. 162-bis, comma 5, c.p.), è stato temperato dalla pronuncia delle S.U. n. 47923 del 29 ottobre 2009, D'Agostino, che ha affermato che, nell'ipotesi in cui la domanda di oblazione sia stata correttamente proposta in sede di opposizione a decreto penale, ed erroneamente non accolta, non opera, nel giudizio conseguente all'opposizione, il divieto di presentazione di un'ulteriore domanda, sicché è dovere del giudice del dibattimento prendere in considerazione detta richiesta''. Ne desume che ``la possibilità di riproporre l'istanza di oblazione nel dibattimento è condizionata alla circostanza che sia stata erroneamente respinta dal giudice, e non nel diverso caso, qual è quello in scrutinio, nel quale il giudice aveva rigettato l'istanza per assenza dei presupposti di cui all'art. 162-bis c.p., ossia perché non erano state eliminate le conseguenza pericolose del reato''. Di qui la conclusione che nel caso di specie l'imputato non poteva riproporre la domanda di oblazione nel corso del dibattimento di primo grado. Quanto alla non punibilità per particolare tenuità del fatto, la Sez. III osserva che, ``nel caso in esame, il giudice ha escluso la particolare tenuità dell'offesa in ragione della natura del fatto e della modalità della condotta, delle dimensioni dell'insediamento produttivo e delle lavorazioni effettuate, fonte di pericolo per persone e cose in caso di mancato rispetto della normativa in materia di sicurezza del lavoro'', e che tale motivazione ``è giustificata dalla non particolare tenuità dell'offesa al bene giuridico tutelato dalle norme poste a presidio della sicurezza del lavoratori sul luogo di lavoro, norme che puniscono comportamenti formali ma che costituiscono un presidio anticipato rispetto agli eventi lesivi che possono derivare ai lavoratori nello svolgimento dell'attività lavorativa''. Condivide il rilievo dato ``alla dimensione dell'insediamento produttivo e alle diverse tipologie di lavorazioni e al conseguente pericolo per un numero rilevante di lavoratori''. Esclude che, ai fini del riconoscimento della particolare tenuità dell'offesa, valga la circostanza che i certificati vennero poi richiesti ed ottenuti, in quanto ``la società ha ottenuto i certificati antincendio solo a seguito di sopralluogo a molti anni di distanza dall'accertamento del reato, e della sentenza di condanna''.
Con riguardo a un caso di plurime violazioni antinfortunistiche nell'ambito di un cantiere edile, la Sez. III osserva che ``non emerge alcuna particolare tenuità del fatto, essendo sufficiente, per escluderla, considerare che, con una condotta potenzialmente assai pericolosa per la salute e l'incolumità dei lavoratori impiegati nel cantiere edile dell'impresa dell'imputato, quest'ultimo ha violato più disposizioni poste a tutela della sicurezza dei luoghi di lavoro, omettendo, tra l'altro, di dotare il cantiere di una serie di presidi anti infortunistici volti, in particolare, ad evitare la caduta dall'alto dei lavoratori''. Prende atto che ``sono state ritenute sussistenti le violazioni di norme poste a salvaguardia della incolumità dei lavoratori, ed in particolare dell'art. 122 D.Lgs. n. 81/2008 (per non avere adottato, nei lavori in quota, adeguate opere provvisionali idonee ad evitare la caduta di persone e di cose, nonché dispositivi di protezione individuale dei lavoratori); 125, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008 (per avere utilizzato un ponteggio instabile, omettendo di assicurare saldamente il piede dei montanti alla base di appoggio, onde evitarne il cedimento verticale ed orizzontale); 128, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008 (per avere utilizzato un ponteggio sprovvisto per buona parte di sottoponte dell'ultimo piano di impalcato impiegato per le lavorazioni); 129, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008 (per avere utilizzato un ponteggio sprovvisto di mantovane in corrispondenza dei luoghi di transito e stazionamento a protezione e contro la caduta di materiali dall'altro)''. Ne ricava che ``la pluralità delle violazioni, tra l'altro non occasionali ma poste in essere nell'esercizio di una attività d'impresa, e l'esposizione al pericolo per i lavoratori impiegati nel cantiere che ne è derivata (essendo state omesse plurime cautele volte ad evitare la caduta dall'alto dei lavoratori o, comunque, ad assicurare la sicurezza delle condizioni di lavoro su di un ponteggio utilizzato per lavori edili), non consentono di ritenere l'offesa di particolare tenuità né esiguo il pericolo derivato dalle plurime violazioni commesse dall'imputato, con la conseguenza che le stesse risultano incompatibili con la previsione di cui all'art. 131 bis c.p.''. La conclusione è che ``emerge dai tratti della fattispecie, come risultanti dalla sentenza impugnata, la sua incompatibilità con gli indici-criteri e gli indici-requisiti indicati dal legislatore per poter ritenere il fatto di particolare tenuità''.
In un caso di condanna per violazioni in materia di sicurezza antincendio (mezzi di estinzione scaduti o mancanti), la Sez. III lancia un severo monito ai magistrati di merito. Osserva che ``il legislatore ha dettato i criteri ai quali il giudice si deve attenere per ritenere o escludere la sussistenza della speciale causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p.''. Rimprovera il tribunale di aver escluso tale causa di non punibilità ``con un'affermazione apodittica senza alcuna valutazione dei parametri normativi elencati nell'art. 131 bis c.p.''. E quindi annulla con rinvio sentenza limitatamente all'applicabilità dell'art. 131-bis c.p.
L'amministratore delegato e il direttore generale di una s.p.a. agricola furono condannati per lesioni gravi subite da un lavoratore durante operazioni di sgombero e riordino di locali in disuso e scivolato su uno strato di melma untuosa. La Sez. IV ritiene ``evidente che un caso come quello che ci occupa sia uno di quelli tipici in cui, al vaglio di astratta non incompatibilità della fattispecie concreta (come risultante dalla sentenza impugnata e dagli atti processuali) con i requisiti ed i criteri indicati dall'art. 131-bis che compete a questa Corte di legittimità, si palesa non infondato, in concreto, ritenere il fatto di particolare tenuità''. Osserva che ``depone in tal senso la concessione ad entrambi gli imputati delle circostanze attenuanti generiche, in virtù della loro incensuratezza e del loro comportamento successivo alla commissione del fatto reato, con l'ottemperanza alle prescrizioni con predisposizione di un nuovo documento di valutazione rischi e pagamento della sanzione amministrativa (elementi cui fa esplicito riferimento il tribunale) e l'avere irrogato la corte d'appello la sola pena pecuniaria''. Aggiunge che ``porta a tale conclusione, inoltre, l'esplicita affermazione dei giudici che scrivono, per motivare la riduzione della pena, che il fatto non appare grave, perché le lesioni verificatesi, pur di lunga durata, per quanto risulta non hanno causato postumi permanenti, e perché il grado della colpa non è elevato, trattandosi in effetti della mancata valutazione, da parte di entrambi gli imputati, di un rischio che non appariva come tipico dell'attività agricola che l'azienda svolgeva, e che poteva quindi essere percepito, sia pure erroneamente, come molto limitato''. Peraltro, annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essersi il reato ascritto agli imputati estinto per intervenuta prescrizione. Ritiene, infatti, che ``la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sulla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p., sia perché diverse sono le conseguenze che scaturiscono dai due istituti, sia perché il primo di essi estingue il reato, mentre il secondo lascia inalterato l'illecito penale nella sua materialità storica e giuridica''.
La Sez. III annulla con rinvio, ``onde consentire al giudice di merito di accertare, in punto di fatto, l'esistenza delle condizioni per escludere la punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell'art. 131 bis c.p''. Spiega che ``nella specie, dalla sentenza impugnata non emergono elementi che consentano di escludere immediatamente l'esistenza delle condizioni per escludere la punibilità ai sensi dell'art. 131 bis c.p., avendo il tribunale dato atto della incensuratezza dell'imputato (e parendo dunque non abituale il comportamento) e valutato positivamente il comportamento successivo dell'imputato, con la conseguenza che occorre compiere ulteriori accertamenti in fatto (circa l'entità del danno o del pericolo conseguente al reato, tenendo anche conto della ratio della norma incriminatrice, diretta a salvaguardare l'incolumità pubblica), che devono essere necessariamente compiuti dal giudice del merito, essendo preclusi a questa Corte dalla natura del giudizio di legittimità''. Precisa che ``l'art. 131 bis c.p. prende in considerazione reati rispetto ai quali non difetti alcuno degli elementi costitutivi, ritenuti non punibili perché irrilevanti in base ai principi di proporzione ed economia processuale, e si riferisce anche ai reati di pericolo, senza distinguere tra pericolo astratto o pericolo concreto, sicché non si pone un problema di inoffensività del fatto ma di irrilevanza dello stesso''. Afferma che ``la esiguità del danno o (come nel caso di specie) del pericolo va valutata sulla base di elementi oggettivamente apprezzabili, dai quali ricavare la minima entità delle conseguenze o del pericolo e, dunque, la loro irrilevanza in sede penale'' e che ``tale accertamento deve essere compiuto dal giudice di merito, mediante la verifica del pericolo conseguente alle omissioni dell'imputato''. Considera ``ferma la preclusione al rilievo dell'eventuale decorso del termine di prescrizione, stante la formazione del giudicato progressivo in punto di accertamento del reato e affermazione di responsabilità dell'imputato''.
``L'indebolimento permanente di un senso o di un organo previsto dal n. 2 del comma 1 dell'art. 583 c.p. e le condizioni previste dal capoverso dello stesso articolo ai fini della sussistenza delle lesioni gravissime attengono alla menomazione dell'integrità fisico-psichica; ne deriva che non necessariamente vi è coincidenza tra l'invalidità personale prevista dall'art. 583 c.p. e l'invalidità da infortunio sul lavoro prevista dalla legge 17 agosto 1935, n. 1765, attenendo quest'ultima alla riduzione totale o parziale della capacita lavorativa. Inoltre, l'indebolimento permanente di un senso o di un organo non concreta lesioni gravissime''.
Condannata per l'infortunio occorso a una dipendente caduta da una scala apribile e usurata, la datrice di lavoro di una s.r.l. lamenta l'omessa acquisizione di un'ordinanza del Tribunale civile che aveva accolto il reclamo avverso il provvedimento di sequestro conservativo del Giudice del lavoro disposto nei confronti della s.r.l., ritenendo non provato che la dipendente fosse caduta dalla scala nel corso dell'attività lavorativa. La Sez. IV non condivide questa argomentazione. ``Le sentenze pronunciate in procedimenti civili e non ancora divenute irrevocabili, legittimamente acquisite al fascicolo del dibattimento nel contraddittorio fra le parti ai sensi dell'art. 234 c.p.p., possono essere utilizzate come prova limitatamente alla esistenza della decisione e alle vicende processuali in esse rappresentate, ma non ai fini della valutazione delle prove e della ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento in quei procedimenti. Quello che l'imputata sostiene è che una decisione, assunta in un procedimento cautelare di natura conservativa, come quello previsto dall'art. 671 c.p.c., possa assumere, nella parte relativa alla verosimiglianza della fondatezza della pretesa azionata - fumus boni iuris - valore probatorio nel processo penale, quanto all'accertamento del fatto di reato ascritto all'imputato. E questo, ancorché, da un lato, il requisito oggettivo dell'azione cautelare civile consista nella mera probabilità dell'esistenza del diritto azionato e prima ancora del fatto su cui esso si fonda, essendo il suo definitivo accertamento rimesso al giudizio di merito, dall'altro, neppure la sentenza che definisce il giudizio civile costituisca nel processo penale prova di accadimento dei fatti in essa descritti. Fra l'altro, e ciò rappresenta la misura della manifesta infondatezza della doglianza, la pretesa dell'imputata è che il giudice penale debba ammettere la produzione dell'ordinanza, come prova decisiva, in quanto non la dichiarazione resa dai testi, ma la valutazione delle prove effettuata in sede cautelare civile, in relazione alle dichiarazioni degli stessi testi assunti dal medesimo giudice penale nel processo, deve intendersi idonea a sovvertire la decisione. Con il che si pretende, in sostanza, che il giudice penale debba sostituire alla propria diretta valutazione dei testi escussi, quella svolta dal giudice civile sui medesimi, per di più in un procedimento non suscettibile di definitività''.
``Quanto al lamentato contrasto tra la condanna penale del datore di lavoro per l'infortunio subito da un dipendente e la sentenza del giudice del lavoro divenuta irrevocabile, l'acquisibilità delle sentenze divenute irrevocabili ai fini della prova dei fatti in esse accertati riguarda esclusivamente le sentenze pronunziate in altro procedimento penale e non anche quelle pronunziate in un procedimento civile, attese le evidenti e sostanziali asimmetrie in ordine alla valutazione della prova che caratterizzano i due diversi ordinamenti processuali. Ne deriva che i giudici di merito erano liberi di procedere ad autonoma valutazione dei fatti e a formarsi il conseguente convincimento, secondo le disposizioni del codice di rito penale in tema di valutazione delle prove''.
Il GIP applica la misura degli arresti domiciliari ``in relazione al delitto di omicidio colposo contestato all'indagato quale datore di lavoro dell'infortunato suo dipendente colpito da un palo in occasione di operazioni di scavo compiute con una pala meccanica, che aveva provocato la caduta del palo stesso; nonché al delitto di truffa aggravata in danno dell'organo di vigilanza dell'ASL, presentando certificato medico di idoneità lavorativa relativo al dipendente in cui si attestava falsamente l'avvenuta visita medica di idoneità dello stesso al lavoro''. La Sez. IV osserva: ``Le esigenze cautelari vengono adeguatamente argomentate, anche sul piano della loro concretezza ed attualità, non solo sulla base dell'intrinseca gravità del fatto e delle modalità della condotta dell'indagato, ma anche sulla base della circostanza che la ditta di cui egli è titolare ha in corso ulteriori lavori di ristrutturazione, con interventi anche in altezza, e che risultano accertate ulteriori violazioni della normativa di sicurezza per detti lavori con riferimento all'installazione di ponteggi in un cantiere. La motivazione circa l'attualità e concretezza del rischio di recidivanza e la necessità di una risposta cautelare adeguata e commisurata al caso concreto ben può fondarsi, se congruamente argomentata, su una valutazione in chiave special-preventiva che sia basata non solo sull'intrinseco disvalore del fatto, ma altresì su un'accertata e immanente proclività al delitto del soggetto attivo (ravvisata, nella specie, sulla base delle modalità particolarmente riprovevoli della sua condotta e delle ulteriori condotte illecite allo stesso contestate in analoga posizione di garanzia)''.
Due preposti di una s.p.a. furono condannati per il reato di lesione personale colposa in danno di un lavoratore colpito da una ``lussazione scapolo omerale destra''. Solo che nel corso del procedimento si sollevarono due questioni riguardanti, ``da un lato, l'effettivo verificarsi del fatto, e, dall'altro, l'attribuibilità delle lesioni al sinistro''. In proposito, la Sez. IV rileva che i magistrati di merito attribuiscono ``valore confessorio alla denuncia di infortunio presentata dalla società datrice di lavoro, trasformando un adempimento di legge, previsto dall'art. 53, comma 4, D.P.R. n. 1124/1965, richiamato dall'art. 18, comma 1, lettera r), D.Lgs. n. 81/2008, in assunzione di responsabilità. Il che è evidentemente una forzatura, non avendo il datore di lavoro, nel momento in cui il lavoratore gli comunichi di avere subito un infortunio, alcuna scelta sulla sua denuncia, ancorché questa intervenga in ritardo rispetto al termine fissato dalla norma, a causa dell'omessa tempestiva informazione da parte del lavoratore. Se il datore di lavoro conosce dell'intervenuto infortunio mesi dopo il suo verificarsi, dovrà denunciarlo, come ben chiarisce la disposizione di cui al comma 1 dell'art. 53 citato `entro due giorni da quello in cui il datore di lavoro ne ha avuto conoscenza'. Il che non implica affatto che il datore di lavoro riconosca la sussistenza dell'infortunio, ma solo che egli, a fronte dell'informazione ricevuta dal lavoratore, adempie agli obblighi amministrativi che gli sono imposti''. Donde ``l'evidente travisamento del significato della denuncia della s.p.a. all'INAIL'': ``la sentenza impugnata riconduce ad unità le divergenze fra le affermazioni rese dal lavoratore in sedi diverse, ad interlocutori diversi ed in tempi diversi, solo attraverso l'attribuzione di valore ammissivo del sinistro sul lavoro, alla denuncia di infortunio da parte del datore di lavoro''.
``La denunzia d'infortunio inoltrata dalla s.r.l. datrice di lavoro (è) elemento non decisivo, ma, tuttavia, utilizzabile per il giudizio svoltosi nelle forme del rito abbreviato. La dichiarazione in parola non costituisce illegittimo surrogato di una dichiarazione proveniente dall'imputato, in assenza di garanzie e al di fuori del modulo processuale cogente, bensì una mera comunicazione avente valore amministrativo effettuata dall'impresa nell'àmbito della cui attività si è verificato l'infortunio, onde dare avvio alla pratica per la verifica dei presupposti per eventualmente riconoscere in favore degli aventi diritto i diritti nascenti dalla polizza assicurativa obbligatoria con l'INAIL. Si tratta, quindi, di un mero documento, confezionato, peraltro, quando ancora non risultavano formalizzate le accuse nei confronti di alcuno, riproduttivo della denunzia d'infortunio, dovuta per legge, che non impinge nel vizio radicale di inutilizzabilità patologica prospettato''.
Condanna per il reato di lesione personale colposa commessa con violazione delle norme antinfortunistiche della legale rappresentante di una scuola professionale per aver cagionato a un'allieva parrucchiera una dermatite allergica da contatto alle mani con caratteristiche di eczema ed accertata sensibilizzazione a parafenilendiammina, in conseguenza delle quali l'allieva riportava un'incapacità di attendere alle proprie ordinarie occupazioni per la durata di quattro mesi. Addebito di colpa generica e specifica: ``oltre a negligenza e imprudenza, l'avere omesso di prendere adeguatamente in considerazione il rischio di esposizione a sostanze chimiche irritanti nell'applicazione delle tinture per capelli, di adottare misure operative idonee a fronteggiare tale rischio, di somministrare adeguate informazioni agli allevi sui rischi collegati alla manipolazione di miscele contenenti sostanze chimiche irritanti e di sottoporre gli allievi parrucchieri alla sorveglianza sanitaria (artt. 2087 c.c., 18, comma 1, lettera g), 28, 29, 36, 37 D.Lgs. n. 81/2008)''. Nel confermare la condanna, la Sez. IV sottolinea cinque punti:
``- la insorgenza della patologia si è manifestata durante la frequentazione dello stage effettuato dalla persona offesa presso la scuola professionale di cui è legale rappresentante l'imputata;
- la persona offesa in precedenza era risultata negativa al test allergologico;
- presso la scuola professionale erano adoperate dagli allievi le tinture;
- il consulente medico ha confermato la riconducibilità della patologia all'attività prestata presso la scuola professionale;
- i DPI messi a disposizione della scuola per prevenire il rischio da contatto con sostanze irritanti fossero del tutto inadeguati''.
Quanto poi all'argomento difensivo secondo cui ``la patologia sarebbe stata indotta dallo stesso test allergologico'', la Sez. IV replica che si tratta di argomento già valutato e adeguatamente disatteso dal primo giudice (``L'assunto per cui la persona offesa avrebbe contratto la malattia in epoca antecedente la frequentazione del corso, in ragione del presupposto della sua maggiore sensibilità alla parafenilendiammina causata da pregressa dermatite atopica, non trova alcun riscontro probatorio. La stessa consulente tecnica ammette la possibilità che il test allergologico causi il manifestarsi della malattia, ma tale prospettazione viene considerata soltanto a livello ipotetico. È verosimile ritenere che la persona offesa, laddove avesse manifestato le medesime lesioni in un periodo precedente a quello in contestazione, si sarebbe comunque attivata quanto meno per sottoporsi a visita medica. Non risulta da alcun atto che la persona offesa abbia mai manifestato la medesima sintomatologia in epoca precedente a quella riferibile alla frequentazione del corso semestrale''). Conclusione: ``le lesioni si sarebbero evitate con l'adozione delle cautele la cui violazione riguarda principalmente la mancata individuazione dei rischi a cui era esposta la persona offesa e la mancata adozione di adeguate misure di protezione''; ``essendo indubbio che le misure omesse da parte dell'imputata, titolare della posizione di garanzia nei confronti dell'allieva, avrebbero potuto impedire l'evento, deve escludersi che l'evento stesso possa definirsi estraneo all'area del rischio cautelato''.
Il legale rappresentante di un'impresa e il direttore di cantiere furono condannati, per avere destinato un lavoratore a mansioni che comportavano la movimentazione manuale di carichi pesanti benché lo stesso fosse stato certificato inidoneo a movimentare pesi superiori a 9 chilogrammi, così da procurargli una malattia consistente in aggravamento di precedente patologia a carico della schiena (spondilosi con ernie discali, con nuova discopatia) da cui derivava una invalidità del 15 %, e infine un infortunio sul lavoro per lombocruralgia: con l'addebito, per il primo, di essere incorso in ``carenze organizzative nella predisposizione di una rete di comunicazioni che avrebbe dovuto convogliare ai soggetti responsabili nella formazione delle squadre di lavoro le informazioni sanitarie su eventuali profili di idoneità alle mansioni'', e per il secondo, di aver omesso di ``recepire e utilizzare tali informazioni dovuto nell'attività di gestione e di coordinamento dei lavoratori operanti nel cantiere''. La Sez. IV rileva: ``Il reato di lesioni colpose è reato istantaneo che si consuma al momento dell'insorgenza della malattia prodotta dalle lesioni e pertanto risultano irrilevanti ai fini del computo del termine prescrizionale la circostanza che le lesioni abbiano conseguenze permanenti o si presentino come irreversibili. A tale fine non rileva la circostanza che, una volta innescatosi il processo morboso, la condotta colposa causatrice della malattia stessa non venga meno e prosegua anche oltre il momento dell'accertamento dello stato patologico, a meno che la prosecuzione della condotta antidoverosa non determini un ulteriore aggravamento della patologia che pertanto determina uno spostamento della consumazione al giorno in cui risulti accertata l'ulteriore debilitazione. Nel caso di specie, non solo il lavoratore venne adibito alla movimentazione di carichi pesanti, in misura superiore a quanto prescritto nella valutazione di idoneità sanitaria, ben oltre la data di verificazione dell'infortunio, ma anche che la prosecuzione di tale attività comportò un aggravamento della patologia fino ad epoca coeva con l'interruzione di tale condotta, aggravamento della discopatia peraltro accertato in epoca successiva. Correttamente la corte d'appello ha escluso il compimento del termine prescrizionale alla data della discussione e della decisione in quel grado, termine che peraltro è maturato in data successiva, circostanza che pertanto determina la immediata declaratoria di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p.''.
``In tema di danno permanente a carico di un organo o di una funzione e in genere, di malattia professionale, causato da, o contratta per, carenza di presidi idonei a scongiurare un tale evento, il tempus commissi delicti non si identifica con quello dell'accertamento che, successivo al verificarsi dell'evento, nulla dice in ordine alla individuazione del momento consumativo del reato''. ``In materia di malattia professionale eziologicamente connessa a fattori determinanti una evoluzione nel tempo, il momento consumativo del reato non è quello in cui viene meno il comportamento del responsabile, bensì quello dell'insorgenza della malattia prodotta dalle lesioni, sicché ai fini della prescrizione il dies commissi delicti deve essere retrodatato al momento in cui risulti la malattia in fieri, anche se non stabilizzata'', e ``in ossequio al principio del favor rei, in ipotesi di esposizione a fattori potenzialmente vulneranti per l'incolumità e la salute del lavoratore che si sia dispiegata nel tempo, l'epoca di verificazione della malattia, anch'essa suscettibile di evoluzione nel tempo, e, quindi, dell'evento del delitto di lesioni personali, deve essere collocata nel momento in cui se ne sono evidenziati i sintomi, non in quella, successiva, in cui l'esposizione ai fattori determinanti la malattia - ormai eventualmente conclamata - è cessata per il venir meno del comportamento illecito del datore di lavoro''. Nel caso di specie, ``l'epoca di insorgenza della malattia, asserita ma non meglio precisata, dal ricorrente deve collocarsi in epoca anteriore al momento del venir meno dell'eventuale comportamento illecito del datore di lavoro per effetto della cessazione del rapporto di subordinazione''. (In passato, Cass. 30 luglio 2001, Gonnella e altra, in ISL, 2001, 10, 564, al fine di escludere la prescrizione del reato di lesione personale colposa consistente in una ipoacusia da rumore, osservò che ``l'esposizione ai rumori lesivi del senso dell'udito è stata sopportata dall'infortunato fino all'anno 1994, epoca in cui i responsabili della azienda hanno provveduto a ridurli'', e che ``fino a tale epoca l'udito del lavoratore è stato sottoposto ad azione lesiva, come, del resto, dimostra la necessità dell'accertamento audiometrico effettuato il 23 dicembre 1993'', e si era, quindi, riportata a quell'orientamento, peraltro isolato, che individua il momento consumativo del delitto di lesione personale colposa consistente in un'ipoacusia da rumore nella data in cui cessa l'esposizione al fattore lesivo: v. Cass. 5 agosto 1992, Diamantini e altro, in Guariniello, Sicurezza del lavoro e Corte di Cassazione, Milano, 1994, 227; contra, esplicitamente, Cass. 27 febbraio 1998, Croci, in ISL, 1998, 6, 336; Cass. 12 maggio 1989, Paletti, in Guariniello, op.cit., 224. Successivamente, Cass. 6 novembre 2001, Garofoli, in ISL, 2002, 1, 51, insegnò ``in materia di malattia professionale (come nel caso in esame l'ipoacusia) quello che conta, non è il venir meno del comportamento del responsabile, ma la insorgenza della malattia stessa''. Discusso è, d'altra parte, se il momento consumativo debba essere collocato nel giorno in cui l'insorgenza e/o l'aggravamento si sia verificato ovvero sia stato accertato. Dopo un'iniziale preferenza per la prima tesi, la Corte Suprema si orientò stabilmente verso la seconda, anche se poi lasciò intravedere un ondeggiamento tra un ritorno alla prima (v., infatti, anche per i precedenti, Cass. 11 maggio 1998, Lucco Borlera e altro, ibid., 1998, 9, 503; non agevolmente comprensibile Cass. 25 febbraio 1999, Torda, ibid., 1999, 6, 365) e la conferma della seconda (Cass. 29 settembre 1999, Berardi e altri, ibid., 1999, 12, 712; nonché, sostanzialmente, Cass. 8 marzo 2000, Brunelli, ibid., 2000, 255). Cass. 6 novembre 2001, Garofoli, cit., si associò a questa seconda tesi, visto che fece decorrere il termine di prescrizione dalla data in cui ``la malattia in questione è stata riscontrata, quando cioè gli operai erano stati sottoposti, l'uno, alla obbligatoria visita medica, e, l'altro, al controllo ispettivo da parte della A.S.L.''. Con riguardo a un caso di tumore professionale v. Cass. 2 ottobre 2003, Monti e altri, ibid., 2003, 12, 717; e a un caso di dipendente adibito a lavori di scavo con martello pneumatico produttivi di rumori e vibrazioni e colpito da lesioni personali gravi consistite in angioneurosi, osteoartropatia, e ipoacusia neurosensoriale permanente Cass. 19 marzo 1999, Vaiana, ibid., 1999, 5, 300, ove si afferma che ``nel caso di procurata malattia, il termine prescrizionale del reato di lesioni personali inizia a decorrere dal momento in cui la malattia abbia cessato la sua evoluzione e si sia stabilizzata nei suoi effetti''; e, con riguardo al caso di specie, pone in luce come ``la infermità del lavoratore, manifestatasi nel 1987, sia andata sempre aggravandosi, almeno sino al 13 giugno 1991, allorché il medesimo fu costretto, per tale ragione, ad abbandonare l'insana attività lavorativa sino allora praticata''. Ancora Cass. 26 febbraio 2010, ibid., 2010, 26, 1489, affrontò un caso in cui il consigliere di amministrazione delegato alla sicurezza, datore di lavoro con poteri decisionali e di spesa - condannato per il delitto di lesione personale colposa, per aver cagionato a un lavoratore la malattia professionale della angiopatia da strumenti vibranti - aveva lamentato ``la mancata declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, il cui decorso iniziale sarebbe stato erroneamente calcolato dai giudici del merito che hanno a tal fine preso in considerazione la data dell'accertamento medico invece che quella dell'insorgenza della malattia professionale''. La Sez. IV non fu d'accordo. Rilevò che ``il perpetuarsi dell'esposizione del lavoratore alle vibrazioni del martello pneumatico, in assenza di presidi di protezione, aveva necessariamente contribuito ad aggravare la malattia ed a spostare in avanti la data di consumazione del delitto contestato, individuata in via definitiva solo dopo la visita specialistica del medico dell'INAIL che ha certificato, oltre che l'insorgenza, l'entità della malattia professionale''. E considerò irrilevante ``la circostanza che la malattia professionale sia stata valutata nella percentuale del 4%, non essendo evidentemente collegata a tale percentuale la individuazione della data in cui il quadro clinico del lavoratore si è definitivamente chiarito''. Agevole è desumerne che il quadro della giurisprudenza appare in materia più ampio e articolato rispetto alle due sole decisioni ora richiamate in motivazione dalla Sez. V: e, cioè, la predetta sentenza Croci e Cass. 14 giugno 1988, Pedrocchi, citata in Guariniello, op.cit., 222, in nota).
In un momento storico in cui da più parti si paventa la prescrizione, la Cassazione ne allarga i confini applicativi anche nei procedimenti penali in materia di sicurezza sul lavoro. All'origine si colloca il principio di diritto affermato da Sez.Un. 24 settembre 2018, n. 40986, per cui ``in tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta''.A sua volta, con la sentenza 28 marzo 2019, n. 13582, la Sez. IV ebbe a trarne occasione per affermare questo principio di diritto: ``a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole concernente la disciplina della prescrizione e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la disciplina sulla prescrizione vigente al momento della cessazione della condotta (nella specie trattasi di omicidio colposo plurimo, con inosservanza della normativa antinfortunistica in materia di amianto, cui è conseguito il decesso di lavoratori nella vigente della attuale normativa sulla prescrizione (art. 157 c.p. come sostituito dalla L. 2005 n. 251/2005)'' (per l'ulteriore applicazione di questo principio v. Cass. n. 2844 del 25 gennaio 2021 al paragrafo 32). Con la seguente pronuncia, la Sez. IV applica la prescrizione anche nell'ambito degli stessi infortuni sul lavoro:
Infortunio in danno di due tecnici dipendenti di una s.r.l. incaricati di effettuare un campionamento dei fumi dei camini di una raffineria e posizionatisi all'interno di un cestello sollevato dal braccio meccanico di una gru collocata su un autocarro: ``nel momento della elevazione il braccio telescopico si era spezzato con conseguente caduta degli occupanti''. A causa della caduta al suolo, un tecnico muore, l'altro riporta lesioni gravissime poiché era riuscito ad aggrapparsi al cestello. Causa del sinistro: collasso strutturale della gru. Condannati i due successivi legali rappresentanti della società costruttrice della gru. Senonché la Sez. IV annulla per intervenuta prescrizione la condanna dell'imputato che aveva rivestito la carica di legale rappresentante in epoca più risalente: ``le condotte poste in essere dall'imputato si collocano temporalmente nel periodo compreso in epoca anteriore alla entrata in vigore del regime di prescrizione introdotto dalla L. n. 251/2005, e in virtù del regime di prescrizione vigente prima della introduzione della c.d. legge `Cirielli', per consolidato orientamento della Corte di legittimità, in tema di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche, la concessione delle attenuanti generiche, in rapporto di prevalenza sull'aggravante, influiva sulla determinazione del tempo necessario a prescrivere''.
Alcuni anni or sono, invece, sulla costituzionalità del termine di prescrizione per l'omicidio colposo aggravato:
La Sez. IV dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, comma 6, c.p.p., nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione del reato di omicidio colposo aggravato previsto e punito dall'art. 589, comma 2, c.p. è raddoppiato. A dire degli imputati, ``il raddoppio del termine di prescrizione sarebbe irragionevole e irrazionale'', e ``la violazione del principio di uguaglianza risiederebbe nella previsione per cui l'omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica avrebbe un termine di prescrizione più lungo del più grave reato di concussione''. Ma la Sez. IV ribatte che ``la stessa sentenza n. 143 del 2014 della Corte Costituzionale spiega che `l'esigenza di rispetto della discrezionalità amministrativa impedisce di sindacare la previsione di termini diversi per reati fra loro eterogenei quanto a bene giuridico protetto, condotta ed evento''', e che, ``nel caso che ci occupa, l'evidente diversità di bene giuridico protetto tra l'omicidio colposo (la persona) e la concussione (la Pubblica Amministrazione), invalida ogni possibilità di sindacato costituzionale dell'art. 157, comma 6, c.p.''. In proposito, precisa che ``la correttezza di tale notazione è confermata dallo stesso decisum della sentenza 143/2014 con cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 157, comma 6, c.p., perché, con riguardo all'incendio colposo, prevedeva termini di prescrizione più lunghi rispetto all'incendio doloso, con la conseguenza che il reato colposo aveva un trattamento sanzionatorio più gravoso rispetto all'identica fattispecie, più grave, perché commessa con dolo''. (Si richiama alla sentenza n. 143/2014 della Corte Costituzione Cass. 19 febbraio 2018, n. 7684, in rapporto a un’ipotesi d’incendio colposo; a sua volta, Cass. 8 marzo 2018, n. 10556 nota che nella sentenza n. 143/2014 la Corte Costituzionale non si riferisce al crollo colposo ex artt. 449-434, comma 2, c.p.); inoltre, Cass. 5 aprile 2018 n. 15206 considera ``manifestamente infondata l'eccezione di legittimità costituzionale, rispetto all'art. 157, comma 6, c.p., in riferimento all'art. 3 Cost., giacché la diversa individuazione dei termini di prescrizione, per l'omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro rispetto al reato di morte quale conseguenza di altro delitto di cui all'art. 586 c.p. non presenta affatto profili di irrazionalità in considerazione della evidente incomparabilità delle fattispecie poste a confronto'').
(V. successivamente Cass. 25 settembre 2018, n. 41348, ove si segnala che la Corte costituzionale con sentenza n. 265/2017 ha dichiarato infondato il dubbio sulla legittimità costituzionale dell'art. 157, sesto comma, c.p., nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione del delitto di crollo di costruzioni o altro disastro colposo (art. 449, in riferimento all'art. 434 c.p.) è raddoppiato ``il giudice delle leggi ha ritenuto che al legislatore non è precluso di ritenere, nella sua discrezionalità, che in rapporto a determinati delitti colposi la `resistenza all'oblio' nella coscienza sociale e la complessità dell'accertamento dei fatti siano omologabili a quelle della corrispondente ipotesi dolosa, giustificando, con ciò, la sottoposizione di entrambi ad un identico termine prescrizionale. E tale apprezzamento può legittimamente esprimersi anche attraverso la introduzione di deroghe alla disciplina generale''.
``Deve essere dichiarata manifestamente infondata la doglianza riguardante la prospettata illegittimità costituzionale dell'art. 83 c.p.p., per contrasto con gli artt. 2, 3, 10, 24 e 27 Cost., nella parte in cui non prevede che l'imputato possa citare in giudizio, in veste di responsabile civile, la società assicuratrice al di fuori delle ipotesi di assicurazione obbligatoria contemplata dalla legge 24 dicembre 1969 n. 990. La Consulta si è già occupata in diverse pronunce della tematica che qui interessa''. ``Sulla questione di legittimità costituzionale dell'art. 83 c.p.p., non ha incidenza la prospettata violazione dell'art. 6 CEDU. Inconferenti sono i richiami alla ragionevole durata del processo: la difesa sostiene che la denegata possibilità di chiamare in causa l'assicuratore nella fattispecie in esame determinerebbe un pregiudizio in suo danno, dovendo attendere la definitività del processo penale e promuovere ulteriori procedimenti civili con assunzione di costi maggiori anche in termini di carico del sistema giudiziario. Si trascura di considerare che il reato di cui si discute è estinto per intervenuta prescrizione; dichiarata la sopravvenuta causa estintiva del reato, l'imputato avrà diritto a che la sua responsabilità penale non sia più rimessa in discussione, mentre la parte civile avrà diritto al pieno accertamento dell'obbligazione risarcitoria. Il legislatore ha in questo caso operato un bilanciamento tra le esigenze sottese all'operatività del principio generale di accessorietà dell'azione civile rispetto all'azione penale e le esigenze di tutela dell'interesse del danneggiato costituito parte civile nel processo. II sistema non contravviene al principio di ragionevole durata del processo, garantendo, anzi, nell'ambito del medesimo contesto, una pronuncia anche sugli interessi civili''.
È esclusa ``la ricorrenza dell'art. 185 c.p. in relazione alla responsabilità civile del terzo assicuratore, essendosi l'infortunio realizzato nell'ambito di un segmento lavorativo in cui l'automezzo si trovava ancora all'interno di area privata, non destinata a pubblico transito, per di più delimitata e recintata e non aperta a un numero indeterminato di persone, bensì destinata abitualmente al ricovero di mezzi dj proprietà privata''. Ed è escluso ``coerentemente che la ricorrenza di un ulteriore patto assicurativo che estenda la garanzia rispetto ad eventi che si siano realizzati in aree private, soprattutto per tutelare l'imprenditore da rischi connessi all'attività professionale, costituisca ipotesi di responsabilità diretta dell'assicuratore nei confronti del danneggiato, in relazione alla quale possa essere esercitata l'azione civile ai sensi degli artt. 1 e 18 L. n. 990/1969, trattandosi invero di stipulazione che vincola esclusivamente le parti in causa, e in particolare l'istituto assicuratore a manlevare il responsabile in ipotesi di concretizzazione del rischio garantito''.
``A parte l'ipotesi di responsabilità civile derivante dall'assicurazione obbligatoria prevista dalla legge 24 dicembre 1969 n.990, in riferimento alla quale l'assicuratore può essere citato nel processo penale a richiesta dell'imputato - stante la modifica apportata all'art.83, comma 1, c.p.p. dalla sentenza additiva della Corte Costituzionale n.112 del 1998 - nella generalità delle ipotesi risarcitorie l'imputato non è, invece, legittimato a chiamare in giudizio il responsabile civile e neppure ad opporsi, in sede di impugnazione, all'eventuale estromissione del responsabile civile dal processo penale. I principi affermati con la sentenza n.112 del 1998 sono intimamente saldati, sul piano logico e strutturale, con la particolare ipotesi della responsabilità civile derivante dall'assicurazione obbligatoria di veicoli e natanti, e non possono essere automaticamente trasferiti ad altre figure di responsabilità civile da reato, quale appunto quella in esame'' (omicidio colposo in danno di lavoratore infortunato). (V. anche Cass. 7 giugno 2018, n. 25830 e Cass. 19 maggio 2017, n. 24910).
Oltre a Cass. 20 aprile 2022 n. 15163, v.:
Il Tribunale dichiara non doversi procedere nei confronti di tre imputati del reato di lesione personali colpose per infortunio sul lavoro, ``per essere il reato estinto per esito positivo della messa alla prova ai sensi degli artt. 531 e 464-septies, comma 1, c.p.p.''. La Sez. IV non accoglie il ricorso della parte civile: ``L'art. 168-bis, comma 2, c.p. vincola la messa alla prova alla prestazione di condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato nonché, ove possibile, al risarcimento del danno. L'avere subordinato la concessione della messa alla prova all'impegno risarcitorio dell'imputato e l'avere previsto la revoca o la declaratoria di esito negativo e case ci suo inadempimento - si vedano gli artt. 454-septies, 464-octies c.p.p. - induce a ritenere che il risarcimento della vittima, ove possibile, sia presupposto imprescindibile di tale istituto, non in via alternativa ma congiunta rispetto alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Ove le prescrizioni imposte dal giudice ai sensi dell'art. 464-quinquies c.p.p. non rispondano alle pretese della parte offesa, essa avrà modo di tutelare queste ultime in sede civile''. ``Il giudice di merito ha ritenuto che le compagnie assicuratrici avessero indirizzato alla persona offesa una seria proposta risarcitoria basata sulle risultanze della visita medica collegiale, tenuto conto delle somme già percepite dall'infortunato dall'INAIL. La parte civile, insoddisfatta della proposta dalie compagnie assicuratrici, rimanendo impregiudicate le sue ragioni, potrà far valere le sue pretese in altra sede''.
Condannato per il delitto di lesione personale colposa in danno di un dipendente infortunato, il presidente del consiglio di amministrazione di una s.r.l. richiede l'ammissione alla messa in prova. La Sez. IV ribatte: ``l'imputato non può chiedere la sospensione del procedimento con la messa alla prova di cui all'art. 168-bis c.p., né può a tal fine sollecitare l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito, perché il beneficio dell'estinzione del reato, connesso all'esito positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un iter processuale alternativo alla celebrazione del giudizio''.
La Sez. IV affronta un'ipotesi in cui la titolare di uno studio professionale ricorre contro l'assoluzione perché il fatto non costituisce reato dal delitto di lesione personale colposa in danno di una persona che, nel recarsi presso lo studio, cadeva. E, in particolare, lamenta che ``la formula di proscioglimento prescelta doveva essere non già quella `perché il fatto non costituisce reato', ma quella, più favorevole, dell'insussistenza del fatto'', e che ``la formula di cui si chiede l'annullamento ha esposto la ricorrente ad azione di responsabilità civile da parte della persona offesa, costituitasi parte civile nel giudizio, e le ha precluso la possibilità di ottenere la rifusione delle spese legali''. La Sez. IV non è d'accordo: ``È ben vero che, secondo un indirizzo interpretativo espresso da alcune pronunce della Suprema corte, sussisterebbe un interesse dell'imputato ad impugnare la sentenza assolutoria con la formula `perché il fatto non costituisce reato' al fine di ottenere la più ampia formula liberatoria `perché il fatto non sussiste', e che tale interesse andrebbe individuato nei diversi e più favorevoli effetti che gli artt. 652 e 653 c.p.p. connettono alla formula più ampia nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno e nel giudizio disciplinare. Tuttavia, deve darsi conto di altro ed opposto orientamento, qui condiviso, espresso dalla ormai prevalente giurisprudenza di legittimità, in base al quale è inammissibile per carenza d'interesse il ricorso dell'imputato avverso la sentenza di assoluzione `perché il fatto non costituisce reato', al fine di ottenere la più ampia formula liberatoria `perché il fatto non sussiste', ove la sentenza impugnata sia affetta da una palese incoerenza della decisione assolutoria con la motivazione e, pur escludendo la prova dell'elemento oggettivo del reato, assolva ritenendo carente il profilo psicologico, perché ciò esclude ogni pregiudizio per l'impugnante; l'indirizzo qui richiamato è fondato sul rilievo che, sebbene gli artt. 652 e 654 c.p.p. attribuiscano efficacia vincolante nel giudizio civile o amministrativo alla sentenza penale, compete sempre al giudice civile il potere di accertare autonomamente con pienezza di cognizione i fatti dedotti in giudizio e di pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate all'esito del processo penale. Nel caso di specie, pur essendovi stata assoluzione con formula che esclude formalmente il solo elemento soggettivo del reato, tuttavia la motivazione della sentenza impugnata enuncia con chiarezza le ragioni per le quali il giudicante non ha ritenuto accertato, in realtà, lo stesso elemento oggettivo del reato, sia sotto il profilo della condotta ascritta all'imputata (non essendo stato comprovato che la gomma che rivestiva la pedana versasse in cattivo stato d'uso), sia sotto il profilo del rapporto di causalità (avendo il giudice ravvisato la possibilità che la persona offesa sia caduta a causa di una distrazione imputabile in via esclusiva alla medesima). Perciò, non può che ribadirsi il principio in base al quale l'interesse dell'imputato all'impugnazione della sentenza di proscioglimento al fine di ottenere la più ampia formula liberatoria, deve essere riconosciuto allorquando egli deduca che l'accertamento del fatto materiale oggetto del processo penale possa pregiudicare le situazioni giuridiche soggettive a lui facenti capo in giudizi civili e amministrativi, anche distinti rispetto a quelli di danno ovvero disciplinari; non anche quando, come nel caso di specie, il fatto reato non risulti accertato nella sua materialità (indipendentemente dalla formula di proscioglimento formalmente adottata) e, quindi, non venga ad integrarsi alcun pregiudizio nella prospettiva di un successivo giudizio civile, nell'ambito del quale vi è piena autonomia di cognizione e di valutazione da parte dell'organo chiamato a giudicare in tale sede. Oltretutto, la motivazione della sentenza impugnata non fornisce comunque elementi di certezza in ordine alla sussistenza o meno del fatto addebitato all'odierna ricorrente; e in proposito merita di essere richiamata la recentissima giurisprudenza civile di legittimità, del tutto pertinente al caso di che trattasi, in base alla quale, ai sensi dell'art. 652 (nell'ambito del giudizio civile di danno) e dell'art. 654 (nell'ambito di altri giudizi civili) c.p.p., il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo quando contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza o del fatto o della partecipazione dell'imputato e non anche quando l'assoluzione sia determinata dall'accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilità di esso all'imputato Poiché, però, in dispositivo il giudicante utilizza incongruamente la formula `perché il fatto non costituisce reato', la sentenza impugnata va considerata sul punto, per quanto di interesse, come riformata - pur a fronte dell'inammissibilità del ricorso per le viste ragioni - per quel che riguarda la formula assolutoria, sostituendosi quella della insussistenza del fatto a quella del non costituire detto fatto reato. Ciò, però, non determina alcuna conseguenza sulla statuizione con la quale il giudice non ha provveduto sulla richiesta dell'imputata di condannare la parte civile al pagamento delle spese processuali da lei sostenute: invero, lo stesso giudicante ha motivato tale decisione non già con il fatto che l'assoluzione sia stata deliberata con la formula `perché il fatto non costituisce reato', ma con la necessità di un vaglio istruttorio in ordine alla fondatezza della domanda risarcitoria spiegata dalla stessa parte civile, in coerenza con il percorso argomentativo nel quale lo stesso giudice ha dubitato della sussistenza del fatto materiale; ed è pacifico il principio in base al quale la condanna della parte civile alla rifusione delle spese sostenute dall'imputato, che abbia presentato la relativa domanda nell'ambito di un processo per reato perseguibile a querela, può essere esclusa per la presenza di giusti motivi, i quali debbono essere individuati e valutati dal giudice, mentre, viceversa, l'accoglimento della domanda di condanna della parte civile alla rifusione delle spese in favore dell'imputato dev'essere preceduto dall'accertamento e quindi da un motivato giudizio, sull'esistenza dell'elemento della colpa nell'esercizio del diritto di querela''.
``Nel caso di accoglimento del ricorso per cassazione della parte civile avverso una sentenza di assoluzione, nel conseguente giudizio di rinvio, ai fini dell'accertamento del nesso di causalità, come pure dei profili di ascrivibilità colposa della condotta, il giudice civile è tenuto ad applicare le regole di giudizio del diritto penale e non quelle del diritto civile, essendo in questione, ai sensi dell'art. 185 c.p., il danno da reato e non mutando la natura risarcitoria della domanda proposta, ai sensi dell'art. 74 c.p.p., innanzi al giudice penale''.
Nell'ambito del procedimento penale per il disastro di Rigopiano con decesso di 29 persone, il GIP rigetta l'istanza, formulata ex art. 391 quater c.p.p., con cui i difensori avevano sollecitato il sequestro probatorio delle e-mail inviate e ricevute dai dirigenti della protezione civile della regione. La Sez. IV dà ragione al GIP; ``Il provvedimento oggetto di impugnazione rigetta l'istanza di sequestro probatorio prendendo atto dell'attivazione del pubblico ministero che, al fine dell'acquisizione delle e-mail indicate nell'istanza medesima, con provvedimento assunto ai sensi dell'art. 256 c.p.p. ha ordinato l'esibizione del materiale chiesto'', e ``sulla base di questa constatazione il GIP ha concluso per la superfluità dei sequestro richiesto''.
Il titolare di un'impresa edile - condannato per i reati di agli artt. 111, comma 6, e 122 D.Lgs. n. 81/2008 ``per aver omesso di adottare misure di sicurezza equivalenti ed efficaci in sostituzione di quelle eliminate temporaneamente per eseguire particolari lavori'' e ``per non aver realizzato il ponteggio a regola d'arte con materiali atti ad evitare il pericolo di caduta di persone e cose'' - eccepisce che ``le violazioni in quanto riferite al ponteggio, sono sotto il profilo del principio di specialità sia astratto che concreto, omogenee avendo ad oggetto lo stesso bene giuridico tutelato, ovverosia la sicurezza del lavoratore''. La Sez. III replica: ``In tanto ricorre il principio di specialità disciplinato dall'art. 15 c.p. in quanto, in presenza di più disposizioni di legge regolanti la stessa materia, gli elementi costituitivi dell'una siano compresi anche nell'altra che però contenga qualche elemento in più, di carattere particolarmente qualificante, sicché l'ipotesi di cui alla norma speciale, ove questa mancasse, ricadrebbe nell'ambito operativo di quella generale. Trattasi di due condotte autonome ed eterogenee tra loro, riguardando l'una la mancata installazione dei presidi di sicurezza in sostituzione di quelli temporaneamente rimossi e l'altra le operazioni di montaggio del ponteggio''.
Nell'ambito di un procedimento penale avanti al tribunale, i responsabili di una s.p.a. e il conducente di un autocarro di proprietà della s.p.a. con funzioni di caposquadra sono imputati di omicidio colposo in danno di due operai di un cantiere stradale; alla stessa s.p.a. si addebita l'illecito di cui all'art. 25-septies D.Lgs. n. 81/2008 dipendente dall'omicidio colposo. Nel contempo, innanzi il giudice di pace, si instaura un procedimento relativo ad opposizione a sanzione amministrativa inerente alla violazione dell'art. 153, commi 7-11, c.s. contestata al conducente dell'autocarro per mancato uso dei dispositivi luminosi gialli ed atti a segnalare la presenza dell'autocarro in lento movimento cantieristico all'interno della corsia di emergenza. La Sez. I osserva che l'accertamento della violazione amministrativa non ha alcun rilievo sull'accertamento dell'omicidio colposo, poiché in sede penale sono imputate al conducente caposquadra del cantiere stradale mobile la mancata organizzazione dell'attività del cantiere stesso secondo modalità tali da permettergli di regolare e far rispettare le distanze di sicurezza (ponendosi egli stesso in testa alla colonna di veicoli) e l'omessa vigilanza in ordine alla condotta di altro dipendente, a lui facente capo, circa il mancato rispetto della distanza di sicurezza, con violazione dell'art. 19, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008. Esclude, pertanto, che ``l'accertamento del reato, per come prefigurato, possa in certa misura dipendere dall'accertamento della violazione dell'art 153 D.Lgs. n. 285/1992''. E in base agli artt. 24, comma 1, L. n. 689/1981 e 221 D.Lgs. c.s., dichiara la competenza del giudice di pace.
Su questione attinente alla rinuncia alla priorità dell'esercizio della giurisdizione dello Stato italiano in procedimento a carico di militare appartenente alle forze statunitensi della NATO per il delitto di lesioni personali colpose v. Cass. 2 gennaio 2018, n. 36.
Condannato per l'infortunio mortale a un apprendista, il datore di lavoro eccepisce ``l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal consulente tecnico del pubblico ministero, già contattato prima di assumere l'incarico dall'imputato e dal difensore di quest'ultimo''. La Sez. IV replica: ``L'art. 225, comma 3, c.p.p. estende al consulente tecnico il divieto di assumere l'incarico regolato dall'art. 222 c.p.p. per il perito qualora ricorrano alcune condizioni, come l'incapacità legale, l'interdizione da pubblici uffici, l'essere sottoposto a misure di sicurezza o di prevenzione, l'incapacità a testimoniare o la facoltà di astenersi dal testimoniare. La norma non richiama l'ulteriore divieto, previsto esclusivamente per il perito, di assumere l'incarico qualora sia stato nominato consulente nel medesimo procedimento o in un procedimento connesso. Quest'ultimo divieto evidenzia, in particolare, l'imparzialità richiesta al perito e non al consulente tecnico di parte. Ma, nel caso in esame, risulta dirimente il rilievo per cui le incapacità ed incompatibilità del perito richiamate dall'art. 225, comma 3, c.p.p. non trovano in ogni caso applicazione nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero nominato ai sensi dell'art. 359 c.p.p., in quanto la collocazione sistematica della norma rende evidente che le incompatibilità previste per il perito ed i consulenti riguardino la perizia ed il suo espletamento. Le medesime garanzie non hanno invece ragion d'essere quando si tratti di una consulenza di parte disposta dal pubblico ministero in sede di indagini preliminari. Corollario di tale principio è l'impossibilità di includere tra gli atti inutilizzabili gli accertamenti eventualmente compiuti dal consulente tecnico del pubblico ministero che si trovi in una delle situazioni previste dall'art. 222 c.p.p., anche perché si tratterebbe di nullità relativa che resterebbe sanata se non eccepita dalla parte interessata non appena ha notizia del conferimento dell'incarico e, quindi, ancora prima che esso sia adempiuto. Né il consulente tecnico incaricato dal pubblico ministero di effettuare accertamenti che richiedono particolari conoscenze scientifiche riveste la qualità di ausiliario dell'organo inquirente, sicché per questi non può valere la condizione di incompatibilità a testimoniare prevista dall'art. 197, comma 1, lett. d), c.p.p., richiamata dall'art. 222, lett. d), c.p.p. Infine va richiamata la pronuncia con la quale la Corte di Cassazione ha già ritenuto manifestamente infondata in riferimento agli articoli 3 e 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 225, comma 3, c.p.p., nella parte in cui non prevede l'incompatibilità del perito d'ufficio ad essere nominato consulente di parte nel medesimo procedimento, in quanto l'esigenza di imparzialità cui è preordinato il divieto per il consulente di parte di prestare l'ufficio di perito del giudice nel medesimo procedimento, non sussiste nell'ipotesi in cui, al contrario, sia il perito ad essere nominato consulente di parte nel medesimo procedimento, ad ulteriore conferma della necessità di distinguere la disciplina applicabile alle due figure processuali''.
Comincia a manifestarsi nella giurisprudenza l'interesse per la direttiva 2012/29/UE che ha istituito norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato:
In forza dell'art. 408, comma 3 bis, c.p.p., ``per i delitti commessi con violenza alla persona e per il reato di cui all'art. 624 bis c.p.'', l'avviso della richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero al giudice per infondatezza della notizia di reato ``è in ogni caso notificato, a cura del pubblico ministero, alla persona offesa'', e, dunque, anche se la persona offesa non abbia dichiarato, nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione, di volere essere informata circa l'eventuale archiviazione. Nel caso esaminato dalla presente sentenza, relativo a procedimento penale per il reato di lesione personale colposa di cui all'art. 590 c.p., la persona offesa eccepisce la nullità del decreto di archiviazione emesso dal GIP ``per non essere stato tempestivamente avvisato, ai sensi dell'art. 408, comma 3 bis, c.p.p., della richiesta di archiviazione depositata dal pubblico ministero, con conseguente violazione del diritto al contraddittorio''. La Sez. IV premette che il comma 3 bis aggiunto all'art. 408 c.p.p. dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119 ``ha inteso rafforzare, sotto vari profili, il regime dei diritti e delle facoltà che l'ordinamento riserva alla persona offesa, anche in adempimento degli obblighi internazionali derivanti dalla ratifica della Convenzione di Instanbul del Consiglio d'Europa dell'11 maggio 2011 che descrive le tipologie della violenza nei confronti delle donne, la violenza domestica e la violenza di genere e dalla direttiva 2012/29 UE in materia di diritti, assistenza e protezione della vittima di reato''. Ricorda che ``la Suprema Corte (Sez. Un. n. 10959 del 29 gennaio 2016) ha chiarito che la locuzione `delitti commessi con violenza alla persona' inserita dal legislatore in sede di conversione del D.L. n. 93/2013 in luogo dell'originario richiamo al solo reato di maltrattamenti in famiglia previsto nella decretazione di urgenza, deve essere intesa alla luce del concetto di violenza di genere, quale risulta dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario e ricomprende, pertanto, i delitti che si estrinsecano in atti di violenza morale, tali da cagionare una sofferenza piscologica ed emotiva e che si realizzano con minacce e con atti persecutori''. Sottolinea che ``la direttiva 2012/29/UE - al considerando n. 17 - fornisce la nozione di violenza di genere, definendola come `la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere'; tale forma di violenza può avere provocato `un danno fisico, sessuale o psicologico, o una perdita economica alla vittima' ed è considerata `una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale, la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genetica femminile e i cosiddetti reati d'onore'''. Aggiunge che ``il successivo - considerando n. 18) - chiarisce che per violenza nelle relazioni strette va intesa `quella commessa da una persona che è l'attuale o l'ex coniuge o partner della vittima ovvero da un altro membro della sua famiglia, a prescindere dal fatto che l'autore del reato conviva o abbia convissuto con la vittima''', e che ``il tratto comune che unifica tali persone offese è costituito dal fatto che esse risultano esposte a un concreto pericolo di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni''. Da questa ``complessiva lettura ermeneutica, coerente con la ratio legis sottesa alla novella'', ricava che ``gli atti di violenza alla persona, sia fisica che morale, devono essere necessariamente intenzionali'', e che, pertanto, ``i reati colposi restano esclusi dall'area applicativa dell'art. 408, comma 3 bis, c.p.p.''. (È da ricordare a scanso di equivoci che Cass. 7 settembre 2017, n. 40765, pres. Izzo, est. Dovere, inedita, ebbe ad affermare che nel novero dei `delitti commessi con violenza alla persona' ``di certo, rientra il reato di cui all'art. 589 bis c.p., non risultando scriminante la natura colposa o dolosa dell'illecito''. Ma nella sentenza qui presentata si ribatte che ``si tratta chiaramente di un mero obiter dictum in quanto nel predetto caso è stato disposto l'annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato perché emesso in violazione dell'art. 408, comma 2, c.p.p., risultando disattesa la formale richiesta della persona offesa di essere avvisata della richiesta di archiviazione'').
Nell'ambito di un procedimento per omicidio colposo, le persone offese mettono in dubbio ``la conformità del nostro ordinamento con la legislazione dell'Unione Europea dedicata alle vittime del reato e, in particolare, con la Direttiva 2012/29/UE che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime del reato, e rimanda poi ai singoli sistemi giudiziari nazionali le modalità di partecipazione delle stesse vittime al procedimento (art. 20) e prevede il loro diritto di chiedere la revisione di una decisione di non esercitare l'azione penale adottata dal Pubblico Ministero o dal Giudice Istruttore''. La Sez. IV osserva: ``In forza della delega contenuta nella L. 6 agosto 2013, n. 96 è stata data attuazione a tale Direttiva con il D.Lgs. 15 dicembre 2015 n. 212, che ha modificato il Titolo VI del Libro I del codice di rito, ampliando i diritti e le facoltà della persona offesa. Relativamente alla richiesta di archiviazione, che interessa nel caso di specie, i diritti e le facoltà della persona offesa sono contemplati dagli artt. 408, 409 e 410 c.p.p. che prevedono, in sintesi, un diritto di informativa, di iniziativa probatoria, di sollecitazione agli organi deputati di ulteriori indagini preliminari ed, infine, di ricorso al giudice di legittimità. Manifestamente infondata dunque la questione di legittimità costituzionale in relazione all'art. 117 Cost., poiché la legislazione italiana in materia, ancora prima di adeguarsi alla citata Direttiva UE, tutela le posizioni delle persone offese dal reato e prevede le modalità della loro partecipazione al procedimento penale''.
(Sulla direttiva 2012/29/UE v. anche, retro, al paragrafo 13, Cass. 12 gennaio 2018 n. 1277).
I proprietari di una villetta furono assolti in primo grado e condannati in appello per omicidio colposo, perché, ``dando incarico o comunque consentendo che l'infortunato procedesse a lavori di sistemazione di un patio; fornendogli o consentendo che la vittima si avvalesse di una scala inidonea e priva di adeguati strumenti di protezione, atti ad impedire l'accidentale caduta al suolo; non adottando appropriate cautele e non fornendo al lavoratore adeguate informazioni circa i pericoli connessi all'attività svolta, contribuivano a determinare le condizioni che ne agevolavano la caduta al suolo e così la morte''. Facendo richiamo al principio del ``fair trial'', la Sez. IV annulla con rinvio la condanna: ``il giudice di secondo grado, avendo fondato il ribaltamento dell'epilogo assolutorio proprio su una diversa valutazione delle dichiarazioni rese dai testimoni, non poteva astenersi dal riesaminarli''.
``La regola di giudizio dell'al di là di ogni ragionevole dubbio, ex art. 533, comma 1, c.p.p. consente di pronunciare sentenza di condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto ricostruzioni alternative costituenti eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili `in rerum natura' ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana. Il procedimento logico conforme a tale canone legislativo ispirato alla regola b.a.r.d. (beyond any reasonable doubt) di derivazione anglosassone - deve condurre dunque ad una conclusione caratterizzata da un alto grado di credibilità razionale e, quindi, alla `certezza processuale' che, esclusa l'interferenza di decorsi alternativi, la condotta sia attribuibile all'agente come fatto proprio''. (Nel caso di specie, la Sez. IV annulla la condanna di due responsabili aziendali in applicazione di siffatta regola).
``Ai fini dell'ammissibilità della richiesta di revisione, possono costituire `prove nuove' ai sensi dell'art. 630, comma 1, lett. c), c.p.p., quelle che, pur incidendo su un tema già divenuto oggetto di indagine nel corso della cognizione ordinaria, siano fondate su nuove acquisizioni scientifiche e tecniche diverse e innovative, tali da fornire risultati non raggiungibili con le metodiche in precedenza disponibili'', e, dunque, ``su nuove metodologie, più raffinate ed evolute idonee a cogliere dati obiettivi nuovi, sulla cui base vengano svolte differenti valutazioni tecniche. Nel caso di specie non vi è alcuna acquisizione scientifica innovativa, tale da inficiare le risultanze poste a fondamento del giudizio di condanna''.
Con riguardo a una drammatica vicenda concernente le sostanze inquinanti di uno stabilimento industriale, la Sez. V sviluppa una preziosa analisi dedicata alla punibilità per il reato di falso ideologico di cui all'art. 479 c.p. del consulente del pubblico ministero che falsamente escluda la possibilità di ricondurre in modo univoco siffatte sostanze all'attività di quello stabilimento, in tal guisa non consentendo al P.M. di richiedere e/o adottare provvedimenti cautelari utili ad impedire la prosecuzione dell'attività criminosa. Diverse, e particolarmente utili in rapporto ai procedimenti penali in tema di inquinamento negli ambienti di lavoro e di vita, sono le delucidazioni fornite dalla Sez. V:
1) Anzitutto, ``la falsa consulenza redatta dall'ausiliario dell'organo dell'accusa non integra il delitto di falsa perizia (art. 373 c.p.), perché detto soggetto non è equiparabile, nell'attuale sistema processuale, al perito nominato dal giudice, come invece lo era il perito nominato dal pubblico ministero nel corso dell'istruzione sommaria, ai sensi dell'art. 391, comma 2, c.p.p. del 1930'', e, quindi, è esclusa ``la possibilità di estendere in via interpretativa il concetto di `perizia' alia `consulenza tecnica' in quanto ciò comporterebbe una violazione del principio di tassatività del precetto penale''.
2) Ai fini della valutazione circa la configurabilità del reato di falso ideologico in capo al consulente tecnico del pubblico ministero, la Sez. V non nutre dubbi ``sulla peculiarità di tale soggetto e sull'esercizio da parte sua di una `funzione pubblica', che ripete i `connotati' da quella dell'organo che coadiuva''. E ne ricava che ``la relazione redatta dal consulente tecnico del pubblico ministero è idonea a rientrare nella nozione di atto pubblico oggetto del delitto di falso ideologico ex art. 479, comma 1, c.p., la quale ricomprende ogni atto redatto dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni''.
3) Peraltro, viene affermata ``la natura di atto non avente fede privilegiata della relazione di consulenza tecnica'': ``affinché sia configurabile la circostanza aggravante prevista dall'art. 476, comma 2, c.p., la falsità ideologica deve riguardare documenti dotati di fede privilegiata ovvero quelli emessi dal pubblico ufficiale investito di una speciale potestà documentatrice, attribuita da una legge o da norme regolamentari, anche interne, ovvero desumibili dal sistema, in forza della quale l'atto assume una presunzione di verità assoluta, ossia di massima certezza eliminabile solo con l'accoglimento della querela di falso o con sentenza penale''.
4) Tutto ciò precisato, la Sez. V ritiene ``configurabile il reato di falso ideologico in capo al consulente del pubblico ministero nel caso in cui la falsità non verta esclusivamente sul momento `valutativo' della sua attività, ancorato a parametri `opinabili', ma sia frutto di consapevole rappresentazione falsa del processo descrittivo dei presupposti fattuali a cui consegue la valutazione, con l'ovvia precisazione che `falso' non può mai essere un `fatto' (perché il fatto o esiste o non esiste nella realtà), ma solo la rappresentazione che di esso è data''.
5) Quanto poi all'elemento soggettivo del reato di falsità ideologica commessa dal consulente del pubblico ministero, occorre ``vagliare se la condotta di infedeltà sia determinata dalla consapevole intenzione di rendere una falsa rappresentazione della realtà oppure sia il risultato di imperizia e di colposa incapacità professionale, con la conseguenza che, a tal fine, occorre acquisire il dato certo su ciò che può essere considerato il movente del comportamento ascritto come mendace al soggetto agente''.
6) In questo quadro, ``non vi sono ragioni ostative all'applicazione della previsione di cui all'art. 479, comma 1, c.p. nei casi di elaborati falsi redatti dai consulenti del pubblico ministero, ove si consideri che la pena edittale massima ivi prevista è la stessa di quella contemplata dall'art. 373 c.p. per i periti''.
7) Di conseguenza, si considera manifestamente infondata la ``questione di legittimità costituzionale dell'art. 479 c.p., applicabile alle false consulenze redatte dal consulente tecnico del pubblico ministero'', eccepita dalla difesa dell'indagato ``per disparità di trattamento dei consulenti tecnici rispetto ai periti, i quali rispondono del reato di cui all'art. 373 c.p., punito meno gravemente rispetto all'ipotesi di cui all'art. 476, comma 2, c.p.''.
(Circa il falso ideologico del consulente tecnico del P.M. v., da ultimo, Cass. 20 febbraio 2020, n. 4729; nonché, con riguardo al medesimo stabilimento, Cass. 31 ottobre 2013, n. 45373. V., altresì, Sez. Un., 31 ottobre 2013, n. 43384, e Corte Cost. 21 maggio 2014, n. 163).