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Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    Questo volume non è incluso nella tua sottoscrizione. Il primo capitolo è comunque interamente consultabile.

    Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

    Informazioni sul volume

    Autore:

    Raffaele Guariniello

    Editore:

    Wolters Kluwer

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    Precedente 40 Rapporti del medico competente con il Servizio sanitario nazionale
    Successivo 42 Provvedimenti in caso di inidoneità alla mansione specifica
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    1. La sorveglianza sanitaria è effettuata dal medico competente:

    a) nei casi previsti dalla normativa vigente, nonché dalle indicazioni fornite dalla Commissione consultiva di cui all'articolo 6;141

    b) qualora il lavoratore ne faccia richiesta e la stessa sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi lavorativi.

    2. La sorveglianza sanitaria comprende:

    a) visita medica preventiva intesa a constatare l'assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica;

    b) visita medica periodica per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica. La periodicità di tali accertamenti, qualora non prevista dalla relativa normativa, viene stabilita, di norma, in una volta l'anno. Tale periodicità può assumere cadenza diversa, stabilita dal medico competente in funzione della valutazione del rischio. L'organo di vigilanza, con provvedimento motivato, può disporre contenuti e periodicità della sorveglianza sanitaria differenti rispetto a quelli indicati dal medico competente;

    c) visita medica su richiesta del lavoratore, qualora sia ritenuta dal medico competente correlata ai rischi professionali o alle sue condizioni di salute, suscettibili di peggioramento a causa dell'attività lavorativa svolta, al fine di esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica;

    d) visita medica in occasione del cambio della mansione onde verificare l'idoneità alla mansione specifica;

    e) visita medica alla cessazione del rapporto di lavoro nei casi previsti dalla normativa vigente.

    e-bis) visita medica preventiva in fase preassuntiva;142

    e-ter) visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare l'idoneità alla mansione.143

    2-bis. Le visite mediche preventive possono essere svolte in fase preassuntiva, su scelta del datore di lavoro, dal medico competente o dai dipartimenti di prevenzione delle ASL. La scelta dei dipartimenti di prevenzione non è incompatibile con le disposizioni dell'articolo 39, comma 3.144

    3. Le visite mediche di cui al comma 2 non possono essere effettuate:

    a);145

    b) per accertare stati di gravidanza;

    c) negli altri casi vietati dalla normativa vigente.

    4. Le visite mediche di cui al comma 2, a cura e spese del datore di lavoro, comprendono gli esami clinici e biologici e indagini diagnostiche mirati al rischio ritenuti necessari dal medico competente. Nei casi ed alle condizioni previste dall'ordinamento, le visite di cui al comma 2, lettere a), b), d), e-bis) e e-ter) sono altresì finalizzate alla verifica di assenza di condizioni di alcol dipendenza e di assunzione di sostanze psicotrope e stupefacenti.146

    4-bis. Entro il 31 dicembre 2009, con accordo in Conferenza Stato-Regioni, adottato previa consultazione delle parti sociali, vengono rivisitate le condizioni e le modalità per l'accertamento della tossicodipendenza e della alcol dipendenza.147

    5. Gli esiti della visita medica devono essere allegati alla cartella sanitaria e di rischio di cui all'articolo 25, comma 1, lettera c), secondo i requisiti minimi contenuti nell'Allegato 3A e predisposta su formato cartaceo o informatizzato, secondo quanto previsto dall'articolo 53.

    6. Il medico competente, sulla base delle risultanze delle visite mediche di cui al comma 2, esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica:

    a) idoneità;

    b) idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;

    c) inidoneità temporanea;

    d) inidoneità permanente.

    6-bis. Nei casi di cui alle lettere a), b), c) e d) del comma 6 il medico competente esprime il proprio giudizio per iscritto dando copia del giudizio medesimo al lavoratore e al datore di lavoro.148

    7. Nel caso di espressione del giudizio di inidoneità temporanea vanno precisati i limiti temporali di validità.

    8.149

    9. Avverso i giudizi del medico competente ivi compresi quelli formulati in fase preassuntiva è ammesso ricorso, entro trenta giorni dalla data di comunicazione del giudizio medesimo, all'organo di vigilanza territorialmente competente che dispone, dopo eventuali ulteriori accertamenti, la conferma, la modifica o la revoca del giudizio stesso.150

    GIURISPRUDENZA COMMENTATA

    Sommario: 1. Gli accertamenti sanitari obbligatori sui lavoratori - 2. Visite mediche sui minori - 3. Sorveglianza sanitaria mirata sul rischio alcool e controlli alcolimetrici - 4. Sorveglianza sanitaria su esposti a rischio di radiazioni ionizzanti - 5. Il giudizio sull'idoneità alla mansione - 6. Sorveglianza sanitaria sui lavoratori senza esami strumentali - 7. Giudizio di inidoneità e licenziamento - 8. Sospensione dall'esercizio della professione di medico competente - 9. Sequestro dell'azienda e omessa sorveglianza sanitaria - 10. Esenzione dall'uso della mascherina anti-Covid .

    ``La ratio sottesa all'art. 41 del predetto decreto legislativo è quella di prevenire qualunque forma morbosa provocata dal lavoro ed è mirata alla formulazione di un giudizio di idoneità alle mansioni specifiche che tenga conto di tutte le caratteristiche psico-fisiche del lavoratore confrontate con il peculiare contesto ambientale. Tra i casi normativamente previsti in cui deve essere effettuata la sorveglianza sanitaria rientra, in base al disposto dell'art. 168 D.Lgs. n. 81/2008, la movimentazione manuale dei carichi da parte dei lavoratori''.

    Il titolare di una ditta di costruzioni fu condannato in qualità di datore di lavoro per la violazione dell'art. 18, comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 81/2008, ``per avere omesso di sottoporre il dipendente impiegato tecnico geometra alla visita medica preventiva''. A sua discolpa, sostiene che ``la visita medica preventiva è necessaria solo se il lavoratore fosse sottoposto a rischio e non anche (come nel caso) se il lavoratore non è sottoposto ad alcun rischio (impiegato tecnico geometra, che in quanto tale è tenuto a programmare e gestire i lavori del cantiere edile)''. E addebita al tribunale di aver trascurato ``di indicare le effettive mansioni del lavoratore al fine di verificare l'obbligo della visita medica preventiva''. La Sez. III ribatte che ``il lavoratore, quale geometra, aveva la mansione di controllo dei lavori in cantiere'', e che ``la sua idoneità alla mansione specifica andava, comunque, accertata (art. 18, comma 1, lettera c, D.Lgs. n. 81/2008)''.

    È da notare che già l'Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la circolare n. 3 del 12 ottobre 2017, aveva operato un artificioso distinguo tra ``tutti i casi in cui la normativa vigente prevede l'obbligo della sorveglianza sanitaria'' e ``i casi in cui si debba valutare lo stato di salute del lavoratore, al fine dell'affidamento dei compiti specifici, che non dipendono dai rischi presenti nell'ambiente di lavoro, ma dalla capacità del lavoratore stesso di svolgerli (es. lavori in quota, lavori in sotterraneo o in ambienti chiusi in genere, lavori subacquei, ecc.)''. Ora, nessun dubbio che l'art. 18, comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 81/2008 (il datore di lavoro e i dirigenti devono, ``nell'affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza'') detta una norma tanto trascurata quanto fondamentale. E tuttavia una norma di per sé inidonea a rendere obbligatoria la sorveglianza sanitaria da parte del medico competente al di fuori dei casi espressamente e tassativamente previsti dall'art. 41, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008. Il fatto è che l'art. 5 Statuto dei Lavoratori vieta gli accertamenti sanitari sui lavoratori da parte del datore di lavoro, e che a questo divieto deroga l'art. 41, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, norma dunque applicabile ai soli casi espressamente e tassativamente previsti. Al di fuori di tali casi, l'unica strada percorribile è quella del controllo sanitario sull'idoneità affidato, non già al medico competente nominato dal datore di lavoro, bensì al medico pubblico in linea con il comma 3 dell'art. 5 Statuto dei Lavoratori. Ed è semmai in questo alveo che potrebbe avviarsi il discorso sulla violazione dell'art. 18, comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 81/2008, nell'ipotesi in cui il datore di lavoro e il dirigente non si preoccupino di richiedere al medico pubblico il giudizio sull'idoneità sanitaria del lavoratore alla mansione specifica al di fuori dei casi contemplati dall'art. 41, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008.

    Il titolare di un'impresa di costruzioni fu condannato per omicidio colposo in danno di un dipendente che, in conseguenza di una giornata lavorativa che lo aveva visto impegnato nello scarico di materiale edile, aveva contratto una rabdomiolisi che lo aveva condotto a morte. Tra gli addebiti di colpa quello di aver destinato il lavoratore ``a mansioni diverse da quelle per cui era stato assunto senza un preventivo giudizio di idoneità fisica del medico competente''. (Questa sentenza è riportata più ampiamente sub art. 168, paragrafo 1).

    La Sez. III conferma la condanna di un datore di lavoro, per avere avviato al lavoro nove dipendenti, omettendo di farli sottoporre a visita medica preventiva. E in proposito rileva che «nella fattispecie in esame l'Ispettorato provinciale del lavoro ha accertato che le persone avviate al lavoro dall'imputata, nei settori dell'edilizia artigiana e dell'autocarrozzeria, erano sottoposte all'azione di sostanze nocive o tossiche ed a rumori, sicché correttamente il tribunale ha ritenuto la sussistenza dell'obbligo di far sottoporre i lavoratori a visite mediche preventive».

    Un lavoratore muore per un colpo di calore mentre raccoglieva angurie nelle ore centrali di un giorno in cui vi era una temperatura esterna molto elevata ed un alto tasso di umidità. Il Tribunale di Siracusa assolve il datore di lavoro, imputato del delitto di omicidio colposo, in quanto «non vi era nesso di causalità tra la condotta colposa contestata all'imputato e l'evento non essendo stato provato che l'osservanza della normativa avrebbe evitato l'evento». Per contro, la Corte di Appello di Catania, in riforma della sentenza di primo grado, concesse le attenuanti generiche, dichiara non doversi procedere nei confronti dell'imputato per essere il reato ascritto estinto per prescrizione, e lo condanna al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore della parte civile costituita.

    La Sez. IV conferma la condanna del datore di lavoro, anche perché l'imputato «aveva il dovere di sottoporre il lavoratore a visita medica per controllare che fosse idoneo a svolgere un lavoro faticoso al sole in estate e di informare quest'ultimo dei rischi cui era esposto».

    Il responsabile di uno stabilimento è dichiarato colpevole del delitto di omicidio colposo, per avere cagionato, per colpa, la morte di un dipendente della società, in quanto aveva consentito, o non impedito, che il dipendente, assunto senza la preventiva visita medica, e riconosciuto, qualche tempo dopo, non idoneo a lavori che lo esponessero ad epatotossici, fosse adibito a lavori di vulcanizzazione ed operasse senza i prescritti mezzi di protezione (maschere respiratorie di gomma con filtro intercambiabile), benché nel luogo di lavoro non vi fosse impianto di captazione e smaltimento dei vapori, con la conseguenza che aveva determinato l'insorgenza di una malattia professionale (epatopatia cirrogena da sostanze tossiche) che aveva condotto il dipendente a morte.

    «Per un lungo periodo l'imputato - pur consapevole della grave patologia di cui era affetto il lavoratore, giudicato non idoneo ai lavori che lo esponevano ad epatotossici - aveva continuato ad assegnarlo alle medesime pericolose mansioni. I giudici del merito hanno ricordato, altresì, l'assenza ovvero l'insufficienza, fino al 1988, dei sistemi di aspirazione dei fumi e delle polveri, provocati dalla lavorazione, fortemente nocivi alla salute; ed ancora, la fornitura ai lavoratori solo a partire dal 1989 delle mascherine individuali protettive. In realtà, le prime misure precauzionali, hanno sostenuto quei giudici, erano state adottate solo dopo i controlli svolti nel 1987/88, di guisa che per diversi anni il lavoratore era stato esposto ai fumi ed alle polveri particolarmente dannosi per un soggetto affetto da patologia epatica.

    Quanto al nesso causale, la predetta corte ha richiamato le conclusioni cui erano pervenuti i consulenti del PM che hanno evidenziato la presenza di due fattori in grado di determinare la cirrosi epatica di cui il lavoratore era affetto, cioè i solventi, sostanze epatotossiche, e l'infezione da virus dell'epatite B e C, alla stregua della documentazione sanitaria in atti che aveva rivelato la positività ai virus dell'epatite B e C ed una epatopatia da tossici. Secondo i consulenti, il lavoratore era stato colpito prima da quest'ultima malattia, sulla quale si era poi innestata la malattia virale; ciò perché nel 1985, cioè tre anni dopo l'assunzione, egli era stato ricoverato in ospedale e sottoposto ad analisi cliniche che avevano escluso la positività al virus dell'epatite B e C ed avevano evidenziato una «epatite cronica moderatamente attiva da tossici»; solo nel 1994, in occasione di altro ricovero ospedaliero, era stata accertata la positività al virus dell'epatite B e C. E dunque, a giudizio dei consulenti, sull'epatopatia tossica di partenza, si era in seguito instaurata un'epatite da virus B e C post trasfusionale che certamente aveva contribuito all'evoluzione sfavorevole in cirrosi.

    La diagnosi di epatopatia da tossici, risalente al 1985, avrebbe dunque dovuto determinare l'inidoneità del lavoratore alle mansioni cui era stato assegnato e la sua destinazione ad altro tipo di lavorazione che non comportasse l'esposizione a sostanze tossiche, anche perché gli strumenti di protezione, collettivi ed individuali, avrebbero solo potuto ridurre i rischi, ma non garantire un'assoluta protezione al lavoratore. I giudici del merito non hanno omesso di valutare le diverse conclusioni cui era pervenuto il perito nel procedimento per le lesioni, secondo cui non poteva esservi certezza alcuna circa il momento di insorgenza delle patologie virali e tossiche, ed hanno affermato che, in ogni caso, doveva ritenersi rilevante e significativa ai fini della responsabilità dell'imputato l'omessa predisposizione, da parte dello stesso, di idonee misure precauzionali volte alla tutela della salute del lavoratore che si sapeva, fin dal 1985, affetto da patologie che ne vietavano la destinazione a mansioni che, esponendolo all'esalazione di sostanze altamente tossiche, avrebbero certamente provocato l'aggravarsi delle già precarie condizioni di salute. In particolare, il lavoratore aveva continuato ad espletare mansioni di vulcanizzatore fino al 1995, benché fosse stato giudicato non idoneo a tali mansioni fin dal 1992».

    Il direttore generale e il direttore sanitario di un'azienda ospedaliera sono chiamati a rispondere insieme al medico competente del reato di lesioni colpose gravissime in danno di un infermiere professionale addetto al reparto traumatologia ed ortopedia: l'infermiere, «nel sollevare un paziente pesante, avverti un dolore lancinante ed improvviso alla colonna vertebrale; ricoverato presso il reparto, fu formulata diagnosi di lombalgia ed ernia discale, e quindi rimase assente dal lavoro per 5 mesi»; «successivamente, rientrato in servizio con le stesse mansioni senza controlli sanitari da parte dell'azienda, inoltrò richiesta di riconoscimento da causa di servizio della patologia che gli era stata diagnosticata»; «la commissione medico ospedaliera formulò giudizio di dipendenza da causa di servizio della patologia riscontrata, esprimendo peraltro giudizio di idoneità all'espletamento delle mansioni svolte»; ancor dopo, l'infermiere «avanzò altra richiesta di riconoscimento di causa di servizio della patologia riscontratagli in precedenza e la commissione medica formulò di nuovo giudizio di dipendenza»; «il direttore del personale ed il direttore sanitario trasmisero tale verbale al medico competente al fine di individuare le mansioni cui adibire l'infermiere»; «il medico competente espresse un giudizio di inidoneità alle mansioni di infermiere presso il reparto ortopedia e l'ospedale dispensò dal servizio per inidoneità a proficuo lavoro l'infermiere, che ormai era rimasto paralizzato agli arti inferiori e costretto su una sedia a rotelle». Con sentenza poi confermata dalla Corte d'Appello, il Tribunale dichiarò direttore generale e direttore sanitario colpevoli del reato loro ascritto, mentre assolse il medico competente perché il fatto non costituisce reato. «In sostanza i giudici del merito addebitarono agli imputati di avere causato il grave peggioramento della malattia (che aveva determinato la paralisi degli arti inferiori dell'infermiere) per colpa consistita nell'avere omesso di attivare tempestivamente la sorveglianza sanitaria e di assegnare l'infermiere ad altre mansioni, e ciò nonostante l'infortunio sul lavoro occorso; la presa d'atto delle risultanze della CMO; e nell'avere attivato la detta sorveglianza sanitaria del medico competente solo a seguito della visita eseguita dalla CMO. In particolare, osservarono che già al rientro in servizio dopo la degenza di cinque mesi, sarebbe dovuta scattare la visita; che a maggior ragione ciò sarebbe dovuto avvenire dopo il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio; che pertanto gli imputati versavano in colpa per non avere attivato le misure previste; che tale loro comportamento omissivo andava considerato decisivo nella determinazione causale dell'evento lesivo realizzatosi». La Corte Suprema annullò la sentenza di appello con rinvio per nuovo esame, in quanto «bisognava accertare se dopo l'iniziale infortunio l'infermiere avesse in concreto svolto o continuato a svolgere attività idonee a porsi in relazione causale o concausale con l'evento, non potendosi ciò presumere solo dalla qualifica professionale». In sede di rinvio, la Corte d'Appello assolse entrambi gli imputati dal reato loro ascritto perché il fatto non sussiste: «la perizia medica non aveva potuto accertare una origine traumatica della malattia (e del suo aggravamento) che aveva provocato nell'infermiere la grave sintomatologia di cui era portatore»; «le prove testimoniali non avevano dato la certezza che costui nel periodo interessato avesse svolto con continuità e stabilità mansioni comportanti sollevamento di carichi»; «conseguentemente, mancavano, da un lato, la prova dell'origine traumatica della malattia e, dall'altro, la prova soddisfacente del contributo causale che in concreto potessero avere apportato le mansioni effettivamente svolte dal medesimo». Nel respingere il ricorso proposto dalla parte civile, la Sez. III asserisce che «l'origine traumatica doveva escludersi, da un lato, per l'assenza sia del criterio cronologico sia di quello topografico, e, dall'altro lato, perché anche lo specialista in neurochirurgia aveva dichiarato di non avete mai assistito, in trenta anni di esperienza sulle patologie dei dischi intervertebrali, all'instaurarsi di una sintomatologia cosi grave».

    (Quanto a un'ipotesi di infortunio a lavoratore notturno in solitaria consumatore di ansiolitici non segnalato dal medico competente v. Cass. 15 febbraio 2021, n. 5794, sub art. 28, al paragrafo 40).

    Non è raro che la Corte Suprema si occupi delle visite mediche sui minori. La legge 17 ottobre 1967, n. 977, agli artt. 8-13, disciplinava la visita medica preventiva e periodica dei fanciulli e degli adolescenti: in particolare, l'art. 8, comma 1, stabiliva che ``i fanciulli e gli adolescenti possono essere ammessi al lavoro purché siano riconosciuti idonei all'attività lavorativa cui saranno adibiti, a seguito di esame medico''; mentre l'art. 9 disponeva che ``l'idoneità dei fanciulli e degli adolescenti al lavoro cui sono addetti deve essere accertata mediante visite mediche periodiche''. Successivamente, il D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 345, all'art. 16, comma 1, lettera a), ha abrogato l'art. 9, legge n. 977/1967; e con riguardo a bambini e adolescenti, nel sostituire con l'art. 9 (a sua volta modificato dall'art. 2, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 262) il testo originario dell'art. 8, legge n. 977/1967, ha prescritto, per un verso, al comma 1, la visita medica preventiva, e, per l'altro, al comma 2, le visite mediche periodiche (sul punto v. Circolare del Ministero del Lavoro n. 11 del 17 gennaio 2001, in ISL, 2001, 7, 377, e, in precedenza, Circolare del Ministero del Lavoro n. 1 del 5 gennaio 2000). In forza dell'art. 42, comma 1, legge n. 98/2013, ``fermi restando gli obblighi di certificazione previsti dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, per i lavoratori soggetti a sorveglianza sanitaria, sono abrogate le disposizioni concernenti l'obbligo dei seguenti certificati attestanti l'idoneità psico-fisica al lavoro: ... b) limitatamente alle lavorazioni non a rischio, certificato di idoneità per l'assunzione di cui all'art. 9 del regolamento di cui al D.P.R. 30 dicembre 1956, n. 1668, e all'art. 8 della legge 17 ottobre 1967, n. 977, e successive modificazioni''.

    L'amministratrice di una società - condannata per il reato di cui all'art. 8, comma 1, legge 977/1967, ``perché aveva ammesso al lavoro due minori in assenza della preventiva visita di idoneità all'attività cui le stesse erano state adibite'' - deduce ``la brevità del periodo di impiego e la natura innocua dell'attività cui erano adibite le minori, vertendosi così in ipotesi di esclusione dall'applicazione della normativa''. La Sez. III replica: ``Agli effetti del comma 1 dell'art. 2 della legge 17 ottobre 1967 n. 977, sost. dall'art. 4 D.Lgs. 4 agosto 1999 n. 345, che esonera il datore di lavoro dall'osservanza delle prescrizioni della medesima legge nell'ipotesi di adolescenti addetti ai lavori occasionali o di breve durata concernenti a) servizi domestici prestati in ambito familiare, b) prestazioni di lavoro non nocivo, né pericoloso, nelle imprese a conduzione familiare, la definizione `breve durata' è alternativa a quella di `natura occasionale' e va necessariamente riferita ad attività che traggano origine da esigenze impreviste dal datore di lavoro e/o risultino di durata corrispondente a quella di una giornata lavorativa o di poco superiore e, cioè, ad un tipo di prestazione che non rientra tra quelle che l'azienda richiede abitualmente ai propri dipendenti, anche se limitatamente a determinati periodi dell'anno''.

    Condannato per il reato di cui all'art. 8, commi 1, 4 e 5 della legge n. 977/1967, come sanzionato dall'art. 26 comma 2, della stessa legge (omessa sottoposizione a visita medica di dipendente minore di età), un datore di lavoro lamenta ``la mancata indicazione della norma di legge con la quale veniva indicata la sanzione, circostanza che avrebbe compromesso le esigenze difensive in tema di accesso all'oblazione'', e ``la genericità della contestazione quanto ai dipendenti da sottoporre a visita indicati in numero superiore a quello previsto per legge''. La Sez. III osserva: ``La condotta materiale è stata contestata in modo sufficientemente precisato, non rilevando in negativo la erronea indicazione del numero dei lavoratori da sottoporre a visita, essendo comunque chiaro il riferimento al lavoratore minore. Ma è proprio l'assenza di indicazioni della norma sanzionatoria collegata alla condotta violata che ha pregiudicato in concreto l'imputato nella scelta di possibili riti alternativi quali l'oblazione. Invero il comma 2 dell'art. 26 della legge n. 977/1967 prevede espressamente per la violazione delle disposizioni contenute nell'art. 8 commi 1, 2, 4 e 5 della medesima legge la sanzione alternativa dell'arresto (fino a sei mesi) o dell'ammenda (fino a lire 10 milioni): la mancata enunciazione ha, di fatto, impedito all'imputato anche a causa della indicazione di un numero maggiore di lavoratori rispetto a quello prevista dalla norma a tutela dei minori di valutare la possibilità di accedere all'oblazione e tale pregiudizio, risolvendosi in una compressione del diritto di difesa, vale a far ritenere sussistente la nullità, eccepita nei termini, del decreto penale di condanna, a nulla rilevando le integrazioni del pubblico ministero nel corso del giudizio instauratosi a seguito dell'opposizione al decreto penale''.

    Condannato per il reato di cui all'art. 18, comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 81/2008 ``per non avere accertato l'idoneità fisica di un lavoratore minore d'età, omettendo in particolare di sottoporlo a visita medica periodica'', un datore di lavoro deduce ``l'insussistenza del reato di cui all'art. 18, comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 81/2008, rilevando che la condotta addebitata (omessa sottoposizione a visita periodica del lavoratore) è prevista da tutt'altra disposizione di legge (l'art. 41, comma 2) che ha una diversa finalità di controllo continuo''. La Sez. III osserva: ``La visita medica periodica per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica rientra nella sorveglianza sanitaria ed è prevista dall'art. 41, comma 2, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008. L'art. 176, comma 1, specifica i rischi alla cui prevenzione è finalizzata la sorveglianza sanitaria di cui all'art. 41. La violazione dell'art. 176, comma 1, è punita dal successivo art. 178, comma 1, lettera a), con l'arresto da tre a sei mesi o con l'ammenda da 2.500 fino a 6.400 euro. L'art. 18, comma 1, lettera c), che il giudice di merito ha erroneamente riportato nel capo di imputazione - riguardante gli obblighi del datore di lavoro e del dirigente e in particolare il dovere, nell'affidare i compiti ai lavoratori, di tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza - è sanzionato invece, secondo quanto prescrive il successivo art. 55, comma 5, lettera c), con l'arresto da due a quattro mesi o con l'ammenda da 1.200 a 5.200 euro, pena dunque più mite rispetto a quella sopraindicata. E parimenti, è più mite la sanzione per la violazione dell'art. 8, comma 1, della legge n. 977/1967 (Tutela del lavoro dei bambini e degli adolescenti), a cui pure fa - altrettanto erroneamente - riferimento il tribunale, perché l'art. 26, comma 2, della predetta legge prevede l'arresto non superiore a sei mesi o l'ammenda fino a lire dieci milioni (pari a euro 5164.57)''.

    Un datore di lavoro fu condannato per il reato di cui agli artt. 8, comma 1, e 26, legge 17 ottobre 1967, n. 977, ``perché ammetteva al lavoro un adolescente in difetto del prescritto accertamento sanitario attestante la sua idoneità fisica all'attività lavorativa prestata''. Nell'annullare la sentenza di condanna perché il fatto non sussiste, la Sez. III prende atto di un ``certificato medico rilasciato dalla AUSL con il quale si attesta, in data antecedente a quella di accertamento del reato, l'idoneità del minore alla prestazione del servizio di apprendista meccanico''. Ricorda che ``la legge 17 ottobre 1967, n. 977, art. 8, n. 1, così come sostituito dal D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 345, art. 9, nel testo a sua volta sostituito dal D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 262, art. 2, prevede che `i bambini nei casi di cui all'art. 4, comma 2, e gli adolescenti possono essere ammessi al lavoro purché siano riconosciuti idonei all'attività lavorativa cui saranno adibiti a seguito di visita medica'''. Osserva che ``il tenore letterale di tale norma impone che essa debba essere interpretata nel senso che il certificato richiesto per adibire minori ad attività lavorativa non possa ridursi ad una mera certificazione dello stato di buona salute psico-fisica del minore, ma debba avere una portata più ampia, ricomprendendo anche un giudizio di idoneità del minore al lavoro e, nello specifico, per la mansione di assunzione''. Rileva che, ``siccome la certificazione medica si è specificamente espressa in tal senso avendo ritenuto il minore idoneo alla prestazione dell'attività lavorativa come meccanico, il reato non è configurabile mancando un elemento costitutivo del fatto tipico''. Aggiunge che ``l'assunzione di un adolescente non sottoposto a preventiva visita medica, prevista e punita dagli artt. 8, 9 e 11, legge 17 ottobre 1967, n. 977, è reato omissivo permanente''.

    La Sez. III considera il caso di una datrice di lavoro ritenuta colpevole della contravvenzione di cui agli artt. 81 cpv., 8 comma 1 e 26, comma 2 della legge n. 977/1967 (come modificati dagli artt. 9 e 14 del D.Lgs. n. 345/1999), ``per avere, quale titolare di uno stabilimento balneare, in tempi diversi ed in esecuzione del medesimo disegno criminoso, assunto due minori con le mansioni di bagnino senza sottoporli a preventiva visita medica al fine di stabilire l'idoneità psicofisica all'attività lavorativa cui sarebbero stati adibiti''. A propria discolpa, l'imputata sostiene che ``il possesso delle condizioni psicofisiche costituisce un accertamento propedeutico al rilascio del brevetto di bagnino e tale accertamento è stato delegato dallo Stato alla Società Nazionale di Salvamento, ente morale ONLUS''. La Sez. III annulla la sentenza di condanna perché il fatto non sussiste. Premette che ``il tenore letterale dell'art. 8, n. 1, legge 17 ottobre 1967, n. 977 impone che essa debba essere interpretata nel senso che il certificato richiesto per adibire minori ad attività lavorativa non possa ridursi ad una mera certificazione dello stato di buona salute psico-fisica del minore, ma debba avere una portata più ampia, ricomprendendo anche un giudizio di idoneità del minore al lavoro'', e che ``l'inosservanza della disposizione di cui all'art. 8, comma 3, della legge n. 977/1967, nella versione risultante dalla modifica ex art. 2, D.Lgs. n. 262/2000, secondo cui la visita medica dei minorenni da avviare al lavoro, il cui obbligo continua ad essere presidiato penalmente, è effettuata presso un medico del Servizio sanitario nazionale, non integra più illecito penale prevedendo l'art. 26 della legge n. 977/1967, come modificato dall'art. 14, D.Lgs. n. 345/1999, la sanzione penale unicamente per l'obbligo in generale della visita ma non anche per le concrete modalità della sua effettuazione''. Rileva che ``il Ministero delle Comunicazioni - Marina Mercantile con Foglio d'Ordine n. 43 del 6 maggio 1929 concedeva alla Società Nazionale Salvamento l'autorizzazione al rilascio del `certificato di abilitazione all'esercizio del mestiere di bagnino''', e che ``anche oggi la competenza al rilascio della abilitazione alla attività di bagnino spetta alla Società Nazionale di Salvamento, eretta in Ente Morale con R.D. 19 aprile 1876 ed avente natura di Associazione senza scopo di lucro secondo il disposto del D.Lgs. n. 460/1997''. Ciò premesso, precisa che, ``tra i requisiti per l'iscrizione al corso di `bagnino di salvataggio', si richiede espressamente, tra l'altro, il possesso di `idonee condizioni psicofisiche'''. Ne desume che, ``nel caso di specie, i due giovani in servizio presso lo stabilimento balneare gestito dall'imputata, essendo risultati in possesso di regolare abilitazione alla attività di `bagnino di salvataggio', avevano già superato favorevolmente la visita medica finalizzata proprio ad accertarne l'idoneità psicofisica alla particolare attività lavorativa a cui sono stati adibiti e quindi il reato non sussiste''.

    La legge 17 ottobre 1967 n. 977, agli artt. 8-13, disciplinava la visita medica preventiva e periodica dei fanciulli e degli adolescenti: in particolare, l'art. 8, comma 1, stabiliva che «i fanciulli e gli adolescenti possono essere ammessi al lavoro purché siano riconosciuti idonei all'attività lavorativa cui saranno adibiti, a seguito di esame medico»; mentre l'art. 9 disponeva che «l'idoneità dei fanciulli e degli adolescenti al lavoro cui sono addetti deve essere accertata mediante visite mediche periodiche». Successivamente, il D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 345, all'art. 16, comma 1, lettera a), ha abrogato l'art. 9, legge n. 977/1967; e con riguardo a bambini e adolescenti, nel sostituire con l'art. 9 (a sua volta modificato dall'art. 2, D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 262) il testo originario dell'art. 8, legge n. 977/1967, ha prescritto, per un verso, al comma 1, la visita medica preventiva, e, per l'altro, al comma 2, le visite mediche periodiche (sul punto v. Circolare del Ministero del Lavoro n. 11 del 17 gennaio 2001, in ISL, 2001, 7, 377, e, in precedenza, Circolare del Ministero del Lavoro n. 1 del 5 gennaio 2000). D'altra parte, l'art. 2 legge n. 977/1967, al comma 1, dispone che «le norme della presente legge non si applicano agli adolescenti addetti a lavori occasionali o di breve durata, concernenti a) servizi domestici prestati in ambito familiare, b) prestazioni di lavoro non nocivo, né pericoloso, nelle imprese a conduzione familiare». Nel caso affrontato dalla presente sentenza, il titolare di una pizzeria viene dichiarato colpevole del reato di cui agli artt. 81, comma 1, c.p. e 26, n. 2, legge n. 977/1967, perché ammetteva al lavoro persone minorenni, senza sottoporle al prescritto accertamento sanitario preventivo, attestante la idoneità di essi al lavoro. A conferma della condanna, la Sez. III prende atto che l'imputato «si serviva dell'operato di quattro giovani ragazze, ancora non maggiorenni, ammesse al lavoro con le mansioni di cameriere e addette al bancone della pizza a taglio, in difetto del prescritto accertamento sanitario preventivo, attestante la idoneità di queste alla attività lavorativa prestata, come prescritto dall'art. 8, comma 1, legge n. 977/1967 e successive modifiche», e che il giudice di merito aveva ritenuto di non potere applicare la clausola di esclusione di cui all'art. 2, vista la non ravvisabilità del carattere occasionale della prestazione di lavoro, che, di contro, doveva considerarsi non di breve durata». Insegna che, «agli effetti del coma 1 dell'art. 2 legge n. 977/1967, sostituito dall'art. 4, D.Lgs. n. 345/1999, che esonera il datore di lavoro dalla osservanza delle prescrizioni della medesima legge nella ipotesi di adolescenti addetti a lavori occasionali o di breve durata, concernenti a) servizi domestici prestati in ambito familiare, b) prestazioni di lavoro non nocivo, né pericoloso, nelle imprese a conduzione familiare, la definizione `breve durata' è alternativa a quella di `natura occasionale' e va necessariamente riferita ad attività che traggono origine da esigenze impreviste dal datore di lavoro e/o risultino di durata corrispondente a quella di una giornata lavorativa o di poco superiore e, cioè, ad un tipo di prestazione che non rientra tra quelle che l'azienda richiede abitualmente ai propri dipendenti, anche se limitatamente a determinati periodi dell'anno». (In passato, Cass. 19 dicembre 2005 n. 45966, Giacalone, richiamata da Grandi-Pera, Commentario breve alle leggi sul lavoro, 2009, 944, precisò che «il requisito della natura occasionale o di breve durata dell'attività lavorativa e alternativamente gli altri descritti nelle ipotesi di cui alle lettere a) o b) del comma 1 devono, pertanto, concorrere affinché possa determinarsi l'esenzione del datore di lavoro dall'osservanza delle prescrizioni imposte dalla citata legge sulla tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti», e che «la definizione di `breve durata' dell'attività lavorativa, prevista in alternativa a quella della natura `occasionale' della stessa, inoltre, deve essere necessariamente riferita ad attività che traggano origine da esigenze impreviste dal datore di lavoro e/o risultino di durata corrispondente a quella di una giornata lavorativa o di poco superiore e, cioè, ad un tipo di prestazione che non rientra tra quelle che l'azienda richiede abitualmente ai propri dipendenti, anche se limitatamente a determinati periodi dell'anno». Escluse nel caso di specie «la configurabilità della prima delle citate condizioni richieste dalla norma esaminata e, cioè, quello della occasionalità o breve durata dell'attività svolta dal minore, non potendo essere attribuita siffatta connotazione ad una attività lavorativa di durata stagionale, che rientra tra quelle proprie dell'azienda e che si è protratta dal 15 luglio al 13 settembre»).

    «Vale dare conto della previsione dell'art. 15 della legge n. 125/2001, che vieta la somministrazione e l'assunzione sul lavoro di bevande alcoliche e superalcoliche, sia pure nelle sole attività lavorative che comportano un elevato rischio di infortuni sul lavoro ovvero per la sicurezza, l'incolumità o la salute dei terzi, individuate con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro della sanità» (attività ora indicate nell'Allegato I dell'Intesa Stato Regioni del 16 marzo 2006); ricordare che l'art. 41, comma 4, D.Lgs. n. 81/2008 prevede la sorveglianza sanitaria diretta all'accertamento di condizioni di alcol dipendenza (e di tossicodipendenza), e l'Allegato IV, al punto 1.11.3.2. e 1.11.3.3., prende in esame l'uso di alcolici sul lavoro. Né va ignorato che l'art. 18, lettera c), D.Lgs. n. 81/2008 [come in precedenza già l'art. 4, comma 5, lettera c), D.Lgs. n. 626/1994] dispone che il datore di lavoro ed il dirigente `nell'affidare i compiti ai lavoratori' deve `tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza'. Si tratta di previsione che guarda in primo luogo alla assegnazione delle mansioni in via preventiva e generale, ma alla quale non sfugge anche la quotidiana replica del conferimento di compiti al lavoratore da parte del datore di lavoro. Diverse le ipotizzabili modalità di adempimento degli obblighi ma comune l'obiettivo di assicurare che il lavoratore sia in condizioni che permettano lo svolgimento in sicurezza dell'attività lavorativa. Le disposizioni sinora elencate permettono di ribadire che la condizione di ubriachezza del lavoratore sul luogo di lavoro non è circostanza eccezionale e quindi non prevedibile dal datore di lavoro».

    La rappresentante legale di uno studio radiologico -dichiarata colpevole della contravvenzione di cui all'art. 83 del D.Lgs. n. 230/1995 ``per avere omesso di sottoporre a sorveglianza sanitaria un tecnico di radiologia dipendente professionalmente esposto di categoria A - eccepisce che ``il D.Lgs. n. 230/1995 definisce il tecnico di radiologia `lavoratore esposto non classificato in categoria A', evidenziando che dalla documentazione prodotta risulta la sottoposizione a visita da parte del medico competente e quindi la avvenuta sottoposizione a sorveglianza sanitaria''. La Sez. III non è d'accordo: ``La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 343/1992, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 2 e 3, della legge 27 ottobre 1988, n. 460 (Modifiche ed integrazioni alla legge 28 marzo 1968, n. 416, concernente l'istituzione delle indennità di rischio da radiazioni per i tecnici di radiologia medica), ha richiamato il principio della `presunzione assoluta di rischio di radiazioni ionizzanti per il personale di radiologia'. L'art. 4, comma 2, lettera o), D.Lgs. n. 230/1995 definisce `lavoratori esposti: persone sottoposte, per l'attività che svolgono, a un'esposizione che può comportare dosi superiori ai pertinenti limiti fissati per le persone del pubblico. Sono lavoratori esposti di categoria A i lavoratori che, per il lavoro che svolgono, sono suscettibili di ricevere in un anno solare una dose superiore a uno dei pertinenti valori stabiliti con il decreto di cui all'art. 82; gli altri lavoratori esposti sono classificati in categoria 8'. L'art. 83 disciplina a sua volta la `Sorveglianza medica' dei lavoratori esposti e così dispone: `1. Il datore di lavoro deve provvedere ad assicurare mediante uno o più medici la sorveglianza medica dei lavoratori esposti e degli apprendisti e studenti in conformità alle norme del presente capo ed alle disposizioni contenute nel decreto di cui all'art. 82. Tale sorveglianza è basata sui principi che disciplinano la medicina del lavoro. 2. La sorveglianza medica dei lavoratori esposti che non sono classificati in categoria A è assicurata tramite medici competenti o medici autorizzati. La sorveglianza medica dei lavoratori di categoria A è assicurata tramite medici autorizzati'. Come si desume dalla citata disposizione, la distinzione tra lavoratori esposti di categoria A e lavoratori esposti non classificati in detta categoria rileva solo ai fini della individuazione del sanitario incaricato della sorveglianza medica, nel senso che per i primi si richiede esclusivamente l'intervento di medici `autorizzati', fermo restando l'obbligo di sottoposizione a sorveglianza medica per entrambe le categorie. Nel caso in esame, presso lo studio di radiologia gestito dall'imputata, sussistevano condizioni di rischio per il tecnico di radiologia della quale, in particolare, veniva omessa la sottoposizione obbligatoria a sorveglianza sanitaria prevista dalla norma contestata. L'imputata fa discendere l'avvenuto rispetto della specifica normativa di settore da un mero certificato di sana e robusta costituzione fisica ai fini della idoneità al lavoro (rilasciato evidentemente dalla ASL all'atto dell'assunzione della dipendente), che risponde però a tutt'altra finalità, mentre la sottoposizione a sorveglianza medica implica, tra l'altro, la necessità di visite periodiche e straordinarie (cfr. art. 85, D.Lgs. n. 230/1995 cit.) di cui nel caso di specie non è traccia alcuna''.

    (Sul D.Lgs. n. 230/1995 v., sotto vari profili, Cass. 31 ottobre 2013, n. 44273, Ronsivalle; Cass. 9 aprile 2013, Putelli, in ISL, 2013, 6, 335; Cass. 9 gennaio 2003, Van der Straten Ponthoz, ibid., 2003, 5, 305; Cass. 21 giugno 2002, Guarino, ibid., 2002, 9, 503; Cass. 8 aprile 2002, Paci, ibid., 2002, 7, 370; e con riguardo al precedente D.P.R. n. 185/1964, Cass. 12 luglio 2001, Rausi, ibid., 2001, 11, 618; Cass. 17 gennaio 1996, Magi, in Dir.prat.lav., 1996, 13, 876; Cass. 29 dicembre 1994, Pelella, ibid., 1995, 8, 578; quanto al D.Lgs. 31 luglio 2020, n. 101 v. sub art. 180, paragrafo 1).

    Il legale rappresentante di una s.r.l. fu condannato per il reato di cui agli artt. 476 e 482 c.p., ``avente ad oggetto sei fotocopie riproducenti altrettanti certificati di `giudizio di idoneità alla mansione', a firma del medico del lavoro, relativi alle visite mediche periodiche annuali di altrettanti lavoratori dipendenti della società, certificati in realtà inesistenti in originale, posto che la data in essi riportata era successiva al momento in cui era cessato il rapporto professionale del medico con la società''. A sua discolpa, l'imputato sostiene che si tratterebbe di atti che non devono essere obbligatoriamente allegati al piano operativo di sicurezza, per cui, in assenza della individuazione di un risultato concreto in favore dell'imputato o dell'impresa, raggiungibile attraverso la creazione di tali atti, di cui non si comprende la funzione, essi vanno considerati alla stregua di semplici fotocopie esibite ed usate come tali dall'imputato, con condotta penalmente non rilevante''. La Sez. V replica: ``Quel che rileva nel delitto di falso di cui si discute è la natura pubblica dell'atto artificiosamente creato, in rapporto alla funzione che esso è chiamato ad assolvere''. Con riguardo al caso di specie, non nutre ``dubbi sulla natura di atti pubblici dei giudizi di idoneità alle mansioni rinvenuti in forma di semplici fotocopie dal tecnico del servizio di prevenzione della A.S.L., recatosi nel cantiere della s.r.l.''. Spiega: ``L'art. 41, comma 2, D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81, in tema di sorveglianza sanitaria, prevede l'effettuazione di una serie di visite mediche finalizzate ad accertare l'idoneità dei lavoratori allo svolgimento della mansione specifica cui sono destinati, mentre, a sua volta, l'art. 41, commi 6 e 6-bis, D.Lgs. n. 81/2008 statuisce espressamente che il medico competente, sulla base delle risultanze delle visite mediche di cui al comma 2, esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica: a) idoneità; b) idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni; c) inidoneità temporanea; d) inidoneità permanente'', e che, ``nei casi di cui alle lettere a), b), c) e d) del comma 6, il medico competente esprime il proprio giudizio per iscritto dando copia del giudizio medesimo al lavoratore e al datore di lavoro. Potendo, i documenti contenenti il giudizio di idoneità alla mansione, redatto obbligatoriamente in forma scritta ai sensi dell'art. 41, comma 6-bis, D.Lgs. n. 81/2008, entrare a pieno titolo all'interno di un procedimento amministrativo definito dal citato D.Lgs. n. 81/2008, quale il ricorso avverso il giudizio di idoneità di cui all'art. 41, comma 9, del medesimo testo unico, essi vanno considerati sin dalla loro formazione come documenti di fede pubblica. Tale procedimento si concretizza nel ricorso, da parte del lavoratore o del datore di lavoro, all'organo di vigilanza, per ottenere la rivalutazione del giudizio di idoneità. L'organo di vigilanza (del Servizio Sanitario Nazionale, ove la normativa non disponga diversamente) è l'autorità responsabile del procedimento e dell'emissione del relativo provvedimento di conferma, modifica o revoca. Secondo l'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, rientrano nella nozione di atto pubblico rilevante ai fini dell'integrazione dei reati in materia di falsità in atti, anche gli atti cosiddetti interni, ovvero quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, nonché quelli che si collocano nel contesto di una complessa sequela procedimentale - conforme o meno allo schema tipico - ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi. La falsa formazione mediante fotocopie degli atti di cui si discute, integra il delitto di falsità materiale in atti pubblici contestato all'imputato, posto che gli atti esibiti da quest'ultimo al tecnico della A.S.L. avevano l'apparenza dell'originale di un atto pubblico, in realtà inesistente, indipendentemente da quale fosse la finalità concreta''.

    Nell'affrontare un'ipotesi di decesso di un lavoratore ascritta al medico competente anche con l'addebito di ``avere omesso, nel redigere i certificati di idoneità lavorativa, di effettuare un'adeguata valutazione dei risultati degli esami'', la Sez. IV annulla con rinvio la condanna, in particolare sul presupposto che ``non risulta adeguatamente sviluppato il tema volto a verificare se, nello svolgimento delle visite periodiche eseguite dall'imputato nei confronti del lavoratore, sulla base delle effettive conoscenze, sia cliniche che di lavoro, o, comunque, di quelle conoscibili, e nella correlata formulazione dei relativi giudizi di idoneità alle mansioni specifiche, sia ravvisabile, a suo carico, la sussistenza di una condotta colposa tenuto conto dei doveri cautelari attribuitigli dall'ordinamento giuridico in ragione della sua specifica posizione di garanzia rivestita''. (Più ampiamente la sentenza è riportate sub art. 25, paragrafo 8).

    Il GUP dichiara non doversi procedere per insussistenza del fatto nei confronti del dirigente sanitario di un istituto penitenziario, accusato di ``aver cagionato, per colpa consistita in imprudenza e violazione delle circolari ministeriali in tema di idoneità al servizio del personale di polizia penitenziaria, il decesso di un assistente capo della polizia penitenziaria, avvenuto per atto suicidiario determinato da esplosione di arma da fuoco''. In particolare, all'imputato si addebitava, ``dopo aver preso visione della nota redatta dal comandante di reparto, nella quale si informava il dirigente sanitario dei propositi suicidari che l'assistente capo aveva manifestato a un collega, dell'intervenuto ritiro cautelativo dell'arma in dotazione e del comportamento anomalo assunto dal predetto - di aver omesso di inviarlo presso la commissione medica ospedaliera e di avergli rilasciato il certificato di idoneità al servizio, di talché il predetto veniva riammesso al servizio, con restituzione dell'arma in dotazione''. Ad avviso del GUP, ``non ricorrevano le ipotesi di invio immediato del dipendente davanti alla commissione medica ospedaliera, da parte dell'imputato, tenuto conto del fatto che non risultava accertata la preesistenza di malattie psicotiche o convulsionanti, a carico del dipendente'', che ``alcuni aspetti della storia clinica del dipendente - quale la dipendenza dall'alcol - non erano noti al direttore sanitario'', e che ``il dipendente, nel colloquio clinico avuto con l'imputato, aveva manifestato la chiara intenzione di continuare a lavorare ed un buon istinto di conservazione''; inoltre, ``la notevole distanza di tempo che separa la valutazione effettuata dal dirigente sanitario, rispetto al gesto auto lesivo, induceva ad escludere la sussistenza del nesso di derivazione causale tra la condotta del sanitario ed il suicidio''; né ``può assegnarsi alla disponibilità dell'arma da fuoco un determinante rilievo causale, posto che il dipendente aveva in precedenza posto in essere un tentativo di suicidio, andato a vuoto, con altre modalità''. La Sez. IV rigetta il ricorso delle parti civili: ``Nel momento in cui il dirigente sanitario adottò il provvedimento di riammissione in servizio, non era in grado di apprezzare elementi sintomatici emersi solo successivamente. Il periodo di tempo, pari a circa quattro mesi, che separa la condotta contestata all'imputato ed il gesto suicidario, non consente di affermare la sussistenza di un nesso di derivazione causale tra l'azione e l'evento, tenuto conto dei fattori sopravvenuti, in grado di incidere in via esclusiva, sul piano del determinismo causale. Nel corso dei richiamati quattro mesi, il dipendente aveva continuato a lavorare ed a relazionarsi positivamente con gli altri; e risulta che il suo equilibrio era stato successivamente compromesso, a causa del riacuirsi della crisi coniugale e dell'abuso di alcol. Solo successivamente era emerso che aveva la disponibilità di psicofarmaci in quantità notevole; e che detta evenienza non era conosciuta dal medico di reparto. Dall'attestazione di idoneità al servizio emerge che le dichiarazioni del dipendente, sottoscritte dal diretto interessato all'esito del colloquio clinico, erano ispirate al chiaro intento di rassicurare il direttore sanitario rispetto al fatto che il momento di scoraggiamento e gli intenti anticonservativi, erano ormai del tutto superati. E tale dato trovava conferma anche nelle dichiarazioni rese dalla moglie, la quale aveva riferito che vi era stato un riavvicinamento affettivo al marito. Il paziente, durante il colloquio clinico con l'imputato, aveva manifestato una forte volontà ed un buon istinto di conservazione, anche grazie ad una mimica del tutto adeguata rispetto ai contenuti dichiarativi espressi verbalmente; e tali evenienze erano espressione della volontà dell'uomo di continuare a svolgere la propria attività lavorativa. Il comportamento assunto dal paziente era stato tale da indurre il sanitario ad orientarsi per l'idoneità al servizio di istituto del dipendente''.

    Per casi di suicidio di detenute presso case circondariali v. Cass. 17 febbraio 2020, n. 5976 e Cass. 14 marzo 2017, n. 14594.

    La Sez. IV conferma l'estinzione per prescrizione del reato di lesione personale colposa contestato a un medico competente per ``avere omesso di prescrivere l'effettuazione dell'esame citologico delle urine a un dipendente, come previsto per i lavoratori esposti ad agenti cancerogeni da una circolare del Ministero del Lavoro del 1979, così precludendo la possibilità di pervenire ad una tempestiva diagnosi del carcinoma alla vescica che aveva poi afflitto il dipendente''.

    Nel caso esaminato dalla Corte Suprema, un medico competente fu condannato per il reato di cui all'art. 25, comma 1, lettera b), D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81 ``per aver sottoposto a visita periodica due lavoratori, non attuando un protocollo sanitario definito in funzione dei rischi specifici, considerato che, dall'esame delle cartelle sanitarie e di rischio dei suddetti lavoratori, si evinceva che gli stessi risultavano esposti a rischio MMC (movimentazione manuale dei carichi) e rumore''.

    Nel confermare la condanna del medico competente, la Sez. III premette che, nel caso di specie, ``non era stato attuato nei confronti di due lavoratori il protocollo sanitario correlato ai rischi specifici, cui gli stessi lavoratori risultavano esposti, ed in particolare, MMC (Movimenti Manuali da Carico) e rumore, trattandosi di operai edili'', e che ``i rischi, cui i lavoratori erano esposti, risultavano indicati nelle rispettive cartelle, senza che fossero stati disposti gli accertamenti complementari atti a valutare la funzionalità dei cosiddetti organi bersaglio ossia degli organi particolarmente esposti a rischio per effetto delle mansioni lavorative esercitate''. Osserva che, ``per i lavoratori esposti a determinati rischi professionali, il medico competente, che procede alla visita, non può basarsi soltanto sul dato anamnestico, che potrebbe essere falsato da una sottovalutazione o ignoranza da parte del lavoratore, né può accontentarsi di prescrivere esami clinici, emettendo al contempo un giudizio di piena idoneità, senza attendere l'esito dell'accertamento diagnostico-strumentale, che, per entrambi i lavoratori, non era stato richiesto fin dalla visita preventiva, ma solo in una delle visite periodiche successive''. Pone in rilievo che l'imputato ``emise il giudizio di idoneità sia in esito alla visita preventiva che in esito alla successiva visita di controllo, senza prima acquisire ed esaminare il referto audiometrico, particolarmente importante per via delle mansioni esercitate dai lavoratori, esposti al rumore, e ciò a dimostrazione di un modus procedendi superficiale e poco rispettoso dei protocolli sanitari''. Spiega che ``i reati commessi dal medico competente in violazione degli obblighi posti a suo carico sono reati di pericolo astratto per la cui configurabilità non è necessario che dalla violazione dell'obbligo derivi un danno alla salute o alla incolumità del lavoratore, anzi la funzione stessa del sanitario è preordinata ad evitare tali evenienze perché il legislatore, richiedendo che la figura del medico competente sia individuata sulla base di specifici parametri e nel richiedere contestualmente anche una comprovata esperienza professionale del medico designato, ha inteso evidentemente individuare la figura di un medico di qualificata professionalità, in grado di diventare il collaboratore del datore di lavoro e del responsabile del Servizio di prevenzione e protezione aziendale''. Quanto poi all'asserita ``non precettività delle linee guida e dei protocolli in considerazione dell'autonomia professionale del medico e delle scelte di natura tecnica e discrezionale che senza dubbio gli competono'', la Sez. III pone in luce che lo stesso imputato ``si mostra avvertito del fatto che, sulla base della normativa di cui al D.Lgs. n. 81/2008, il medico competente programma ed effettua la sorveglianza sanitaria di cui all'art. 41 attraverso protocolli sanitari definiti in ragione dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati, sicché i protocolli sanitari, in tema di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, non escludono che il medico aziendale possa prescrivere accertamenti più approfonditi di quelli necessari che, in quanto prescritti dalla buona arte medica, sono perciò contemplati in linee guida o protocolli accreditati dalla comunità scientifica; ma proprio per questo motivo il medico competente non può esimersi dal prescrivere e quindi deve prescrivere quelli minimi richiesti per un'efficace prevenzione'' che, con accertamento di fatto, adeguatamente e logicamente motivato, il Tribunale ha escluso sia stata assicurata e ciò per la fondamentale ragione che non era stato attuato nei confronti dei lavoratori il protocollo sanitario correlato ai rischi specifici cui essi erano oggettivamente esposti in considerazione delle mansioni in concreto esercitate. Ultima notazione: la contravvenzione di cui all'art. 25, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008 non si consuma al momento della visita medica, perché l'incriminazione ha natura di reato permanente, atteso che la condotta illecita si protrae sino al momento di ottemperanza all'obbligo di legge che, nel caso in esame, è stato osservato successivamente alla data di accertamento del reato con l'adempimento delle prescrizioni imposte''. (È da ricordare che già Cass. 17 settembre 2001 n. 33751, in Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, Wolters Kluver, Milano, 2a ed., p. 464, ebbe a sottolineare: ``Se è vero che gli esami clinici e biologici e le indagini diagnostiche possono pure non essere a volte necessari, è anche vero che la loro effettuazione costituisce la «normalità» perché il medico possa esprimere un eventuale giudizio di non idoneità al lavoro o alla mansione. La disposizione [già contenuta nell'art. 16, comma 3, D.Lgs. n. 626/1994, e trasfusa nell'art. 41, comma 4, primo periodo, D.Lgs. n. 81/2008] dice che gli accertamenti in questione «comprendono (e non già «possono comprendere») gli esami e le indagini che il medico ritenga necessari in relazione al rischio connesso alla specifica mansione, il che appunto sembra significare che la scelta del medico dovrebbe essere di solito limitata piuttosto al tipo degli esami e delle indagini occorrenti per la valutazione del rischio connesso alla mansione concreta e non già alla stessa effettuazione degli esami e delle indagini, che normalmente, nella generalità dei casi, dovrebbero invece ritenersi richiesti dalla disposizione legislativa. In ogni caso, è indubbio che la disposizione in esame sta comunque a significare che il giudizio dei medico sulla inidoneità alla mansione specifica al lavoro deve normalmente essere espresso a seguito di un accertamento sanitario specifico, per così dire di carattere formale, espressamente diretto a formulare tale giudizio, e che tale accertamento deve essere completo ed approfondito, e deve comprendere tranne i casi eccezionali in cui la inidoneità è evidente gli esami clinici e biologi e le indagini diagnostiche che il medico ritenga necessari in relazione allo specifico rischio. Il che del resto appare del tutto razionale in considerazione della rilevanza e della gravità delle conseguenze che possono derivare da un giudizio di inidoneità al lavoro o alla mansione, sia essa totale o parziale o momentanea'').

    ``Sono noti i principi (declinati in specifico riferimento al licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore) per i quali il datore di lavoro ha l'obbligo di previa verifica della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità di un eventuale recesso, in applicazione dell'art. 3, comma 3bis D.Lgs. n. 216/2003, di recepimento dell'art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata e conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5), essendo egli tenuto, pur senza modificare l'assetto organizzativo dei fattori produttivi insindacabilmente stabiliti, ad assegnare all'invalido mansioni compatibili con la natura e il grado delle sue menomazioni, reperendo nell'ambito della struttura aziendale il posto di lavoro più adatto alle condizioni di salute di tale lavoratore''.

    ``L'allegazione della certificazione di inidoneità fisica di un lavoratore alla mansione redatta dal medico aziendale non soddisfa di per sé l'onere della prova del giustificato motivo oggettivo del suo licenziamento da parte del datore di lavoro. Nel caso di specie, a fronte di un solo episodio di crisi vertiginosa, la società datrice di lavoro non ha assolto all'onere probatorio sulla stessa incombente di delibare come fatto costitutivo del licenziamento che il lavoratore era veramente affetto da sindrome vertiginosa che era la causa di sopravvenuta inidoneità permanente al lavoro, non potendosi considerare provata tale circostanza attraverso il contestato referto del medico aziendale''.

    La Sez. II conferma l'applicazione della misura cautelare interdittiva della sospensione dall'esercizio della professione nei confronti di un medico competente, indagato per i reati di truffa aggravata ai danni dello Stato e di falso ideologico in certificati, e ciò avuto riguardo all'apporto dato al ``sistema truffaldino ideato da imprenditori al fine di assumere fittiziamente braccianti agricoli o registrare un numero maggiore di ore lavorative onde far ottenere ai lavoratori indennità e contributi previdenziali non dovuti in cambio di un corrispettivo''. In particolare, la Sez. II prende atto che un medico competente non si era ``limitato alla violazione del disposto del D.Lgs. n. 81/2008, ma aveva anche partecipato al sistema truffaldino organizzato dagli imprenditori, contribuendo, tramite la falsificazione dei certificati a sua firma, a rendere apparente un sistema aziendale agricolo in realtà insussistente, per il quale procacciava attivamente nuove formali assunzioni''. Prende atto, altresì, che ``l'attività professionale del medico - la quale formalmente consisteva nell'attestazione dell'idoneità psicofisica alla mansione specifica di alcuni braccianti agricoli e nella sorveglianza sanitaria sugli stessi e in realtà veniva espletata senza aver effettuato tutte le visite e retrodatando i relativi certificati- aveva contribuito - nella consapevolezza dell'esistenza di un sistema truffaldino volto a creare fittizie assunzioni - dapprima ad assicurare apparente ritualità al rapporto lavorativo dei braccianti falsamente impiegati, garantendo la rappresentazione esteriore della svolgimento effettivo dell'attività lavorativa, quindi a creare una schermatura di regolarità formale''. Conclude che ``una simile condotta integra non solo la fattispecie di falso ideologico prevista dall'art. 481 c.p., ma anche una partecipazione al sistema truffaldino organizzato dagli imprenditori''.

    ``Una serie di dipendenti della società non erano stati destinatari delle obbligatorie iniziative volte alla salvaguardia della loro salute e incolumità personale nonché degli obbligatori adempimenti in materia di formazione e informazione, nessuna efficacia scusante potendo riconoscersi al provvedimento di sequestro dell'azienda di cui l'imputato era amministratore unico, intervenuto successivamente all'inadempimento degli obblighi in questione''.

    Sequestro preventivo di beni mobili ed immobili disposto nei confronti di indagato per il reato di cui all'art. 348 c.p., ``per aver rilasciato certificati di esenzione dall'obbligo di utilizzo della mascherina, pur non svolgendo la professione medica, bensì quella di psicologo''. L'indagato sostiene che, ``sulla base della normativa emergenziale dettata per fronteggiare la pandemia da Covid-19, nonché delle norme attuative contenute nel Prot. Min. Istruzione del 14 agosto 2021, il medico o il pediatra, oltre a poter direttamente certificare le condizioni per l'esenzione dall'obbligo, erano anche tenuti a valutare la diagnosi, certificata da altro sanitario, per poi valutare la necessità o meno dell'uso della mascherina'', e, quindi, che egli ``avrebbe redatto una diagnosi di propria competenza, salvo restando la competenza del medico o pediatra a compiere le ulteriori valutazioni circa l'incompatibilità con l'uso della mascherina''. Nel dichiarare inammissibile il ricorso dell'indagato, la Sez. VI afferma che ``la normativa richiamata demandava esclusivamente al medico o al pediatra di certificare la sussistenza di una patologia incompatibile con l'uso dei sistemi di protezione individuale''. Prende atto che l'indagato ``non si era affatto limitato a redigere diagnosi di competenza dello psicologo, eventualmente suscettibili di una successiva valutazione da parte del medico competente''. E spiega che ``l'indagato, almeno in due occasioni, aveva espressamente certificato la sussistenza delle condizioni per l'esenzione dall'uso della mascherina, in tal modo compiendo un atto esulante dalla propria sfera professionale''.

    Sequestro preventivo impeditivo di uno studio dentistico nei riguardi di indagato per il reato previsto dall'art. 348 c.p. esercente la propria attività nonostante fosse stato sospeso con delibera dell'Ordine dei medici e degli odontoiatri a seguito dell'accertata inosservanza non giustificata dell'obbligo vaccinale contro l'infezione da Sars. A sua discolpa, l'indagato deduce che l'accertata violazione da parte del sanitario dell'obbligo vaccinale comporta la sospensione dell'esercizio delle professioni sanitarie, e che lo svolgimento dell'attività lavorativa in violazione del suddetto obbligo sarebbe sanzionato solo sul piano amministrativo. La Sez. VI ribatte: ``L'art. 4 ter, comma 5, D.L. n. 44/2021 ha come presupposto lo svolgimento di un'attività lavorativa compiuta in violazione dell'obbligo vaccinale prima che, in ragione dell'accertamento della violazione, il soggetto sia sospeso dall'albo professionale. Nel caso di specie, la condotta posta a fondamento del reato e del titolo cautelare reale per cui si procede è invece quella compiuta temporalmente dopo la sospensione dall'ordine dei medici-chirurghi e degli odontoiatri, quando, cioè, l'indagato non poteva più svolgere l'attività professionale''.

    Note a piè di pagina
    140
    Vedi, anche, l’art. 78, commi da 2-sexies a 2-novies, D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 aprile 2020, n. 27.
    Vedi, anche, l’art. 78, commi da 2-sexies a 2-novies, D.L. 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 aprile 2020, n. 27.
    141
    Lettera modificata dall'art. 26, comma 1 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106. V. D.M. 9 luglio 2012 e 6 agosto 2013.
    Lettera modificata dall'art. 26, comma 1 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106. V. D.M. 9 luglio 2012 e 6 agosto 2013.
    142
    Lettera aggiunta dall'art. 26, comma 2 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Lettera aggiunta dall'art. 26, comma 2 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    143
    Lettera aggiunta dall'art. 26, comma 2 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Lettera aggiunta dall'art. 26, comma 2 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    144
    Comma aggiunto dall'art. 26, comma 3 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Comma aggiunto dall'art. 26, comma 3 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    145
    Lettera abrogata dall'art. 26, comma 4 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Lettera abrogata dall'art. 26, comma 4 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    146
    Comma così modificato dall'art. 26, comma 5 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Comma così modificato dall'art. 26, comma 5 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    147
    Comma aggiunto dall'art. 26, comma 6 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Comma aggiunto dall'art. 26, comma 6 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    148
    Comma aggiunto dall'art. 26, comma 7 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Comma aggiunto dall'art. 26, comma 7 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    149
    Comma soppresso dall'art. 26, comma 8 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Comma soppresso dall'art. 26, comma 8 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    150
    Comma così modificato dall'art. 26, comma 9 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Comma così modificato dall'art. 26, comma 9 del D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Fine capitolo