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Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    Questo volume non è incluso nella tua sottoscrizione. Il primo capitolo è comunque interamente consultabile.

    Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

    Informazioni sul volume

    Autore:

    Raffaele Guariniello

    Editore:

    Wolters Kluwer

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    1. Il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all'articolo 3, e i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono:

    a) nominare il medico competente per l'effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi previsti dal presente decreto legislativo e qualora richiesto dalla valutazione dei rischi di cui all'articolo 2870;

    b) designare preventivamente i lavoratori incaricati dell'attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell'emergenza;

    c) nell'affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza;

    d) fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente, ove presente;

    e) prendere le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni e specifico addestramento accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico;

    f) richiedere l'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione;

    g) inviare i lavoratori alla visita medica entro le scadenze previste dal programma di sorveglianza sanitaria e richiedere al medico competente l'osservanza degli obblighi previsti a suo carico nel presente decreto;71

    g-bis) nei casi di sorveglianza sanitaria di cui all'articolo 41, comunicare tempestivamente al medico competente la cessazione del rapporto di lavoro;72

    h) adottare le misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e dare istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato ed inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa;

    i) informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e immediato circa il rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di protezione;

    l) adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e 37;

    m) astenersi, salvo eccezione debitamente motivata da esigenze di tutela della salute e sicurezza, dal richiedere ai lavoratori di riprendere la loro attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave e immediato;

    n) consentire ai lavoratori di verificare, mediante il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, l'applicazione delle misure di sicurezza e di protezione della salute;

    o) consegnare tempestivamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, su richiesta di questi e per l'espletamento della sua funzione, copia del documento di cui all'articolo 17, comma 1, lettera a), anche su supporto informatico come previsto dall'articolo 53, comma 5, nonché consentire al medesimo rappresentante di accedere ai dati di cui alla lettera r). Il documento è consultato esclusivamente in azienda;73

    p) elaborare il documento di cui all'articolo 26, comma 3 anche su supporto informatico come previsto dall'articolo 53, comma 5, e, su richiesta di questi e per l'espletamento della sua funzione, consegnarne tempestivamente copia ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. Il documento è consultato esclusivamente in azienda;74

    q) prendere appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno verificando periodicamente la perdurante assenza di rischio;

    r) comunicare in via telematica all'INAIL e all'IPSEMA, nonché per loro tramite, al sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro di cui all'articolo 8, entro 48 ore dalla ricezione del certificato medico, a fini statistici e informativi, i dati e le informazioni relativi agli infortuni sul lavoro che comportino l'assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell'evento e, a fini assicurativi, quelli relativi agli infortuni sul lavoro che comportino un'assenza dal lavoro superiore a tre giorni. L'obbligo di comunicazione degli infortuni sul lavoro che comportino un'assenza dal lavoro superiore a tre giorni si considera comunque assolto per mezzo della denuncia di cui all'articolo 53 del testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124;75

    s) consultare il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza nelle ipotesi di cui all'articolo 50;

    t) adottare le misure necessarie ai fini della prevenzione incendi e dell'evacuazione dei luoghi di lavoro, nonché per il caso di pericolo grave e immediato, secondo le disposizioni di cui all'articolo 43. Tali misure devono essere adeguate alla natura dell'attività, alle dimensioni dell'azienda o dell'unità produttiva, e al numero delle persone presenti;

    u) nell'ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto e di subappalto, munire i lavoratori di apposita tessera di riconoscimento, corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e l'indicazione del datore di lavoro ;

    v) nelle unità produttive con più di 15 lavoratori, convocare la riunione periodica di cui all'articolo 35;

    z) aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e sicurezza del lavoro, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione;

    aa) comunicare in via telematica all'INAIL e all'IPSEMA, nonché per loro tramite, al sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro di cui all'articolo 8, in caso di nuova elezione o designazione, i nominativi dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; in fase di prima applicazione l'obbligo di cui alla presente lettera riguarda i nominativi dei rappresentanti dei lavoratori già eletti o designati;76

    bb) vigilare affinché i lavoratori per i quali vige l'obbligo di sorveglianza sanitaria non siano adibiti alla mansione lavorativa specifica senza il prescritto giudizio di idoneità.

    1-bis. L'obbligo di cui alla lettera r) del comma 1, relativo alla comunicazione a fini statistici e informativi dei dati relativi agli infortuni che comportano l'assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell'evento, decorre dalla scadenza del termine di dodici mesi dall'adozione del decreto di cui all'articolo 8, comma 4.77

    2. Il datore di lavoro fornisce al servizio di prevenzione e protezione ed al medico competente informazioni in merito a:

    a) la natura dei rischi;

    b) l'organizzazione del lavoro, la programmazione e l'attuazione delle misure preventive e protettive;

    c) la descrizione degli impianti e dei processi produttivi;

    d) i dati di cui al comma 1, lettera r), e quelli relativi alle malattie professionali;

    e) i provvedimenti adottati dagli organi di vigilanza.

    3. Gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del presente decreto legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione. In tale caso gli obblighi previsti dal presente decreto legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico.

    3.1. I dirigenti delle istituzioni scolastiche sono esentati da qualsiasi responsabilità civile, amministrativa e penale qualora abbiano tempestivamente richiesto gli interventi strutturali e di manutenzione di cui al comma 3, necessari per assicurare la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati, adottando le misure di carattere gestionale di propria competenza nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente. In ogni caso gli interventi relativi all’installazione degli impianti e alla loro verifica periodica e gli interventi strutturali e di manutenzione riferiti ad aree e spazi degli edifici non assegnati alle istituzioni scolastiche nonché ai vani e locali tecnici e ai tetti e sottotetti delle sedi delle istituzioni scolastiche restano a carico dell’amministrazione tenuta, ai sensi delle norme o delle convenzioni vigenti, alla loro fornitura e manutenzione. Qualora i dirigenti, sulla base della valutazione svolta con la diligenza del buon padre di famiglia, rilevino la sussistenza di un pericolo grave e immediato, possono interdire parzialmente o totalmente l’utilizzo dei locali e degli edifici assegnati, nonché ordinarne l’evacuazione, dandone tempestiva comunicazione all’amministrazione tenuta, ai sensi delle norme o delle convenzioni vigenti, alla loro fornitura e manutenzione, nonché alla competente autorità di pubblica sicurezza. Nei casi di cui al periodo precedente non si applicano gli articoli 331, 340 e 658 del codice penale.78

    3.2. Per le sedi delle istituzioni scolastiche, la valutazione dei rischi strutturali degli edifici e l’individuazione delle misure necessarie a prevenirli sono di esclusiva competenza dell’amministrazione tenuta, ai sensi delle norme o delle convenzioni vigenti, alla loro fornitura e manutenzione. Il documento di valutazione di cui al comma 2 è redatto dal dirigente dell’istituzione scolastica congiuntamente all’amministrazione tenuta, ai sensi delle norme o delle convenzioni vigenti, alla fornitura e manutenzione degli edifici. Il Ministro dell’istruzione, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, con proprio decreto da adottare entro sessanta giorni79 dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, stabilisce le modalità di valutazione congiunta dei rischi connessi agli edifici scolastici.80

    3.3. Gli obblighi previsti dal presente decreto legislativo a carico delle amministrazioni tenute alla fornitura e alla manutenzione degli edifici scolastici statali si intendono assolti con l’effettuazione della valutazione congiunta dei rischi di cui al comma 3.2, alla quale sia seguita la programmazione degli interventi necessari nel limite delle risorse disponibili.81

    3-bis. Il datore di lavoro e i dirigenti sono tenuti altresì a vigilare in ordine all'adempimento degli obblighi di cui agli articoli 19, 20, 22, 23, 24 e 25, ferma restando l'esclusiva responsabilità dei soggetti obbligati ai sensi dei medesimi articoli qualora la mancata attuazione dei predetti obblighi sia addebitabile unicamente agli stessi e non sia riscontrabile un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti.82

    GIURISPRUDENZA COMMENTATA

    Sommario: 1. La nomina del medico competente - 2. Capacità e condizioni dei lavoratori - 3. Dispositivi individuali di protezione - 4. Addestramento specifico per esposti a rischio grave - 5. La vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti sui lavoratori - 6. Tutela della popolazione e dell'ambiente esterno - 7. Comunicazione dei dati relativi agli infortuni e denuncia all'Inail - 8. Informazioni al servizio di prevenzione e protezione dai rischi - 9. Responsabilità del datore di lavoro e colpa dei medici per morte del lavoratore infortunato - 10. Aggiornamento delle misure di prevenzione - 11. Interventi strutturali e di manutenzione in edifici in uso alla scuola - 12. Lavoratori da inviare a visita medica - 13. Obblighi del dirigente operante su ampio territorio - 14. Informazione, formazione, addestramento dei lavoratori: soggetti obbligati, soggetti tutelati, contenuti (hindsight bias) - 15. Emergenza .

    L'art. 18, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008 - all'unisono con il già vigente art. 4, comma 4, lettera c), D.Lgs. n. 626/1994 - attribuiva al datore di lavoro e ai dirigenti l'obbligo di «nominare il medico competente per l'effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi previsti dal presente decreto legislativo».

    Il direttore generale di una s.p.a. esercente il servizio di trasporto pubblico delle persone nell'area metropolitana di un comune fu condannato per la violazione dell'art. 18, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008, per aver omesso di nominare il medico competente per la sorveglianza sanitaria sui dipendenti. La Sez. III, nel confermare la condanna, ribadisce la tassatività dei casi di sorveglianza sanitaria obbligatoria e dei conseguenti casi di nomina obbligatoria del medico competente. Infatti, precisa: ``Le ipotesi in cui è prevista siffatta sorveglianza sono ampie e numerose, in quanto esse ricorrono sia in funzione, a titolo meramente esemplificativo, della eventuale sottoposizione del lavoratore ad attività comportanti dei rischi professionali (movimentazione manuale di carichi pesanti, sottoposizione a forti rumori o a sensibili vibrazioni), ovvero a determinate modalità di svolgimento della prestazione lavorativa (lavoro in ore notturne ovvero con uso di apparecchi videoterminali per oltre 20 ore settimanali). Essendo indubbio che tali condizioni si verifichino per almeno una significativa aliquota di quanti operano presso un'azienda che per tipologia operativa e per grandezza sia equiparabile alla società in questione, il semplice riferimento a detta azienda vale a dimostrare la ricorrenza rispetto a quella specifica azienda dell'obbligo riscontrato''. ``L'omessa nomina del medico competente è un reato omissivo proprio, che cioè si realizza attraverso la semplice omissione del comportamento legalmente dovuto'', ed ``un reato permanente''.

    Condannato per più contravvenzioni antinfortunistiche, l'imputato deduce che ``il giudice avrebbe errato nel dichiarare utilizzabili le dichiarazioni dell'unico teste di p.g. sentito in dibattimento il quale avrebbe riferito de relato su quanto riferitogli dalle persone informate sui fatti, atteso che l'unica attività svolta dal teste di p.g. era consistita nel sentire i testimoni'', eccepisce ancora che ``la successiva attività di formulazione ed invio delle prescrizioni non muterebbe la questione, non avendo tali atti contenuto investigativo ma si reggono loro stessi sulle persone informate sui fatti mai assunte in dibattimento'', e lamenta, infine, che ``il giudice avrebbe operato una deduzione illogica, desumendo la sussistenza dei fatti dall'omessa esibizione dei documenti discendenti dalla condotta richiesta dalle norme, confondendo peraltro il c.d. foglio di prescrizioni con le condotte omissive contestate ai capi di imputazione, accorpando le condotte sanzionate con l'oblazione amministrativa''. La Sez. III replica che ``la mancata nomina del medico competente (art. 18, comma 1, lettera a, D.Lgs. n. 81/2008) necessita per legge di essere documentata, donde correttamente il giudice ha tratto la prova della sussistenza dei reati ascritti dalla mancata esibizione della documentazione, nemmeno dopo la notifica del c.d. foglio di prescrizione, con cui era stata attivata la procedura prevista dal D.Lgs. n. 758/1994''.

    «La presenza del medico competente nell'azienda (e, di conseguenza, la sua partecipazione alla valutazione dei rischi) è obbligatoria a termini di legge solo nei casi in cui sussista l'obbligo della sorveglianza sanitaria». (V. anche la sentenza Bruni più avanti al par. 12).

    Si badi che, grazie all’art. 14, comma 1, lettera a), del Decreto Legge Lavoro 4 maggio 2023 n. 48 convertito nella L. 3 luglio 2023 n. 85, contrariamente a quanto asserisce il Ministero del Lavoro il 12 dicembre 2023 nel paragrafo 3 del “Manuale informativo per la prevenzione” dal titolo “Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”, il medico competente deve ora essere nominato dal datore di lavoro e dai dirigenti, e dunque risultare presente in azienda, ai fini della valutazione dei rischi.

    In forza dell'art. 18, comma 1, lettera c) (una norma fondamentale collimante con l'art. 4, comma 5, lettera c, D.Lgs. n. 626/1994), il datore di lavoro, «nell'affidare i compiti ai lavoratori, tiene conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza».

    In questo ambito, utile è tener presente (v., anche Cass. 13 aprile 2017, n. 18475; i precedenti richiamati sub art. 42 al paragrafo 1; e sub art. 3, al paragrafo 8, la sentenza Bruzzone):

    Il dirigente di una ditta di trasporti ``affidava a un dipendente gli orari più massacranti, nonostante quest'ultimo avesse fatto presente di sentirsi stanco, con ciò violando la precisa prescrizione normativa di cui all'art. 18, comma 1. Lettera c, D.Lgs. n. 81/2008''.

    Il legale rappresentante di un'impresa e il direttore di cantiere furono condannati, per avere destinato un lavoratore a mansioni che comportavano la movimentazione manuale di carichi pesanti benché lo stesso fosse stato certificato inidoneo a movimentare pesi superiori a 9 chilogrammi, così da procurargli una malattia consistente in aggravamento di precedente patologia a carico della schiena (spondilosi con ernie discali, con nuova discopatia) da cui derivava una invalidità del 15 %, e infine un infortunio sul lavoro per lombocruralgia: con l'addebito, per il primo, di essere incorso in ``carenze organizzative nella predisposizione di una rete di comunicazioni che avrebbe dovuto convogliare ai soggetti responsabili nella formazione delle squadre di lavoro le informazioni sanitarie su eventuali profili di idoneità alle mansioni'', e per il secondo, di aver omesso di ``recepire e utilizzare tali informazioni dovuto nell'attività di gestione e di coordinamento dei lavoratori operanti nel cantiere''. La Sez. IV premette che ``non è contestato di non avere effettuato in modo corretto la sorveglianza sanitaria, bensì è contestato di non avere organizzato in modo efficiente la comunicazione dei risultati di essa ai singoli cantieri, affinché nell'affidare i lavori agli operai si tenesse conto realmente della loro eventuale inidoneità'', e che ``risulta superfluo verificare in che modo si sia proceduto alla valutazione della idoneità alle mansioni e come tale valutazione sia stata comunicata agli uffici amministrativi, atteso che la dispersione dei dati relativi alla idoneità sanitaria dell'operaio si ebbe a verificare al termine del procedimento di veicolazione dei dati sanitari, sulla base di un non completo, attuale e specifico trapasso delle scadenzate e progressive informazioni sanitarie sui singoli lavoratori ai soggetti che, in base ad investiture formali ovvero alle funzioni di fatto esercitate, erano tenuti a formare le squadre e adibire i lavoratori a specifiche mansioni''. Considera irrilevante valutare ``la sussistenza di formali deleghe prepositurali a favore di soggetti (direttore di cantiere e capo cantiere) cui venivano affidati stabilmente incombenti relativi alla formazione delle squadre di lavoro, con contestuale autonomo potere di scelta sulla destinazione dei lavoratori alle opere da svolgere all'interno del cantiere e, più in generale, alle modalità, ai limiti e alle garanzie con cui le opere andavano seguite, che non potevano non tenere conto anche delle soggettive peculiarità e delle eventuali valutazioni di inidoneità, anche parziale, per specifiche lavorazioni''. Spiega che ``la responsabilità del datore di lavoro, che gli deriva dalla inosservanza dell'art. 18, comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 81/2008, trova fondamento a prescindere dal contenuto della delega operata a favore di soggetti che, in base all'organigramma tracciato dal responsabile dell'azienda, avrebbero dovuto distribuire i compiti tra gli operai in sede esecutiva, in quanto si riferisce ad un profilo organizzativo più alto, che pur ridondando nella sfera esecutiva, impegna chi fosse nella specie tenuto alla predisposizione di un efficiente sistema di convogliamento delle informazioni sulla idoneità sanitaria dei dipendenti che consentisse ai destinatari ultimi di tali comunicazioni (capo cantieri), pure a fronte di specifiche inidoneità, ovvero di giudizi di idoneità condizionata, di recepirle prontamente e di operare di conseguenza la distribuzione delle mansioni''. Rileva che, ``sebbene il lavoratore avesse segnalato le difficoltà a operare con carichi pesanti in ragione della patologia in zona lombare di cui era affetto, nondimeno fo stesso continuava ad essere adibito alle medesime lavorazioni usuranti, in presenza di giudizio di inidoneità parziale e pure a fronte di un infortunio sul lavoro seguito da 67 giorni di assenza per la suddetta patologia invalidante''. Pone in risalto che ``la mancanza di una procedura standardizzata di trasferimento delle informazioni sulla idoneità fisica dei lavoratori dall'ufficio del personale, ove pervenivano le certificazioni del medico del lavoro, alle singole unità dove costoro operavano costituisce la colpa del datore di lavoro e la sua conseguente responsabilità per il reato ascritto, trattandosi di un compito organizzativo spettante appunto al datore di lavoro e dimostra che il dovere prescritto dall'art. 18, comma 1, lettera c), D.Lgs. 81l2008 è stato sottovalutato da questo imputato che ha lasciato la distribuzione dei lavori all'iniziativa dei singoli capocantieri senza operare alcun controllo sulle loro decisioni''. Ritiene incongruo il richiamo alla ``giurisprudenza sulla delegabilità della relativa funzione e del conseguente esonero di responsabilità dell'amministratore della società suddivisa in varie articolazioni, laddove l'addebito di responsabilità per colpa attiene a previsione organizzativa di carattere generale, da compiersi in epoca coeva alla delega delle funzioni, affinché i singoli responsabili di cantiere avessero aggiornata ed esaustiva notizia delle singole inidoneità al lavoro''. E sottolinea ``la inefficienza del sistema di comunicazione di tali informazioni e la obiettiva difficoltà e ritardo in cui versavano i capo cantiere ad accedere a tali notizie''.

    Né, d'altra parte, il direttore di cantiere fu escluso dal flusso di comunicazioni relative ai profili sanitari dei lavoratori e a eventuali impedimenti parziali o totali rispetto a determinate lavorazioni. In proposito, la Sez. IV sottolinea ``la posizione di garanzia che il direttore di cantiere rivestiva all'interno del cantiere nella gestione e nel controllo del rispetto della normativa antinfortunistica, quale soggetto preposto alla direzione di cantiere, riconoscendo a suo carico un difetto di vigilanza nella destinazione degli operai a mansioni compatibili con il rispettivo profilo sanitario, soprattutto allorquando, come nel caso in specie il lavoratore aveva ripreso il servizio dopo essere rimasto assente per ben 67 giorni a seguito di un infortunio alla schiena verificatosi, tra l'altro sul luogo di lavoro, e dopo che lo stesso era stato giudicato inidoneo alla movimentazione di pesi superiori a 9 Kg.''. E insegna che sul preposto gravano nell'ambito del cantiere tutte le funzioni proprie del datore di lavoro in materia di sicurezza, essendo egli chiamato a svolgere un ruolo di alto controllo consistente, tra l'altro, nella verifica che i coordinatori dei lavori adempiano agli obblighi su loro incombenti e di assicurare la sicurezza sul lavoro, tra cui rientra il dovere di segnalare situazioni di pericolo per l'incolumità dei lavoratori e di impedire prassi lavorative contra legem''.

    I due soci amministratori e l'amministratore di fatto di un'azienda agricola, quali datori di lavoro, furono condannati per un infortunio: ``due dipendenti, incaricati di tagliare legna da ardere, si trovavano (uno alla guida) a bordo di un cingolato di proprietà dell'azienda degli imputati, su terreno impervio, allorché erano stati sbalzati violentemente dal mezzo agricolo che si era abbattuto a marcia indietro contro un albero al termine di un pendio fortemente scosceso''. Colpa: avere adibito tali lavoratori ad attività altamente pericolosa (taglio del bosco, da effettuarsi in solitudine, in luogo impervio, isolato e difficilmente raggiungibile), con la disponibilità di un cingolato di pericolosa conduzione (mezzo lasciato a disposizione di soggetti privi delle specifiche competenze per guidarlo adeguatamente, non essendo risultati idonei alla guida sia il lavoratore deceduto, che quello sopravvissuto, e rispetto al quale l'operaio deceduto versava in condizioni di assoluta e comprovata incapacità di governo e di qualsiasi suo sicuro impiego, siccome etilista, uso al consumo di alcol anche durante le ore lavorative, tanto da raccomandare al negoziante del paese di non vendergli alcolici). Sicché la responsabilità fu individuata ``nell'avere affidato ai lavoratori dei compiti senza tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e sicurezza (art. 18, lett. c, D.Lgs. n. 81/2008); nel non avere richiesto l'osservanza da parte di costoro delle norme a disposizione e salvaguardia della sicurezza e l'uso di mezzi di protezione e dei dispositivi di protezione (art. 18, lett. f, stesso T.U.); nell'avere consentito l'utilizzo di attrezzatura da parte di lavoratori non formati e informati (artt. 71, comma 7, lett. a, e 73, commi 1, 2 e 4 D.Lgs. n. 81/2008), uno dei quali addirittura notoriamente dedito al consumo di sostanze alcoliche anche durante lo svolgimento dell'attività lavorativa''.

    Un preposto, responsabile del reparto ricambi, figlio del titolare dell'azienda, fu imputato del delitto di lesione personale colposa in danno di un dipendente colpito da lombalgia, in quanto ``avrebbe dovuto vigilare sulla movimentazione dei carichi manuali al fine di evitare o, comunque, ridurre il rischio di lesioni dorso lombari anche tenuto conto dei fattori individuali di rischio'' e ``al contrario, lo stesso chiese al dipendente di aiutare un collega a portare un pezzo grande, di peso probabilmente superiore ai 40 Kg (e comunque anche partendo da tale valore il peso diviso per i due trasportatori superava la soglia di 15 Kg che, secondo quanto stabilito dalla Commissione Medica, il lavoratore poteva trasportare)''. Nel considerare ``evidente l'omissione da parte dell'imputato delle cautele previste dalla legge'', la Sez. IV rileva che il lavoratore ``era stato assunto nella quota riservata agli affetti da disabilità e, proprio per tale motivo, era stato destinato a mansioni di ufficio quali la etichettatura dei pezzi in magazzino''. (Per un caso d'infortunio a lavoratore invalido adibito a mansioni contrastanti con il suo stato v., in passato, Cass. 6 ottobre 2004, in ISL, 2005, 2, 107; Cass. 24 novembre 1999, ibid., 2000, 1, 36).

    Il direttore sanitario di un'azienda autonoma termale - ritenuto colpevole del reato di cui all'art. 590 c.p., ``per aver cagionato a una dipendente lesioni consistite in un blocco vertebrale, disponendo che la stessa, che non era idonea alle mansioni di bagnina-fanghina ed alla quale era vietato in modo assoluto la movimentazione manuale dei carichi, prestasse servizio presso il reparto fanghi dell'hotel termale, dove, sollevando una paziente, riportava le lesioni'' - eccepisce che ``non rivestiva la qualifica di datore di lavoro o di dirigente, presupposto necessario per l'applicazione dei doveri da esso previsti ed in particolare di quello che sancisce l'obbligo di tenere conto delle condizioni di salute del lavoratore nell'affidargli i compiti da svolgere''. La Sez. IV replica: ``L'imputata, in qualità di direttore sanitario dell'azienda autonoma termale, ente pubblico economico, provvedeva all'assegnazione del personale; in particolare era stata proprio lei che, poco prima dell'infortunio, durante la stagione estiva, per sopperire alle numerose assenze per ferie, aveva spostato la dipendente, con apposita disposizione di servizio, presso il reparto donne dell'hotel per aiutare I'addetta ai fanghi, rimasta sola a svolgere quel servizio. Non può dunque dubitarsi della sussistenza della posizione di garanzia in capo alla medesima sia perché soggetto che nella qualità di dirigente sanitario era legittimata ad attribuire le mansioni al personale dipendente, sia perché in concreto è stata proprio la medesima a destinare la dipendente all'attività durante la quale si è verificato l'incidente. Neppure trovano fondamento le censure circa la mancata conoscenza formale da parte dell'imputata della diagnosi di `non idoneità alle mansioni di bagnina-fanghina' effettuata dal medico competente. È vero che questo certificato non è stato portato a conoscenza dell'imputata, ma tuttavia la medesima era pienamente consapevole dei problemi alla schiena della dipendente, e risultanti in particolare dal certificati medici aziendali, tanto più che era stata la medesima ad adibire per tali ragioni la dipendente al reparto inalazioni; peraltro la stessa imputata ha ammesso di essere stata consapevole dei problemi della lavoratrice, tanto da aver raccomandato alla collega cui la affiancava, di evitare di sottoporla ad attività eccessivamente faticose. Risulta dunque pienamente provata la posizione di garanzia della imputata e la sua condotta colposa per non aver tenuto conto dei rischi collegati all'attività alla quale pur temporaneamente la aveva destinata. L'infortunio è avvenuto mentre la dipendente aiutava la collega a far entrare la paziente nella vasca di idromassaggio, allorchè la donna improvvisamente scivolava e si aggrappava appunto alla dipendente che cercava di sostenerla; si trattava di una donna indubbiamente anziana e di corporatura pesante ma tuttavia in grado di deambulare, che dunque non necessitava di essere destinata alla vasca per i disabili; inoltre, secondo una prassi vigente all'interno delle terme era possibile, almeno entro certi limiti, scambiare le prestazioni come è stato fatto nella specie avendo la collega addetta ai fanghi dichiarato di essere stata lei ad autorizzare la paziente ad effettuare l'idromassaggio anziché il fango più bagno risultante dal ticket, dal momento che la donna dichiarava di non sentirsi in grado di sottoporsi ad un fango. Nessun comportamento abnorme o assenza di diligenza è ravvisabile da parte della infortunata che si è limitata a prestare osservanza al compito che Ie era stato assegnato di collaborare con la collega''.

    «L'art. 18, lettera c), D.Lgs. n. 81/2008 [come in precedenza già l'art. 4, comma 5, lettera c), D.Lgs. n. 626/1994] dispone che il datore di lavoro ed il dirigente `nell'affidare i compiti ai lavoratori' devono `tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza'. Si tratta di previsione che guarda in primo luogo alla assegnazione delle mansioni in via preventiva e generale, ma alla quale non sfugge anche la quotidiana replica del conferimento di compiti al lavoratore da parte del datore di lavoro. Diverse le ipotizzabili modalità di adempimento degli obblighi ma comune l'obiettivo di assicurare che il lavoratore sia in condizioni che permettano lo svolgimento in sicurezza dell'attività lavorativa». Conforme Cass. 9 agosto 2022 n. 30814, sub art. 28, paragrafo 1. Circa il corretto utilizzo dell'art. 18, comma 1, lettera c), nell'ambito della sorveglianza sanitaria sui lavoratori v. sub art. 41, al paragrafo 1, Cass. 3 maggio 2021 n. 16664 e il relativo commento.

    ``L'art. 18, comma 1, lett. d), del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che impone di fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, costituisce un precetto al quale il datore di lavoro è tenuto a conformarsi a prescindere dal fatto che il loro utilizzo sia specificamente contemplato nel documento di valutazione dei rischi di cui all'art. 28 dello stesso decreto''.

    ``Quale datore di lavoro, l'imputato era venuto meno all'obbligo di garantire che il lavoratore operasse in condizioni di sicurezza, non assicurandosi, in primo luogo che egli fosse adeguatamente protetto dai rischi cui era inevitabilmente esposto con quel tipo di lavorazione, in particolare fornendo allo stesso quantomeno indumenti difficilmente infiammabili, idonei a proteggere pe parti più esposte del corpo, né dando specifiche prescrizioni per garantire che la persona offesa evitasse il rischio di ustioni ed in ogni caso non fornendo apposite prescrizioni circa la cautela da utilizzare con le bombolette esauste, nell'uso di fiamma libera''.

    ``L'amministratore unico di una s.r.l., esercente attività edile, non fornisce di idoneo casco antinfortunistico ciascuno dei tre operai presenti in cantiere, avendone a disposizione uno solo, peraltro scaduto''. La Sez. III conferma la condanna: ``Secondo quanto prevede l'allegato VIII al D.Lgs. n. 81/2008 (Indicazioni di carattere generale relative a protezioni particolari), punto 3.1 (elenco indicativo e non esauriente delle attività e dei settori di attività per i quali può rendersi necessario mettere a disposizione attrezzature di protezione individuale), i lavori edili rientrano tra le attività che generalmente comportano la necessità di proteggere il capo e per le quali, quindi, è necessario l'elmetto protettivo, a prescindere dal fatto che il suo utilizzo sia specificamente contemplato nel documento di valutazione dei rischi di cui all'art. 28 D.Lgs. n. 81/2008 o dal concreto accertamento degli eventuali sinistri conseguenti alla sua violazione. Il loro uso è imposto dalla inevitabilità del rischio individuale, non dal fatto che il rischio stesso sia o meno previsto dalle disposizioni aziendali in materia di sicurezza del lavoro (arg. ex art. 75 D.Lgs. n. 81/2008). Il contenuto dell'allegato VIII, cit., costituisce elemento di riferimento ai fini degli adempimenti imposti al datore di lavoro dall'art. 77 D.Lgs. n. 81/2008, il quale, quindi, diversamente da quanto vuol sottintendere l'imputato, non gode al riguardo di alcun arbitrio (art. 79 D.Lgs. n. 81/2008). La possibilità dell'uso di un medesimo stesso casco da parte di più operai, non è argomento valido sia perché tale uso deve essere espressamente previsto e disciplinato secondo quanto prevede l'art. 77, comma 4, lett. d), D.Lgs. n. 81/2008, sia perché l'unico casco presente in cantiere non era nemmeno idoneo''.

    ``Il sinistro si era verificato a causa del fatto che il grembiule indossato dall'infortunato, avente parti svolazzanti, era rimasto intrappolato nelle parti in movimento del macchinario. L'imputato non aveva dotato il dipendente di un indumento da lavoro aderente, in violazione delle indicazioni riportate nel manuale d'uso del macchinario. La tuta aderente rientra nell'ambito applicativo della nozione di dispositivo di protezione individuale, già prevista dagli artt. 4, comma 5, lett. d) e 40, D.Lgs. n. 626/1994 ed oggi riportata dagli artt. 18, comma 1, lett. d) e 74, D.Lgs. n. 81/2008. Le predette disposizioni stabiliscono che il datore di lavoro deve adottare le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori e, in particolare, fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione. La richiamata cornice normativa delinea un precetto contravvenzionale `di pericolo', perché legato ad una prognosi `ex ante', circa la contingente necessità e idoneità dei dispositivi di protezione individuale forniti ai dipendenti. Rispetto alle mansioni svolte dal dipendente infortunato, nel contesto operativo sopra delineato, l'impiego di una tuta aderente risulta funzionale proprio a garantire la protezione del lavoratore dal rischio specifico derivante dalla vicinanza con le parti in movimento del macchinario. Pertanto, la tuta aderente non risulta altrimenti qualificabile, al pari di un ordinario indumento di lavoro, non destinato a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore, secondo la definizione dell'art. 74, comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008 (e, in precedenza, dell'art. 40, comma 2, lett. a, D.Lgs. n. 626/1994)''.

    ``Con riferimento alla dedotta disponibilità di cinture di sicurezza, queste, non presenti in cantiere, erano bensì presenti in magazzino ma in numero inferiore agli addetti alle lavorazioni di carpenteria, ciò ulteriormente provando che l'uso delle stesse non era previsto né attuato quale misura di protezione aggiuntiva''.

    L'art. 4, comma 5, lettera e), D.Lgs. n. 626/1994 - ereditato dall'art. 18, comma 1, lettera e), D.Lgs. n. 81/2008 - impone di prendere «le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni [e - aggiunge il D.Lgs. 81/2008 - specifico addestramento] accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico». È un obbligo - in più casi sotto il rilevante profilo attinente alle prassi lavorative illecite - esaminato da:

    La Sez. IV conferma la condanna del titolare di una ditta esercente attività di silvicoltura ed altre attività forestali, ``per colpa consistita nel non aver adottato misure di prevenzione adeguate all'attività di abbattimento di alberi e quindi ai rischi di una loro caduta (art. 18, comma 1, lett. e), D.Lgs. n. 81/2008), così da adibire a questo tipo di mansioni solo lavoratori che avessero ricevuto adeguate istruzioni e specifico addestramento, nonché per non aver vigilato sui lavoratori impegnati in tale specifica attività, ovvero richiesto loro l'osservanza delle disposizioni in materia, con specifico riferimento ai pericoli dovuti al rischio di caduta di una pianta impigliata ad un'altra durante la caduta [art. 18, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 81/2008], ed ancora per non aver formato il lavoratore, assunto da appena tre giorni, in maniera specifica su tutti i rischi afferenti le mansioni svolte e sulle misure e procedure da adottare nella fase di abbattimento degli alberi'', con la conseguenza che il lavoratore, intento a tagliare un alto albero di faggio, in una zona con pendenza di oltre il 90% e con il terreno reso viscido dalla pioggia, albero già in precedenza abbattuto e rimasto impigliato in altro vicino, così rimanendo in una situazione di bilico e quindi di pericolo, veniva colpito dall'albero in caduta libera perdendo la vita all'istante a causa delle gravi fratture subite.

    Condannato per la contravvenzione di cui agli artt. 4, comma 5, lettera e), del D.Lgs. n. 626/1994 per aver omesso di prendere misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevute adeguate istruzioni accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico, destinando al cantiere un lavoratore extracomunitario senza averlo istruito della presenza di una soletta non calpestabile, un datore di lavoro deduce che «la contravvenzione era, all'epoca dei fatti, descritta, quanto alla condotta, dall'art. 4, comma 5, lettera e), D.Lgs. n. 626/1994 mentre la sanzione era contenuta nell'art. 89, comma 2, del medesimo decreto legislativo». La Sez. III rileva: «All'epoca dei fatti, tale violazione era punita dall'art. 89, comma 2, lettera a), D.Lgs. n. 626/1994 con la pena pecuniaria, alternativa all'arresto, dell'ammenda da lire tre milioni (euro 1.549,37) a lire otto milioni (euro 4.131,66). Il D.Lgs. n. 626/1994 è stato abrogato e sostituito dal D.Lgs. n. 81/2008 (TU in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro). Successivamente la condotta contestata all'imputato è stata prevista dall'art. 18, comma 1, lettera e), del citato testo unico (il quale ne descrive l'elemento materiale) e dall'art. 55, comma 4, lettera a), nel testo originario, il quale fissa l'entità dell'ammenda (alternativa alla pena dell'arresto) nella misura da euro 800 ad euro 3.000; pena successivamente aumentata da D.Lgs. n. 106/2009 (la pena dell'ammenda va ora da 1.200 a 5.200 euro ed è sempre alternativa alla pena dell'arresto, che invece è rimasta invariata). Il citato art. 55, comma 4, lettera a), nel testo originario, costituisce disposizione applicabile al caso di specie in quanto legge più favorevole nella misura in cui prevede un massimo edittale di euro 3.000 di ammenda».

    «Un lavoratore, accingendosi ad effettuare con un tosaerba l'attività di pulitura di rotoballe, veniva raggiunto da tergo e schiacciato da una rotoballa che era scivolata dalla catasta su cui era impilata». Per lesione personale colposa fu condannato il datore di lavoro, anche con l'addebito di aver omesso di consentire «l'accesso a dette zone pericolose solo a lavoratori a conoscenza dei rischi gravi e specifici che correvano». La Sez. IV prende atto che «il lavoratore non aveva avuto uno specifico addestramento dal datore di lavoro che prevedeva la pulitura delle rotoballe in luogo non prossimo alle balle impilate», e, quindi, aveva «consentito l'accesso a detti luoghi pericolosi a soggetti non adeguatamente istruiti al riguardo». (V. anche Cass. 2 febbraio 2016, n. 4340).

    Tra gli obblighi previsti dal TUSL a carico del datore di lavoro, fa spicco - a maggior ragione dopo le modifiche introdotte dalla Legge n. 215/2021 - la vigilanza sui lavoratori. Vasta appare negli anni la giurisprudenza della Cassazione Penale in tema di vigilanza del datore di lavoro sui lavoratori, ma tutt'altro che agevole è trarne linee guida univoche. L'ispirazione di fondo è certamente quella di scongiurare ``una inaccettabile responsabilità penale `di posizione', tale da sconfinare nella responsabilità oggettiva'' (Cass. 21 dicembre 2020 n. 36778; Cass. 22 luglio 2019 n. 32507). E in questa ottica due appaiono i presupposti fondamentali della responsabilità attribuita al datore di lavoro. Il primo è l'esistenza, di una prassi comportamentale dei lavoratori elusiva delle norme antinfortunistiche, il secondo è la conoscenza o colpevole ignoranza di tale prassi da parte del datore di lavoro. Emblematiche sono le parole d'ordine ``conoscenza o conoscibilità'' largamente utilizzate a partire dal 2019:

    ``Il datore di lavoro è certamente responsabile del mancato intervento finalizzato ad assicurare l'osservanza delle disposizioni in materia di sicurezza ma tale condotta omissiva non può essergli ascritta laddove non si abbia la certezza che egli fosse a conoscenza della prassi elusiva o che l'avesse colposamente ignorata''. (Tra le ultime v. Cass. 14 aprile 2023 n. 15791; Cass. 18 ottobre 2022 n. 39126; Cass. 21 settembre 2022 n. 34968; Cass. 21 aprile 2022 n. 15486; Cass. n. 9824 del 12 marzo 2021 n. 9824; Cass. 21 dicembre 2020 n. 36778).

    Il fatto è che sia l'uno, sia l'altro presupposto, possono prestarsi ad equivoci, vuoi con riguardo al concetto di ``prassi'', vuoi in rapporto alle modalità di adempimento dell'obbligo atte ad escludere la colposa ignoranza. Si badi, alcuni indicatori vengono presi in considerazione, ma di per sé soli non appaiono risolutivi. Esemplare è la nomina del preposto (Cass. 24 luglio 2023 n. 31826; Cass. 20 maggio 2021 n. 20092): una nomina, peraltro, ormai doverosa alla luce del nuovo art. 18, comma 1, lettera b-bis, D.Lgs. n. 81/2008, ma di per sé sola insufficiente ad escludere la responsabilità del datore di lavoro. Ed altrettanto insufficiente appare da solo il consenso del preposto alla prassi elusiva (Cass. 15 settembre 2023 n. 37495; Cass. 21 ottobre 2021 n. 37802). Né tranquillante può considerarsi la circostanza - pur evocata da Cass. 22 luglio 2019 n. 32507 - che ``la prassi elusiva costituisca univocamente frutto di una scelta aziendale, finalizzata, in ipotesi, ad una maggiore produttività''. Va da sé che inaccoglibile è la tesi propugnata da Cass. 15 dicembre 2023 n. 50095 ove si afferma che ``l'obbligo del datore di lavoro di vigilare sull'esatta osservanza, da parte dei lavoratori, delle prescrizioni volte alla tutela della loro sicurezza, può ritenersi assolto soltanto in caso di predisposizione e attuazione di un sistema di controllo effettivo, adeguato al caso concreto, che tenga conto delle prassi elusive seguite dai lavoratori di cui il datore di lavoro sia a conoscenza''.

    In questo quadro, proficue sono le indicazioni date da:

    Anzitutto, in linea generale, la Sez. IV rileva implacabilmente che ``le modalità con le quali il datore di lavoro deve adempiere al dovere di vigilanza non sono esplicitamente definite dal legislatore''. Subito, però, pone in risalto ``la stessa previsione di una necessaria articolazione di ruoli e funzioni'', e anticipa che ``siffatta previsione risulta oggi ancor più cogente che in passato'' alla luce del nuovo art. 18, comma 1, lettera b-bis D.Lgs. n. 81/2008, pur ``non applicabile al caso che occupa in quanto introdotto successivamente al fatto per cui è processo, con legge n. 215/2021''. Ne desume che la previsione di una necessaria articolazione di ruoli e funzioni ``sta ad indicare che il controllo richiesto al datore di lavoro non è personale e quotidiano, e che, ogni volta che le dimensioni dell'impresa non consentano un controllo diretto, è affidato a procedure: report, controlli a campione, istituzione di ruoli dirigenziali e quanto altro la scienza dell'organizzazione segnali come idoneo allo scopo nello specifico contesto''. Trae ulteriore conforto da quell'art. 16 D.Lgs. n. 81/2008 che, pur relativo ad un ambito differente quale quello dei garanti a titolo derivato, ``anche offre indicazioni di interesse con riguardo ad un garante a titolo originario qual è il preposto''. Spiega che, ``nella interpretazione giurisprudenziale, da quella previsione discende che l'obbligo di vigilanza del datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite non impone la concreta, minuta conformazione delle singole lavorazioni - che la legge affida al garante- concernendo, invece, la correttezza della complessiva gestione del rischio da parte del delegato, con la conseguenza che l'obbligo di vigilanza del delegante è distinto da quello del delegato - al quale vengono trasferite le competenze afferenti alla gestione del rischio lavorativo - e non impone il controllo, momento per momento, delle modalità di svolgimento delle singole lavorazioni''. Aggiunge che ``l'interpretazione è ulteriormente confortata dalla previsione del comma 3 dell'art. 16, secondo il quale l'obbligo di vigilanza `si intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo di cui all'articolo 30, comma 4', ovvero attraverso l'adozione di cautele procedurali''. Sicché, ``fuori del perimetro della delega di funzioni, può accadere che le dimensioni dell'impresa non richiedano una proceduralizzazione dell'attività di vigilanza sull'operato del preposto, sì da rendere doveroso il controllo diretto da parte del datore di lavoro'', ``ma quando quelle dimensioni o altre condizioni concrete rendano idoneo allo scopo solo un controllo a mezzo di ruoli o procedure, è alla predisposizione di essi che occorre guardare per valutare l'adempimento del datore di lavoro''. Con riguardo al caso di specie, rimprovera ai magistrati di merito di essersi limitati ``a richiedere una vigilanza `puntuale e concreta' sui sottoposti, senza dare conto delle ragioni per le quali nel caso concreto non fosse ex ante adeguata l'organizzazione datasi dall'impresa in relazione al controllo sull'operato dei preposti''. Quanto al concetto di ``prassi'', la Sez. IV sottolinea che, ``in ragione dei fini perseguiti dalla disciplina, il concetto di prassi deve ritenersi allusivo ad un numero di occorrenze relativo e non assoluto, ovvero determinato in rapporto alla durata complessiva delle lavorazioni''. E obietta ai magistrati di merito che ``non è stata esibita alcuna valutazione della conoscibilità di tale prassi alla luce dell'organizzazione data dal datore di lavoro e del breve tempo di `vigenza' della menzionata prassi''.

    L'art. 18, comma 1, lettera q), D.Lgs. n. 81/2008, nel riprendere e arricchire l'art. 4, comma 5, lettera n), D.Lgs. n. 626/1994, ingiunge al datore di lavoro e ai dirigenti di «prendere appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno verificando periodicamente la perdurante assenza di rischio». È un obbligo considerato - oltre che da Cass. 13 luglio 2012, Belardinelli - da:

    Condannato per il reato di cui all'art. 18, comma 1, lett. q), del D.Lgs. n. 81/2008 ``per avere fatto installare un impianto di refrigerazione che, presentando i conduttori di alimentazione elettrica non adeguatamente coperti, causavano rischi per la salute della popolazione'', l'imputato nega ``la sussistenza del rischio per la salute della popolazione'' e la sussistenza dell'elemento soggettivo. La Sez. III ribatte: ``Il reato per cui si procede, avendo la relativa previsione penale la funzione precipua di sollecitare la attivazione e la conservazione in adeguato stato di efficienza delle opportune misure volte ad assicurare la prevenzione degli infortuni sul lavoro, è una tipica ipotesi di reato di pericolo per la realizzazione della quale si deve ritenere sufficiente l'attitudine della condotta dell'agente a pregiudicare, anche solo astrattamente, la sicurezza del lavoratore nonché l'integrità fisica delle altre persone, anche estranee ed occasionalmente presenti, gravitanti attorno l'ambiente di lavoro. Coerentemente con lo spirito e la finalità della disposizione che si assume essere stata violata dall'imputato, il tribunale ha ravvisato gli estremi dell'elemento materiale del reato de quo nell'avvenuta installazione a cura dell'imputato di un apparato refrigeratore i cui cavi di alimentazione elettrica non erano convenientemente isolati e segregati; infatti, siffatta circostanza, considerata anche unitamente al fatto che l'installazione dell'apparato in questione era avvenuta in un ambiente che, per essere condominiale e non di proprietà esclusiva, era suscettibile di accesso e di frequentazione anche da parte di una pluralità di individui, non tutti necessariamente avveduti della esistenza del pericolo rappresentato dalla detta apparecchiature, faceva sì che vi fosse, in linea di principio, il rischio di accidentali, quanto chiaramente potenzialmente lesivi, folgorazioni da contatto con il flusso di energia elettrica convogliato all'interno del refrigeratore attraverso i predetti cavi. Con riferimento alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato contestato, trattandosi di reato contravvenzionale, ai fini dell'integrazione del reato in discorso è sufficiente che l'agente versi anche solamente in istato di colpa. Poiché siffatta condizione psicologica si realizza, secondo la ben nota definizione che l'art. 43 c.p. dà del reato colposo, allorché l'evento - che qui è dato dalla creazione della situazione di astratto pericolo - si realizza, fra l'altro, per imprudenza ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, deve ritenersi che l'obbligo, trascurato dall'imputato, di segregare convenientemente le parti elettriche delle apparecchiature è imposto dalla normativa europea in materia e siffatto obbligo, per un'elementare norma di prudenza, non può dirsi surrogato dal fatto che l'impianto elettrico sia dotato di un differenziale salvavita, potendo essere questo apparato soggetto a malfunzionamenti che non garantirebbero la diuturna sicurezza dell'impianto''.

    «Il D.Lgs. n. 626/1994, art. 4, comma 5, lettera n), [ora art. 18, comma 1, lettera q), D.Lgs. n. 81/2008], ponendo la regola di condotta in forza della quale il datore di lavoro `prende appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno', dimostra che le disposizioni prevenzionali sono da considerare emanate nell'interesse di tutti, anche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa».

    «Le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori possano subire danni nell'esercizio della loro attività, ma sono dettate finanche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono là dove vi sono macchine che, se non munite dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono essere causa di eventi dannosi.

    Ciò, tra l'altro, dovendolo desumere dall'art. 4, comma 5, lettera n), D.Lgs. n. 626/1994, che, ponendo la regola di condotta in forza della quale il datore di lavoro «prende appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare rischi per la salute della popolazione o deteriorare l'ambiente esterno», dimostra che le disposizioni prevenzionali sono da considerare emanate nell'interesse di tutti, anche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa».

    L'art. 18, comma 1, lettera r), D.Lgs. n. 81/2008, nel secondo periodo, stabilisce che «l'obbligo di comunicazione degli infortuni sul lavoro che comportino un'assenza dal lavoro superiore a tre giorni si considera comunque assolto per mezzo della denuncia di cui all'articolo 53 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124» (v., peraltro, ora, le modifiche apportate dall'art. 21 D.Lgs. n. 151/2015). In proposito, si può consultare:

    Condannato per il reato di cui agli artt. 477 e 482 c.p. per aver falsificato la firma del proprio datore di lavoro nella denuncia di infortunio sul lavoro inoltrata all'Inail, il presunto infortunato ricorre per cassazione.

    La Sez. V annulla senza rinvio la sentenza di condanna. Prende atto che «il fatto contestato all'imputato alla stregua di una falsità materiale in certificazione pubblica commessa da privato (ex artt. 477 e 482 c.p.), concerneva la materiale falsificazione della firma della datrice di lavoro nella denunzia di infortunio sul lavoro inviata all'INAIL ai sensi dell'art. 53, D.P.R. n. 1124/1965». Osserva che «l'obbligo imposto al datore di lavoro privato di denunziare o segnalare all'INAIL l'infortunio sul lavoro occorso al dipendente non è espressione di alcuna pubblica funzione a lui delegata, né è riconducibile ad alcun potere accertativo del datore di lavoro (e peraltro in tal caso il documento costituirebbe atto pubblico e non una mera certificazione)». Ne desume che «la denunzia di infortunio costituisce, nella sua materialità, mera scrittura privata», e che, «essendo atto diretto all'INAIL, istituto pubblico, e destinato a dar vita alla procedura finalizzata all'accertamento e alla liquidazione dell'infortunio, ove fosse ideologicamente falsa, la denunzia potrebbe essere valutabile alla stregua dell'art. 483 c.p., ricorrendone i presupposti». Ma subito aggiunge che «la sua falsità materiale è inquadrabile esclusivamente nel paradigma dell'art. 485 c.p., punibile a querela che nel caso di specie non risulta proposta». La conclusione è che, «mancando la querela, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio per difetto della condizione di procedibilità». (Circa il diverso caso di falsa attestazione di malattia professionale da parte del dirigente di centro medico Inail v. Cass. 21 febbraio 2002, Andronico, in Dir.prat.lav., 2002, 12, 862; Cass. 18 marzo 1999, Andronico e altri, ibid., 1999, 26, 1934. Nel senso che «non commettono il delitto di falso ideologico di cui all'art. 479 c.p. il presidente della commissione medica deputata all'accertamento degli stati di invalidità il quale abbia attestato una invalidità effettivamente esistente in un lavoratore con una percentuale superiore a quella poi accertata in sede giudiziaria, né il lavoratore che di tale attestazione si sia avvalso al fine di ottenere il punteggio necessario per fruire della quota di assunzioni riservata agli invalidi» Cass. 23 marzo 2000, P.M. in c. Pellei e altro, ibid., 2000, 26, 1865. Stando a Cass. 10 giugno 1999, D'Antonio, ibid., «commette il delitto di falso ideologico in certificato di cui agli artt. 48-480 c.p., e non il delitto di falso ideologico in atto pubblico di cui agli artt. 48-479 c.p., il lavoratore che, con inganno consistente nella simulazione di una malattia, abbia indotto il proprio medico curante a certificare tale malattia per ottenere il congedo dei giorni prognosticati». Ancora, Cass. 26 gennaio 1998, Ravera, ibid., 1998, 17, 1086, afferma che «commette il delitto di truffa aggravata di cui all'art. 640 comma 2 n. 1 c.p. colui che ottiene dall'INAIL l'indennità per il periodo di astensione dal lavoro, falsamente dichiarando di essersi infortunato in occasione dell'attività lavorativa per la quale fruiva di copertura assicurativa»).

    L'art. 18, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008, sviluppando quanto al servizio di prevenzione e protezione dai rischi il disposto dell'art. 9, comma 2, D.Lgs. n. 626/1994 e ampliando quanto al medico competente i contenuti dell'art. 4, comma 5, lettera g), seconda parte, D.Lgs. n. 626/1994, prescrive che datore di lavoro e dirigenti debbono fornire al servizio di prevenzione e protezione ed al medico competente «informazioni in merito a: a) la natura dei rischi; b) l'organizzazione del lavoro, la programmazione e l'attuazione delle misure preventive e protettive; c) la descrizione degli impianti e dei processi produttivi; d) i dati di cui al comma 1, lettera r) e quelli relativi alle malattie professionali; e) i provvedimenti adottati dagli organi di vigilanza». Ecco l'analisi effettuata:

    ``Il D.Lgs. n. 81/2008 all'art. 29, prevede che alla redazione del D.V.R. collaborino alcune figure dotate di specifiche competenze tecnico scientifiche, ovvero il RSPP e il medico competente, che sono tenuti a conferire al datore di lavoro le informazioni e le indicazioni appropriate, quanto all'analisi e alla gestione del rischio. Il garante da parte sua è tenuto a fornire a tali collaboratori informazioni inerenti alla gestione dell'impresa, per ciò che attiene alla natura del rischio, alla organizzazione del lavoro, alle misure di prevenzione e protezione ai sensi dell'art. 18, comma 2''.

    Il dipendente di una società, «durante il turno di lavoro notturno (22-6), mentre era intento alle operazioni di pulizia all'interno di un silo contenente grano in fase di svuotamento - realizzato mediante la progressiva fuoriuscita del grano stesso per gravità a mezzo di una tramoggia posizionata sul fondo del silo - ad un certo punto era venutosi a trovarsi disteso sulla superficie granaria sulla quale si muoveva, e, non percependo il progressivo assorbimento del suo corpo all'interno della massa di grano, era rimasto poi completamento coperto dal grano decedendo per asfissia causata dall'ostruzione delle vie respiratorie intasate dal grano». Nel condannare per omicidio colposo il datore di lavoro, il Tribunale sottolineò «la omessa valutazione concreta del rischio specifico in relazione alle modalità di svolgimento del lavoro espletato dall'operaio rimasto vittima dell'infortunio». E in particolare osservò: «a) l'imputato aveva incaricato un ingegnere per l'individuazione dei fattori di rischio e per l'elaborazione delle misure di prevenzione e delle procedure di sicurezza, ed il citato professionista aveva quindi depositato una sua relazione; b) in detta relazione non era stata esaminata la specifica mansione svolta dagli operai all'interno dei silos e pertanto era stata omessa qualsiasi valutazione dei rischi collegabili alla stessa; c) l'ingegnere aveva dichiarato di non essere stato informato di detta attività e di non aver quindi potuto dare disposizioni in merito; d) nelle mansioni svolte dall'infortunato erano ravvisabili rischi valutabili, evitabili e prevedibili, tenuto conto, in particolare, delle seguenti circostanze: le caratteristiche strutturali del silo, l'altezza delle sue pareti, l'esistenza di un unico varco di accesso sistemato in cima al silo, la presenza nel silo di grano ammassato in grado di formare una superficie compatta che costituiva il piano di calpestio sul quale il lavoratore svolgeva la sua opera; e) doveva inoltre considerarsi che la massa di grano, sulla cui superficie si muoveva il lavoratore, degradava lentamente per effetto dello svuotamento ed era composta da chicchi che, se ingeriti, potevano ostruire le vie respiratorie fino al soffocamento; f) il lavoratore svolgeva le sue mansioni in ore notturne, in assoluto isolamento, all'interno di un contenitore che non avrebbe potuto abbandonare in fretta e scarsamente illuminato; g) le operazioni di pulizia consistevano in brevi attività - pulitura con la scopa della sporgenza interna della cella - con lunghi intervalli di tempo di inattività (di circa trenta minuti); h) a fronte di siffatti e molteplici elementi di rischio il datore di lavoro aveva l'obbligo di predisporre le dovute misure precauzionali: ad esempio, assicurare l'assistenza di altro lavoratore posizionato all'esterno del silo presso il varco di accesso, oppure munire il lavoratore di un mezzo di collegamento con l'esterno o di un congegno di allarme idoneo a segnalare eventuali situazioni di difficoltà all'interno del silo». Rilevato che «non risultava da alcun atto del processo che l'ingegnere fosse stato informato delle concrete operazioni di pulizia delle celle granarie, di tal che, in proposito, il datore di lavoro - perfettamente a conoscenza delle caratteristiche del luogo, del tempo e di ogni altra circostanza rilevante, relativamente allo svolgimento di quel particolare lavoro - era venuto meno al suo obbligo di informazione»: «in sostanza il datore di lavoro non aveva comunicato all'ingegnere il contenuto delle mansioni di pulitura delle pareti del silo, pur conoscendone tutte le modalità di svolgimento, cosi impedendo la redazione di un documento di valutazione dei rischi effettivamente idoneo a prevenire eventi lesivi in danno dei lavoratori»; «qualsiasi persona di media intelligenza si sarebbe reso conto della oggettiva situazione di pericolo derivante dalle mansioni di pulitura delle celle granarie svolte dall'infortunato». D'altra parte, oltre alle misure di protezione già ipotizzate dal Tribunale, «sarebbe stato possibile evitare l'evento semplicemente impiegando due operai contestualmente nella cella granaria: ciò avrebbe consentito, in caso di malore o di un colpo di sonno di uno dei due, che l'altro operaio potesse tempestivamente intervenire». Nel confermare la condanna, la Sez. IV, quanto alla posizione di garanzia del datore di lavoro, prende atto che «l'ingegnere era stato incaricato dell'individuazione dei fattori di rischio e dell'elaborazione delle misure di prevenzione e delle procedure di sicurezza», e che «il detto professionista aveva predisposto una relazione nella quale però non era stata esaminata la specificità della mansione svolta dagli operai all'interno dei silos e pertanto aveva omesso ogni valutazione dei rischi collegabili alla stessa». Prende atto, inoltre, che l'ingegnere aveva dichiarato di non essere a conoscenza di tale lavorazione: dunque, in assenza di informazioni rilevanti che avrebbero dovuto essere fornite da persone informate, in primis il datore di lavoro, l'ingegnere non aveva mai fatto riferimento, nella sua relazione, all'operazione di pulizia delle celle granarie». Ne ricava che «l'omessa previsione, da parte dell'ingegnere, dei rischi correlati alle operazioni di pulizia all'interno delle celle granarie, è pienamente riconducibile al datore di lavoro il quale era perfettamente a conoscenza delle caratteristiche del luogo, del tempo e delle più rilevanti circostanze concernenti lo svolgimento del lavoro di pulizia all'interno dei silos». Precisa che il datore di lavoro «avrebbe dovuto controllare la relazione predisposta dall'ingegnere, onde poter segnalare al detto professionista quelle attività del ciclo produttivo eventualmente ignorate (come poi in concreto si è verificato) nella valutazione dell'attività aziendale ai fini della pianificazione dei rischi». La conclusione è che «l'omissione di tale controllo vale a concretizzare un evidente profilo di colpa».

    In caso di morte o lesione del lavoratore infortunato, il datore di lavoro (o chi per o con lui) può discolparsi dall'accusa di omicidio o lesione personale colposa, attribuendo la responsabilità della morte o della lesione alle cure improprie dei sanitari?

    Con riguardo all'infortunio mortale per caduta da un tetto addebitato al datore di lavoro di una s.r.l. appaltatrice e al committente, nonché ex art. 25-septies D.Lgs. n. 231/2001 alla s.r.l., la Sez. IV annulla con rinvio la condanna del committente e conferma la condanna del datore di lavoro e della s.r.l. attraverso un'ampia analisi imperniata sui ``principi relativi al nesso di causalità in ipotesi di reati commissivi determinati mediante omissione''. Prende atto che gli imputati e la s.r.l. deducono ``la sussistenza di una sequenza causale indipendente ed idonea a escludere la sussistenza del nesso causale tra l'infortunio occorso il 23 dicembre 2013 e il successivo decesso sopravvenuto il 21 maggio 2014'', ``concretizzata dalla condotta negligente dei sanitari che avrebbe determinato l'insorgenza diagnosticata già dopo sedici giorni dal trauma conseguente all'infortunio di una fistola tracheo-esofagea riconducibile a un'errata manovra di intubazione eseguita subito dopo il ricovero, nonché dalla condotta tenuta dallo stesso paziente il quale, nei mesi seguiti al ricovero, non aveva consentito all'esecuzione di alcune necessarie indagini diagnostiche e non aveva ottemperato alle indicazioni dei sanitari in ordine alla quantità e qualità degli alimenti da assumere''. Replica che, ad avviso dei magistrati di merito, è da escludere che ``le condotte omissive e commissive tenute da soggetti diversi da parte degli imputati potessero costituire una causa sopravvenuta da sola sufficiente ad interrompere il rapporto condizionalistico tra la loro condotta e l'evento finale''. A proposito della eventuale e sopravvenuta condotta colposa da parte dei sanitari intervenuti dopo il perfezionamento di un evento lesivo, afferma che tale condotta, ``ancorché di elevata gravità, non elide, di per sé, il nesso causale tra la condotta lesiva e l'evento morte, in quanto l'intervento dei sanitari costituisce, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, anche nei potenziali errori di cura, mentre ai fini dell'esclusione del nesso di causalità occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l'evento letale''. Spiega che ``tali condotte sopravvenute possono, ricorrendone le condizioni, costituire eventualmente e unicamente il titolo per l'affermazione della concorrente responsabilità del soggetto inadempiente''. Quanto all'omesso rispetto da parte del paziente delle prescrizioni imposte dai sanitari, precisa che ``il rifiuto di terapie da parte del paziente capace d'intendere e volere non costituisce causa sopravvenuta sufficiente a determinare l'evento e a interrompere il nesso di causalità, dovendo essere considerato non un evento anomalo e eccezionale, ma uno dei possibili esiti ordinari della proposta di terapia conseguente all'insorgere di una patologia potenzialmente letale''. Conclusione: ``i traumi determinati dall'infortunio - con la conseguente necessità di un intervento urgente da parte dei sanitari, pure in ipotesi determinato da un originario errore operativo - ha costituito un antecedente logico e necessario dell'evento mortale, del quale non è quindi possibile ritenere l'assenza di valenza concausale''.

    Infortunio a un occhio colpito da una scheggia metallica con conseguente indebolimento permanente dell'organo, il datore di lavoro condannato per lesione personale colposa lamenta ``l'omessa valutazione di decorsi causali autonomi incidenti/sorpassanti'', e sostiene, in particolare, che ``non è stata valutata l'incidenza del ritardo diagnostico intervenuto in occasione dell'accesso al Pronto Soccorso da parte della persona offesa ed il fatto che la menomazione dell'organo della vista dipende proprio dalla non immediata estrazione del corpo estraneo dall'occhio, omissione da ricondurre alla condotta dei sanitari, che la sera del sinistro si sono limitati a comunicare l'assenza dello specialista ed a rimandare a casa il paziente''. La Sez. IV ritiene, invece, di aderire al ``principio secondo cui l'eventuale negligenza o imperizia dei sanitari nella prestazione delle cure alla vittima di un infortunio sul lavoro, ancorché di elevata gravità, non può ritenersi causa autonoma ed indipendente, tale da interrompere il nesso causale tra il comportamento di colui che ha causato l'infortunio e la successiva morte della vittima (o l'aggravamento delle lesioni), posto che i potenziali errori di cura costituiscono, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, mentre, ai fini della esclusione del nesso di causalità, occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l'evento letale''. Aggiunge che ``la morte della vittima è addebitabile al comportamento dell'agente, perché questi, provocando le originarie lesioni, ha reso necessario l'intervento dei sanitari, la cui imperizia o negligenza non costituisce un fatto imprevedibile ed atipico, ma un'ipotesi che si inserisce nello sviluppo della serie causale''.

    La Sez. IV ``ritiene che le argomentazioni svolte nelle conformi sentenze di merito siano legittime ed esenti da aporie, avendo implicitamente negato rilievo alle valutazioni del consulente della difesa sulla base del documentato riferimento alle condizioni del lavoratore quali erano all'ingresso nel nosocomio e sul coerente ragionamento secondo il quale eventuali negligenze dei sanitari non avrebbero innescato, nelle condizioni date, un processo causale autonomo in considerazione del fatto che l'intervento dei sanitari costituisce, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, anche nei potenziali errori di cura, mentre ai fini dell'esclusione dei nesso di causalità occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l'evento letale. Non può ritenersi causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento il comportamento negligente di un soggetto che trovi la sua origine e spiegazione nella condotta colposa altrui''.

    La Sez. IV - nel confermare la condanna per un infortunio sul lavoro - esclude che non si sia tenuto conto dell'interruzione del nesso causale dovuta all'infezione contratta in ospedale dall'infortunato: ``Era stato proprio a causa della lunga ospedalizzazione del lavoratore determinata dalle gravi lesioni subite in occasione dell'infortunio che si era manifestata l'infezione nosocomiale che aveva cagionato la broncopolmonite, in un soggetto già gravemente debilitato e in condizioni fisiche di grave compromissione dovute al trauma cranico, sicché ogni cura si era rivelata insufficiente ad evitare il decesso. Conseguentemente, la complicanza connessa alla menzionata infezione nosocomiale è stata plausibilmente valutata non come causa eccezionale e autonoma dell'evento, ma, piuttosto, come ulteriore infausta conseguenza delle lesioni subite dal lavoratore con l'infortunio, strettamente connessa, nello sviluppo causale che ha condotto al decesso, alla primaria malattia. È stata, quindi, correttamente esclusa l'interruzione del nesso causale tra condotta ed evento, atteso che l'infezione non aveva innescato un rischio nuovo, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla prima condotta''.

    Il datore di lavoro - condannato per infortunio mortale a un lavoratore caduto da un ponteggio - lamenta ``il mancato accertamento dell'esistenza di una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento'', poiché ``il lavoratore è deceduto a distanza di sette mesi dal fatto, a causa di complicanze infettive polidistrettuali da microrganismi multipli'', e ``la caduta è stata solo l'occasione per lo svilupparsi di un altro separato e diverso processo causale che ha determinato l'evento mortale, ovvero lo stato infettivo''. La Sez. IV risponde di no: ``Il perito nominato ha congruamente spiegato che la morte è sopraggiunta per complicanze rappresentate da patologie derivanti dal politrauma subito a causa dell'infortunio, il quale ha dato inizio alla catena degli eventi che ha condotto alle complicanze causative del decesso'', e ``in tal senso, l'incidente è stato legittimamente considerato concausa dell'evento''.

    L'amministratore di una s.a.s. fu prosciolto per intervenuta prescrizione dal reato di lesione personale colposa in danno di un dipendente ``intento a scaricare con l'aiuto di un muletto delle casseformi da un T.I.R. agganciate ad una catena in un'area portuale e travolto per effetto del capovolgimento di una di esse'', ma venne condannato per omicidio colposo, in quanto a seguito di quell'infortunio occorso il 25 settembre 2008 il dipendente aveva riportato ``politraumi vari, trauma cervicale e toraco-addominale, dai quali derivava uno stato comatoso-vegetativo permanente, cui seguiva la morte intervenuta il 18 dicembre 2012''. Nell'annullare con rinvio la condanna, la Sez. IV premette che ``il nesso causale va ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica - universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata la condotta doverosa, l'evento non si sarebbe verificato'', e che ``l'ipotesi accusatoria sulla sussistenza del nesso causale non può trovare automatica conferma solo sulla considerazione del coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto, in modo che all'esito del ragionamento probatorio, una volta esclusa l'interferenza di fattori eziologici alternativi di produzione dell'evento''. Aggiunge che ``il riscontro della ricorrenza del nesso causale fra la condotta dell'imputato e l'evento deve operarsi attraverso un doveroso giudizio controfattuale, ovverosia quell'operazione logica che, eliminando dalla realtà (contro i fatti) la condizione costituita da una determinata condotta umana, verifica se il fatto oggetto del giudizio sarebbe egualmente accaduto, con la conseguenza che nell'ipotesi di indifferenza della condotta nella produzione dell'evento, deve escludersi che essa ne costituisca una causa, mentre, al contrario, laddove senza quella condotta l'evento non si sarebbe prodotto essa è condizione causale dell'evento''. Con riguardo al caso di specie, la Sez. IV osserva che ``il nodo da sciogliere - essendo indubbio che l'infortunio produsse nella vittima uno stato di coma vegetativo - riguarda esclusivamente il decesso, collocatosi ad anni di distanza dalla condotta, e coincide con la verifica della sussistenza di una serie causale alternativa, innescante un rischio nuovo e diverso da quello attivato dalla condotta''. Spiega che ``l'eventuale diversità dei rischi interrompe e separa la sfera di responsabilità del garante (datore di lavoro) dall'evento prodottosi, quando una qualunque circostanza - in questo caso l'eventuale instaurarsi di una patologia del tutto indipendente dalle lesioni riportate - radicalmente esorbitante rispetto al rischio che egli è chiamato a governare, inneschi una nuova ed autonoma serie causale''. Prende atto che ``i giudici di merito hanno del tutto pretermesso l'accertamento della causa della morte dell'infortunato, facendo derivare unicamente dallo stato di coma vegetativo, conseguente l'infortunio, l'evento ascritto all'imputato, senza indagare quale patologia abbia materialmente condotto la persona offesa al decesso, avvenuto a distanza di oltre quattro anni dall'incidente, né il collegamento con le lesioni riportate in quella occasione''. Nota che ``si tratta di un'indagine indispensabile, che non può incombere sull'imputato, al quale non compete l'onere di dimostrare la sussistenza di una serie causale alternativa, essendo la prova del collegamento fra la condotta e la morte onere specifico dell'accusa''.

    A propria discolpa, la presidente e il vicepresidente del C.d.A. di una cooperativa agro-turistico-forestale deducono, in particolare, che ``la mancanza di un medico a bordo dell'autoambulanza che aveva soccorso l'infortunato e la scelta di non utilizzare l'elicottero per prestare soccorso allo stesso e anche le procedure sanitarie successivamente seguite avevano comportato un ritardo dal quale era conseguito il grave esito dell'amputazione della gamba sinistra''. Ma la Sez. IV prende atto, ad avviso della Corte d'appello, ``se anche si ritenesse fondata la tesi difensiva, non vi sarebbe interruzione del nesso causale fra le condotte colpose tenute dagli imputati e l'evento lesivo occorso al lavoratore, in quanto gli errori nell'esecuzione delle cure mediche costituiscono un fatto prevedibile e non eccezionale''.

    ``L'eventuale negligenza o imperizia dei sanitari nella prestazione delle cure alla vittima di un incidente, ancorché di elevata gravità, non può ritenersi causa autonoma ed indipendente, tale da interrompere il nesso causale tra il comportamento di colui che ha causato l'incidente e fa successiva morte del ferito. (cfr. Sez. 4, n. 25560 del 02/05/2017, Rv. 269976; caso in cui ta Corte ha escluso l'interruzione del nesso di causalità in relazione al decesso della vittima per insufficienza cardiocircolatoria con coma da shock emorragico in soggetto politraumatizzato da lesioni stradali, intervenuto a circa un mese di distanza dal sinistro, rilevando che i potenziali errori di cura costituiscono, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, mentre, ai fini della esclusione del nesso di causalità, occorre un errore dei tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l'evento letale). Nel caso di specie, l'evento letale è dipeso da una insufficienza multiorgano conseguente a sepsi e shock settico in paziente ospedalizzato per politrauma con trauma del bacino. Il perito ha indicato proprio nel trauma del bacino una condizione patologica ad elevato rischio di infezione ed elevata mortalità ospedaliera; affermazione che non è stata ritenuta incoerente con il temporaneo miglioramento del paziente nei giorni successivi all'intervento di stabilizzazione delle fratture, essendo stato ciò ritenuto compatibile con il contemporaneo silente sviluppo di un siero-ematoma a livello della coscia sinistra, con insorgenza di un'infezione che ha, quindi, attinto proprio la parte interessata dalla lesione provocata dall'infortunio in disamina. A sostegno di tale conclusione il perito - premesso l'elevato rischio infettivo ai quale veniva esposto l'infortunato a seguito del trattamento embolico, delle molteplici trasfusioni ematiche e degli interventi di stabilizzazione ortopedica necessitati dal politraumatismo ha sottolineato la stretta correlazione temporale tra insorgenza della raccolta siero-ematica e sviluppo di segni e sintomi di infezione, nonché tra questi e l'exitus del paziente''.

    ``L'eventuale negligenza o imperizia dei sanitari nella prestazione delle cure alla vittima di un infortunio sul lavoro, ancorché dl elevata gravità, non può ritenersi causa autonoma ed indipendente, tale da interrompere il nesso causale tra il comportamento di colui che ha causato l'infortunio e la successiva morte della vittima posto che i potenziali errori di cura costituiscono, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, mentre, ai fini della esclusione del nesso di causalità, occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l'evento letale. La morte della vittima è addebitabile al comportamento dell'agente, perché questi, provocando le originarie lesioni, ha reso necessario l'intervento dei sanitari, la cui imperizia o negligenza non costituisce un fatto imprevedibile ed atipico, ma un'ipotesi che si inserisce nello sviluppo della serie causale. Correttamente, quindi, la corte d'appello ha affermato che l'eventuale colpa dei sanitari ospedalieri, anche se grave, non può ritenersi causa indipendente sopravvenuta, idonea da l'interrompere il nesso causale tra la condotta dell'imputato, datore di lavoro che, non provvedendo alla messa in sicurezza del pavimento su cui scivolava e batteva il capo la vittima, ha determinato l'intervento sanitario presso il nosocomio, e la possibile imperizia o negligenza dei medici, che non può quindi qualificarsi come un fatto imprevedibile, bensì come un'ipotesi che si inserisce nello sviluppo della serie causale L'infortunata non appare mai aver sofferto di aritmie cardiache, ma, in ogni caso, l'indubbio stress psicofisico a carico della lavoratrice derivato dall'infortunio comunque non avrebbe potuto non incidere sull'apparato cardiaco della stessa, anche se quest'ultimo fosse stato già gravato dalla detta aritmia, e cosi ha dato luogo infine al letale arresto cardiaco. Quando la condotta dell'agente costituisce un antecedente senza del quale l'evento non si sarebbe verificato, poiché la sua assenza non avrebbe consentito la messa in moto di quello ulteriore elemento che, per forza propria, ha, in definitiva, determinato l'evento stesso, tale condotta rappresenta pur sempre un elemento che ha consentito il suo verificarsi''.

    Condannata per le lesioni personali da elettrocuzione con indebolimento permanente dell'organo della prensione subite da un dipendente, una datrice di lavoro lamenta che tali lesioni fossero state ricondotte alle proprie condotte commissive o omissive e che per contro fosse stato assolto il sanitario che aveva avuto in cura l'infortunato, e ciò malgrado una perizia disposta in appello avesse ``dato atto dell'impossibilità di ritenere con certezza che la malattia fosse stata conseguenza della elettrocuzione''. La Sez. IV ribatte: ``Quanto riferito dal perito nominato nel corso del giudizio di appello in ordine alle cause tipiche della sindrome compartimentale non si discosta dalle conclusioni raggiunte dalle consulenze espletate nel corso del dibattimento di primo grado. Il tribunale, infatti, proprio sulla base degli elaborati tecnici, aveva già rilevato come la sindrome compartimentale da elettrocuzione fosse da considerare un evento inusuale, che comunque si sarebbe dovuta verificare in tempi molto ravvicinati all'evento e avrebbe dovuto manifestarsi con dolore acuto e forte tensione della massa muscolare, tale da rendere la parte interessata tesa, compatta, intrattabile: evenienze che invece non si erano verificate nel caso esaminato. Tali indagini di natura tecnica, inoltre, avevano riguardato espressamente la posizione del coimputato ed erano volte dunque esclusivamente a valutare la sua condotta quale sanitario che aveva avuto in cura l'infortunato, per non aver correttamente interpretato i segni clinici presentati dal paziente. Ciò premesso, gli esperti non hanno escluso che la sindrome compartimentale potesse essere derivata dalla folgorazione subita dalla persona offesa, ma si sono limitati ad affermare che il quadro lesivo non era univocamente riferibile al passaggio di corrente elettrica e permetteva di ipotizzare una lesione vascolare oppure una complicanza infettiva locale, sicché la mancata immediata diagnosi della patologia non poteva essere rimproverata al sanitario. Entrambi i giudici di merito non hanno conferito valore differente al medesimo dato probatorio in relazione alle posizioni dei due coimputati, atteso che non sono pervenuti ad una pronuncia liberatoria nei confronti del sanitario per assenza del nesso di causalità assumendo che la patologia non poteva avere trovato la sua origine nella elettrocuzione, ma si sono limitati ad escludere la ravvisabilità di profili di colpa nella sua condotta e dunque la sua rimproverabilità per non aver riconosciuto e tempestivamente diagnosticato la patologia proprio in considerazione della sua evoluzione in modo del tutto atipico e raro''.

    ``In tema di lesioni personali volontarie seguite dal decesso della vittima, l'eventuale negligenza o imperizia dei medici, ancorché di elevata gravità, non elide, di per sé, il nesso causale tra la condotta lesiva e l'evento morte, in quanto l'intervento dei sanitari costituisce, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, anche nei potenziali errori di cura, mentre ai fini dell'esclusione del nesso di causalità occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l'evento letale. Ne consegue, in tal caso, l'applicabilità dell'art. 41, comma 1, e non dell'art. 41, comma 2, c.p. Difatti, è configurabile l'interruzione del nesso causale tra condotta ed evento quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e del tutto eccentrico rispetto a quello originario attivato dalla prima condotta''.

    ``Quanto alla deduzione difensiva della causa sopravvenuta determinata dalle asserite erronee cure mediche apprestate all'infortunato in ospedale, ai fini dell'apprezzamento dell'eventuale interruzione del nesso causale tra condotta ed evento, il concetto di causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento si riferisce non solo al caso di un processo causale del tutto autonomo, ma anche a quello di un processo non completamente avulso dall'antecedente, e però caratterizzato da un percorso causale completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, ossia di un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta''.

    In un cantiere, di domenica 16 Agosto, il dipendente dell'impresa esecutrice delle opere ``si trovava a lavorare in quota al di sopra della copertura di capannone industriale intento a posizionare le nuove lastre metalliche di copertura che avevano preso il posto della vecchia copertura in amianto, e ciò faceva in violazione del POS il quale prescriveva che gli operai di regola dovevano operare dall'interno del fabbricato, ovvero dall'esterno servendosi di piattaforma elevatrice munita di navicella cui dovevano comunque rimanere collegati, mentre l'operaio nel caso in specie risultava avere operato dalla superficie della copertura e, pure dotato di imbracatura e fune di sicurezza, egli non era assicurato né alla piattaforma, né a ganci di attacco posti sulla copertura''. Per il delitto di cooperazione colposa nell'omicidio fu condannato il coordinatore di diritto o di fatto per la progettazione e la esecuzione dei lavori.

    ``Nel caso in specie, l'omesso o inadeguato trattamento sanitario, a fronte di patologia seria, che offendeva più distretti dell'organismo, con caratteristiche ingravescenti e che imponeva un sollecito intervento salvifico del sanitario per eliminare, con plurimi trattamenti chirurgici, i profili patologici in evoluzione, costituiva un fattore causale da solo idoneo a determinare la morte del paziente, attesi i fattori di rischio già presenti come segnalati dalla diagnosi di accettazione e dal medico legale (emoperitoneo, tachicardia e ipotensione in presenza di frattura scomposta del bacino), dei tempi e dei modi in cui il trattamento andava somministrato (entro la prima ora dal ricovero avvenuto di domenica pomeriggio del 16 Agosto), e della mancanza di imprevedibilità dell'errore sanitario, dati anche i plurimi fattori di rischio presenti''.

    Per l'infortunio occorso a un lavoratore in cantiere, furono imputati, sia il datore di lavoro e il responsabile della sicurezza del cantiere, sia il medico di pronto soccorso. I primi due per ``lesioni personali gravissime alla colonna vertebrale consistite in plurime fratture vertebrali nonché lesioni traumatiche del rene sinistro produttive di ematoma retro peritoneale e plurime fratture costali di sinistra produttive di emotorace dalle quali derivava la morte dell'infortunato'', con l'addebito di ``aver omesso di garantire la doverosa sicurezza del posto di lavoro, consentendo che i balconi del cantiere edile fossero sprovvisti di regolamentari parapetti verso i lati esterni'' (reato, peraltro, prescrittosi). Il terzo per omicidio colposo, per aver cagionato la morte del lavoratore ``per shock ipovolemico causato dalle imponenti lesioni traumatiche del rene sinistro produttive di ematoma retroperitoneale e dalle plurime fratture costali di sinistra, produttive di emitorace'', in quanto ``non predisponeva e comunque non verificava adeguatamente i necessari accertamenti diagnostici riguardanti la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, i risultati degli esami di laboratorio, le condizioni emodinamiche, non predisponeva, non richiedeva e comunque non verificava adeguatamente, in vista delle successive determinazioni inerenti il paziente, a fronte dell'esame radiologico effettuato che segnalava diffuso ispessimento a livello dello spazio pararenale posteriore di sinistra, un esame TAC completo; non richiedeva al momento della sottoscrizione del referto ed in vista delle sue determinazioni una consulenza chirurgica generale per l'adeguata valutazione del quadro addominale''. Nei confronti del medico, assolto in primo grado, la Sez. IV rinvia al giudice civile per nuovo esame.

    «Il datore di lavoro imputato si limita a prospettare l'ipotesi che il decesso del lavoratore infortunato sia stato cagionato da una infezione contratta in ambito ospedaliero. Si osserva che la predetta infezione (la sepsi) si poneva come una assai prevedibile complicanza delle gravissime lesioni subite dal lavoratore a seguito della caduta delle lastre di vetro e come tale era un fatto non idoneo ad interrompere il rapporto di causalità».

    Condannato per un infortunio mortale, un datore di lavoro sostiene la «interruzione del nesso eziologico tra le condotte colpose omissive ascrittegli e l'evento letale subito dal dipendente, per effetto della sopravvenienza, quale causa imprevedibile ed eccezionale, di un processo settico di origine nosocomiale dal paziente contratto nella fase terminale della degenza ospedaliera, conseguente all'infortunio».

    La Sez. IV ribatte che, «fermo il principio della c.d. equivalenza delle cause o della conditio sine qua non (sul quale è imperniata la disciplina normativa del nesso eziologico), le cause sopravvenute in tanto possono giudicarsi atte ad interrompere il nesso di causa con la precedente azione od omissione poste in essere dall'imputato in quanto diano luogo ad una sequenza causale completamente autonoma da quella determinata dall'agente ovvero ad una linea di sviluppo dell'azione precedente, del tutto autonoma ed imprevedibile ovvero ancora nel caso in cui si prospetti un processo causale non totalmente avulso da quello antecedente, ma caratterizzato da un percorso completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale ovverosia integrato da un evento che non si verifica se non in fattispecie del tutto imprevedibili, tale non essendo, ad esempio, l'eventuale errore del medico. Precisa che, nel caso di specie, «difettando l'accertamento di qualsivoglia colpa dei medici curanti, sia l'infezione contratta dal paziente relativamente alle ferite chirurgiche prodotte dai delicatissimi e plurimi interventi chirurgici resisi necessari a seguito delle gravi lesioni craniche con emorragia meningea subite in conseguenza dell'infortunio, sia la polmonite di origine verosimilmente nosocomiale, integrano altrettante complicanze nient'affatto eccezionali od anomale né tantomeno di rarissima ed imprevedibile verificazione, trattandosi di eventualità purtroppo frequentemente verificabili in ambito ospedaliero tanto più in danno di organismi (quale quello dell'infortunato) significativamente indebolito dalla lunga ospedalizzazione e quindi defedato, come tale maggiormente esposto a siffatte complicanze». Ne desume che «conditio sine qua non dell'evento (ovvero prima, ineludibile condizione dell'evento) non poteva che risultare il complesso delle omissioni colpose ascritte all'imputato quale riconosciuto responsabile dell'infortunio occorso al dipendente».

    Il legale rappresentante di un'impresa edile fu condannato per il delitto di omicidio colposo in danno di un lavoratore: «dovendo operare la rimozione di lastre in fibro cemento contenenti amianto e la loro sostituzione con lastre in fibrocemento nuovo presso il capannone di un'azienda, disponeva che il lavoratore, titolare di impresa artigiana ma impiegato come mero prestatore di manodopera, si recasse, per eseguire il lavoro, sul tetto del capannone ove, per il cedimento di una lastra di appoggio e per il fatto di non lavorare con l'ausilio di mezzi di protezione, precipitava al suolo, riportando lesioni personali gravi alla colonna vertebrale con conseguente ricovero presso il Reparto di Neurochirurgia dell'Ospedale Civile ove decedeva». Per contro, gli altri imputati, sanitari del nosocomio ove è stato ricoverato la vittima dell'incidente ed ove vi è successivamente deceduto, furono assolti dal medesimo reato di omicidio colposo, per non avere commesso il fatto. A propria discolpa, l'imputato lamenta che «la morte della vittima sarebbe stata determinata da insufficienza respiratoria, cioè da insufficiente ossigenazione del paziente dovuta ad un colposo comportamento dei sanitari, e, in particolare degli anestesisti». Nel respingere il ricorso, la Sez. IV ricorda che «questa Corte ha costantemente affermato che l'eventuale errore dei sanitari nella prestazione delle cure alla vittima di un incidente stradale non può ritenersi causa autonoma ed indipendente, tale da interrompere il nesso causale tra il comportamento di colui che ha causato l'incidente e la successiva morte del ferito». Sottolinea che, «in particolare, nel caso di lesioni personali (nella specie, provocate da infortunio sul lavoro) cui sia seguito il decesso della vittima, la colpa dei medici, anche se grave, non può ritenersi causa autonoma ed indipendente - tale da interrompere il nesso causale ex art. 41, comma 2, c.p. - rispetto al comportamento dell'agente, perché questi, provocando tale evento (le lesioni), ha reso necessario l'intervento dei sanitari, la cui imperizia o negligenza non costituisce un fatto imprevedibile ed atipico, ma un'ipotesi che si inserisce nello sviluppo della serie causale). Aggiunge che, «mentre è possibile escludere il nesso causale in situazioni di colpa commissiva addebitabili ai sanitari, nel caso di omissioni di terapie che dovevano essere applicate per impedire le complicanze (come nel caso in esame in cui si rimprovera agli anestesisti di non avere assicurato una sufficiente ossigenazione all'infortunato mediante una costante e permanente intubazione), l'errore del medico non può prescindere dall'evento che ha fatto sorgere la necessità della prestazione sanitaria, per cui la catena causale resta integra». (In passato v. Cass. 21 dicembre 2006, Lestingi e altro, in ISL, 2007, 5, 277).

    ``L'obbligo di aggiornamento previsto a carico del datore di lavoro dall'art. 4, comma 5, lettera b), D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 (ora art. 18, comma 1, lettera z), D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81) va valutato in relazione al generale obbligo incombente sul datore di lavoro di adottare le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori; quest'ultimo è, infatti, un obbligo assoluto che non consente, anche in considerazione del rigoroso sistema prevenzionistico introdotto dal citato decreto legislativo, la permanenza di macchinari pericolosi per la sicurezza e la salute dei lavoratori''.

    Condannati in primo grado, ma assolti per non aver commesso il fatto in appello, il sindaco e due progettisti dell'edificio destinato a sede delle scuole elementari in relazione al reato di cui all'art. 590 c.p. in danno di un minore che, nel cortile dell'edificio, durante la ricreazione, sedendosi nell'oblò collocato nel muro divisorio tra la scala esterna d'accesso alle aule ed il piano di campagna, spinto da un compagno, cadeva dalla parte opposta da un'altezza di circa 1,50 m. La Sez. IV annulla l'assoluzione agli effetti civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello: ``il giudice di appello, al fine di escludere il nesso di causalità tra le condotte ascritte agli imputati e le lesioni patite dal minore, ha ritenuto che siano intervenuti fattori causali idonei ad interrompere in maniera netta ed assoluta detto nesso individuando tali fattori nel divieto di far sedere i bambini sui muretti esterni ed anzi addirittura di portarli fuori in ragione della mancata ultimazione delle opere esterne e dalla conseguente situazione di potenziale pericolo. Per addivenire a tale conclusione la Corte d'Appello si è fondata sulle testimonianze rese dalle maestre, dalle stesse desumendo il dato che presso la scuola elementare de qua vigeva il divieto di portare gli alunni all'esterno e di farli sedere sui muretti in ragione della mancata ultimazione delle opere esterne e quindi della correlativa situazione di potenziale pericolosità, nonché la circostanza che, invece, contravvenendo a tale divieto. le insegnanti avevano portato fuori i bambini e che l'alunno infortunato si era seduto sul muretto consumando del cibo. Dalle deposizioni degli insegnanti si ricava, infatti, che il divieto di uscire nel cortile durante la ricreazione è stato introdotto solo dopo `infortunio, mentre prima i bambini uscivano liberamente pur se controllati dalle maestre e che erano soliti sedersi anche sul muretto interno all'oblò''.

    In seguito allo scoperchiamento del tetto di una scuola elementare in presenza degli alunni durante la costruzione del refettorio furono condannati per disastro colposo, in particolare, ``il direttore generale dei lavori, firmatario di tutti i progetti e di tutte le relazioni, nonché direttore dei lavori in relazione alla parte architettonica'', e il preposto avente ``precipui compiti di vigilanza sulla concreta esecuzione dell'opera da parte delle maestranze''.

    La dirigente scolastica e l'RSPP di un liceo vengono condannati per il reato di lesioni colpose gravi commesso in danno di uno studente con violazione della disciplina antinfortunistica. Lo studente ``si era recato a scuola per assistere all'esame orale dei compagni'', ``in un'aula al secondo piano dell'edificio, aula alla quale si accedeva da un corridoio quadrangolare che delimitava, all'interno, un solaio lucernaio sui quale si aprivano dei cupolini, la cui finalità era fare entrare luce al piano sottostante, il primo, adibito ad attività scolastiche'', ``cupolini costruiti in materiale plastico (plexiglass) sottile pochi millimetri e non in grado di sostenere pesi superiori a 50 kg. né urti, e non protetti da grate o da altri sistemi''. ``L'unico accesso al solaio-lucernaio era costituito da una portafinestra con telaio in alluminio che si apriva nel corridoio percorribile a chi si trovasse nella scuola, porta-finestra che era antistante proprio l'aula nella quale quel giorno si sostenevano le prove di maturità. La porta in questione normalmente era chiusa con un lucchetto di piccole dimensioni, che serrava due perni con dadi, e le chiavi del lucchettino erano in una bacheca a disposizione di tutti i collaboratori scolastici ma quel giorno, come era accaduto anche in altre occasioni in cui era molto caldo, per fare passare aria nel corridoio la porta in alluminio veniva aperta dalla bidella. Cosa che quel giorno fece una collaboratrice scolastica. Lo studente, essendo inciampato mentre camminava nella battuta a terra della porta in alluminio, cadde in avanti, sfondò con il suo peso il fragile cupolino che era posto a soli settanta centimetri dalla base della porta, cadde al piano di sotto precipitando per più di sette metri, riportando gravi lesioni, plurime fratture, sfregio permanente del viso ed indebolimento permanente della teca cranica''. Addebiti mossi agli imputati: ``avere omesso di valutare il rischio di caduta dall'alto nell'elaborazione del documento di valutazione dei rischi della scuola, quanto all'accesso dal corridoio del secondo piano al lastrico solare con lucernai in questione; avere omesso di interdire in maniera idonea l'accesso al predetto lastrico solare ovvero avere omesso di segnalare in maniera adeguata la situazione di pericolo relativa a tale accesso; avere omesso di informare specificamente e di addestrare i collaboratori scolastici ed i lavoratori della scuola con riguardo alle modalità di apertura e di chiusura del lastrico e avere omesso di disciplinare adeguatamente la gestione delle chiavi di chiusura della porta finestra che dava accesso al lastrico, avere omesso di segnalare il pericolo di caduta dall'alto attraverso i fragili cupolini sulla copertura in questione alla provincia, ente tenuto per legge alla manutenzione dell'istituto scolastico, ed anche avere omesso di richiedere alla provincia interventi di manutenzione idonei a migliorare la situazione della sicurezza quanto, appunto, al rischio di caduta dall'alto''. Molteplici sono gli insegnamenti impartiti dalla Sez. IV nel confermare la condanna degli imputati.

    A) Per cominciare, all'RSPP, la Sez. IV addebita ``la mancata valutazione del rischio precipitazione, essendo il solaio prossimo ad un corridoio da cui si accedeva alle aule frequentate dei ragazzi, la omessa apposizione di cartelli di divieto, la omessa informazione ed omessa formazione del personale circa il rischio di caduta, la omessa regolamentazione dell'apertura e della chiusura della porta e dell'impiego e della custodia delle chiavi del lucchetto; non senza evidenziare che erano proprio le concrete modalità di chiusura adottate a dimostrare la effettiva percezione del pericolo connesso, appunto, al solaio''. E in più si richiama al ``principio di diritto secondo il quale la posizione di garanzia in capo agli addetti al servizio scolastico nei confronti dei soggetti affidati alla scuola si configura diversamente a seconda, da un lato, dell'età e del grado di maturazione raggiunto dagli allievi oltre che delle circostanze del caso concreto, e, dall'altro, degli specifici compiti di ciascun addetto, ma si caratterizza in generale per l'esistenza di un obbligo di vigilanza nei confronti degli alunni, al fine di evitare che gli stessi possano recare danno a terzi o a sé medesimi, o che possano essere esposti a prevedibili fonti di rischio o a situazioni di pericolo''.

    B) Quanto alla dirigente scolastica, non a torto dichiaratasi ``un `datore di lavoro' di tipo assai peculiare, non proprietario dell'immobile e privo di poteri di spesa'', la Sez. IV premette che, ``in tema di prevenzione infortuni, nelle istituzioni scolastiche, soggetto destinatario dell'obbligo di sicurezza è il dirigente che abbia poteri di gestione'', e rileva che, in forza dei ``poteri di gestione incontestabilmente riconosciuti ed effettivamente svolti'', l'imputata ``avrebbe potuto e, soprattutto, dovuto segnalare alla provincia le problematiche dell'istituto alla stessa affidato, nel caso di specie la insicurezza del solaio in questione per la presenza di apertura coperte da fragili lucernai, illustrando la situazione e chiedendo e sollecitando i conseguenti interventi strutturali''. Prende atto che, nella specie, ``le richieste, pur in effetti inoltrate all'ente territoriale e ad altri soggetti pubblici, non contenevano però alcuna menzione della problematica in questione, che non poteva ritenersi compresa in diciture estremamente generiche relative a `ringhiere', a `terrazzi' e ad `adeguamento porte', di sicurezza e non'', preferendosi invece adottare ``una soluzione, per così dire, `artigianale', che si rivelò purtroppo in concreto insufficiente per eliminare il pericolo'', sicché ``è nell'errato inquadramento originario e nella inidonea gestione nel tempo del problema che è stata rilevata la mancanza di prudenza e, dunque, la colpa della dirigente scolastica''. Nega poi ``l'inutilità dell'apposizione di un cartello di avviso o di pericolo, che certo non avrebbe impedito la caduta, ricostruita, come accidentale, del giovane, ma che avrebbe richiamato l'attenzione della bidella sulla pericolosità di tenere la porta aperta''. Spiega che ``l'addebito fondamentale alla preside consiste sia nel mancato inquadramento ab origine del rischio rappresentato dalla presenza di aperture coperte da fragili cupolini di plexiglass, sia nella insufficiente gestione successiva del rischio''.

    C) Un'ulteriore, utile precisazione concerne il concetto di ``luogo di lavoro''. A sua discolpa, l'imputata esclude che ``il lastrico ove si è verificato l'infortunio possa essere definito `luogo di lavoro' o `pertinenza' dello stesso, essendo estraneo a qualsiasi attività scolastica, non accessibile, in concreto segregato e da non inserirsi nel D.V.R.''. Ma la Sez. IV sottolinea ``la sicura riconducibilità dell'area in questione alla nozione di luogo di lavoro ovvero luogo ad esso equiparato, trattandosi di pertinenza del corridoio dal quale si accedeva alle aree scolastiche, corridoio nel quale transitavano e stazionavano sia studenti che personale scolastico, comunque collegato all'ambiente propriamente scolastico ovvero da esso non sufficientemente segregato''.

    D) Altro chiarimento. La dirigente scolastica contesta che ``l'alunno infortunatosi fosse destinatario della posizione di garanzia dell'imputata, non essendo un lavoratore dipendente né un addetto alla pulizia e alla manutenzione del lastrico posto al secondo piano ed essendo non più un allievo dell'istituto ma, ormai, un visitatore-accompagnatore estraneo alla scuola, in quanto aveva già sostenuto pochi giorni prima, superandolo, l'esame di maturità''. La Sez. IV replica che ``il ragazzo era legittimamente all'interno della scuola, in quanto assisteva alle prove orali degli esami di maturità, il cui svolgimento è pubblico''. Inoltre, ``perché possa ravvisarsi l'ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale, il quale non può ritenersi escluso solo perché il soggetto colpito da tale evento non sia un lavoratore dipendente (o soggetto equiparato) dell'impresa obbligata al rispetto di dette norme, ma ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli artt. 40 e 41 c.p.''.

    E) Infine, la Sez. IV non accoglie l'argomentazione difensiva tesa a ``dimostrare la interruzione del nesso di causalità per effetto della condotta, stimata esorbitante, imprevedibile, inevitabile ed abnorme, della bidella, non autorizzata ad aprire quella porta, condotta causativa di un rischio non governabile dall'imputata che era quel giorno legittimamente assente e sostituita in sede da figure vicarie e che, in realtà, avrebbe correttamente regolamentato la custodia delle chiavi''. In proposito, prende atto che ``non era stato, in realtà, adottato alcun provvedimento che disciplinasse la chiusura, né l'eventuale apertura della porta che consentiva l'accesso al solaio, né era stato correttamente formato o informato il personale scolastico né era stata regolamentato l'aspetto della custodia delle relative chiavi''. Per giunta, ``la circostanza che il giorno dell'infortunio la preside non fosse presente in istituto, in quanto impegnata come commissario d'esame in altra scuola, e che la stessa avesse provveduto a nominare due vicari, non può essere considerata una causa di esonero dalla sua responsabilità, dal momento che quest'ultima risulta contestata con riferimento non all'osservanza degli obblighi di vigilanza, bensì al momento genetico della programmazione della sicurezza, e, in particolare, della valutazione del rischio specifico concernete l'accesso al lastrico solare e la caduta dal lucernaio''. Né ``la condotta della collaboratrice scolastica che quel giorno era in servizio presso l'istituto scolastico ed era addetta alla vigilanza sul piano in cui si è verificato l'infortunio, consistita nel consentire che la porta-finestra di accesso al solaio fosse aperta, allo scopo di arieggiare l'ambiente circostante, può considerarsi idonea ad interrompere il nesso di causalità con la condotta omissiva ascritta agli imputati'', e ciò in quanto ``nessuna disposizione venne impartita dal dirigente scolastico, al fine di impedire l'accesso, laddove, per converso, è emerso che la preside omise di valutare il rischio, nonché di fornire al personale informazioni ed adottare misure dirette a prevenire conseguenze pericolose''.

    La dirigente scolastica di un istituto scolastico statale fu condannata per il reato di lesioni colpose in danno di uno studente di otto anni e del genitore di un altro studente della scuola, ``lesioni procurate in conseguenza della improvvisa caduta dell'anta sinistra di un cancello in evidente stato di degrado, per avere omesso di provvedere, in qualità di datore di lavoro, affinché i luoghi di lavoro fossero sicuri e venissero sottoposti a regolare manutenzione tecnica, in particolare omettendo di provvedere affinché il cancello potesse essere utilizzato in piena sicurezza''. In primo grado, fu, invece, assolto perché il fatto non sussiste l'ingegnere responsabile del servizio di prevenzione e protezione dell'istituto, per contro dichiarato in appello su ricorso della parte civile ``responsabile, ai soli effetti civili, del fatto illecito di lesioni colpose in danno dello studente''. A questo secondo riguardo, la Sez. IV osserva: `L'ingegnere ha avuto l'incarico consulenziale di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dell'istituto, e ha svolto dei sopralluoghi e degli accertamenti, compendiati nel documento di valutazione dei rischi, L'imputato, nel segnalare nel suo scritto vaghi problemi alla `recinzione esterna dell'edificio', evidentemente comprensiva di muri, cancelli, ringhiere e quant'altro, recinzione esterna descritta come connotata da diffuso ammaloramento', peraltro visibile ad occhio nudo, con particolare riferimento proprio al cardine inferiore sinistro (quello che aveva ceduto), non poteva certo specificamente riferirsi al cancello in questione, anche perché, volendo riferirsi ad un altro cancello dell'immobile, sito in un altro punto, lo aveva in altra parte del documento specificamente individuato; e, inoltre, la verifica sulla stabilità del cancello in questione era stata superficialmente svolta dall'ingegnere soltanto mediante l'impiego, in un'occasione, di un cacciavite, a mo' di `sonda', su di un ferro del cancello, con una tecnica, cioè, all'evidenza, troppo grossolanamente approssimativa per potere avere una qualche validità tecnica ed una qualche affidabilità dal punto di vista predittivo. Quanto all'argomento difensivo, secondo cui l'ingegnere, che intendeva riferirsi al cancello, si sarebbe dovuto necessariamente adattare agli spazi precostituiti della modulistica ministeriale adoperata come schema per la relazione, è agevole osservare che, data l'importanza del ruolo assegnato dalla dirigente scolastica all'ingegnere, appunto quale responsabile del servizio di prevenzione e protezione di una scuola elementare, l'incaricato non poteva certo, burocraticamente, assolvere all'incombenza limitandosi a spingere con un cacciavite su di un ferro di un vecchio cancello e a compilare un modellino ministeriale definendo, imprecisamente, uno dei due cancelli come recinzione esterna genericamente malmessa, senza preoccuparsi più seriamente della sicurezza dei bambini, oltre che dei numerosi genitori e lavoratori della scuola che ogni giorno varcavano quella soglia, il rispetto per l'incolumità dei quali avrebbe dovuto indurre l'imputato, quantomeno, ad adattare gli spazi di un formulario ministeriale per inserirvi parole di chiarezza a proposito del rischio che derivava da un cardine di un cancello in cattive condizioni. ``Il datore di lavoro, normalmente a digiuno (come peraltro nel caso di specie) di conoscenze tecniche, è proprio concretamente avvalendosi della consulenza del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che ottempera all'obbligo giuridico di analizzare e di individuare, secondo l'esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno del luogo di lavoro. Con la conseguenza che, in tema di infortuni sul lavoro, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur svolgendo all'interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza, ha l'obbligo giuridico di adempiere diligentemente l'incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, all'occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri. Sull'ingegnere, proprio in quanto dotato di specifiche competenza tecniche che non rientravano nel profilo professionale della preside, l'istituzione scolastica aveva il diritto di fare pieno affidamento (nel caso di specie risultato malriposto) nella individuazione di possibili fonti di pericolo per la popolazione scolastica''.

    In un'aula del liceo ``Darwin'' di Rivoli, durante l'intervallo delle lezioni in concomitanza con lo sbattimento della porta di ingresso dell'aula dovuto ad una forte corrente d'aria, si verificava il cedimento pressoché totale della controsoffittatura in laterizio appesa al sovrastante solaio mediante elementi di sospensione (pendini). A seguito del crollo uno studente decedeva ed altri studenti riportavano lesioni. La Cassazione conferma la condanna per omicidio, lesione personale e disastro colposi sia di tre dirigenti della provincia, ente proprietario della scuola, sia di tre responsabili del SPPR della scuola succedutisi nel tempo. Anzitutto, trova conferma che il sistema di sicurezza delle scuole s'impernia sull'art. 18, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008. Duplice è la posizione di garanzia contemplata nel settore delle scuole: la posizione di garanzia facente capo alla scuola in quanto datrice di lavoro; e la posizione di garanzia facente capo all'ente proprietario, all'amministrazione tenuta. In questo quadro, la Sez. IV ritiene indubbia ``la posizione di garanzia dei funzionari della provincia cui gravava l'obbligo degli interventi di manutenzione straordinaria dell'edificio'', ma nel contempo rileva che ``ciò non comporta che la scuola resti esente da responsabilità anche nel caso in cui abbia richiesto all'ente locale idonei interventi strutturali e di manutenzione poi non attuati, incombendo comunque al datore di lavoro l'adozione di tutte le misure rientranti nelle proprie possibilità, quali in primis la previa individuazione dei rischi esistenti e ove non sia possibile garantire un adeguato livello di sicurezza, con l'interruzione dell'attività''. Ne rinviene conferma ``nel decreto ministeriale n. 382/1998 e nella circolare ministeriale n. 119/1999 che prevede l'obbligo per l'istituzione scolastica di adottare ogni misura idonea in caso di pregiudizio per l'incolumità dell'utenza''. E prende atto che ``tale obbligo è stato palesemente violato a causa della mancata valutazione della inadeguatezza dell'edificio sotto il profilo della sicurezza a causa della presenza del vano tecnico sovrastante il controsoffitto''.

    A seguito di una violenta scossa sismica l'edificio che ospitava un convitto nazionale a L'Aquila subì rilevanti crolli di porzioni di muratura e dei solai. Tre morti e due feriti. La Cassazione conferma la condanna per omicidio e per lesione personale colposa sia del dirigente scolastico del convitto, sia del dirigente del settore edilizia e pubblica istruzione della provincia, ente tenuto alla manutenzione ordinaria e straordinaria dell'immobile. E insegna:

    A) Anzitutto, trova conferma che il sistema di sicurezza delle scuole s'impernia sull'art. 18, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008.

    B) Duplice è la posizione di garanzia contemplata nel settore delle scuole: la posizione di garanzia facente capo alla scuola in quanto datrice di lavoro; e la posizione di garanzia facente capo all'ente proprietario, all'amministrazione tenuta.

    C) Alla luce della ``sostanziale parificazione tra datore di lavoro e dirigente scolastico'', ``vi è, in primo luogo, un obbligo di valutazione dei rischi da esprimere in apposito documento''.

    D) Il Responsabile del servizio di prevenzione e protezione è una ``figura dotata di una delicata funzione di supporto informativo, valutativo e programmatico ma priva di autonomia decisionale. Essa tuttavia coopera in un contesto che vede coinvolti diversi soggetti con distinti ruoli e competenze. Non vi è dubbio che tale figura sia destinataria di obbligo giuridico afferente al diligente svolgimento delle indicate funzioni. D'altra parte, tale ruolo è parte inscindibile di una procedura complessa, che sfocia nelle scelte operative sulla sicurezza compiute dal datore di lavoro. Tale cooperazione può dunque ben rilevare ai fini della spiegazione causale dell'evento illecito, come accade ad esempio nel caso in cui si manchi di informare il datore di lavoro di un rischio la cui conoscenza derivi da competenze specialistiche. In tale situazione si è ritenuto razionale attribuire, in presenza di tutti i presupposti di legge ed in particolare di condotta colposa, la responsabilità dell'evento al soggetto di cui si parla''. Peraltro nel caso di specie, il S.P.R.R. si salva. E ciò perché ``l'ingegnere responsabile della sicurezza aveva ampiamente relazionato per iscritto circa le gravi carenze riscontrate nelle strutture a seguito di periodici sopralluoghi in tutti i locali'': ``la professionista ha direttamente rappresentato al dirigente scolastico le criticità strutturali e personalmente assistito ai colloqui telefonici con i tecnici della provincia con riferimento alle problematiche dell'immobile''. E ancora: ``La responsabile del Servizio prevenzione e protezione, tra il 2000 ed il 2009, aveva più volte segnalato al dirigente scolastico ed ai competenti uffici della provincia le gravi carenze in tema di sicurezza. La donna redasse nel 2004 una relazione tecnica circa la inadeguatezza statico-strutturale di parti dell'edificio. Appena un mese prima della scossa fatale l'ingegnere aveva intrattenuto corrispondenze con ambedue gli imputati definendo la struttura fatiscente''.

    E) ``L'impegno della provincia si mostra in due guise: garantire la manutenzione e l'adeguamento dell'edificio e fornire supporto tecnico-scientifico per tutto ciò che attiene alla gestione del manufatto nella prospettiva di garantirne la sicurezza''. E quanto alle ``deduzioni difensive afferenti all'assenza di competenze in ingegneria civile ed alla presenza di funzionari cui era affidata la gestione dei singoli immobili'', ``l'assenza di conoscenze edilizie rappresenterebbe semmai un ulteriore profilo di colpa''.

    F) ``Gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione si intendono assolti ai sensi dell'articolo 18, comma 3, del D.Lgs. n. 81/2008 con la richiesta di opportuni interventi nei confronti delle amministrazioni competenti; fermo restando l'obbligo di garantire nelle more dell'intervento richiesto un equivalente livello di sicurezza e, nel caso in cui ciò non sia possibile, di interrompere l'attività''. ``L'obbligo della provincia non esclude quello del dirigente scolastico di interessarsi della solidità della struttura e di assumere iniziative di controllo autonome da segnalare anche all'ente deputato alla manutenzione e di assumere comunque le decisioni conseguenti per la tutela degli ospiti''.

    G) ``La responsabilità quale garante del dirigente scolastico derivava, oltre che dalla legge, anche dal contratto attraverso il quale egli aveva assunto il ruolo di dirigente dell'istituzione con ruolo che, quanto ai minori, sostituiva quello genitoriale''. ``Il convitto, pur con le sue peculiarità, è una scuola media di secondo grado e tale qualificazione rende evidente l'obbligo di garantire la sicurezza dei ragazzi ospiti. Tale obbligo si aggiunge e sovrappone a quello che deriva dal rapporto contrattuale. Il contratto di ospitalità obbligava il vertice dell'istituto a garantire che essa fosse prestata in una condizione di sicurezza. La qualificazione poi come istituto scolastico con presenza anche di minorenni comporta un ulteriore obbligo di protezione che deriva proprio dalla funzione educativa che pone il dirigente scolastico in posizione di vertice; come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità. In caso di danno la responsabilità è di natura contrattuale atteso che l'accoglimento della domanda di iscrizione determina la instaurazione di un vincolo negoziale''.

    H) ``L'onerosissimo impegno afferente alla ristrutturazione dell'ampio ed antico edificio al fine di adeguarlo dal punto di vista della sicurezza anche dal punto di vista sismico costituiva responsabilità dell'organo politico e non di quello tecnico. Del resto, la struttura tecnica aveva abbozzato una proposta concretizzatasi in un progetto di massima, che tuttavia non era mai stato attuato da nessun punto di vista, verosimilmente per l'indisponibilità degli ingenti fondi occorrenti. L'opera di ristrutturazione dell'edificio trascendeva radicalmente il ruolo tecnico del dirigente della provincia e coinvolgeva, anche sul piano della garanzia, il vertice politico della provincia. Senza dubbio l'imputato non aveva in tale ambito alcun potere di spesa; ed il compito di collaborazione tecnica era stato svolto anche con la elaborazione dell'indicato progetto di massima. (L'imputato aveva, peraltro) l'alternativo obbligo di intervenire per garantire la sicurezza delle persone sia regolando diversamente l'utilizzazione del bene, sia eventualmente favorendo l'evacuazione, l'inibizione all'uso dell'edificio''. ``L'inesistenza di fondi sufficienti ed i vincoli di carattere culturale ed artistico non potevano limitare l'obbligo di sicurezza per il quale il dirigente della provincia avrebbe dovuto attivarsi coinvolgendo le varie amministrazioni competenti ed eventualmente attivando conferenza di servizi per affrontare in modo complessivo il problema. E comunque, se a causa di qualche ostacolo non fosse stato possibile alcun intervento significativo ed efficace, ne doveva conseguire la segnalazione all'ente di appartenenza, al vertice del convitto ed agli organi amministrativi competenti per l'adozione dei conseguenti provvedimenti di inibizione all'uso della struttura e dichiarazione di inagibilità. Ai problemi finanziari si sarebbe inoltre potuto ovviare con la procedura di somma urgenza che consente di far fronte a spese eccezionali e non previste nel bilancio''. ``Il dirigente della provincia neppure ha segnalato la necessità di inibire l'uso dell'immobile per ragioni di sicurezza; soluzione estrema da praticare qualora l'insufficienza delle risorse avesse reso impossibile interventi di messa in sicurezza dello stabile''. ``Vero è che il dirigente della provincia non aveva il potere di disporre lo sgombero ma egli aveva possibilità di attivarsi per la dichiarazione di inagibilità. Egli rivestiva il ruolo di vertice tecnico-amministrativo del settore edilizia e pubblica istruzione con autonomi poteri decisionali, sicché la provincia attraverso il suo agire tecnico doveva adempiere agli obblighi derivanti dalla legge''.

    I) Nessun dubbio, d'altra parte, che ``l'istituzione scolastica non disponeva né di risorse né di competenze professionali per assicurare la sicurezza dell'edificio''. Ma ``fermo resta l'obbligo di garantire nelle more dell'intervento richiesto un equivalente livello di sicurezza e, nel caso in cui ciò non sia possibile, di interrompere l'attività''.

    Nel cortile di una scuola materna, durante il periodo di ricreazione, una minore di anni quattro, mentre giocava con altri bambini sotto la vigilanza della maestra, a seguito della caduta di un'anta del cancello, riportava un trauma cranico con esito mortale. Per colpa consistita nella violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro furono dichiarati colpevoli del delitto di omicidio il responsabile dei lavori pubblici presso l'ufficio tecnico del comune, il dirigente scolastico del circolo didattico datore di lavoro, l'addetta al SPPR della scuola, e l'incaricato dalla ditta appaltatrice di lavori di sistemazione del piazzale della scuola. La Sez. IV assolve l'addetta al SPPR, e conferma la condanna degli altri imputati.

    A) Quanto al dirigente comunale, la Sez. IV osserva che ``la dedotta mancanza di prova circa la conoscenza da parte sua della fatiscenza del cancello non rileva, poiché, in considerazione della qualità da lui ricoperta di responsabile dei lavori pubblici presso l'ufficio tecnico del comune, di rappresentante dell'ente territoriale proprietario dell'edificio scolastico, di responsabile della sicurezza dei luoghi di lavoro, ed, ancor prima, nel periodo di esecuzione delle opere di sistemazione del piazzale della scuola, riguardanti anche il cancello, del ruolo di direttore dei lavori, era suo dovere verificare (innanzitutto) la bontà dell'esecuzione delle saldature delle cerniere del cancello, e curarne, poi, la manutenzione, e, quindi, indipendentemente dalla circostanza che le condizioni del cancello gli venissero portate a conoscenza da altri''. Considera rilevante, ``non tanto che il cancello era fatiscente, quanto che, ad ogni apertura di anno scolastico, egli effettuava dei sopralluoghi presso il plesso scolastico, per conto del comune, al fine di verificare che tutto fosse a posto, e costituiva, per la scuola, il referente in ordine alla soluzione di ogni questione attinente a lavori, anche minimi, da eseguire nell'edificio scolastico, tanto che aveva provveduto, su segnalazione della scuola, a munire il cancello di catena e lucchetto per evitare l'uso improprio che estranei alla scuola ne facevano quale scorciatoia per raggiungere un insediamento abitativo''. Precisa che, ``per un tecnico (geometra), quale è l'imputato, non ci voleva molto per verificare lo stato del cancello e rendersi conto della sua fatiscenza e, quindi, della sua pericolosità''. Nel riferirsi alla norma attualmente dettata dall'art. 18, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008 (``Gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare ai sensi del presente decreto la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a uffici pubblici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione. In tal caso gli obblighi previsti dal presente decreto, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico''), chiarisce efficacemente che ``trattasi di un rafforzamento della prevenzione, attribuita dalla legge, su un piano paritario, a due soggetti: il datore di lavoro ed il proprietario dell'immobile, secondo il principio di `effettività della prevenzione''', e che ``sull'imputato incombeva l'obbligo di verificare l'efficienza della struttura scolastica e delle sue pertinenze'', e ciò a prescindere dal fatto che fosse stata, o no, ``effettuata da parte del datore di lavoro effettivo -il dirigente scolastico- richiesta di intervento per l'esecuzione di opere di manutenzione sul cancello''. Ritiene l'ipotesi di omicidio colposo aggravata a norma dell'art. 589, comma 2, c.p., sul presupposto che ``il richiamo della norma attualmente dettata dall'art. 18, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008, che prevede l'obbligo degli enti territoriali di provvedere alla manutenzione degli edifici di cui sono proprietari ed adibiti ad uso pubblico, tra i quali gli edifici scolastici, individua in capo ai rappresentanti di detti enti una posizione di garanzia nell'ambito della sicurezza e prevenzione sul lavoro'', e sull'ulteriore presupposto che, ``in tema di lesioni e di omicidio colposi, perché possa ravvisarsi l'ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è sufficiente che sussista legame causale tra siffatta violazione e l'evento dannoso, legame che non può ritenersi escluso sol perché il soggetto colpito da tale evento non sia un dipendente (o equiparato) dell'impresa obbligata al rispetto di dette norme, ma ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse''.

    B) Con riguardo al dirigente scolastico, la Sez. IV sostiene che, ``acclarata la sua qualifica formale di dirigente scolastico dell'Istituto, prima del verificarsi dell'evento, è indubitabile la titolarità della posizione di garanzia alla stregua delle disposizioni normative già indicate, essendo pacifico che al preside è attribuita la qualità di datore di lavoro nei confronti del personale della scuola, non essendo contestabile la qualificazione di quest'ultima come `luogo di lavoro', il comportamento dovuto per legge era pertanto rappresentato dal dovere di richiedere all'ente territoriale, proprietario del plesso scolastico, un intervento risolutivo per la eliminazione del pericolo derivante dalla fatiscenza del cancello, e, nelle more dell'intervento del comune, dell'adozione di misure di propria pertinenza e disponibilità per eliminare il pericolo mediante un ordine di interdizione, con l'apposizione di ostacoli fisici, di accedere a chicchessia all'area ove insisteva il cancello''. E ribadisce che ``gli obblighi di vigilanza e controllo del datore di lavoro, di per sé delegabili ad altro, non vengono meno con la nomina del responsabile del servizio prevenzione e protezione al quale sono demandati compiti diversi intesi ad individuare i fattori a rischio, ad elaborare le misure preventive e protettive, le procedure di sicurezza per le varie attività aziendali''. (Quanto all'assoluzione dell'addetta al SPPR v. questa stessa sentenza sub art. 33, al par. 2; circa il ruolo dell'insegnante di scuola v. Cass. 23 maggio 2014, n. 21056).

    Una fattispecie d'interesse è quella esaminata da:

    Il responsabile del settore istruzione di un comune, la direttrice didattica e il rappresentante legale di una s.r.l. appaltatrice dei servizi trasporti scolastici del comune furono imputati per le lesioni subite da una minore caduta mentre attendeva lo scuolabus nel cortile scolastico. La Sez. IV ne conferma l'assoluzione, in quanto la situazione concreta non presentava pericoli, e insegna: ``In capo al dirigente scolastico è ravvisabile una responsabilità di natura contrattuale nei confronti degli allievi che si caratterizza per l'esistenza di un obbligo di vigilanza e protezione connesso alla funzione educativa e all'affidamento dei minori all'istituto, al fine di evitare che gli stessi possano recare danno a terzi o a sé medesimi, o che possano essere esposti a prevedibili fonti di rischio o a situazioni di pericolo. Tale posizione di garanzia si configura diversamente a seconda, da un lato, dell'età e del grado di maturazione raggiunto dagli allievi oltre che delle circostanze del caso concreto, e, dall'altro, degli specifici compiti di ciascun addetto''.

    Non convincente a proposito dell'art. 18, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008 è:

    Il dirigente del settore manutenzione di un comune è condannato per la violazione degli artt. 46, comma 2, 64, comma 1, lettera a), 64, comma 1, lettera c), D.Lgs. n. 81/2008, per aver omesso ``di accertarsi che gli estintori portatili di primo intervento, presenti nel locale cucina e nel corridoio della scuola elementare e materna fossero facilmente accessibili in caso di necessità'', ``di accertarsi che la porta presente nel locale cucina della scuola fosse dotata del maniglione antipanico'', ``di verificare che l'impianto elettrico fosse sottoposto a prescritta manutenzione al fine di evitare i difetti riscontrati''. A sua discolpa, nota che, ``a mente dell'art. 18, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008, gli obblighi relativi agli interventi strutturale e di manutenzione, necessari per garantire la sicurezza nei locali ed edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni - `ivi comprese le istituzioni scolastiche' - `restano a carico dell'amministrazione... tenuta alla loro fornitura e manutenzione'', e `in tal caso, gli obblighi previsti dal presente decreto legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti e funzionari preposti agli uffici interessati con la richiesta del loro adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico''', e che, pertanto, ``responsabile della verifica, in loco, era il dirigente scolastico, che avrebbe dovuto segnalare eventuali irregolarità al dirigente dell'ente proprietario della scuola, e solo in tal caso, l'inadempienza avrebbe potuto essere ascritta all'imputato''. Rileva che ``nella specie, però, la dirigenza scolastica non aveva mai fatto alcuna segnalazione''. La Sez. III sostiene che, ``a mente dell'art. 18, comma 3, D.Lgs. n. 81/2008, l'imputati potrebbe essere ritenuto responsabile qualora il dirigente in loco dell'istituto scolastico avesse segnalato irregolarità o anomalie tali da richiedere l'intervento del Comune e, per esso, del responsabile della manutenzione degli istituti scolastici''.

    (V. anche, sub art. 2, paragrafo 7, lettera d, Cass. 5 luglio 2017, n. 32358. Non è la prima volta che un sindaco viene chiamato in causa per la violazione di norme antinfortunistiche rilevate nell'ambito di una scuola. Semmai può sorprendere che questa responsabilità gli venga attribuita nella veste di datore di lavoro. Per la giurisprudenza risalente all'epoca dei D.P.R. degli anni cinquanta, e segnatamente del D.P.R. n. 547/1955, Guariniello, Sicurezza del lavoro e Corte di Cassazione, Il Repertorio 1988-1994, Milano, 1994, 182 s.).

    Il titolare di un'impresa individuale specializzata nello svolgimento di opere edili fu condannato dal tribunale per il reato di cui all'art. 18, comma 1, lettera g), D.Lgs. n. 81/2008, ``in quanto aveva omesso di inviare un dipendente, il quale svolgeva un'attività comportante l'assunzione di rischi per la salute e la sicurezza, a visita medica secondo le scadenze programmate''. A sua discolpa, l'imputato deduce che il ``soggetto non avviato alle visite mediche non era assolutamente alle sue dipendenze, ma era persona cui aveva semplicemente chiesto un consiglio tecnico'', e che, dunque, ``non doveva essere sottoposto ad alcuna visita medica''. La Sez. III accoglie l'argomentazione difensiva. Si domanda ``chi siano i soggetti che, sulla base della qualifica loro attribuita di `lavoratori', debbano essere avviati dal `datore di lavoro' alla visita medica entro le predette scadenze''. Rileva come ``la giurisprudenza di legittimità abbia inteso attribuire alla qualifica in questione un'accezione piuttosto ampia''. Osserva, infatti, che, alla stregua della giurisprudenza, ``la definizione di `lavoratore', di cui all'art. 2, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008, fa leva sullo svolgimento dell'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione del datore di lavoro indipendentemente dalla tipologia contrattuale in forza della quale essa è prestata'', che ``essa è definizione più ampia di quelle previste dalla normativa pregressa, le quali si riferivano invece al `lavoratore subordinato' (art. 3 del D.P.R. n. 547/1955) e alla `persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro' (art. 2, comma 1, lett. a, D.Lgs. n. 626/1994)'', e che, pertanto, ``ai fini dell'applicazione delle norme incriminatrici previste nel D.Lgs. n. 81/2008, rileva l'oggettivo espletamento di mansioni tipiche dell'impresa (anche eventualmente a titolo di favore) nel luogo deputato e su richiesta dell'imprenditore, a prescindere dal fatto che il `lavoratore' possa o meno essere titolare di impresa artigiana ovvero lavoratore autonomo (Sez. III, 11 aprile 2017 n. 18396)''. A questo punto, però, la Sez. III afferma che l'accezione di lavoratore ``deve essere modulata in funzione della ratio che sottende alla singola norma''. Spiega che, ``laddove una tale ampia accezione del concetto fosse indiscriminatamente ritenuta applicabile ad ogni tipo di relazione comportante lo svolgimento di un'attività astrattamente qualificabile come lavorativa in favore di un soggetto che, contestualmente, avrebbe acquisito la qualifica di `datore di lavoro', con la conseguente assunzione da parte di questo dei doveri (anche presidiati dalla sanzione penale laddove non ottemperati) dettati, per quanto ora interessa, dall'art. 18, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, il sistema delta normativa testé citata presenterebbe delle evidenti incongruenze applicative''. Nota che, ``fra i doveri imposti dalla norma da ultima citata, vi è, a titolo esemplificativo, quello di comunicare in via telematica all'INAIL e all'IPSEMA, nonché, per loro tramite, al sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro di cui all'articolo 8 del D.Lgs. n. 81/2008, entro 48 ore dalla ricezione del certificato medico, a fini statistici e informativi, i dati e le informazioni relativi agli infortuni sul lavoro che comportino l'assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell'evento e, a fini assicurativi, quelli relativi agli infortuni sul lavoro che comportino un'assenza dal lavoro superiore a tre giorni (art. 18, comma 1, lettera r, D.Lgs. n. 81/2008)'', e che, pertanto, ``ove il rapporto di lavoro - perché ad esempio riguardante una prestazione occasionale eventualmente anche erogata a titolo di cortesia - abbia una durata inferiore a quella sopra indicata'', ``l'obbligo in questione non debba essere ottemperato''. Là dove, ``considerato che un ulteriore obbligo del datore di lavoro attiene all'adempimento di una serie di doveri di informazione, formazione ed addestramento del lavoratore, appare evidente che gli stessi non siano compatibili con una tipologia di rapporto di lavoro - pur rientrante fra quelli implicati dalla normativa in questione ove si facesse indiscriminata applicazione dei principi sanciti da questa Corte con la sentenza n. 18396/2017 che, data la brevità della sua durata e la qualificazione professionale richiesta nell'occasione al prestatore d'opera, presuppone che questi sia professionalmente già pienamente formato non essendo così giustificato un periodo di addestramento ulteriore rispetto al periodo in cui la prestazione lavorativa viene erogata''. Ricorda, inoltre, il principio per cui ``in tema di infortuni sul lavoro, al fine di accertare gli obblighi gravanti sul soggetto garante e l'estensione del rischio che il medesimo è tenuto a gestire, anche sotto il profilo della causazione dell'evento, è necessario che il giudice proceda alla valutazione della natura del rapporto di lavoro e della situazione fattuale sottostante (Sez. IV, 31 maggio 2017 n. 27035)''. In questo quadro, la Sez. III rimprovera al tribunale di aver omesso ``la valutazione concreta del tipo di relazione che era intervenuta fra l'imputato e il soggetto non avviato a visita'', o, quanto meno, di non averne tratto le opportune conseguenze. Rileva in proposito che, a dire del tribunale, ``la presenza di quel soggetto presso il cantiere gestito dal titolare è circostanza che, `quale che fosse l'attività da costui in tal momento prestata, anche di mera consulenza occasionale', sarebbe tale da far ritenere riferibile ad essa la definizione di `lavoratore' stabilita all'art. 2 D.Lgs. n. 81/2008, e a rendere, pertanto, cogenti nei confronti del datore di lavoro gli obblighi connessi alla citata qualifica sancitI dall'art. 18 D.Lgs. n. 81/2008''. Afferma che ``il principio in tal modo espresso dal tribunale è, nel suo rigido schematismo, evidentemente inaccettabile''. Spiega che, ``ove si aderisca, come il tribunale ha fatto mostra di aderire, alla prospettazione secondo la quale il soggetto era presente sul cantiere ove sono intervenuti gli ispettori del lavoro (verificando in tale occasione che lo stesso non era stato avviato dall'imputato alla periodica visita medica prevista dal programma relativo alla sicurezza dei lavoratori sul posto di lavoro) in quanto richiesto dall'imputato di una occasionale consulenza, non vi è chi non veda la ultroneità, rispetto alla presente fattispecie, dell'adempimento da parte dell'imputato dell'obbligo da lui non adempiuto''. Insegna che l'art. 18, comma 1, lettera g), D.Lgs. n. 81/2008 deve essere inteso nel senso che l'obbligo ivi previsto ``sia riferito solo all'ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia caratterizzato da una certa durata nel tempo, posto che diversamente, ove la stessa si riferisse anche a prestazioni occasionali destinate ad esaurirsi uno actu, non avrebbe alcun senso il richiamo alle `scadenze previste dal programma di sorveglianza sanitaria', le quali logicamente implicano una certa ampiezza del tempo in cui la prestazione lavorativa è svolta''. Di qui l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, affinché si valuti, ``in conformità ai principi esposti, se la valutazione della natura del rapporto intercorso fra l'imputato e il soggetto non avviato a visita e quella della situazione fattuale ad esso sottostante giustifichino o meno l'attributo della doverosità in capo all'imputato dell'adempimento di quanto stabilito dalla disposizione che egli avrebbe violato''. (Per una analisi critica di questa sentenza v. Guariniello, Sorveglianza sanitaria: disorientamenti giurisprudenziali, in Dir.prat.lav., 2020, 46, 2788 s.).

    In un caso d'infortunio per caduta dall'alto, la Sez. IV esclude la sussistenza di cause sopravvenute idonee ad escludere il nesso causale tra la condotta tenuta dal datore di lavoro e l'evento lesivo, risultando indimostrato l'asserito malessere dell'infortunato, avviato al lavoro senza il giudizio di idoneità sanitaria. (Per un caso di violazione dell'art. 18, comma 1, lettera g), D.Lgs. n. 81/2008 per mancato invio a visita medica per la sorveglianza sanitaria Cass. 12 febbraio 2018 n. 6715).

    Dichiarata colpevole per aver omesso di far effettuare la visita medica preventiva su tutti i lavoratori addetti ad un campeggio, ivi compresi gli impiegati di segreteria, la titolare di tale campeggio lamenta che ``l'art. 41, D.Lgs. n. 81/2008 prevede la sorveglianza sanitaria (che comprende la visita preventiva) nei casi previsti dalla normativa vigente, vale a dire nei confronti di lavoratori esposti a singoli rischi esplicitamente previsti'', e che ``per i lavoratori non sottoposti a rischio (come i dipendenti amministrativi e di segreteria) non vi è, invece, alcun obbligo di visita preventiva'', e sottolinea che, stando ai Carabinieri denuncianti, ``l'omessa sottoposizione a visita medica dei tre dipendenti di segreteria poteva essere sanzionata soltanto in relazione alla mansione specifica di cui all'art. 176, D.Lgs. n. 81/2008 in relazione all'uso dei videoterminali'', e che ``l'uso era stato escluso''. La Sez. III prende atto che ``l'imputata è stata ritenuta responsabile del reato ascritto, limitatamente alla omessa sottoposizione dei dipendenti alla visita medica preventiva''. Sottolinea che ``l'art. 41, D.Lgs. n. 81/2008 prevede che la sorveglianza sanitaria, effettuata dal medico competente (comma 1), comprende a) visita medica preventiva intesa a constatare l'assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica; b) visita medica periodica per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica (comma 2)''. Nota, altresì, che, ``in relazione all'art. 176, D.Lgs. n. 81/2008 (`i lavoratori sono sottoposti alla sorveglianza sanitaria di cui all'art. 41 con particolare riferimento a) ai rischi per la vista e per gli occhi, b) ai rischi per l'apparato scheletrico...')'', e che ``la condotta imposta dall'art. 41 cit. è sanzionata dall'art. 178, solo per i lavoratori dotati di attrezzature munite di videoterminali''. E rimprovera al tribunale di non aver accertato ``se per i lavoratori indicati era prevista la sottoposizione a visita medica preventiva''. Né - aggiunge la Sez. III - è possibile ``superare tale omesso accertamento, assumendo che, comunque, trovava applicazione il disposto dell'art. 18, comma 1, lettera g), D.Lgs. n. 81/2008''. E qui si segnala una analisi del tutto inedita: ``l'art. 18, comma 1, lettera g), D.Lgs. n. 81/2008 fa obbligo al datore di lavoro di `inviare i lavoratori alla visita medica entro le scadenze previste dal programma di sorveglianza sanitaria e richiedere al medico competente l'osservanza degli obblighi previsti a suo carico nel presente decreto''', e ``la sorveglianza sanitaria, cui fa riferimento la predetta norma, è quella di cui all'art. 41, comma 2, lettera b), che prevede la visita medica periodica''.

    ``Risulta del tutto privo di rilievo che il dirigente non fosse presente sul cantiere perché la sua attività lo portava a muoversi su un ampio scacchiere territoriale. La circostanza poteva influenzare le modalità di adempimento degli obblighi ma non sottrarre l'obbligato ai propri doveri''.

    Nessun dubbio che gli obblighi di informazione, formazione, addestramento facciano capo vuoi al datore di lavoro, vuoi ai dirigenti, e che peraltro siano delegabili da parte del datore di lavoro. Significativo è comunque questo caso:

    Infortunio mortale subito da un ``dipendente di una delle società facenti parte di un raggruppamento d'imprese al cui vertice vi era una società consortile s.c.a.r.l., della quale l'imputato era delegato con procura speciale e con funzioni di datore di lavoro''. Colpa addebitata: ``non avere ottemperato, nei riguardi dell'infortunato, ai doveri di formazione ed informazione relativamente alle attrezzature presenti sul luogo di lavoro''. La Sez. IV annulla con rinvio la condanna dell'imputato: ``L'imputato conferì all'assistente di cantiere una serie di poteri in materia prevenzionistica, tra cui, espressamente, quello di curare la gestione del personale anche per quanto riguarda la formazione e la eventuale valorizzazione di elementi meritevoli, e, tra i compiti di cui alla normativa di riferimento (ivi compreso il D.Lgs. n. 626/1994), quello di `opportunamente istruire il personale preposto e gli addetti ai lavori, svolgendo ogni azione al fine prevista e opportuna anche di controllo, allo scopo di ottenere la scrupolosa osservanza da parte di tutti delle norme antinfortunistiche'. La nota si conclude con l'invito a segnalare con tempestività ogni comportamento o circostanza ritenuti non conformi alla normativa antinfortunistica. Anche in caso di delega, il datore di lavoro delegante non è del tutto sollevato dagli obblighi connessi alla sua posizione di garanzia, fra cui quello della formazione e dell'informazione dei lavoratori; ma il datore di lavoro, quale garante della sicurezza dei lavoratori, è tenuto a renderli edotti in ordine ai rischi specifici cui sono esposti e a fornir loro adeguata formazione in relazione alle mansioni cui sono assegnati. Si tratta di comprendere, alla luce di siffatti principi, se, nel caso di cui trattasi, permanesse in capo all'imputato quale soggetto apicale di una società capogruppo rispetto a quella da cui dipendeva l'infortunato la posizione di garanzia in relazione agli obblighi di formazione e di informazione che si assumono disattesi, e con riferimento a rischi non già `specifici' rispetto alle loro mansioni, ma connessi alla cooperazione dei lavoratori (dipendenti da altra società del consorzio) con soggetti terzi, nell'impiego di un mezzo (ed in specie di un pianale) dotato di rampe il cui funzionamento si dimostrava precario, ed appartenente ad altra ditta estranea al consorzio di cui la società era capogruppo''.

    Non manca, peraltro, qualche accenno giurisprudenziale sulla formazione dei lavoratori come obbligo facente capo al datore di lavoro:

    ``L'obbligo di fornire adeguata formazione ai lavoratori, è uno dei principali gravanti sul datore di lavoro, ed in generale sui soggetti preposti alla sicurezza del lavoro. Il datore di lavoro risponde dell'infortunio occorso al lavoratore, in caso di violazione degli obblighi, di portata generale, relativi alla valutazione dei rischi presenti nei luoghi di lavoro nei quali siano chiamati ad operare i dipendenti, e della formazione dei lavoratori in ordine ai rischi connessi alle mansioni, anche in correlazione al luogo in cui devono essere svolte. Ove egli non adempia a tale fondamentale obbligo, sarà chiamato a rispondere dell'infortunio occorso al lavoratore, laddove l'omessa formazione possa dirsi causalmente legata alla verificazione dell'evento. Non può infatti venire in soccorso del datore di lavoro il comportamento imprudente posto in essere dai lavoratori non adeguatamente formati. Il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, infatti, a titolo di colpa specifica, dell'infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore il quale, nell'espletamento delle proprie mansioni, pone in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi''.

    ``Il conferimento a terzi della delega relativa alla redazione del DVR non esonera il datore di lavoro dall'obbligo di verificarne l'adeguatezza e l'efficacia, di informare i lavoratori dei rischi connessi alle lavorazioni in esecuzione e di fornire loro una formazione sufficiente ed adeguata''.

    D'altra parte, l'area dei soggetti tutelati non è circoscritta ai lavoratori:

    La titolare di un centro estetico fu imputata del reato di cui agli art. 18, comma 1, lett. I), 37 e 73, D.Lgs. n. 81/2008, perché ometteva di assicurare che un'operatrice in tirocinio presso il suddetto centro ``ricevesse una formazione sufficiente e adeguata in materia di sicurezza e salute, con riferimento all'uso dell'apparecchio a luce pulsata che veniva impiegato per la depilazione di una cliente''. E la Sez. III, nell'escludere l'applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p., rileva che ``la condotta colposa ascrivibile all'imputata è stata tra le cause che ha determinato il verificarsi di lesioni personali di non trascurabile entità (ustioni evolute in cicatrici superficiali) in danno di una cliente del centro estetico, tanto è vero che è stata elevata l'ulteriore imputazione avente ad oggetto il reato ex art. 590 c.p., poi dichiarato estinto per intervenuta remissione di querela''. (Per un'altra vicenda attinente all'impiego di un apparecchio a luce pulsata Cass. 24 ottobre 2018 n. 48545).

    Va da sé che, in tanto un infortunio o una malattia professionale è correlabile a una carenza nell'informazione-formazione del lavoratore, in quanto siano individuati i contenuti specifici dell'informazione-formazione omessi o insufficienti:

    ``Al datore di lavoro si è attribuito di non aver formato il lavoratore circa procedure più consone e sicure da seguire; di non esser stato reso consapevole che avrebbe potuto incorrere in una situazione quale quella che gli è capitata; di non aver informato il lavoratore sul modo corretto di procedere in situazioni come quella. In nessuna di tali affermazioni vi è la puntuale descrizione dei contenuti della formazione e dell'informazione che avrebbero dovute essere somministrate al lavoratore. Non è dato comprendere se questi avrebbe dovuto essere informato dei rischi connessi all'uso delle scarpe antinfortunistiche ove chiamato a muoversi in spazi angusti e quindi formato sull'uso delle cautele da adottare nel caso (cautele che neppure vengono descritte); o se la formazione e l'informazione avrebbe dovuto avere ad oggetto l'operazione di assicurazione del carico sul pianale del camion; quali comportamenti concreti tale addestramento avrebbe indotto (operazione essenziale per accertare la cd. causalità della colpa). Di conseguenza l'accertamento della causalità e della colpa risulta gravemente carente, non essendo puntualmente identificati i termini delle relazioni eziologiche (materiale e colposa). In definitiva, la corte d'appello è incorsa nell'errore di ritenere che un difetto di formazione e di informazione vi era stato perché il lavoratore si era infortunato, secondo un indebito uso del principio post hoc ergo propter hoc (errore cognitivo oggi noto come hindsight bias)''. (In proposito, v. anche sub art. 28, paragrafo 8).

    Nell'ambito di procedimento a carico di una s.r.l. per illecito amministrativo connesso al delitto di omicidio colposo (v., infatti, la stessa sentenza sub art. 300, al paragrafo 5), la Sez. IV si sofferma sull'infortunio mortale addebitato a datore di lavoro, delegato e medico competente, e occorso a un assistente che si era recato ``da solo di notte nel locale pompe del decantatore (macchinario che serviva a decantare le acque reflue utilizzate nel lavaggio del vetro), al fine di sbloccare il meccanismo di pompaggio dei fanghi'', e che ``aveva aperto la valvola di tenuta del fango e, durante le operazioni, era stato investito da una sostanza venefica (con molta probabilità acido solfidrico) che ne aveva causato la rapida perdita di coscienza e caduta a terra, ove veniva raggiunto dal fango che ne intercettava le vie respiratorie soffocandolo''. Colpa addebitata agli imputati: ``omessa adozione di misure atte a controllare il rischio in caso di emergenza; mancata informazione delle procedure da attivare in caso di pericolo grave, immediato e inevitabile; omesso allestimento di un impianto di decantazione conforme ai requisiti di sicurezza essenziali, in attuazione della `Direttiva macchine' del 2004; violazioni contestate anche al medico della società, con specifico riferimento al settore della depurazione dei reflui e dei rischi derivanti dalla presenza, nel ciclo di lavoro, di sostanze organiche, avendo parte datoriale consentito al lavoratore di accedere in un ambiente ove era possibile il rilascio di gas deleteri, senza previo accertamento dell'assenza di pericolo o risanamento dell'atmosfera mediante ventilazione o altri mezzi idonei''. La Sez. IV osserva: ``Punto cruciale dell'accertamento istruttorio è rappresentato dall'esistenza di una prassi, in difetto di una specifica procedura predisposta da parte datoriale, per la quale il turno di notte per la manutenzione del meccanismo di pompaggio per il deflusso del fango prodotto dalla lavorazione veniva affidato a un solo soggetto, nella piena consapevolezza della criticità del luogo di lavorazione, un ambiente confinato, cioè, al cui interno si sprigionava una sostanza venefica. Una delle violazioni contestate in imputazione riguarda proprio l'assolvimento dell'obbligo posto dall'art. 18, comma 1, lett. h), D.Lgs. n. 81/2008, a mente del quale il datore di lavoro deve `adottare le misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e dare istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato e inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa'''.

    Note a piè di pagina
    70
    Lettera così modificata dall’art. 14, comma 1, lett. a), D.L. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 luglio 2023, n. 85.
    Lettera così modificata dall’art. 14, comma 1, lett. a), D.L. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 luglio 2023, n. 85.
    71
    Lettera così sostituita dall'art. 13, comma 1, lett. a), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Lettera così sostituita dall'art. 13, comma 1, lett. a), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    72
    Lettera inserita dall'art. 13, comma 1, lett. b), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Lettera inserita dall'art. 13, comma 1, lett. b), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    73
    Lettera così sostituita dall'art. 13, comma 1, lett. c), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Lettera così sostituita dall'art. 13, comma 1, lett. c), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    74
    Lettera così modificata dall'art. 13, comma 1, lett. d), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Lettera così modificata dall'art. 13, comma 1, lett. d), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    75
    Lettera così sostituita dall'art. 13, comma 1, lett. e), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Lettera così sostituita dall'art. 13, comma 1, lett. e), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    76
    Lettera così sostituita dall'art. 13, comma 1, lett. f), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Lettera così sostituita dall'art. 13, comma 1, lett. f), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    77
    Comma inserito dall'art. 13, comma 2, D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106 e, successivamente, così modificato dall'art. 3, comma 3-bis, D.L. 30 dicembre 2016, n. 244, convertito, con modificazioni, dalla L. 27 febbraio 2017, n. 19.
    Comma inserito dall'art. 13, comma 2, D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106 e, successivamente, così modificato dall'art. 3, comma 3-bis, D.L. 30 dicembre 2016, n. 244, convertito, con modificazioni, dalla L. ...Testo troncato, continua a leggere nel testo
    78
    Comma inserito dall’art. 13-bis, comma 1, D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2021, n. 215.
    Comma inserito dall’art. 13-bis, comma 1, D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2021, n. 215.
    79
    Per la proroga del presente termine vedi l’art. 10, comma 2-bis, D.L. 29 settembre 2023, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla L. 27 novembre 2023, n. 170.
    Per la proroga del presente termine vedi l’art. 10, comma 2-bis, D.L. 29 settembre 2023, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla L. 27 novembre 2023, n. 170.
    80
    Comma inserito dall’art. 13-bis, comma 1, D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2021, n. 215.
    Comma inserito dall’art. 13-bis, comma 1, D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2021, n. 215.
    81
    Comma inserito dall’art. 14, comma 1, lett. a-bis), D.L. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 luglio 2023, n. 85.
    Comma inserito dall’art. 14, comma 1, lett. a-bis), D.L. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 luglio 2023, n. 85.
    82
    Comma aggiunto dall'art. 13, comma 3, D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Comma aggiunto dall'art. 13, comma 3, D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Fine capitolo