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Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    Questo volume non è incluso nella tua sottoscrizione. Il primo capitolo è comunque interamente consultabile.

    Informazioni sul volume

    Autore:

    Raffaele Guariniello

    Editore:

    Wolters Kluwer

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    Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza

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    Successivo 14 Provvedimenti degli organi di vigilanza per il contrasto del lavoro irregolare e per la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori
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    1. La vigilanza sull'applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è svolta dalla azienda sanitaria locale competente per territorio, dall'Ispettorato nazionale del lavoro e, per quanto di specifica competenza, dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché per il settore minerario, fino all'effettiva attuazione del trasferimento di competenze da adottarsi ai sensi del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, e successive modificazioni, dal Ministero dello sviluppo economico, e per le industrie estrattive di seconda categoria e le acque minerali e termali dalle regioni e province autonome di Trento e di Bolzano. Le province autonome di Trento e di Bolzano provvedono alle finalità del presente articolo, nell'ambito delle proprie competenze, secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti.58

    1-bis. Nei luoghi di lavoro delle Forze armate, delle Forze di polizia e dei vigili del fuoco la vigilanza sulla applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro è svolta esclusivamente dai servizi sanitari e tecnici istituiti presso le predette amministrazioni.59

    2. Ferme restando le competenze in materia di vigilanza attribuite dalla legislazione vigente al personale ispettivo del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, ivi compresa quella in materia di salute e sicurezza dei lavoratori di cui all'articolo 35 della legge 26 aprile 1974, n. 191, lo stesso personale esercita l'attività di vigilanza sull'applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro nelle seguenti attività, nel quadro del coordinamento territoriale di cui all'articolo 7: 60

    a) attività nel settore delle costruzioni edili o di genio civile e più in particolare lavori di costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione e risanamento di opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura e in cemento armato, opere stradali, ferroviarie, idrauliche, scavi, montaggio e smontaggio di elementi prefabbricati; lavori in sotterraneo e gallerie, anche comportanti l'impiego di esplosivi;

    b) lavori mediante cassoni in aria compressa e lavori subacquei;

    c) ulteriori attività lavorative comportanti rischi particolarmente elevati, individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, adottato sentito il comitato di cui all'articolo 5 e previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, in relazione alle quali il personale ispettivo del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali svolge attività di vigilanza sull'applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, informandone preventivamente il servizio di prevenzione e sicurezza dell'Azienda sanitaria locale competente per territorio.61

    3. In attesa del complessivo riordino delle competenze in tema di vigilanza sull'applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, restano ferme le competenze in materia di salute e sicurezza dei lavoratori attribuite alle autorità marittime a bordo delle navi ed in ambito portuale, agli uffici di sanità aerea e marittima, alle autorità portuali ed aeroportuali, per quanto riguarda la sicurezza dei lavoratori a bordo di navi e di aeromobili ed in ambito portuale ed aeroportuale nonché ai servizi sanitari e tecnici istituiti per le Forze armate e per le Forze di polizia e per i Vigili del fuoco; i predetti servizi sono competenti altresì per le aree riservate o operative e per quelle che presentano analoghe esigenze da individuarsi, anche per quel che riguarda le modalità di attuazione, con decreto del Ministro competente, di concerto con il Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali. L'Amministrazione della giustizia può avvalersi dei servizi istituiti per le Forze armate e di polizia, anche mediante convenzione con i rispettivi Ministeri, nonché dei servizi istituiti con riferimento alle strutture penitenziarie.62

    4. La vigilanza di cui al presente articolo è esercitata nel rispetto del coordinamento di cui agli articoli 5 e 7. A livello provinciale, nell'ambito della programmazione regionale realizzata ai sensi dell'articolo 7, le aziende sanitarie locali e l'Ispettorato nazionale del lavoro promuovono e coordinano sul piano operativo l'attività di vigilanza esercitata da tutti gli organi di cui al presente articolo. Sono adottate le conseguenti modifiche al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 21 dicembre 2007.63

    5. Il personale delle pubbliche amministrazioni, assegnato agli uffici che svolgono attività di vigilanza, non può prestare, ad alcun titolo e in alcuna parte del territorio nazionale, attività di consulenza.

    6. L'importo delle somme che l'ASL e l'Ispettorato nazionale del lavoro, in qualità di organo di vigilanza, ammette a pagare in sede amministrativa ai sensi dell'articolo 21, comma 2, primo periodo, del decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758, integra rispettivamente, l'apposito capitolo regionale e il bilancio dell'Ispettorato nazionale del lavoro per finanziare l'attività di prevenzione nei luoghi di lavoro svolta dai dipartimenti di prevenzione delle AA.SS.LL. e dall'Ispettorato.64

    7. È fatto salvo quanto previsto dall'articolo 64 del decreto del Presidente della Repubblica 19 marzo 1956, n. 303, con riferimento agli organi di vigilanza competenti, come individuati dal presente decreto.

    7-bis. L'Ispettorato nazionale del lavoro è tenuto a presentare, entro il 30 giugno di ogni anno al Ministro del lavoro e delle politiche sociali per la trasmissione al Parlamento, una relazione analitica sull'attività svolta in materia di prevenzione e contrasto del lavoro irregolare e che dia conto dei risultati conseguiti nei diversi settori produttivi e delle prospettive di sviluppo, programmazione ed efficacia dell'attività di vigilanza nei luoghi di lavoro.65

    GIURISPRUDENZA COMMENTATA

    Sommario: Premessa: le carenze ispettive - 1. Attività d'indagine degli ispettori e diritto di difesa - 2. Sopralluogo ispettivo e garanzie difensive - 3. Analisi di campioni e diritti di difesa - 4. Rilievi fotografici dell'ispettore su delega del P.M. - 5. Testimonianza dell'ispettore - 6. Inerzia dell'organo di vigilanza - 7. Cooperazione colposa degli ispettori - 8. Induzione indebita corruzione, concussione e falso - 9. False dichiarazioni del datore di lavoro agli ispettori dell'INAIL o del lavoro - 10. Occultamento del verbale di contravvenzione al divieto di fumare - 11. Verbale d'ispezione e testimonianza dell'ispettore - 12. La protezione civile - 13. I tecnici della prevenzione come ufficiali di polizia giudiziaria - 14. Verbali d'ispezione e imputazioni - 15. Dichiarazioni indizianti - 16. Omessa fornitura di documentazioni richieste dall'ispettore - 17. Rivelazione di segreto d'ufficio in caso di preavviso d'ispezione - 18. Registrazione di frase diffamatoria dell'ispettore del lavoro - 19. Ispettore formatore in orario di lavoro o in periodo di malattia - 20. La sorveglianza sulla sicurezza delle infrastrutture .

    Dalla giurisprudenza della Corte Suprema sembrano affiorare due esigenze purtroppo non sempre adeguatamente soddisfatte nelle prassi ispettive e giudiziarie: l'esigenza di curare la professionalità degli organi di vigilanza in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, e, per conseguenza, dall'angolo visuale dell'autorità giudiziaria, di sottoporne gli accertamenti ad un'attenta e completa valutazione. Anche per evitare che ispettori non adeguatamente formati considerino pericoloso un ambiente lavorativo che non lo è, costringendo l'impresa ad investire risorse magari ingenti in misure non necessarie, e che ispettori frettolosi ricorrano a soluzioni dirompenti come la chiusura di un'azienda invece di accompagnarla nell'opera di messa in sicurezza con salvaguardia dell'attività produttiva.

    Sequestro preventivo di un cantiere edile in relazione ai reati di cui agli artt. 109, 134, 151, comma 2, 96, comma 1, lett. g), D.Lgs. n. 81/2008, contestati al rappresentate legale di una s.r.l. affidataria dei lavori, ``per aver omesso di predisporre nel cantiere recinzioni idonee a impedire l'accesso a soggetti estranei alla lavorazione; per non aver esibito il Pimus relativo al ponteggio metallico allestito presso il cantiere, montato in configurazione diversa da quella riportata nel piano delle demolizioni; per non aver inserito nel piano delle demolizioni il programma di successione dei lavori e indicazioni sulla rimozione di materiali di risulta, anche di parti parzialmente demolite, con pericolo di caduta degli stessi dall'alto; e per aver omesso di predisporre nel piano operativo di sicurezza previsioni concernenti i rischi presenti in cantiere, alla luce della natura delle lavorazioni, oltre che misure relative alla rimozione di materiale di risulta e per la messa in sicurezza delle parti parzialmente demolite, anche al fine di evitare rischi di caduta di tale materiale dall'alto''. La Sez. III annulla con rinvio l'ordinanza di sequestro preventivo. Prende atto dell'articolata consulenza tecnica depositata dall'indagato ``con la quale sono stati formulati molteplici rilievi rispetto ai temi sottesi alle contestazioni provvisorie per cui si procede'', in particolare in merito ``alla questione della recinzione del cantiere, allegando taluni rilievi fotografici a sostegno delle affermazioni difensive circa la completa recinzione e l'inaccessibilità dell'area interessata dai lavori'', e, inoltre. ``dedicate all'aspetto delle modalità del montaggio del ponteggio e alla sua conformità alle previsioni del Pimus'', nonché ``sia sul contenuto del piano delle demolizioni e della relazione tecnica del progetto esecutivo, parte integrante del piano di demolizione e del Pos, sia sull'asserita adeguatezza formate e sostanziale del Pos''. Addebita al tribunale del riesame di aver omesso di ``confrontarsi adeguatamente con le osservazioni critiche contenute dall'elaborato tecnico del consulente della difesa, limitandosi invero a qualificarle come personali interpretazioni, senza spiegare le ragioni in fatto e in diritto per cui le stesse fossero inidonee a smentire l'impostazione accusatoria''. Non ritiene ``esaustivo il costante richiamo dell'ordinanza impugnata alle valutazioni degli operanti della P.G. che, per quanto provenienti da soggetti qualificati, non si sottraggono comunque alla necessità di verifica rispetto agli ulteriori elementi ricostruttivi disponibili, soprattutto se di segno contrario''. Per giunta, rileva che ``il giudizio sulla inadeguatezza dei vari documenti sulla sicurezza menzionati in tre delle quattro imputazioni per cui si procede (ovvero il Pimus, il piano delle demolizioni, e il POS) risulta formulato dai giudici cautelari senza un esame diretto degli stessi, ma solo tramite l'adesione incondizionata alle considerazioni operate al riguardo dai verbalizzanti, talora in base ai soli `accertamenti visivi', il cui contenuto peraltro non risulta specificato rispetto ai singoli accertamenti compiuti''. Ritiene ``generica nel provvedimento impugnato la descrizione delle presunte carenze di tali documenti, sia rispetto alle previsioni in essi presenti, sia con riferimento alle situazioni di pericolo suscettibili di verificazione''. Insegna che la valutazione del tribunale del riesame in sede cautelare reale ``deve essere in ogni caso ancorata a elementi investigativi specifici, la cui valutazione, anche in questa fase, non può prescindere da una disamina completa delle risultanze investigative disponibili e da un confronto critico con la differente prospettazione articolata dalla difesa, ravvisandosi diversamente un vero e proprio difetto di motivazione, di per sé idoneo a integrare una violazione di legge, deducibile con il ricorso per cassazione in materia cautelare reale''.

    Per un'ulteriore ipotesi di azioni ispettive non sufficientemente approfondite v., sub art. 256, Cass. 10 giugno 2020, n. 17810. Fanno, per contro, ben sperare le azioni ispettive efficaci e approfondite di cui frequentemente dà conto la Corte Suprema: v., ad es., Cass. 29 settembre 2022 n. 36786.

    L'art. 220 disp. att. c.p.p. stabilisce che, «quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant`altro possa servire per l'applicazione della legge penale sono compiuti con l'osservanza delle disposizioni del Codice. Basilare al riguardo è l'insegnamento impartito dalle Sezioni Unite della Corte Suprema:

    Anzitutto, le Sezioni Unite affermano che «l'estrema varietà degli atti ispettivi e, ancor più, di quelli di vigilanza, comprendenti, i primi, inchieste, verifiche e ogni altra operazione riconducibile a un rapporto istituzionalizzato di sovra ordinazione gerarchica tra organo ispettore e titolare della posizione di soggezione; i secondi, ogni forma di esercizio di pubblici poteri di sorveglianza sul rispetto di leggi e regolamenti da parte di soggetti che vi sono, a qualsiasi titolo, obbligati, consiglia, anche in vista delle finalità della disposizione, l'accoglimento di una nozione il più ampia possibile», e che, «in ogni caso, è fuori discussione che le inchieste condotte dall'Ispettorato del lavoro in un settore di grande rilevanza sociale e caratterizzato da un'accesa conflittualità, siano sussumibili nella previsione della norma in considerazione e, con riferimento al caso di specie, esattamente annoverabili tra le attività di vigilanza dirette alla verifica della regolarità di rapporti di lavoro subordinato o d'altra natura, soggetti alla disciplina prevista da leggi, regolamenti o altre fonti normative riconosciute». In secondo luogo, le Sezioni Unite si pongono il problema della configurabilità del reato, di cui emergono gli indizi, in termini meramente oggettivi o necessariamente anche soggettivi.

    Ammettono che «l'uso dell'espressione `reato' nel testo dell'articolo, in quanto riferibile a un'entità concettualmente inscindibile nelle sue due componenti essenziali, farebbe ritenere che il legislatore abbia inteso dare risalto anche all'elemento soggettivo e, quindi, alla riferibilità del fatto penalmente rilevante ad una persona determinata nei cui soli confronti opera il previsto meccanismo garantistico dell'equiparazione del procedimento amministrativo a quello penale».

    Ma subito osservano che, «quando il legislatore ha voluto mettere in particolare evidenza (cfr. ad es. l'art. 273 c.p.p.) il profilo della direzione soggettiva degli indizi, non ha esitato a ricorrere, sia pure impropriamente, a un termine, quello di `colpevolezza', che contiene in sé addirittura un giudizio di accertata responsabilità di un soggetto determinato». Sicché optano «per la soluzione più rigorosamente garantistica, ritenendo sufficiente per considerare applicabili le norme del codice la mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall'inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge». In questa prospettiva, le Sezioni Unite esaminano l'ulteriore problema relativo al preciso significato del termine «indizi» nel testo dell'art. 220 disp. att. c.p.p., e, «alla luce delle considerazioni dianzi esposte e dell'interpretazione comunemente data a formule analoghe che figurano in altre disposizioni del codice e, in particolare, nell'art. 267, comma 1, c.p.p.», sostengono che «tale significato sicuramente non è quello rigorosamente tecnico di prova indiretta proprio degli elementi menzionati dall'art. 192, comma 2, c.p.p., bensì quello di semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile sotto il profilo penale».

    Per la giurisprudenza successiva, oltre al paragrafo 2, v.:

    ``La polizia giudiziaria, ex art. 354 c.p.p., anche prima dell'intervento dei Pubblico Ministero, può compiere accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose, quando vi è il pericolo che le tracce del reato, le cose o luoghi si alterino, si disperdano o subiscano modificazioni. Il rilievo e l'accertamento cui si riferisce l'art. 354 c.p.p. sono l'individuazione e la raccolta di dati materiali e si differenziano dall'accertamento tecnico che consiste, invece. nella valutazione critico comparativa effettuata sulla base di specifiche competenze tecniche. Il meccanismo procedurale di cui all'art. 360 c.p.p. si riferisce non già alla mera raccolta del dato che non richiede conoscenze di tipo tecnico, bensì agli accertamenti tecnici veri e provi. Tale norma, infatti, prevede che quando gli accertamenti di cui all'art. 355 c.p.p., ovvero gli `accertamenti, rilievi descrittivi e fotografici ed ogni altra operazione per cui sono necessarie specifiche competenze' e per i quali il Pubblico Ministero può nominare un consulente tecnico, riguardano persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione non evitabile, il Pubblico Ministero deve dare avviso alle parti del giorno, ora e luogo di conferimento dell'incarico in modo da garantire loro la possibilità di nominare propri consulenti. Gli accertamenti previsti dall'art. 359 c.p.p. e (nell'ipotesi di non ripetibilità) dall'art. 360 c.p.p. sono, quindi, quelli che comportano studio e valutazioni critiche per lo più su basi tecnico-scientifiche. Sono estranei alla previsione delle predette norme i rilievi o meri accertamenti che si esauriscono in attività materiale di lettura, raccolta e conservazione e che non richiedono alcuna discrezionalità o preparazione tecnica per la loro valutazione. In tal caso è consentito l'intervento diretto della polizia giudiziaria, che, nell'ipotesi di urgenza e senza le garanzie del contraddittorio di cui all'art. 360 c.p.p., può procedere di sua iniziativa, in virtù dell'art. 354 c.p.p. Con tale norma il legislatore ha inteso attribuire alla polizia giudiziaria una mera raccolta di dati o, comunque, operazioni di carattere materiale che non comportino alcuna elaborazione critica e tantomeno di carattere scientifico, come confermato dal fatto che si fa riferimento ad accertamenti e non già ad `accertamenti tecnici'. Facendo applicazione di tali principi al caso di specie, la misurazione effettuata dalla polizia giudiziaria dell'altezza del piano di lavoro dal suolo, in sede di indagini volte alla ricostruzione della dinamica dell'infortunio ed alla individuazione della responsabilità del datore di lavoro era accertamento che non comportava alcuna valutazione discrezionale o di carattere tecnico. La circostanza per cui non sia stato più possibile effettuare nuovamente tale misurazione non ha dunque alcun rilievo, a prescindere dalla prevedibilità o meno di tale evenienza''.

    Nell'annullare l'assoluzione del datore di lavoro titolare di un'azienda agricola per l'infortunio mortale occorso a un bracciante, la Sez. IV critica, in particolare, un errore commesso dalla Corte d'Appello in ordine al verbale di sopralluogo del personale ispettivo, ritenuto inutilizzabile per asserita violazione dell'art. 63 c.p.p.: ``La disposizione di cui al comma 2 presuppone, intanto, che nei confronti del dichiarante sussistano già elementi indiziari di reità, conosciuti dall'autorità procedente, non rilevando a tale proposito eventuali sospetti o intuizioni personali dell'interrogante, indizi che devono inerire al medesimo reato ovvero al reato connesso o collegato attribuito al terzo. Nel caso di specie, tale condizione effettivamente ricorre. Il datore di lavoro era certamente già indiziato dell'omicidio colposo conseguente all'infortunio occorso al suo dipendente, più di tre mesi prima, cioè, del sopralluogo effettuato dai tecnici ASP presso l'azienda dell'imputato, nel corso del quale questi aveva reso spontaneamente alcune dichiarazioni a contenuto auto indiziante. Tuttavia, la norma postula anche un altro requisito, chiaramente desumibile dalla formulazione dell'art. 63, comma 1, c.p.p.: deve, cioè, trattarsi di dichiarazioni rese nel corso di un `esame', atto processuale in cui un soggetto è convocato dall'autorità procedente (sia essa autorità giudiziaria o di polizia) per essere escussa sui fatti per cui si procede, con l'obbligo di comparire, di rispondere e di dire la verità (vale a dire, l'esame testimoniale nel corso del giudizio, le sommarie informazioni testimoniali, nel corso delle indagini preliminari). Sono la natura e la struttura dell'atto processuale compiuto che consentono di comprendere la ratio di garanzia sottesa al divieto, evidentemente informato al principio del nemo tenetur se detegere ed essa va utilizzata ai fini della sua interpretazione: la confessione della propria partecipazione al reato da parte di soggetto legittimamente sentito in origine come testimone o come persona informata sui fatti impone la immediata interruzione dell'esame, con conseguente inutilizzabilità erga omnes delle dichiarazioni ad essa successive. Da queste premesse è agevole comprendere l'interpretazione della norma da parte dei giudici di legittimità. Questi hanno, per esempio, ritenuto che la stessa non sia invocabile laddove un soggetto, anche se sospettato di reità, renda dichiarazioni indizianti ad un appartenente alle forze dell'ordine al di fuori di un atto processuale qualificabile come esame: alle dichiarazioni rese ad agente `infiltrato' da soggetto poi qualificato come indagato o imputato non si applica né il divieto posto dall'art. 62 c.p.p., né il limite di utilizzabilità previsto dall'art. 63, comma 2, c.p.p., quando le stesse non possono considerarsi rese nel corso di un esame o di sommarie informazioni in senso proprio, ma si inseriscono in un contesto commissivo in atto di svolgimento, sì da integrare esse stesse le condotte materiali del reato; allo stesso modo - e più in generale - hanno precisato che alle dichiarazioni spontanee non si applica la disciplina di cui all'art. 63 c.p.p., la quale concerne l'esame di persone non imputate e non sottoposte ad indagini, mentre le dichiarazioni spontanee provengono precisamente dalla persona nei confronti della quale vengono svolte indagini (art. 350, comma 7, c.p.p.) e sono utilizzabili se il relativo verbale è stato acquisito al fascicolo per il dibattimento con il consenso delle parti; nemmeno è applicabile alle dichiarazioni spontanee la disciplina di cui all'art. 64 c.p.p., perché concerne l'interrogatorio, che è atto diverso. L'errore in diritto dei giudici d'appello non si è limitato all'inquadramento dell'atto contenuto in un verbale di sopralluogo, ma si è esteso anche alla ravvisata operatività del meccanismo sanzionatorio processuale. Quei giudici non hanno infatti considerato che l'inutilizzabilità degli atti che siano stati eventualmente inseriti per errore nel fascicolo del dibattimento non è automatica, ma consegue alla tempestiva eccezione di parte, da proporre entro il termine previsto dall'art. 491, comma 2, c.p.p., posto che la legge consente l'acquisizione, su accordo delle parti, di atti ulteriori rispetto a quelli previsti dall'art. 431, comma 1, c.p.p. Tale consenso, peraltro, può essere espresso anche tacitamente attraverso l'assenza di opposizione, se il complessivo comportamento processuale della parte interessata è incompatibile con una volontà contraria. È, poi, principio consolidato quello secondo cui le dichiarazioni autoaccusatorie spontaneamente rese nell'immediatezza dei fatti dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini sono pienamente utilizzabili se l'atto che le include, come la comunicazione della notizia di reato, sia stato acquisito al fascicolo per il dibattimento su accordo delle parti, senza che queste ultime abbiano formulato espresse limitazioni circa l'utilizzabilità di detto atto soltanto in relazione a specifici contenuti diversi dalle dichiarazioni stesse, poiché la mancata verbalizzazione di tali dichiarazioni, pur in contrasto con quanto prescritto dall'art. 357 c.p.p., non le rende nulle o inutilizzabili, in quanto nessuna sanzione in tal senso è prevista da detta norma, sicché, salvi i limiti di cui all'art. 350, commi 6 e 7, c.p.p., l'agente o l'ufficiale di polizia giudiziaria può fare relazione del loro contenuto all'autorità giudiziaria e rendere testimonianza de relato (il principio è stato affermato con riferimento alla utilizzabilità nel giudizio abbreviato delle dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta alle indagini alla polizia giudiziaria, inserite in un verbale di perquisizione o sequestro e non in un autonomo verbale)''.

    I giudici di merito assolvono i responsabili di una cooperativa agricola perché il fatto non sussiste dal reato di omicidio colposo in danno di un lavoratore intento ad installare un ventilatore dentro una cella frigorifera. Ad avviso dell'accusa, ``il decesso era dovuto ad asfissia causata dalla presenza nella cella frigorifera di una sacca di azoto in quota immessa dalla valvola manopola di erogazione lasciata aperta accidentalmente, con conseguente abbassamento della quantità di ossigeno''. Ma stando ai giudici di merito questa tesi ``non era stata suffragata dagli accertamenti probatori'', e, ``in particolare, veniva rilevata una grave lacuna nelle indagini in quanto nell'immediatezza dei fatti i vigili del fuoco non avevano controllato se vi fosse azoto nella cella frigorifera'': ``la valvola fu trovata chiusa, la cella frigorifera era aperta e quindi non era plausibile che si fosse creata una situazione letale per il lavoratore in quanto i vigili del fuoco, nell'immediatezza dei fatti, avevano rilevato una percentuale di ossigeno del 17,5 a livello della finestrella e del 18,5 a livello di pavimento, valori che non potevano provocare un effetto letale, secondo anche quanto argomentato dal consulente medico legale''. D'altra parte, ``il successivo esperimento effettuato dai vigili del fuoco, tredici giorni dopo, volto a riprodurre le condizioni dell'infortunio anche nei fenomeni di carattere fisico, fu realizzato in condizioni di funzionamento ed operatività dell'impianto produttivo diverse da quelle in cui si era verificato l'incidente, ed era comunque da ritenersi inutilizzabile in quanto non erano state osservate le forme di cui all'art. 360 c.p.p., trattandosi di luoghi soggetti a modificazioni''. Su ricorso del P.M., la Sez. IV conferma l'assoluzione. Dopo aver ampiamente illustrato la ``differenza tra esperimento giudiziale e accertamento di P.G.'', la Sez. IV osserva che ``l'attività compiuta dai vigili del fuoco nel caso in esame, presentava i caratteri tipici dell'esperimento giudiziario in quanto si è sostanziata in un accertamento di P.G., volto a verificare la causa della morte dell'infortunato che secondo la prospettiva accusatoria era riconducibile alla carenza di ossigeno nella cella frigorifera e in particolare alla presenza di una sacca di azoto, all'altezza di 9 metri, derivante dall'accidentale apertura della valvola di erogazione dell'azoto nella cella che aveva causato l'asfissia del lavoratore''. Precisa, inoltre, che i giudici di merito hanno escluso ``in ogni caso l'efficacia probante dell'accertamento dei vigili del fuoco in quanto lo stesso è stato effettuato in condizioni diverse di funzionamento e operatività dell'impianto produttivo rispetto a quelle reali del giorno dell'incidente'', e ``hanno evidenziato che i vigili del fuoco non controllarono nell'immediatezza dell'incidente la concentrazione di ossigeno nell'aria all'altezza di 9 metri, altezza a cui lavorava l'operaio al momento dell'infortunio e che il consulente tecnico del PM, medico legale, ha chiarito che i valori rilevati dai soccorritori all'altezza di due metri e mezzo più in basso del luogo in cui si trovava l'operaio non sono incompatibili con la vita''. Ne desume che ``l'accertamento dei vigili del fuoco, effettuato in un luogo soggetto a modificazione, a 13 giorni dall'infortunio senza le garanzie della difesa, non solo è stato dichiarato inutilizzabile ma non poteva assumere nemmeno in astratto, nell'economia della decisione impugnata, il rilievo determinante che il PM pretende di attribuirgli''. Tanto è vero che, al contrario, i giudici di merito hanno escluso che ``l'ipotesi ricostruttiva della pubblica accusa avesse trovato riscontro stante l'assoluta mancanza di forza probante dell'esperimento effettuato dai Vigili del Fuoco su incarico del PM in relazione alla accertata differenza delle condizioni di funzionamento dell'impianto, la mancanza della prova certa della presenza di azoto nella cella 34 il giorno dell'infortunio e la mancanza della prova dell'apertura accidentale della valvola di immissione dell'azoto nella cella, valvola trovata chiusa al momento dell'intervento nell'immediatezza dei fatti''.

    Un datore di lavoro - condannato per violazioni antinfortunistiche - deduce ``la mancanza di prova della propria qualifica di datore di lavoro''. Rileva in proposito ``l'inutilizzabilità assoluta della testimonianza resa, sul punto, dal maresciallo dei carabinieri in servizio presso il Nucleo Ispettorato del Lavoro del Comando Carabinieri, il quale aveva riferito di aver accertato nell'immediatezza del sopralluogo, interloquendo con i soggetti presenti, che l'appaltatore dei lavori in atto era, appunto, l'imputato e che altra persona lo stava coadiuvando nella relativa esecuzione''. E segnala due cause di inutilizzabilità: a) il divieto di testimonianza indiretta di cui all'art. 195, comma 4, c.p.p. non conosce deroghe, nemmeno se si tratta di informazioni assunte dall'agente/ufficiale di P.G. nel corso dell'attività amministrativa di vigilanza; b) la generica indicazione delle fonti delle informazioni apprese non esclude che il testimone possa aver acquisito la conoscenza del dato riferito in udienza direttamente dall'imputato, in evidente violazione dell'art. 63 c.p.p., ciò sul rilievo che al sopralluogo erano presenti soltanto l'imputato ed un'altra persona. La Sez. III conferma la condanna. Prende atto che ``la penale responsabilità dell'imputato e la sua qualifica di `datore di lavoro', tenuto all'osservanza del precetto, sono state affermate dal tribunale in base: a) alla testimonianza del Maresciallo, che aveva riferito che nell'immediatezza del sopralluogo aveva interloquito con i soggetti presenti (l'imputato e altra persona); b) alla visura camerale in atti dalla quale risultava che l'imputato era titolare di impresa esercente attività edile; c) al fatto che, in merito alle contestazioni sollevate e formalizzate nel verbale di accertamento, l'imputato non aveva avuto nulla da dichiarare; d) al fatto che aveva provveduto a sanare le irregolarità contestate (senza però procedere al pagamento dell'oblazione alla quale era stato ammesso)''. Ciò premesso, sulla scorta dell'art. 220 disp. att. c.p.p., la Sez. III afferma che ``il confine tra l'attività ispettiva e quella di indagine preliminare è segnato dalla mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall'inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata''. Rileva come ``il fatto che l'attività ispettiva sia stata effettuata da un maresciallo dei carabinieri, in quanto tale ufficiale di polizia giudiziaria (art. 55, comma 1, lett. b, c.p.p.), non qualifica l'attività ispettiva e di vigilanza come indagine preliminare ai sensi del codice di rito''. Precisa che ``anche gli ispettori del lavoro, nei limiti del servizio a cui sono destinati, e secondo le attribuzioni ad essi conferite dalle singole leggi e dai regolamenti, sono ufficiali di polizia giudiziaria (art. 8, D.P.R. 19 marzo 1955, n. 520, Riorganizzazione centrale e periferica del Ministero del lavoro e della previdenza sociale)'', e che ``sono altresì ufficiali di polizia giudiziaria gli addetti ai servizi di ciascuna unità sanitaria locale, nonché ai dipartimenti di prevenzione, in relazione alle funzioni ispettive e di controllo da essi esercitate relativamente all'applicazione della legislazione sulla sicurezza del lavoro (art. 21, L. 23 dicembre 1978, n. 833)''. Ne desume che ``ciò che rileva è esclusivamente lo svolgimento di un'attività ispettiva o di vigilanza nel corso della quale possano emergere indizi di reato'', là dove ``l'attività di indagine preliminare presuppone l'esistenza di una `notitia criminis'''. Nota che ``la questione posta dall'imputato riguarda l'individuazione del momento esatto nel quale l'UPG ha accertato l'esistenza della violazione penalmente rilevante, se cioè prima o dopo aver interpellato l'imputato e l'altra persona sulla titolarità dell'impresa che stava eseguendo i lavori'', e che ``si tratta di una questione di fatto che logicamente precede quella relativa alla inutilizzabilità della prova e che non può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità se richiede valutazioni di fatto su cui è necessario il previo vaglio, in contraddittorio, da parte del giudice di merito''.

    ``Qualora emergano indizi di reato, occorre procedere secondo le modalità previste dall'art. 220 disp. att. c.p.p., giacché altrimenti la parte del documento redatta successivamente a detta emersione non può assumere efficacia probatoria e, quindi, non è utilizzabile. Ne consegue che la parte di documento compilata prima dell'insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito. Il presupposto per l'operatività dell'art. 220 disp. att. c.p.p., cui segue il sorgere dell'obbligo di osservare le disposizioni del c.p.p. per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire ai fini dell'applicazione della legge penale, è costituito dalla sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall'inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata). Nondimeno, la violazione dell'art. 220 disp.att. c.p.p. non determina automaticamente l'inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti nell'ambito di attività ispettive o di vigilanza, ma è necessario che l'inutilizzabilità o la nullità dell'atto sia autonomamente prevista dalle norme del codice di rito a cui l'art. 220 disp. att. rimanda. Diversamente opinando, si giungerebbe a ritenere l'inutilizzabilità di tutti i risultati probatori e gli altri risultati della verifica dopo la comunicazione della notizia di reato, situazione, all'evidenza priva di fondamento. Non può essere dedotta, dunque, la generica violazione dell'art. 220 disp.att. c.p.p., occorrendo, invece, la specifica indicazione della violazione codicistica che avrebbe determinato l'inutizzabilità con riguardo ai singoli atti compiuti e riportati nel processo verbale di constatazione redatto dalla medesima''.

    Condannato per più contravvenzioni antinfortunistiche, l'imputato deduce che ``il giudice avrebbe errato nel dichiarare utilizzabili le dichiarazioni dell'unico teste di p.g. sentito in dibattimento il quale avrebbe riferito de relato su quanto riferitogli dalle persone informate sui fatti, atteso che l'unica attività svolta dal teste di p.g. era consistita nel sentire i testimoni'', eccepisce ancora che ``la successiva attività di formulazione ed invio delle prescrizioni non muterebbe la questione, non avendo tali atti contenuto investigativo ma si reggono loro stessi sulle persone informate sui fatti mai assunte in dibattimento'', e lamenta, infine, che ``il giudice avrebbe operato una deduzione illogica, desumendo la sussistenza dei fatti dall'omessa esibizione dei documenti discendenti dalla condotta richiesta dalle norme, confondendo peraltro il c.d. foglio di prescrizioni con le condotte omissive contestate ai capi di imputazione, accorpando le condotte sanzionate con l'oblazione amministrativa''. La Sez. III non accoglie queste argomentazioni difensive. Ammette in linea con le Sez.Un. che ``il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell'imputato o dell'indagato ed il connesso divieto di utilizzazione si applicano alla testimonianza resa da un ispettore del lavoro su quanto a lui riferito da persona nei cui confronti siano emersi, nel corso dell'attività ispettiva, anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato e le cui dichiarazioni, ciononostante, siano state assunte in violazione delle norme poste a garanzia del diritto di difesa, atteso che il significato dell'espressione `quando emergano indizi di reato' contenuta nell'art. 220 disp.att. c.p.p. e tesa a fissare il momento a partire dal quale, nell'ipotesi di svolgimento di ispezioni o di attività di vigilanza, sorge I'obbligo di osservare le disposizioni del codice di procedura penale per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire ai fini dell'applicazione della legge penale- deve intendersi nel senso che presupposto dell'operatività della norma sia non l'insorgenza di una prova indiretta quale indicata dall'art. 192 c.p.p., bensì la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall'inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata''. Tuttavia, considera ``altrettanto vero che la asserita illogicità della deduzione del giudice che ha tratto la prova della sussistenza dei fatti dalla omessa esibizione dei documenti discendenti dalla condotta normativamente richiesta non sussiste''. Spiega al riguardo che ``tanto la mancata nomina del medico competente (art. 18, comma 1, lettera a, D.Lgs. n. 81/2008) quanto il mancato assolvimento degli obblighi di formazione ed informazione (art. 37, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008 e Accordo Stato Regioni del 21 dicembre 2011) necessitano per legge di essere documentati, donde correttamente il giudice ha tratto la prova della sussistenza dei reati ascritti dalla mancata esibizione della documentazione, nemmeno dopo la notifica del c.d. foglio di prescrizione, con cui era stata attivata la procedura prevista dal D.Lgs. n. 758/1994''.

    A un socio di un'impresa di scavi e movimentazione terra si addebita il decesso di un dipendente che, ``operando a bordo di un autocarro, dopo essere entrato in un cantiere per una via non prevista dal P.S.C. e nonostante la delimitazione dell'area, eseguendo manovre di carico e scarico di materiale di riporto su un viottolo sterrato, del tutto inidoneo al transito dei mezzi pesanti in ragione della pendenza e delle dimensioni, si era ribaltato rotolando a valle mentre stava scaricando materiale, con il cassone alzato, alterandone il già precario equilibrio''. L'imputato lamenta che si erano ritenuti ``utilizzabili gli accertamenti tecnici e la testimonianza dell'ausiliario di polizia giudiziaria, sebbene avesse svolto attività di carattere irripetibile senza dare avviso all'imputato, svolgendo accertamenti di carattere tecnico ai sensi dell'art. 220 c.p.p. per eseguire rilievi in violazione dell'art. 360 c.p.p.''. La Sez. IV replica: ``Il cantiere era stato sottoposto nell'immediatezza del fatto a sequestro preventivo, regolarmente convalidato dal G.I.P. con contestuale emissione del decreto di sequestro preventivo. È, quindi, smentito il presupposto sul quale si basa la censura inerente all'utilizzabilità delle prove, ossia l'irripetibilità degli accertamenti tecnici eseguiti sullo stato dei luoghi in quanto, in assenza di sequestro, soggetti a modificazione. Ma, a monte di tale rilievo, va chiarito, in tema di accertamenti urgenti, che nel concetto di accertamento non sono comprese la constatazione o la raccolta dei dati materiali pertinenti al reato o alla sua prova, i quali si esauriscono in semplici `rilievi' di natura meramente ricognitiva, ancorché connotati dal carattere dell'urgenza; l'accertamento tecnico riguarda, piuttosto, lo studio e la elaborazione critica dei medesimi dati materiali, onde la irripetibilità dei rilievi, più specificamente dell'acquisizione dei dati da sottoporre ad esame, non implica l'irripetibilità dell'accertamento tecnico in quanto il rilievo non comporta, necessariamente, l'immutazione dello stato delle persone, delle cose o dei luoghi. La procedura prescritta dall'art. 360 c.p.p. concerne, invece, esclusivamente gli accertamenti di natura tecnica da eseguire su persone, cose o luoghi il cui stato sia soggetto a modificazione, con lo scopo di garantire all'indagato di partecipare all'atto ovvero di conoscere la metodica seguita per raggiungere l'elaborazione del dato. Non costituiscono, pertanto, accertamenti tecnici ai sensi dell'art. 360 c.p.p. i rilievi meramente ricognitivi dello stato dei luoghi che, in quanto privi di elementi valutativi, lascino impregiudicata la formazione della prova nel contraddittorio delle parti. Il diritto di difesa era garantito dal non essere precluso all'imputato l'esame dei luoghi in costanza di sequestro né l'esame dell'ausiliario in veste di testimone sulle misurazioni eseguite''.

    ``La dottrina ha segnalato come l'art. 220 disp. att. c.p.p. disciplini l'esito degli atti cosiddetti `a finalità mista', quelli cioè posti `a cavallo' tra l'attività amministrativa di accertamento ed il potenziale instaurarsi di un procedimento penale, essendosi regolate le ipotesi in cui, nel corso di attività ispettive e di vigilanza previste da leggi speciali, emergano indizi di reità, in presenza dei quali è previsto che le attività di accertamento di polizia amministrativa si tramutino in attività di polizia giudiziaria, cosicché da quel momento (non anche prima di tale momento) gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale debbono essere compiuti con l'osservanza delle norme del codice di procedura penale. Dal fatto però che a seguito di un'attività ispettiva emerga una notizia di reato non può farsi discendere automaticamente che le attività dei funzionari dello Stato o di altri enti pubblici rivolte a compiere rilevazioni, anche fotografiche, indagini ed inchieste nelle materie di propria competenza perdano la natura di attività amministrativa e comportino l'osservanza delle norme processuali. Nel caso di specie, l'attività compiuta era pacificamente un'attività di verifica ispettiva ed amministrativa, che abilitava gli operanti a descrivere e a documentare fatti e situazioni statiche ricadenti sotto la loro percezione. Al termine delle operazioni ispettive, l'esito delle stesse fu comunicato ad un altro ufficio amministrativo, demandandosi ad esso il compito di segnalare o meno all'autorità giudiziaria eventuali fatti penalmente rilevanti desumibili dall'attività ispettiva, nel corso della quale, dunque, alcuna persona risultava sottoposta ad indagini perché, nello svolgimento di essa, non era emerso alcun indizio di reato e neppure erano stati compiuti specifici atti di polizia giudiziaria, perché la semplice documentazione fotografica della riscontrata situazione dei luoghi rientra senza dubbio nell'attività di amministrativa di tipo ispettivo. L'art. 234 c.p.p., tra l'altro, considera `prova documentale', di cui è consentita l'acquisizione, la rappresentazione di fatti, persone o cose mediante la fotografia. Questa Corte ha chiarito che, mentre il documento grafico è già una prova precostituita se è sottoscritto dall'autore (art. 2702 c.c.), la fotografia acquista valore di documento ai fini probatori se la paternità ed il contenuto dell'immagine fissata siano asseverati attraverso la testimonianza di chi ne è stato l'autore. La qual cosa si è puntualmente verificata nel presente procedimento, risultando che, in dibattimento, sono stati sentiti i funzionari che eseguirono l'attività ispettiva. Ne consegue che le fotografie acquisite al fascicolo per il dibattimento devono ritenersi prove documentali a tutti gli effetti e non conseguenza di un accertamento (irripetibile) di polizia giudiziaria compiuto senza l'osservanza dei diritti della difesa. La documentazione fotografica riproduceva quanto i funzionari avevano personalmente percepito e visto. Sia la prova orale che quella documentale si sono dunque legittimamente formate nel dibattimento''.

    La Sez. VI, chiamata ad occuparsi di un infortunio sul lavoro, prende in considerazione un'argomentazione difensiva espressa dagli imputati secondo cui «le testimonianze degli ispettori si sono riferite a dichiarazioni di altre persone coinvolte a vario titolo nella vicenda, sicché esse non potevano essere utilizzate, facendovi divieto il disposto dell'art. 195 coma 4 c.p.p.» [«Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli articoli 351 e 357, comma 2 lettere a) e b). Negli altri casi si applicano le disposizioni dei commi 1, 2 e 3 del presente articolo»]. E replica che, «in presenza di un infortunio sul lavoro, e non emergendo allo stato elementi di reato, gli ispettori del lavoro non rivestivano la qualità di ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, sicché la loro testimonianza de relato, stante il disposto dell'art. 220 disp. att. c.p.p., non incontra il divieto di cui all'art. 195 comma 4 c.p.p.».

    «In materia di attività ispettive di vigilanza di natura amministrativa, il presupposto dell'emersione d'indizi di reato, cui segue l'obbligo di osservare le disposizioni del codice di rito per il compimento degli atti necessari all'assicurazione delle fonti di prova e alla raccolta degli elementi informativi necessari per l'applicazione delle legge penale, si sostanzia nella possibilità di attribuire, comunque, rilevanza penale al fatto che emerge dall'inchiesta amministrativa e nel momento in cui sorge. Al momento del prelievo dei campioni nessun indizio era insorto a carico dell'imputato, essendo irrilevante, a tal fine, che l'ispezione conseguisse da un esposto che lamentava odori molesti e che gli ispettori li avessero direttamente avvertiti. Deve, quindi, escludersi che si sia trattato di attività svolte dalla polizia giudiziaria nell'ambito di un'indagine preliminare perché soltanto quando l'analisi dei campioni abbia dato esito sfavorevole sorgono indizi di reato e da quel momento vanno applicate le norme procedurali per l'intervento del difensore».

    Significativa, altresì, con riguardo al sequestro preventivo dei bacini di carenaggio all'interno di un arsenale militare disposto a seguito dell'accertata violazione dei reati di scarico di acque reflue industriali, di immissione in atmosfera senza autorizzazione, di inquinamento ambientale e di getto pericoloso e danneggiamento:

    ``Priva di pregio è la doglianza relativa alla asserita violazione dell'art. 220, disp. att. p.p., atteso che, non pur essendovi alcun dubbio che in tale fase si procedesse a carico di soggetti indagati, il tribunale del riesame ha dato atto che l'analisi dei campioni di materiale prelevato, non comportando la distruzione del campione, non può essere considerata irripetibile''.

    Due imprenditori - condannati per il reato di cui all'art. 437 c.p., in quanto ``aprivano e gestivano un cantiere edile senza rispettare alcuna disposizione antinfortunistica con riguardo ai rischi di folgorazione, di caduta, d'inciampo, di crollo e in generale di prevenzione degli infortuni sul lavoro'' - lamentano ``l'utilizzazione della nota del D.P.S.A.L. (dipartimento di prevenzione e sicurezza ambienti di lavoro) della ASL, trattandosi di un'ispezione effettuata in mancanza dell'apposito decreto del P.M. e senza avere dato avviso agli indagati e ai difensori'', con la conseguenza che ``gli elementi acquisiti in forza di tale atto sono inutilizzabili''. La Sez. I non è d'accordo. Premette che ``al servizio per la prevenzione e la sicurezza negli ambienti di lavoro sono attribuite le funzioni di controllo, vigilanza e di promozione della salute e della sicurezza negli ambienti di lavoro con lo scopo di contribuire alla prevenzione delle malattie professionali e degli infortuni sul lavoro e al miglioramento del benessere del lavoratore'', e che ``il tecnico della prevenzione, operante nel servizio per la prevenzione e la sicurezza negli ambienti di lavoro, è, nei limiti delle proprie attribuzioni, ufficiale di polizia giudiziaria e collabora con l'autorità giudiziaria nelle indagini inerenti alla propria materia di competenza''. Sottolinea che ``i tecnici della prevenzione della ASL, nell'ambito delle funzioni amministrative e di polizia giudiziaria, possono compiere una mera attività descrittiva dello stato dei luoghi'', e che ``lo svolgimento da parte della polizia giudiziaria di una mera attività di osservazione descrittiva dello stato dei luoghi, eventualmente documentata con rilievi fotografici, non è assimilabile all'ispezione dei luoghi disciplinata dall'art. 244 c.p.p., posto che tale ultima attività ha ad oggetto l'accertamento delle `tracce' e degli `altri effetti materiali del reato'''.

    ``I verbali ispettivi dell'Azienda per l'assistenza sanitaria della Regione Friuli hanno natura amministrativa e non costituiscono atti che richiedono la nomina o assistenza di un difensore di fiducia, secondo le regole del codice di procedura penale. Gli art. 20 e seg. D.Lgs. n. 758/1994, premessa la competenza dell'Amministrazione a vigilare sul rispetto delle norme in materia di sicurezza sul lavoro e salute dei lavoratori, prevedono che gli ispettori abbiano compiti di vigilanza, ma al contempo, di propulsione al fine della soluzione delle criticità individuate. Il sistema normativo è congegnato in modo tale da prevedere che l'organo di vigilanza, nell'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria di cui all'art. 55 c.p.p., abbia la possibilità di impartire al contravventore un'apposita prescrizione, fissando per la regolarizzazione un termine non eccedente il periodo di tempo tecnicamente necessario; tale termine è prorogabile a richiesta del contravventore, per la particolare complessità o per l'oggettiva difficoltà dell'adempimento, ma in nessun caso esso può superare i sei mesi; tuttavia, quando specifiche circostanze, non imputabili al contravventore, determinano un ritardo nella regolarizzazione, il termine di sei mesi può essere prorogato per una sola volta, a richiesta del contravventore, per un tempo non superiore ad ulteriori sei mesi, con provvedimento motivato che è comunicato immediatamente al pubblico ministero. Con la prescrizione, l'organo di vigilanza può imporre specifiche misure atte a far cessare il pericolo per la sicurezza o per la salute dei lavoratori durante il lavoro. Resta tuttavia fermo l'obbligo dell'organo di vigilanza di riferire al pubblico ministero la notizia di reato inerente alla contravvenzione ai sensi dell'art. 347 del codice di procedura penale. Solo se e quando il pubblico ministero riceve la notizia di reato e ritiene di esercitare l'azione penale è possibile parlare di procedimento penale con le garanzie difensive previste dalla legge. Nella fase precedente, solo interlocutoria, il rapporto si instaura tra gli ispettori e la parte che non ha bisogno di alcuna garanzia difensiva particolare, se non quella di cui essa stessa ritenga di dotarsi. Tanto è avvenuto nel caso di specie, in cui gli ispettori hanno redatto il verbale con le prescrizioni e l'imputato ha chiesto un termine di 180 giorni, regolarmente ottenuto per i relativi adempimenti, salvo poi la verifica da parte dell'organo di vigilanza ai sensi del successivo art. 21 D.Lgs. n. 758/1994 dell'inottemperanza e l'obbligo puntualmente adempiuto della trasmissione della comunicazione della notizia di reato al pubblico ministero che ha esercitato l'azione penale. La giurisprudenza, sia pure con alcuni distinguo non rilevanti nella specie, è costante nel valutare questi atti amministrativi come extraprocessuali e non necessitanti la nomina del difensore di fiducia per il destinatario''.

    Condannato per la violazione dell'art. 14, comma 1, del D.Lgs. n. 66/2003 ``per avere occupato una lavoratrice notturna in assenza di preventiva visita medica di idoneità'', il presidente di un circolo privato lamenta il ``fatto che il giudice ha utilizzato le dichiarazioni rese durante le indagini preliminari da una teste mai sentita in dibattimento'', e, segnatamente, ``il verbale contenente le dichiarazioni rese agli Ispettori del Lavoro dalla lavoratrice la sera stessa dell'ispezione nel locale, nonché le affermazioni dell'imputato''. La Sez. III replica che ``il verbale dell'ispettore del lavoro non costituisce mera informativa di reato ai sensi dell'art. 347 c.p.p., poiché contiene l'accertamento o la descrizione di una situazione di fatto suscettibile di modifica nel tempo, per effetto di comportamenti umani o di eventi naturali'', e ``va, pertanto, annoverato tra gli atti non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria (art. 431, lettera b, c.p.p.); come tale, va inserito nel fascicolo per il dibattimento e ne va data lettura a richiesta di parte o su iniziativa del giudice (art. 511, comma 1 c.p.p.), essendo utilizzabile come fonte di prova''. Aggiunge che ``in ogni caso la colpevolezza dell'imputato è stata affermata non esclusivamente sulla base delle dichiarazioni fatte all'ispettore del lavoro in occasione del controllo dalla lavoratrice (dichiarata irreperibile senza peraltro alcuna opposizione del difensore), ma anche sulla scorta delle affermazioni dello stesso imputato nella parte in cui ha ammesso che la ragazza in questione riceveva periodicamente una somma di danaro''. Ne desume che ``ciò esclude qualunque violazione del principio di cui all'art. 526 c.p.p. e di quelli contenuti nell'art. 6 della CEDU come interpretati dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (nel senso che può astrattamente concepirsi una deroga al principio della formazione della prova in contraddittorio purché, naturalmente, la condanna non si sia basata esclusivamente sulle dichiarazioni rese in fase anteriore al dibattimento su cui non si è avuto modo di replicare: cfr. tra le varie, sentenza del 3 dicembre 2013, n. 35842/2005, Vararu c/Romania)''. La conclusione è che ``non merita censura la sentenza che, con riferimento alla posizione della lavoratrice, ha desunto l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato sulla scorta delle dichiarazioni rese a verbale dalla donna, e sulle dichiarazioni dell'imputato''.

    «Il verbale di ispezione, pur essendo stato ammesso, come prova documentale, su richiesta del P.M., verosimilmente non era stato da questi consegnato al giudice e conseguentemente non era stato inserito nel fascicolo del dibattimento. Si trattava dunque di prova documentale ammessa ma non materialmente acquisita agli atti del dibattimento. Quando, al termine dell'istruttoria, la difesa dell'imputato ne ha chiesto l'acquisizione, ai sensi dell'art. 507 c.p.p., il giudice, avendo appreso dal P.M. che detto verbale non era presente nel suo fascicolo, avrebbe dovuto disporre, eventualmente, l'acquisizione materiale del verbale previe ricerche presso il competente ufficio a cura del P.M., o, se riteneva di poterne fare a meno alla luce delle risultanze emerse dall'istruttoria dibattimentale, avrebbe dovuto revocare l'ordinanza ammissiva della prova documentale. Tuttavia, pur in assenza di detti adempimenti, l'ordinanza L1 con la quale il giudicante ha respinto la richiesta di acquisizione del verbale ex art. 507 c.p.p. può intendersi come implicita revoca dell'ordinanza ammissiva della prova, ai sensi dell'art. 431 c.p.p., revoca del tutto plausibile alla stregua della deposizione del teste ispettore della ASL e del verbale di prescrizioni, ritenuti elementi sufficienti ai fini della decisione, tanto più che il predetto teste aveva riferito nel corso della deposizione il contenuto del verbale stesso a sua firma. Conseguentemente non ricorrono i requisiti della decisività della prova proprio perché la responsabilità dell'imputato è stata desunta dalla deposizione dell'ispettore dell'ASL, sentito come teste in dibattimento, il quale ha confermato e descritto le risultanze dell'ispezione dal medesimo eseguita, provvedendo a firmare il relativo verbale che documentava le operazioni effettuate».

    Condannato per più violazioni al TUSL, un datore di lavoro lamenta la inosservanza degli artt. 356, 180, 182, comma 2, c.p.p. e 114 disp. att. c.p.p., sul presupposto che gli operatori del dipartimento di prevenzione della Azienda UsI avrebbero effettuato il sopralluogo senza riconoscere all'indagato la facoltà di nominare un difensore che potesse assistervi. La Sez. III ribatte: «Gli ispettori del lavoro hanno facoltà di visitare, in qualsiasi momento ed in ogni parte, i luoghi di lavoro e le relative dipendenze, di sottoporre a visita medica il personale occupato, di prelevare campioni di materiali o prodotti ritenuti nocivi, e, altresì, di chiedere al datore di lavoro, ai dirigenti, ai preposti e ai lavoratori le informazioni che ritengano necessarie per l'adempimento del loro compito, in esse comprese quelle sui processi di lavorazione. Nel caso in cui gli ispettori procedono ad accertamenti amministrativi (cioè, se non è accaduto un infortunio o non si è verificata una malattia professionale o un incendio, o non c'è stata una segnalazione di probabile reato, nel qual caso trattasi di indagine preliminare nell'ambito del procedimento penale, e, dunque, di un accertamento giudiziario), non vengono applicate le norme garantiste dettate dal codice di procedura penale in merito alla presenza del difensore. Di contro, qualora l'ispettore agisca nella sua veste di ufficiale di polizia giudiziaria è obbligato ad avvisare il destinatario dell'accertamento della facoltà di nominare un difensore di fiducia, che deve assistere all'interrogatorio. Nel caso di specie, è fuor di dubbio che il funzionario del dipartimento di prevenzione e sicurezza dell'USL stesse svolgendo una attività di vigilanza, a carattere amministrativo, con la conseguenza che non era tenuto, in sede di accertamento delle rilevate violazioni, ad ottemperare al disposto di cui all'art. 356 c.p.p.».

    L'art. 223 disp. att. c.p.p. contempla le garanzie a tutela dell'interessato qualora nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti si debbano eseguire analisi di campioni. Utili al riguardo sono:

    Nell'ambito di un procedimento penale per omicidio colposo in danno di un lavoratore per tumore polmonare da amianto, gli imputati lamentano, in particolare, la violazione dell'art. 223 disp. att. c.p.p., in quanto era stato utilizzato «il verbale delle analisi dell'ARPA compiuto nell'esercizio di poteri ispettivi e di vigilanza senza il rispetto delle garanzie di cui all'art. 223 cit.». Al riguardo, la Sez. IV premette che «in tema di analisi di campioni nel corso di attività ispettive o di vigilanza per le quali non sia prevista la revisione, il mancato avviso all'interessato del giorno, dell'ora e del luogo delle analisi rende inutilizzabili i risultati ed i relativi verbali non possono essere raccolti nel fascicolo per il dibattimento». Peraltro, sottolinea che, «nel caso di specie, l'ARPA ebbe a recarsi presso lo stabilimento, non per svolgere attività di ispezione e controllo, ma per gli adempimenti di cui all'art. 34, D.Lgs. n. 277/1991 [v. ora art. 256, D.Lgs. n. 81/2008]», e che, in forza di tale norma, «il datore di lavoro predispone un piano di lavoro prima dell'inizio dei lavori di demolizione o di rimozione dell'amianto, ovvero dei materiali contenenti amianto, dagli edifici, strutture, apparecchi e impianti, nonché dai mezzi di trasporto», e «il piano di cui al comma 1 prevede le misure necessarie per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori e la protezione dell'ambiente esterno». Rileva ancora che «la disposizione continua prevedendo che l'organo deputato a valutare l'adeguatezza del piano (nel caso di specie l'ARPA) possa anche disporre specifiche prescrizioni di sicurezza». Ne ricava che «gli accertamenti furono svolti non a sorpresa, in adempimento di compiti di controllo e repressione, ma secondo una procedura attivata dalla stessa impresa che aveva chiesto all'ARPA l'avallo del piano di demolizione e rimozione dell'amianto che, pertanto, implicitamente già si ammetteva essere presente in azienda». Di qui la conclusione che, «mancando il presupposto dell'applicabilità dell'art. 223 disp. att. c.p.p. e cioè che, ai sensi dell'art. 220 disp. att. c.p.p. si sia trattato di attività ispettiva e di vigilanza diretta ad acquisire indizi di reato; essendo stata svolta, invece, detta attività su stimolo della stessa impresa, coinvolta nella procedura del citato art. 34, insussistente è la violazione di legge lamentata e, conseguentemente correttamente il giudice di merito ha ritenuto utilizzabili gli accertamenti svolti dall'ARPA».

    «L'ispezione dello stabilimento industriale, il prelievo e il campionamento, le analisi dei campioni, configurano attività amministrative che non richiedono l'osservanza delle norme del c.p.p. stabilite a garanzia degli indagati per le attività di polizia giudiziaria, atteso che l'unica garanzia richiesta per le anzidette attività ispettive è quella prevista dall'art. 223 disp. att. c.p.p. che impone il preavviso all'interessato del giorno, dell'ora e del luogo dove si svolgeranno le analisi dei campioni. Soltanto se le operazioni di prelievo siano state eseguite su disposizione del magistrato o se sia stato individuato un soggetto determinato, indiziabile di reati, trovano applicazione le garanzie difensive previste dal c.p.p. stante che le ispezioni, i prelievi dei campioni e la loro prima analisi s'inquadrano nella vigilanza amministrativa a tutela della salute pubblica e, in quanto intervengano prima che ci sia un indiziato di reato, non possono essere considerati atti d'indagine preliminare. Qualora l'analisi dei campioni abbia dato esito sfavorevole sorgono indizi di reato e da quel momento vanno applicate le norme procedurali per l'intervento del difensore».

    Nell'ambito di un procedimento penale per più violazioni contravvenzionali, gli imputati lamentano «la violazione dell'art. 178, lettera c), c.p.p., nonché degli artt. 244, 364 e 370 c.p.p., avendo l'Ispettore eseguito un'ispezione senza delega del P.M. e in presenza di soggetto indagato con conseguente inutilizzabilità dei rilievi fotografici eseguiti». La Sez. III osserva: «Poiché nella specie venne effettuata, su delega del P.M., un'attività di mera descrizione dello stato dei luoghi corredata da rilievi fotografici, e non già un'ispezione, nessuna applicabilità dell'art. 364 c.p.p. con i correlativi obblighi di avviso, si imponeva, con conseguente legittimità degli atti posti in essere. In ogni caso, quand'anche si opinasse diversamente, va ricordato che la violazione dell'obbligo di avvertire l'indagato che ha possibilità di farsi assistere dal difensore per il compimento di alcuni atti di indagine determina unicamente una nullità a regime, cosi detto, intermedio di ordine generale che, essendo pertinente alla fase delle indagini preliminari - ed essendosi, dunque, verificata necessariamente prima del dibattimento - deve essere eccepita non oltre il giudizio di primo grado. Nella specie, invece, non risulta che alcuna eccezione sia stata svolta dalla difesa che, anzi, nulla ha opposto alla richiesta in limine del P.M. di acquisizione al fascicolo del dibattimento delle fotografie in oggetto quale mezzo di prova ex art. 493 c.p.p.» (Conforme Cass. 17 gennaio 2011, n. 795).

    Oltre a Cass. 21 gennaio 2019 (retro, al par. 1), v.:

    ``Il divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria, contenuto nell'art. 195, comma 4, c.p.p., non riguarda i casi in cui la deposizione del teste di polizia giudiziaria non ha valore surrogatorio di quella del teste primario, ancorché non ancora acquisita nel processo, ma è solo illustrativa dello sviluppo dell'indagine e della complessiva coerenza degli elementi di prova raccolti, anche con riferimento all'evidenziazione di eventuali contrasti tra la dichiarazione resa dal teste alla polizia giudiziaria e quella dallo stesso resa in sede dibattimentale. Nel caso di specie la persona offesa è stata escussa in dibattimento''.

    Condannato per più violazioni antinfortunistiche, un datore di lavoro lamenta che ``il tribunale, erroneamente, aveva ritenuto utilizzabili le dichiarazioni rilasciate, nel corso dell'istruttoria dibattimentale dal funzionario ispettivo, la quale aveva riferito in merito alle dichiarazioni rese da una lavoratrice nel corso dell'accertamento ispettivo, senza che tali dichiarazioni fossero state debitamente verbalizzate''. La Sez. III ribatte: ``L'accertamento è scaturito dall'attività di controllo dell'ispettrice, la quale non si è limitata a una verifica formale, ma ha operato una sorta di `intervista' alla lavoratrice sulle conoscenze in suo possesso, ricevendo da ciò conferma del fatto che la stessa, non solo sul piano formale, non era stata edotta delle informazioni previste dall'art. 36, comma 1, D. Lgs. n. 81/2008. Dunque, oltre a non esservi traccia documentale delle notizie prima indicate, la lavoratrice ha in ogni caso mostrato di non averne un'adeguata conoscenza, palesando incertezze su alcune domande esplorative, tipo quella sulla ubicazione degli estintori del locale ricettivo dove ella lavorava come cameriera. Alla luce di tale controllo, deve quindi affermarsi che il giudizio di responsabilità dell'imputato è stato fondato non sulle dichiarazioni de relato dell'ispettrice, ma solo su contenuti narrativi derivanti da una percezione diretta del teste, ciò in sintonia con il condiviso orientamento di questa Corte, secondo cui il divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali o agenti di polizia giudiziaria non riguarda i dati di fatto direttamente percepiti dall'agente, tra i quali sono stati ricompresi anche gli stati emotivi delle persone osservate, per cui l'utilizzabilità della testimonianza dell'ufficiale di polizia giudiziaria deve ritenersi a maggior ragione riferita anche alle reazioni della lavoratrice rispetto alle sollecitazioni finalizzate a verificare, in assenza di riscontri documentali, la conoscenza da parte della stessa delle informazioni sulla sicurezza che avrebbe dovuto ricevere dal datore di lavoro''. Conclusione: ``legittimità della deposizione della teste, dovendosi escludere un obbligo di verbalizzazione degli esiti scaturiti dai quesiti esplorativi rivolti dall'ispettrice del lavoro''.

    L'imputato eccepisce l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall'ispettore del lavoro che avrebbe fatto inammissibilmente riferimento a informazioni apprese da terzi e a documenti non prodotti. In disparte ogni inutile divagazione sulla utilizzabilità delle dichiarazioni `de relato' apprese in sede ispettiva ai sensi dell'art. 220, disp. att., c.p.p., resta il fatto che l'ispettore del lavoro ha fatto riferimento al contenuto dei verbali di sopralluogo del coordinatore per la sicurezza e al fatto che il piano di montaggio, smontaggio e manutenzione del ponteggio era stato redatto proprio dalla s.r.l. dell'imputato. La (dedotta) mancata produzione di tali documenti non condiziona affatto la validità e l'utilizzabilità dell'informazione resa dal pubblico ufficiale, non essendo subordinata a tale adempimento formale da alcuna norma del codice di rito. La testimonianza può ben avere ad oggetto anche il contenuto di documenti, anche se non prodotti. Peraltro, con riferimento al PIMUS, l'ufficiale di P.G. ha dato conto di un fatto: la redazione del documento ad opera della società legalmente rappresentata dall'imputato. Non si tratta, dunque, della testimonianza sul contenuto dell'atto''.

    In un procedimento per contravvenzioni antinfortuni, la datrice di lavoro si duole che sia stata utilizzata dal tribunale la deposizione dell'ispettore Burgio che avrebbe riferito di atti di indagine compiuti da altri agenti di polizia. Tuttavia, l'art. 195 c.p.p., comma 2, prescrive l'audizione del teste di riferimento solo su istanza di parte. Non è possibile censurare il mancato esercizio, da parte del giudice, di un potere officioso discrezionale.

    Nel ritenere utilizzabili le dichiarazioni del teste che riferisce «quanto accertato nell'espletamento dell'attività di indagine svolta nella sua qualità di ispettore in materia di lavoro, intervenuto sul luogo dell'infortunio per gli accertamenti, testimone quindi particolarmente esperto in materia infortunistica», la Sez. IV insegna: «il divieto di apprezzamenti personali del testimone non è riferibile ai fatti direttamente percepiti dallo stesso, al quale, a causa della speciale condizione di soggetto qualificato, per le conoscenze che gli derivano dalla sua abituale e specifica attività, non può essere precluso di esprimere apprezzamenti, se questi sono inscindibili dalla deposizione sui fatti stessi».

    Non di rado a propria discolpa, il datore di lavoro (e/o chi per/o con lui) asserisce che una determinata carenza nelle misure di prevenzione e protezione non era stata rilevata dall'organo di vigilanza in occasione di attività ispettive. Questa l'abituale replica della Corte Suprema:

    ``La responsabilità colposa del datore di lavoro per l'infortunio accorso al lavoratore non è esclusa dalla circostanza che in occasione di visite ispettive non siano stati mossi rilievi in ordine alla sicurezza di una macchina o alla regolarità di impianti, in quanto la normativa antinfortunistica pone direttamente a carico dell'imprenditore l'obbligo di attuare le misure previste e di accertarsi della loro esistenza, ed il destinatario di tale obbligo non può eluderlo trincerandosi dietro (sempre possibili) carenze o superficialità di osservazione verificatesi nel corso di ispezioni, oppure dietro pareri sommariamente espressi''. (Conforme Cass. 29 settembre 2022 n. 36785).

    ``In merito alla valenza del mancato rilievo da parte degli organi ispettivi del difetto strutturale della gru, quella valenza a favore del garante deve ritenersi solo se la fonte di pericolo è ignorata dal medesimo del tutto incolpevolmente''.

    ``L'utilizzazione di un macchinario non conforme alle disposizioni a tutela della sicurezza, anche qualora sia risultata esente da censure in occasione di precedenti ispezioni, non esime da responsabilità il datore di lavoro o il soggetto cui è demandata nell'ambito dell'impresa la cura della prevenzione degli infortuni sul lavoro''.

    ``Il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. Pertanto, non è sufficiente che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico se il processo tecnologico cresce in modo tale da suggerire ulteriori e più sofisticati presidi per rendere la stessa sempre più sicura. L'art. 2087 c.c., infatti, nell'affermare che l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa misure che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, stimola obbligatoriamente il datore di lavoro ad aprirsi alle nuove acquisizioni tecnologiche. La circostanza che in occasione di visite ispettive non siano stati mossi rilievi in ordine alla sicurezza della macchina non può essere invocata per escludere la responsabilità del datore di lavoro, atteso che la punibilità dei reati colposi non è esclusa da un qualsiasi errore sul fatto che costituisce reato ma (per i reati colposi) solo dall'errore non determinato da colpa, ai sensi dell'art. 47 c.p.''.

    La Corte Suprema si è occupata di un tema scottante quale quello inerente alla corresponsabilità degli ispettori (per uno spunto, in motivazione, v. Cass., sez. un., 30 gennaio 1991, Tescaro, in Guariniello, Sicurezza del lavoro e Corte di Cassazione, Milano, 1994, 62).

    Due tecnici del servizio di prevenzione dell'ambiente istituito presso l'ARPA, incaricati di coordinare e svolgere le pratiche ed i controlli relativi alle procedure di fertirrigazione da parte di due aziende, furono imputati di aver ``omesso, per negligenza od imperizia, di eseguire le attività istituzionali di controllo sulla predetta attività, in tal modo non impedendo, pur essendone legalmente tenuti, le attività illecite ascritte ai responsabili di tali aziende (violazione dell'art. 256 D.Lgs. n. 152/2006, in relazione all'art. 192 del medesimo D.Lgs., in quanto avevano sversato illecitamente rifiuti speciali pericolosi, consistenti nei fanghi derivanti dalla attività di troticoltura dai medesimi svolta, nelle acque superficiali di fiumi ovvero spandendoli sul terreno attraverso la metodica della fertirrigazione condotta in violazione delle disposizioni che la regolano)''. La Sez. III rileva: ``La responsabilità omissiva per non avere impedito la verificazione di un evento grava sul soggetto solo ed in quanto egli, investito di una cosiddetta posizione di garanzia, abbia l'obbligo giuridico di impedirlo. Il tribunale ha attribuito ai due funzionari dell'Arpa il compito stabile di curare la verifica delle procedure amministrative volte a controllare la correttezza dello svolgimento delle fertirrigazioni, ma nulla ha detto in ordine alla fonte, provvedimentale o legale, di tale investitura''.

    Il GIP prima e il Tribunale del riesame poi non avevano accolto la richiesta del Pubblico Ministero di applicazione di misura interdittiva nei confronti di due funzionarie dell'A.R.P.A. «indagate per il reato di cui agli artt. 40, comma 2, c.p. e, 260, D.Lgs. n. 152/2006, perché, consapevoli della esistenza dei rifiuti ospedalieri sul sito da bonificare, sia perché portate a conoscenza della esistenza di tali rifiuti telefonicamente e tramite comunicazione scritta all'ASS n. 5, sia per averne constatata la presenza in sito e sulla base di documentazione fotografica, non procedevano ad alcun controllo sostanziale sulle operazioni di rimozione e smaltimento del rifiuto, di tal ché non impedivano che lo stesso fosse gestito come semplice terra, consentendone il conferimento con il codice errato in discarica non autorizzata».

    In seguito a ricorso del Pubblico Ministero, la Sez. III annulla con rinvio l'ordinanza del Tribunale del riesame. Premette che «l'A.R.P.A. è un ente di diritto pubblico, preposto all'esercizio delle funzioni e delle attività tecniche per la vigilanza e il controllo ambientale, delle attività di ricerca e di supporto tecnico-scientifico, nonché alla erogazione di prestazioni analitiche di rilievo sia ambientale che sanitario». Ne ricava che è «errato ritenere che il pubblico ufficiale preposto al controllo e alla vigilanza ambientale, che venga a conoscenza della esistenza di rifiuti interrati e partecipi alle operazioni di rimozione, non assuma una posizione di garanzia, in relazione alle sue condotte omissive poiché il D.Lgs. n. 152/2006 non prevede specificamente che si debba interessare della tipologia e dello smaltimento del rifiuto, in quanto, peraltro, cosi ragionando si va a negare la causa del potere esercitato». Rileva che «tra i compiti fondamentali posti in capo alle Regioni (e alle Province), secondo quanto previsto dall'art. 196 del citato D.Lgs. n. 152/2006, rientra la predisposizione dei piani regionali di gestione dei rifiuti, con esercizio, tra le altre, di funzioni attinenti al controllo periodico su tutte le attività di gestione, intermediazione e commercio dei rifiuti predetti, compreso l'accertamento delle violazioni delle disposizioni in materia», e che, «per l'esercizio delle funzioni de quibus le Regioni e le Province si avvalgono del supporto dell'A.R.P.A., per cui, l'affermazione del giudice di merito, secondo la quale non sarebbe ravvisabile nella specie la esistenza di una norma di copertura in grado di legittimare una contestazione ex art. 40 cpv c.p. nei confronti delle prevenute non risulta corretto». Prende atto che «il p.m. ricorrente rileva la sussistenza in capo alle indagate della ipotesi di responsabilità penale, in quanto esse non hanno eseguito o non hanno fatto eseguire il controllo che avevano l'obbligo giuridico di operare, pur avendo avuto contezza dell'attività illecita posta in essere».

    A seguito del crollo di un edificio dovuto ad una fuga di gas metano, riportarono lesioni letali due operai intenti alla installazione di una nuova tubatura del gas nell'androne dell'edificio. In primo grado, il Tribunale condanna per i reati di omicidio e crollo colposi di cui agli artt. 589 e 449 c.p. anche tre funzionari della ASL addetti alle periodiche ispezioni annuali dell'impianto ascensore, con «l'addebito di non aver rilevato la presenza di un tubo di adduzione del gas, privo di contro tubo di protezione, all'interno del pozzetto terminale del vano corsa, in violazione del divieto di far passare nel vano in questione tubazioni o condutture non appartenenti all'impianto». La Corte d'Appello dichiara non doversi procedere per intervenuta prescrizione, dopo che le costituzioni di parte civile erano state revocate.

    Nel ricorrere per cassazione, gli imputati sostengono che «la legge n. 1415/1942 imponeva esclusivamente una verifica sullo stato di conservazione dell'impianto e sul suo normale funzionamento», che «il D.P.R. n. 1497/1963, nel porre il divieto di installare condutture non appartenenti all'impianto, fa riferimento esclusivamente agli apparati di successiva costruzione, posto che viene espressamente consentito il permanere di canne fumarie, condutture o tubazioni preesistenti», che «l'art. 18 del predetto D.P.R. definisce le funzioni ispettive solo con riferimento alla verifica di efficienza dell'impianto e dei dispositivi di sicurezza». Ne inferiscono che «di tubi e canne impropriamente installati dell'impianto è tenuto a preoccuparsi esclusivamente il proprietario dell'immobile unitamente all'installatore». Sostengono che «il D.P.R. n. 162/1990 consente di ritenere che il ruolo degli ispettori non è volto a prevenire il rischio specifico dell'evento verificatosi».

    Nel respingere i ricorsi, la Sez. IV rileva, in particolare, che «la questione di diritto qui prospettata, afferente ai limiti delle funzioni di controllo affidate agli imputati nel corso delle ispezioni annuali, è in definitiva priva di rilievo alla luce dei fatti accertati nel processo». Spiega che «le pronunzie di merito hanno concordemente ritenuto che l'esplosione letale è stata determinata da una miscela di gas ed aria formatasi nel vano ascensore a seguito della fuoriuscita dello stesso gas da un foro esistente nel tubo di adduzione che si trovava all'interno del vano in questione». Prende atto che «in epoca risalente, la ditta realizzatrice delle opere murarie per la creazione della fossa di fine corsa intercettò il tubo in questione e `scelleratamente', per esigenze tecniche, segò il contro tubo di protezione comprimendo addirittura la conduttura in piombo e saldandola alle estremità con malta cementizia», e che, «per effetto di tale intervento, nel vano in questione, era visibile una tubatura di circa 20 cm. cromaticamente ben distinguibile ed altamente pericolosa». Ritiene che «tale particolare anomalia avrebbe potuto e dovuto essere rilevata nel corso delle ispezioni». Da tale ricostruzione della vicenda, ricava che «l'addebito mosso agli imputati non attiene alla discussa compatibilità di preesistenti tubature con le successive opere inerenti al ridetto vano ascensore», e «invece attiene alla mancata rilevazione di una situazione di altissimo pericolo dovuta alla presenza, agevolmente rilevabile, di una tubazione che, per via degli scriteriati interventi di cui si è detto, presentava una specifica, anomala pericolosità che poteva e doveva essere con prontezza rilevata nel corso delle ispezioni».

    Una notte del 1995, all'interno di un hotel, scoppia un violento incendio, muoiono sette ospiti (sei in seguito a intossicazione acuta da esalazioni di ossido di carbonio nello loro stanze, la settima per le lesioni riportate cadendo al suolo dopo essersi gettato dalla finestra della propria camera), rimangono ferite altre tredici persone lanciatesi dalle finestre. Quasi sette anni dopo, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere dichiara colpevoli l'amministratore unico dell'hotel, il comandante provinciale dei vigili del fuoco e un ufficiale dei vigili del fuoco, dei delitti di incendio ex artt. 449 e 423 c.p., nonché di omicidio colposo plurimo e lesioni personali colpose cagionate a più persone ex art. 589, commi 1 e 3, c.p. (in passato, su possibili responsabilità del comandante dei vigili del fuoco, v. sub art. 2). Passano altri due anni: in appello, l'amministratore dell'hotel patteggia; gli altri due imputati vengono prosciolti dai reati loro ascritti per prescrizione. Nel respingere i ricorsi presentati dai due pubblici ufficiali e dal responsabile civile Ministero dell'Interno, la Sez. IV sviluppa una analisi di particolare rilievo.

    A) Un primo tema concerne la colpa, e, per cominciare, la colpa attribuita al comandante per «l'ingiustificato ritardo con il quale egli aveva affidato, soltanto nel mese di novembre del 1994, all'ufficiale l'incarico di istruire la pratica del rinnovo del CPI dell'Hotel (scaduto nel mese di maggio di 1991), il cui gestore aveva presentato la relativa domanda nel mese di marzo del 1991, mentre il procedimento amministrativo conseguito alla presentazione di tale domanda avrebbe dovuto essere evaso, se non entro giorni 30 ai sensi della legge n. 241/1990 (non essendo stato preventivamente fissato il termine per l'adempimento), comunque nel rispetto del termine di un anno previsto dal D.M. n. 284/1993 e decorrente dalla data di presentazione della domanda o al massimo dalla data di entrata in vigore del suddetto decreto (agosto 1993)».

    In proposito, i giudici di merito avevano rilevato che «la pratica amministrativa in questione non era definibile `a tavolino', cioè senza obbligo di sopralluogo ai sensi dell'art. 4 della legge n. 818/1984, atteso che detta procedura, la quale imponeva comunque l'adozione di un provvedimento entro 90 giorni dalla data di presentazione della domanda, presupponeva, oltre alla dichiarazione del titolare dell'attività che nulla era mutato rispetto alla situazione che si presentava alla data (anno 1985) del rilascio del CPI, l'allegazione alla dichiarazione medesima di una perizia giurata avente ad oggetto l'efficienza dei dispositivi antincendio e dei sistemi di sicurezza, sicché, non avendo l'hotel presentato detta perizia, si imponeva un preventivo accertamento in loco».

    Per giunta, «si era inserito l'episodio dell'esposto inviato in forma anonima all'ufficio del comandante nel 1993, con il quale era stata denunciata l'avvenuta installazione di una cucina funzionante a GPL in un locale dell'hotel creato ad uso di pasticceria, e, se alla ricezione di tale esposto (segnalante un intervenuto mutamento della situazione di rischio) era seguita la doverosa disposizione di una visita ispettiva volta ad accertare la corrispondenza a verità di quanto segnalato nel medesimo, tuttavia il comandante dopo avere ricevuto la relazione del pubblico ufficiale nella quale costui ammetteva di non avere visionato i locali dell'hotel e di essersi accontentato, nel corso di tale visita, delle dichiarazioni resegli dall'amministratore il quale aveva negato che nella struttura alberghiera in questione venisse usato il GPL non aveva mosso obiezione alcuna all'ufficiale e non aveva preso iniziative di sorta, come invece avrebbe dovuto atteso che il suo delegato aveva contravvenuto al disposto dell'art. 14 del D.P.R. n. 577/1982 che gli imponeva di procedere di ufficio alla ispezione onde valutare direttamente e personalmente la sussistenza di fattori di rischio, a prescindere da quanto dichiarato nell'occasione dalla parte interessata». Un ulteriore profilo di colpa del comandante (in vigilando, che si aggiungeva a quello di culpa in omittendo) fu rinvenuto nel fatto che il comandante dopo che l'ufficiale, nel mese di febbraio 1995, aveva deciso di rinviare tout court la visita ispettiva per la sola ragione della indisponibilità dell'addetto al servizio di manutenzione, senza trasmettere al comandante la relazione relativa a tale circostanza, non aveva controllato l'effettiva evasione della pratica da parte dell'ufficiale e non aveva imposto a quest'ultimo di effettuare un (nuovo) sopralluogo che avrebbe consentito di accertare violazioni visibili ictu oculi e di invitare il titolare dell'esercizio a mettersi n regola e di disporre, in caso di pericolo immediato, la chiusura dell'albergo».

    B) La colpa dell'ufficiale fu invece ravvisata nell'aver «agito con superficialità, non avendo neppure esaminato attentamente la pratica affidatagli, di rinnovo del CPI dell'hotel (tanto da non essersi accorto, come da sua stessa ammissione, che il certificato era scaduto sin dall'anno 1991)», e soprattutto nel non aver «espletato l'incarico con la dovuta urgenza e diligenza, a prescindere dai termini concessi dalla legge o adottati nella prassi corrente, nonostante l'avvenuta modifica di fattori di rischio emergente dal precedente certificato nonché dalle dichiarazioni a lui rese dall'amministratore». Invero, l'ufficiale, «una volta recatosi presso l'hotel nel febbraio del 1995 per effettuare un sopralluogo, aveva deciso di rinviarlo per l'indisponibilità dell'addetto al servizio di manutenzione, mentre avrebbe dovuto procedere ai controlli che pur poteva effettuare da solo, specie quelli delle porte di accesso alle stanze degli ospiti e delle uscite di sicurezza, controlli che gli avrebbero consentito di accertare situazioni di pericolo per la pubblica incolumità».

    C) Significative sono, in particolare, alcune particolari notazioni svolte nella sentenza ancora a proposito della colpa degli imputati. Anzitutto, la Sez. IV considera irrilevante che «i termini previsti in materia, avendo carattere amministrativo, non sono perentori ma ordinator», «posto che, da un lato, la natura meramente ordinatoria di un termine non significa comunque che questo possa ingiustificatamente restare inosservato, e, dall'altro, che il carattere perentorio di un termine dato dalla legge all'Amministrazione perché questa agisca rileva nel senso che dalla sua inosservanza deriva la decadenza dall'esercizio di un potere da parte dell'Amministrazione stessa, ma non già, certamente, il venir meno del compimento di un dovere».

    Quanto poi alla «successione nel corso degli anni, in subiecta materia, di nuove norme definite come di proroga», la Sez. IV afferma, «in primo luogo, che in tanto di `proroga' è consentito logicamente, e giuridicamente, di parlare in quanto il termine prima vigente non sia ancora scaduto (come invece si dà nel caso in esame) ed, in secondo luogo, che le nuove norme concernevano, almeno per la più gran parte, l'attuazione (prevedendone i relativi termini) di nuove e più moderne misure di prevenzione e sicurezza introdotte per nuovi edifici pubblici da realizzare»: situazione in cui non versava l'hotel in questione, sicché «non ha rilevanza nel caso concreto in esame il richiamo operato nel ricorso dal responsabile civile all'intento del legislatore di contemperare le esigenze della pubblica sicurezza con quelle economiche di esercizio dell'attività alberghiera».

    Per quel che poi concerne «l'aggettivazione `ragionevole' riferita al termine da osservarsi nella definizione della pratica amministrativa di rinnovazione deI CPI dell'hotel», la Sez. IV osserva che, «se indubbiamente `ragionevole' altro non può essere se non il termine stabilito normativamente, tuttavia nel caso di specie il suddetto termine non è stato rispettato, ed è `irragionevole', nonché contra legem, la circostanza che la struttura alberghiera de qua sia stata colpevolmente lasciata attiva per oltre quattro anni in assenza di un valido certificato di prevenzione antincendi, per di più in un contesto nel quale i vigili del fuoco avevano ricevuto notizia precisa (pur se anonima) del novum della installazione nell'hotel di un impianto di cucina a G.P.L. (comportante un mutamento della situazione di sicurezza dichiarata nella domanda di rinnovo dei certificato), inazione che non può in alcun modo essere legittimata dalle disposizioni normative succedutesi nel corso degli anni in tema di sicurezza degli esercizi pubblici e di prevenzione degli incendi».

    Né - aggiunge la Sez. IV - «ha pregio il valorizzare la circostanza (pacifica) che il comandante dette impulso all'istruttoria de qua allorquando assegnò la relativa pratica al funzionario il 15 novembre 1994, cioè mesi prima del giorno 2 giugno 1995 nel quale l'incendio ebbe a verificarsi»: «è, infatti, proprio la inattività che ha preceduto tale incarico ad essere stata stigmatizzata, in una con la protratta omissione dell'esercizio del dovere di vigilanza sulla condotta dei delegato; omissione, quest'ultima, tale da porre nel nulla, ai fini dei giudizio sulla colpa, il lato `attivo' della condotta costituito dal conferimento dell'incarico dato al funzionario perché accertasse, nel 1993, la corrispondenza al vero della denunciata apertura della tavernetta adibita a locale per pasticceria e munita di cucina funzionante a G.P.L.». E a proposito di tale specifico episodio, considera «palesemente priva di fondatezza sul piano logico, prima ancora che su quello giuridico, l'affermazione che il doloso e fraudolento occultamento, da parte dell'amministratore dell'hotel, della essenziale modifica dello stato dei luoghi da lui posta in essere mediante realizzazione al piano terra di un locale destinato ad attività di supporto dell'esercizio alberghiero, comportante l'utilizzo di un ulteriore e diverso apparecchio di cottura alimentato a G.P.L. avrebbe dovuto condurre a ritenere l'insussistenza di ragioni per le quali occorresse `dare la precedenza' alla pratica di rinnovo del CPI in questione rispetto ad altre che presentavano connotazioni di ben maggiore urgenza in quanto relative ad attività svolte con il possesso del solo NOP, e ad escludere, pertanto, anche per tale via, l'esistenza della condotta colposa rimproverata agli imputati, ignari della mutata situazione fattuale». Invero, «in primo luogo i due imputati non possono fondatamente invocare a proprio vantaggio quel mancato accertamento specifico che si sarebbe dovuto comunque compiere, quale che sia stato il comportamento dell'amministratore nell'occasione, e, in secondo luogo, che in realtà non si è mai trattato di dare la precedenza alla pratica hotel rispetto ad altre in itinere, ma di evaderla sollecitamente tenuto conto della scadenza da anni del CPI e dell'allarmante notizia ricevuta (e mai controllata) del mutamento della situazione di sicurezza a causa di un intervento operato successivamente a detta scadenza».

    D) Altro tema è il nesso eziologico tra le condotte colpose rimproverate ai due pubblici ufficiali e gli eventi verificatisi. In proposito, la Sez. IV constata che «l'incendio in questione ebbe provatamente ad insorgere proprio in quel locale adibito a pasticceria, la cui cucina era alimentata a GPL e la cui esistenza non era stata accertata dal competente comando dei vigili del fuoco a causa degli omessi sopralluoghi (adempimento necessario per la definizione della pratica amministrativa del rilascio del CPI all'hotel, la quale giaceva inevasa dall'anno 1991), e che l'incendio stesso era stato determinato (cosi come accertato a mezzo di perizia) dalla formazione di una miscela infiammabile composta di aria e GPL sul pavimento del suddetto locale, attivata da scintille prodotte dal motorino elettro compressore di uno dei congelatori, funzionanti tutta la notte». Sottolinea, altresì, che «nel predetto locale adibito a pasticceria non esistevano aperture di aerazione poste in basso sulle pareti e comunicanti direttamente con l'esterno, aperture che tanto più erano indispensabili, secondo la circolare 8242 del 5 aprile 1979, in quanto la cucina era priva di rubinetti valvolati; ciò spiegava la ragione per la quale, una volta innescatasi la miscela a causa della citata scintilla elettrica, il GPL aveva generato la violenta deflagrazione la quale, oltre a provocare l'incendio dei materiali combustibili presenti nel locale, aveva causato il crollo parziale della parete divisoria con la sala Vanvitelli, costituita in parte da mattoni forati ed in parte da materiale ligneo, cosicché si era aperto un varco attraverso il quale l'incendio si era esteso alla sala, attivando la combustione delle suppellettili presenti nella stessa, per poi propagarsi, una volta sviluppatosi con estrema forza e rapidità anche per la presenza nel locale de quo di materiale infiammabile, con altrettanta velocità ai piani superiori, complice la circostanza che le porte di comunicazione tra le scale ed i corridoi erano tenute aperte da vasi di fiori». Ritiene che, «ove, almeno tre mesi prima della data dell'incendio, chi di dovere avesse espletato con la dovuta diligenza i propri, appunto doverosi, compiti d'istituto esaminando tutti gli impianti suscettibili di dar luogo ad incendi presenti all'interno della struttura alberghiera de qua e rapportando doverosamente la conformazione degli stessi alle caratteristiche della suddetta struttura, nonché controllando il rispetto, da parte del responsabile della medesima sarebbe stato indubbiamente possibile accertare la complessiva oggettiva situazione di pericolosità derivante dalla inosservanza, da parte del gestore, di plurime norme di prevenzione e sicurezza, e ad essa sarebbe stato, quindi, posto rimedio imponendo le specifiche prescrizioni del caso ed adottando tutte le misure previste e consentite dalla legge, sino a quella più drastica costituita dalla temporanea chiusura, da parte dell'organo competente, dell'esercizío fino a che non fosse stato concretamente garantito il rispetto di tutte le norme di prevenzione vigenti in subiecta materia; norme viceversa violate dall'hotel, come da constatazione oggettiva purtroppo postuma alla verificazione dell'incendio».

    Un sottufficiale dei carabinieri comandante di un nucleo dell'Ispettorato del Lavoro -sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere per fatti di corruzione propria - nega l'asserito ``pericolo di recidiva in ragione dei legami con l'ambiente criminogeno in cui l'indagato opera'', in quanto ``attualmente sospeso in via precauzionale dal servizio'' e stante ``il lasso di tempo trascorso tra la data di commissione degli ipotizzati reati e quella di esecuzione del titolo custodiale''. In accoglimento del ricorso dell'indagato, la Sez. VI annulla con rinvio l'ordinanza impugnata. Premette che ``il requisito dell'attualità del pericolo di reiterazione del reato, introdotto nell'art. 274, lett. c), c.p.p. dalla legge 16 aprile 2015 n. 47, non deve essere inteso come imminenza del pericolo di commissione di un ulteriore reato, quanto, piuttosto, come espressione di una continuità del pericolo nella sua dimensione temporale'', e che occorre apprezzare ``la potenzialità criminale dell'indagato'' e ``la effettività del pericolo di concretizzazione dei rischi che la misura cautelare è chiamata a neutralizzare''. Prende atto che, nella specie, ``il Tribunale ha spiegato: a) perché sussistano obiettive esigenze cautelari, essendo i fatti contestati espressione non di circostanze occasionali, quanto, piuttosto, di un modo strutturalmente inquinato di esercitare la pubblica funzione da parte dell'indagato; b) come l'indagato avesse nel tempo asservito in modo sistematico, spregiudicato e senza remore la propria funzione a interessi privati; c) come l'indagato, anche dopo aver appreso di essere indagato, abbia tenuto comportamenti significativi di una personalità proclive a delinquere; d) perché le esigenze cautelari permangano anche a distanza di tempo dalla commissione dei fatti e nonostante le condizioni di salute dell'indagato''. Peraltro, rileva che, ``a fronte di una deduzione specifica, relativa alla intervenuta sospensione dall'incarico dell'indagato a seguito detta esecuzione del provvedimento cautelare in esame, l'ordinanza impugnata è silente''. Sottolinea che ``il giudice di merito può ritenere sussistente il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie pure quando il soggetto in posizione di rapporto organico con la pubblica amministrazione risulti sospeso o dimesso dal servizio, purché fornisca adeguata e logica motivazione in merito alla mancata rilevanza della sopravvenuta sospensione o cessazione del rapporto, con riferimento alle circostanze di fatto che concorrono a evidenziare la probabile rinnovazione di analoghe condotte criminose da parte dell'imputato nella mutata veste di soggetto ormai estraneo all'amministrazione, in situazione, perciò, di concorrente in reato proprio commesso da altri soggetti muniti della qualifica richiesta''. Rimprovera al Tribunale di non aver ``spiegato perché nella specie le ipotizzate esigenze cautelari non possano essere soddisfatte con una misura meno afflittiva, tenuto conto non solo della sospensione dal servizio ma della circostanza che i fatti e i comportamenti che assumono valenza risalgono al più'' ad oltre due anni dall'esecuzione della misura.

    Condanna per il reato di induzione indebita di cui all'art. 319-quater c.p., per ``aver abusato della qualità di ispettore del servizio di prevenzione e sicurezza sugli ambienti di lavoro, ottenendo il versamento da parte del direttore di stabilimento presso un cantiere navale della somma di euro mille, al fine di evitare ia `scrupolosa ed analitica' verifica in ordine alle violazioni in materia di sicurezza''. La Sez. VI approfondisce l'aspetto relativo alla qualificazione della condotta in termini di tentativo di induzione indebita, ``avendo l'imputato lamentato la mancata applicazione del principio di diritto secondo cui la resistenza del privato rispetto alla condotta induttiva comporta l'esclusione della consumazione del reato''. Prende atto che il direttore ``aveva, ab origine, deciso di non accondiscendere alle richieste indebite, tant'è che aveva denunciato il fatto ben prima della dazione del denaro ed aveva provveduto a far contrassegnare le banconote, proprio per agevolare il successivo accertamento della loro ricezione da parte dell'imputato, qualora la dazione fosse stata effettivamente richiesta''. E rileva: ``Lo schema di svolgimento del fatto rientra appieno nell'ipotesi tentata, per come ricostruita dalla prevalente giurisprudenza, secondo cui le condotte del soggetto pubblico che induce e del privato indotto si perfezionano autonomamente ed in tempi diversi, sicché il reato si configura in forma tentata nel caso in cui l'evento non si verifichi per la resistenza opposta dal privato alle illecite pressioni del pubblico agente. Applicando tali principi al caso di specie, si rileva che, prima ancora della formulazione di una effettiva richiesta di dazione, il direttore aveva già da tempo allertato le forze dell'ordine, consentendo a quest'ultime di monitorare l'incontro, di predisporre l'intercettazione ambientale e di rinvenire il denaro, precedentemente fotocopiato, indosso all'ispettore. In tale contesto, la fase preparatoria e la successiva dazione sono state poste in essere nella consapevolezza, in capo all'indotto, che il reato non sarebbe giunto a consumazione, proprio perché la dazione era essenzialmente finalizzata a consentire il solo accertamento del fatto. Il fatto va, pertanto, qualificato come induzione indebita tentata ai sensi degli artt. 56 e 319-quater c.p.''. (Per altra ipotesi di tentata induzione indebita ex artt. 56, 319-quater c.p. v. Cass. 14 aprile 2020 n. 12097; nonché Cass. 31 ottobre 2018, n. 49840).

    Il responsabile del Servizio di Prevenzione e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro (S.P.E.S.A.L.) di una ASL viene dichiarato colpevole del delitto di concussione di cui all'art. 317 c.p. in danno di una ufficiale di polizia giudiziaria a lui sottoposta, costringendola a prestare ``a un terzo (imprese operanti in un villaggio) l'utilità di non essere sottoposto alla verifica in tema di sicurezza e igiene del lavoro che doveva essere avviata su sollecitazione dell'A.R.P.A. che aveva riscontrato la presenza di amianto''. Si era, infatti, accertato che ``lo S.P.E.S.A.L. venne formalmente attivato dall'A.R.P.A., tramite un fax inviato dall'ispettore, che stava effettuando verifiche ambientali relative alla presenza di amianto presso un villaggio, allo scopo di avviare una analoga attività ispettiva relativa alla protezione dei lavoratori rientrante nella competenza del Servizio, tanto che un dirigente, ricevuta la richiesta, incaricò un ufficiale di polizia giudiziaria di procedere nel senso richiesto, come la stessa si apprestava a fare, salvo esserne impedita dall'intervento dell'imputato, responsabile dello S.P.E.S.A.L. che l'aveva minacciata di toglierle l'incarico se avesse svolto gli accertamenti'', reiterando la minaccia ``anche quando risultava la positività ad amianto''. Nel confermare la condanna, la Sez. VI richiama ``il costante principio di diritto espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale nel reato di concussione il soggetto passivo è individuabile in un altro pubblico ufficiale il quale può venirsi a trovare rispetto all'agente in posizione di inferiorità psichica soprattutto se si verte nell'ambito di un rapporto gerarchico'', e ferma restando la necessità che ``il soggetto attivo operi per fini estranei alla pubblica amministrazione e, abusando della propria posizione di supremazia, persegua scopo di carattere personale, sia diretto che indiretto''. Rileva ``la gravità della minaccia e la condizione di grave sudditanza psicologica nella quale era stata posta la ufficiale di polizia giudiziaria, la quale era costantemente ostracizzata, esclusa, minacciata e ostacolata solo perché, come è emerso dalle intercettazioni, si palesava troppo rigida e scarsamente disponibile verso le aziende sottoposte al controllo dello S.P.E.S.A.L.''. Precisa, quanto all'``utilità'', che, ``ai fini della configurabilità del delitto di concussione, l'espressione `altra utilità' di cui all'art. 317 c.p. ricomprende qualsiasi bene che costituisca per il pubblico ufficiale (o per un terzo) un vantaggio, non necessariamente economico, ma comunque giuridicamente apprezzabile'' e che, ``ai fini della configurabilità del delitto di concussione, è irrilevante che il soggetto passivo sia costretto o indotto a procurare l'utilità indebita al pubblico ufficiale attraverso un `facere' o un `non facere'''. Ne ricava che ``la condotta posta in essere dall'imputato in danno della ufficiale di polizia giudiziaria rientra nello schema legale tipico della concussione, essendo la vittima (pubblico ufficiale) stata costretta ad omettere un comportamento, peraltro, doveroso dal quale poteva derivare una utilità per le imprese che non erano sottoposte alle verifiche in tema di sicurezza sul lavoro''. Sottolinea ancora che, ``essendo risultata la presenza di amianto presso la ditta titolare dei capannoni del villaggio, l'imputato, impedendo alla sua sottoposta di fare accertamenti, volesse fare conseguire alla predetta ditta l'utilità derivante dall'omesso controllo che avrebbe sicuramente comportato l'accertamento di violazioni alla normativa antinfortunistica''.

    (Per un'ipotesi di ispettore presso il presidio multizonale di igiene e prevenzione di una ASL condannato - oltre che per i reati di omicidio colposo in danno del dipendente di una società e di falso in atto pubblico (verbale di verifica rilasciato alla medesima società) - per ``numerosi episodi di tentata concussione e di concussione'' Cass. 23 giugno 2004, in ISL, 2004, 9, 573).

    I componenti di una commissione comunale di vigilanza sui locali di pubblico spettacolo furono condannati per il reato di falsità ideologica in atto pubblico di cui all'art. 479 c.p. «per aver attestato falsamente in un verbale che erano state predisposte dal comitato organizzatore per una corsa dei cavalli, le misure di sicurezza previste dalla commissione di vigilanza provinciale».

    Nel confermare la condanna, la Sez. V osserva, in particolare, che «nei delitti di falso il dolo non inest in re ipsa, ma deve essere provato, ma l'elemento psicologico in tali reati è generico, non essendo richiesto l'animus nocendi vel decipiendi»; e consiste nella coscienza e volontà della imputazione del vero, cosicché il dolo va escluso tutte le volte in cui la falsità risulti essere oltre o contro l'intenzione dell'agente». Prende atto che, nel caso di specie, i due imputati erano perfettamente consapevoli della assenza delle prescritte precauzioni per avere esaminato la zona, tanto è vero che per un'area avevano impartito alcune disposizioni ignorando volutamente la mancanza di precauzioni in relazione alla maggior parte del tracciato interessato dalla corsa dei cavalli». (Per un'altra ipotesi v. Cass. 9 aprile 2009, n. 15513, Colacino, inedita. Con riguardo a un caso di falsa attestazione in un certificato di analisi Cass. 16 luglio 2019, n. 31196. Su un caso di falso in documento informatico pubblico, omicidio e disastro colposi, contestati anche a funzionari della motorizzazione civile in rapporto a un incidente stradale con morte di quaranta passeggeri di un pullman precipitato da un'altezza di 23 metri Cass. 19 dicembre 2014, n. 53107. Per un caso di condanna di un comandante dei vigili del fuoco per “reati di falsificazione dei verbali delle verifiche degli accertamenti di idoneità dei dipendenti dell'azienda e delle attestazioni della idoneità tecnica" ex D.Lgs. n. 81/2008 cfr. Cass. 29 maggio 2023 n. 23318).

    Nel recarsi su un ciclomotore a lavorare con altri dipendenti (alcuni in nero) nella sede di un'altra azienda, un operaio agricolo fu mortalmente travolto a un incrocio da un camion. Il datore di lavoro venne imputato dei reati di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) e di falsa testimonianza (art. 372 c.p.): del primo reato, per aver falsamente dichiarato ai funzionari ispettori dell'INAIL nell'ambito dell'inchiesta infortunistica dell'ente pubblico sulla morte dell'operaio di averlo mandato a lavorare in altra sede della sua stessa azienda raggiungibile senza necessità di transitare nell'area cittadina in cui si era verificato l'incidente stradale (là dove per contro l'infortunato era stato inviato con altri a lavorare in un'azienda utilmente raggiungibile solo con la strada realmente percorsa); del secondo reato, per aver falsamente dichiarato davanti al giudice del lavoro nella causa promossa dagli eredi dell'infortunato la medesima circostanza dell'effettivo luogo di lavoro che stava raggiungendo il lavoratore al momento dell'infortunio mortale. È da notare che, pur avendo segnalato all'INAIL l'infortunio del proprio dipendente, l'imputato «aveva un personale interesse a mentire sulla dinamica dello stesso per eludere eventuali responsabilità afferenti, oltre che all'impiego di lavoratori `irregolari', allo svolgimento di un'attività commerciale interpositiva che gli avrebbe fatto perdere le agevolazioni fiscali previste per le aziende agricole». Ed è altresì da notare che «l'INAIL aveva disconosciuto il diritto pensionistico degli eredi proprio in base all'indicazione dell'imputato sul luogo di lavoro cui era diretto l'infortunato e all'apparente illogicità del percorso da lui seguito», e che «il giudice del lavoro aveva, per le stesse ragioni, respinto il ricorso ex art. 700 c.p.c. avverso la determinazione dell'INAIL».

    A propria discolpa, l'imputato sostiene, in particolare, quanto al reato di cui all'art. 483 c.p., che «le dichiarazioni rese dall'imputato all'INAIL non rientrano tra quelle fidefacenti, in relazione alle quali sussiste un obbligo di verità del dichiarante».

    In proposito, la Sez. VI premette che, alla stregua degli insegnamenti impartiti dalle Sezioni Uniti della Corte di Cassazione, «il reato di cui all'art. 483 c.p. sussiste soltanto nel caso in cui l'atto pubblico, nel quale la dichiarazione del privato è trasposta, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati, cioè quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero sui fatti che è chiamato a riferire» (v., in particolare, Cass., Sez. Un., 9 marzo 2000, Gabrielli, e Cass., Sez. Un., 31 marzo 1999, Lucarotti, in Alibrandi, Il codice penale commentato con la giurisprudenza, Piacenza, 2012, 1438, e in Garofoli, Manuale di dirtto penale, parte speciale, Roma, 2011, 774). Osserva che «i verbali degli atti compiuti dagli ispettori INAIL e dagli ispettori del lavoro nell'esercizio delle rispettive funzioni sono pacificamente assimilabili ai verbali e ai rapporti della polizia giudiziaria (trattandosi di funzionari con additiva qualifica di ufficiali di p.g.) ed hanno specifico valore probatorio, sia per quel che concerne l'accertamento dei fatti direttamente constatati dal verbalizzante funzionario, sia per quel che concerne le dichiarazioni allo stesso rese». Ne deduce «l'obbligo di verità gravante sull'imputato nell'ambito dell'inchiesta INAIL».

    La Sez. V conferma la condanna per il delitto di cui all'art. 490 c.p., ``per avere occultato, portandolo via con sé, il verbale di contravvenzione elevatogli da un appuntato dei carabinieri per violazione del divieto di fumare'': ``Manifestamente infondata è la censura volta a contrastare l'attribuzione della qualità di atto pubblico al verbale di contravvenzione redatto dall'appuntato dei carabinieri. 3.1. Nella giurisprudenza di legittimità è fermo il principio secondo cui la nozione penalistica di `atto pubblico' è più ampia di quella desumibile dall'art. 2699 c.c., dovendo in essa rientrare non soltanto i documenti che sono redatti da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato, ma tutti quegli atti, fidefacenti o non, comunque redatti o formati da pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, quand'anche interni ad un iter procedimentale complesso: ciò in quanto la legge penale ha per oggetto la tutela dell'atto pubblico non solo quale strumento probatorio, ma anche in sé e per sé, come espressione del bene giuridico della fede pubblica. Nel caso di cui ci si occupa si trattava di un verbale di accertamento della contravvenzione al divieto di fumare nei locali chiusi, di cui all'art. 51 della legge 16 gennaio 2003, n. 3, redatto da un sottufficiale dei carabinieri nell'esercizio delle sue funzioni. Del tutto fuori centro è l'accenno alla necessità che l'occultamento riguardi un atto `vero', affinché possa dirsi integrato l'illecito di cui all'art. 490 c.p. È di tutta evidenza come l'espressione `atti veri', contenuta nella rubrica del menzionato articolo, faccia riferimento al requisito dell'autenticità, e non a quello delle veridicità: il quale ultimo, comunque, era del pari presente nel verbale di contravvenzione redatto dall'appuntato. Il delitto di falso per soppressione non richiede il dolo specifico, ossia l'intenzione di frustrare o eliminare, in tutto o in parte, l'efficacia probatoria dell'atto, essendo invece sufficiente il dolo generico costituito dalla consapevolezza che, in conseguenza della condotta illecita, l'atto soppresso, distrutto od occultato non sarà in condizione di adempiere alla funzione di prova che gli è propria: consapevolezza che non poteva certo mancare all'imputato, cui era ben noto il contenuto dell'atto di cui si impossessava. Il reato si è consumato nel momento in cui l'imputato, impadronitosi del verbale, lo ha accartocciato e se lo è messo in tasca, rifiutandone la restituzione al pubblico ufficiale malgrado le sue reiterate richieste. Quanto avvenuto in seguito, e cioè la consegna fattane al pubblico ministero a procedimento penale già avviato, costituisce un post factum del tutto inidoneo a influire sull'illecito già perfezionatosi, anche sotto il profilo del dolo''.

    Nell'annullare con rinvio la sentenza di condanna di un datore di lavoro, la Sez. III osserva che tale sentenza, ``per motivare la condanna dell'imputato, si è limitata ad affermare che l'effettività dei fatti ascritti emerge dal verbale d'ispezione, confermato in sede testimoniale dall'ispettore, senza altro aggiungere. Sennonché, il mero richiamo al fatto storico del verbale d'ispezione e al fatto storico della testimonianza, senza che nulla sia specificato quanto al contenuto di nessuno dei due atti, e alla inferenza che da detto contenuto può conseguentemente trarsi circa la sussistenza dei fatti ascritti, e senza una sia pur minima valutazione critica delle risultanze, oltre a non consentire di ritenere che il giudice abbia fatto propri gli atti richiamati, impedisce di sottoporre a verifica la conclusione della sentenza nei termini di affermazione di responsabilità. Infatti, sussiste il vizio di motivazione meramente apparente, allorché il provvedimento si limiti a indicare la fonte di prova della colpevolezza dell'imputato, senza che risultino invece indicati né valutati i concreti elementi probatori raccolti dall'organo di polizia giudiziaria, sui quali, una volti acquisiti al processo, doveva esercitarsi la valutazione critica del giudice''. V. anche sub art. 2, paragrafo 48, a proposito della pianificazione idrogeologica.

    Per un'analisi delle responsabilità del prefetto e del sindaco nell'ambito della protezione civile v. Cass. 19 giugno 2014, n. 26482 in relazione all'esplosione di un ordigno bellico. Quanto alle responsabilità della protezione civile sotto il profilo inerente al rischio sismico cfr. art. 2, paragrafo 27.

    ``Per l'art. 57, comma 3, c.p.p. `sono altresì ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, nei limiti del servizio cui sono destinate e secondo le rispettive attribuzioni, le persone alle quali le leggi ed i regolamenti attribuiscono le funzioni previste dall'art. 55 c.p.p.'. Quest'ultima norma individua le attribuzioni del personale di polizia giudiziaria nel: `prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale', oltre a svolgere `ogni indagine e attività disposta o delegata dall'autorità giudiziaria'. Con specifico riferimento al settore della prevenzione va ricordato che la L. 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, all'art. 21 sotto la rubrica Organizzazione dei servizi di prevenzione, stabilisce che spetta al prefetto individuare, su proposta del presidente della regione, quali addetti ai servizi di ciascuna unità sanitaria locale, nonché ai presidi e servizi di cui al successivo articolo 22, assumano la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria in relazione alle funzioni ispettive e di controllo da essi esercitate. La disposizione, riferita al settore della sicurezza del lavoro, va coordinata con il D.L. 4 dicembre 1993, n. 496, Disposizioni urgenti sulla riorganizzazione dei controlli ambientali e istituzione dell'Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente, convertito dalla legge 21 gennaio 1994, n. 61, che, dopo avere previsto all'art. 3 l'istituzione presso le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano con atti di legislazione regionale e provinciale di Agenzie regionali e provinciali per la prevenzione e l'attribuzione della dotazione di beni strumentali e personale dipendente, all'art. 2-bis prescrive che il personale dell'Agenzia nazionale e di quelle locali `nell'espletamento delle funzioni di controllo e di vigilanza di cui al presente decreto ... può accedere agli impianti e alle sedi di attività e richiedere i dati, le informazioni e i documenti necessari per l'espletamento delle proprie funzioni'. In questa cornice normativa si inserisce il decreto del Ministro della sanità 7 gennaio 1997, n. 58, Regolamento concernente la individuazione della figura e relativo profilo professionale del tecnico della prevenzione nell'ambiente e nei luoghi di lavoro, con il quale all'art. 1, comma 2, è stabilito che `il tecnico della prevenzione nell'ambiente e nei luoghi di lavoro, operante nei servizi con compiti ispettivi e di vigilanza è, nei limiti delle proprie attribuzioni, ufficiale di polizia giudiziaria; svolge attività istruttoria, finalizzata al rilascio di autorizzazioni o di nulla osta tecnico sanitari per attività soggette a controllo'. L'art. 1, comma 1, dello stesso decreto ministeriale ha definito l'ambito delle attribuzioni del tecnico della prevenzione nei seguenti termini: `il tecnico della prevenzione nell'ambiente e nei luoghi di lavoro è l'operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, è responsabile, nell'ambito delle proprie competenze, di tutte le attività di prevenzione, verifica e controllo in materia di igiene e sicurezza ambientale nei luoghi di vita e di lavoro, di igiene degli alimenti e delle bevande, di igiene di sanità pubblica e veterinaria', mentre il successivo comma 3 dettaglia le funzioni più genericamente individuate. I citati testi di normazione primaria e regolamentare concorrono ad assegnare al tecnico della prevenzione la qualità e le funzioni di polizia giudiziaria''.

    ``Poiché la tutela dell'ambiente è materia presidiata dalla legge penale, le funzioni di vigilanza e controllo che la normativa statale riconosce ai Tecnici delle Agenzie Regionali non possono non essere ricondotte nell'alveo della previsione di cui all'art. 55 c.p.p. e, quanto alla qualifica spettante ai soggetti che ne sono titolari, alla generale previsione di cui al comma 3 del successivo art. 57 c.p.p.''.

    ``Potendo legittimamente trarsi dai verbali di polizia giudiziaria, cui sono assimilati dall'art. 57 c.p.p. quelli redatti dall'Ispettorato del Lavoro, gli elementi validi a specificare i termini delle imputazioni enunciate nei decreti di citazione, specialmente quando la rilevanza di tali atti scaturisce da una specifica normativa, il fatto contestato è comunque desumibile, in relazione alle violazioni della normativa in materia di sicurezza del lavoro, dalla preventiva contestazione all'interessato della specifica violazione consacrata nel verbale redatta dall'Ispettore per porlo in condizione di provvedere alla propria difesa e di troncare, quando sia consentito, l'esercizio dell'azione penale mediante oblazione. Proprio in ragione della speciale normativa in tale materia che prevede una peculiare causa estintiva del reato allorquando il contravventore adempie alla prescrizione impartita dall'organo di vigilanza nel termine ivi fissato e provvede al pagamento previsto (artt. 20 ss. D.Lgs. n. 758/1994), deve ritenersi, e quindi affermarsi il correlativo principio di diritto, che l'imputazione si configuri in tal caso come un atto a formazione progressiva avendo il fatto contestato nel decreto di citazione a giudizio, quale necessario presupposto, la prescrizione preventivamente impartita al contravventore da parte dell'organo di vigilanza al fine di consentire a quest'ultimo di eliminare le irregolarità da quest'ultimo rilevate. Conseguentemente, nel caso in esame il capo di imputazione non è altro che la sintesi del verbale elevato dagli Ispettori del Lavoro e consegnato all'imputata in cui le venivano contestate, con contestuale invito alla regolarizzazione, la rimozione delle misure di protezione preesistenti e la mancata installazione di presidi di sicurezza in sostituzione di quelli temporaneamente rimossi per l'esecuzione dei lavori in corso al momento del sopralluogo. Da nessuna genericità tale da ledere il diritto di difesa è pertanto affetta la relativa imputazione tanto è vero che la stessa imputata aveva, successivamente al sopralluogo, provveduto, sia pure soltanto parzialmente, a dare attuazione alle prescrizioni impartitele''. Su questo reato v., altresì, Cass. Cass. 12 aprile 2020, n. 12523, ibid., 2020, 22, 1410; Cass. 22 marzo 2019, n. 12722, ibid., 2019, 18, 1162).

    ``Sono utilizzabili nella fase procedimentale, e dunque nell'incidente cautelare e negli eventuali riti a prova contratta (quale, nella specie, il rito abbreviato), le dichiarazioni spontanee che la persona sottoposta alle indagini abbia reso - in assenza di difensore ed in difetto degli avvisi di cui all'art. 64 c.p.p. - alla polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 350, comma 7, c.p.p., purché emerga con chiarezza che la medesima abbia scelto di renderle liberamente, ossia senza alcuna coercizione o sollecitazione''.

    ``La censura di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall'imputato in fase di indagini innanzi all'ispettore dell'ASL è infondata in quanto dichiarazioni spontanee, come tali utilizzabili in sede di giudizio abbreviato. Sono utilizzabili nella fase procedimentale, e dunque nell'incidente cautelare e negli eventuali riti a prova contratta, le dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta alle indagini alla polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 350, comma 7, c.p.p., purché emerga con chiarezza che l'indagato ha scelto di renderle liberamente, ossia senza alcuna coercizione o sollecitazione''.

    ``Le dichiarazioni rese dal teste ispettore del lavoro in merito al ruolo dell'imputato nei confronti dei lavoratori della s.n.c. datrice di lavoro dell'infortunato non possono essere assimilate alle ipotesi nelle quali non opera il divieto posto dall'art. 195, comma 4, c.p.p., trattandosi di circostanze di fatto apprese dalla polizia giudiziaria in un contesto procedimentale, non inerenti alla descrizione dell'attività d'indagine in senso stretto. Quanto dichiarato dall'ispettore deve, dunque, essere qualificato in termini di dichiarazione raccolta da un agente di polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 351 c.p.p., in relazione alla quale l'art. 195, comma 4, c.p.p. pone un espresso divieto di testimoniare in capo agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, determinando la relativa violazione un vizio di inutilizzabilità assoluta della prova, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento ai sensi dell'art. 192 c.p.p.''.

    ``La questione dell'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese senza le necessarie garanzie difensive da chi sin dall'inizio doveva essere sentito in qualità di imputato o indagato non può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità se richiede valutazioni di fatto su cui è necessario il previo vaglio, in contraddittorio, da parte del giudice di merito. Nel caso di specie la relativa questione non è mai stata sollevata nei precedenti gradi di giudizio, ed anzi, avendo gli imputati acceduto al rito abbreviato, la difesa del ricorrente ha fatto ampio ricorso e largamente attinto alle dichiarazioni rese dai tre dipendenti di Trenitalia per argomentare e cercare di confutare la tesi accusatoria. Del resto, è pacifico che sia l'imputato che i suoi due colleghi siano stati sentiti nell'imminenza del fatto (il giorno stesso e quello dopo), quando ancora non potevano dirsi emersi particolari elementi di responsabilità nei loro confronti in relazione all'incidente, tanto che il tenore delle domande degli inquirenti appare chiaramente finalizzato a chiarire nell'immediatezza le modalità fattuali di quanto accaduto. E la scelta del rito abbreviato rende utilizzabili tali sommarie informazioni testimoniali in quanto acquisite legittimamente in un momento in cui la posizione processuale - in senso sostanziale - che i dichiaranti rivestivano nel momento in cui venivano sentiti, a prescindere dagli sviluppi investigativi che ne avrebbe modificato, in una fase successiva, la situazione, da originari testimoni ad imputati, non appare idonea ad inficiare gli atti legittimamente compiuti nel precedente momento procedimentale, in base al principio di conservazione degli atti e della regola ad esso connessa del tempus regit actum''.

    La Sez. III prende atto che ``il verbale di prescrizione'' venne ``notificato per compiuta giacenza, ovvero attraverso un meccanismo che esclude in radice l'effettiva conoscenza da parte del destinatario del contenuto dell'atto notificato''. Sottolinea che ``non può essere richiamata, sul punto, la giurisprudenza di questa Corte elaborata in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali all'INPS e di prescrizione in materia di sicurezza sul lavoro'', e che, ``con riferimento a tali fattispecie, la conoscenza della contestazione da parte del contravventore può legittimamente presumersi anche in caso di notificazione dell'atto effettuata in forma legale mediante raccomandata con ricevuta di ritorno, perfezionatasi per compiuta giacenza qualora la raccomandata non venga consegnata per l'assenza del destinatario e di altra persona abilitata a riceverla''. Precisa che ``si tratta di principi giurisprudenziali elaborati per fattispecie non equiparabili a quella di cui all'art. 4, ultimo comma, L. n. 628/1961, in quanto `tale disposizione sanziona penalmente coloro che, legalmente richiesti dall'Ispettorato del Lavoro di fornire notizie a norma del presente articolo, `non le forniscano o le diano scientemente errate ed incomplete'''. Ne desume che ``il precetto si incentra sulla richiesta legale da parte dell'Ispettorato del lavoro, cui il destinatario non risponda o risponda in modo consapevolmente scorretto'', e che ``proprio per questo l'effettiva conoscenza della richiesta deve essere ritenuta necessaria, perché fonte diretta dell'obbligo sanzionato penalmente, cosicché non può essere ritenuta sufficiente una notificazione per compiuta giacenza, la quale esclude, per definizione, l'effettiva conoscenza dell'atto da parte del destinatario''. Pone in risalto che ``diversi sono i casi della comunicazione del verbale di prescrizioni al datore di lavoro, redatto dall'organo di vigilanza ai sensi dell'art. 20 D.Lgs. n. 758/1994, e della comunicazione dell'avviso Inps di contestazione della violazione di cui all'art. 2, comma 1-bis, D.L. n. 463/1983'', ``trattandosi di comunicazioni dirette a soggetti i quali hanno già commesso reati e, dunque, hanno piena contezza della finalità di tali atti, provenienti dalle amministrazioni competenti e diretti ad attivare meccanismi di eliminazione o non punibilità dei reati stessi''. (V., invece, con riguardo alla notifica del provvedimento di sospensione dell'attività lavorativa, Cass. 16 ottobre 2023 n. 41873, sub art. 14, paragrafo 1).

    ``Risulta perfettamente in linea con le norme costituzionali un'interpretazione dell'art. 4 L. n. 628/1961, che comprenda - tra le condotte penalmente sanzionate di omessa fornitura delle `notizie' richieste dall'Ispettorato del Lavoro - anche il rifiuto di consegnare la documentazione specificamente richiesta, che quelle notizie contengano''.

    Arresti domiciliari per i reati di cui agli artt. 326 e 319 c.p. nei confronti di un dirigente dell'ARPA accusato ``di avere, in violazione dei doveri di correttezza e imparzialità, comunicato in anticipo all'amministratore di due s.r.l. le date dei controlli degli impianti da parte dell'ARPA per evitargli di incorrere in sanzioni''. A sua discolpa, l'indagato lamenta che ``per l'impianto vi era, già all'atto del rilascio della autorizzazione di impatto ambientale, un piano di monitoraggio e controllo che contemplava modalità di esecuzione e termini dei controlli programmati, modalità previste dagli artt. 29 D. Lgs. n. 152/2006 e dal D.M. n. 58/2017'', e che ``tuttavia, pur trattandosi di controlli programmati, il tribunale ha qualificato tutti i collaudi e i controlli come atti ispettivi o a sorpresa, nonostante i controlli dovessero essere effettuati in contraddittorio con il direttore tecnico della ditta''. La Sez. VI ribatte che ``i controlli erano tipicamente atti a sorpresa, sicché l'anticipazione dell'informazione integra la rivelazione di segreto d'ufficio, consapevolmente commessa dall'indagato''. (Per una fattispecie di controlli non eseguiti a sorpresa da parte dell'ARPA v., al paragrafo 3, Cass. 22 marzo 2012 n. 11197).

    Un funzionario dell'ispettorato del lavoro viene condannato per il reato di diffamazione, ``perché nel corso di un colloquio informativo con un lavoratore offendeva il decoro e la reputazione del datore di lavoro al quale si riferiva affermando che fosse una `testa di c.', alla presenza di altre due persone'' (funzionari dell'Inail e dell'Inps).

    A) A sua discolpa, l'imputato si riferisce, anzitutto, ``all'acquisizione del C.D. contenente la registrazione della conversazione avvenuta presso gli uffici dell'ispettorato del lavoro tra l'imputato, nella sua qualità, e il lavoratore, nel corso della quale fu pronunciata la frase incriminata''. Deduce che ``l'attività di captazione è avvenuta nel corso del compimento di attività riservata di polizia giudiziaria, assoggettata al segreto investigativo'', e, ``trattandosi di captazione avvenuta in un luogo riconducibile a quelli indicati dall'art. 614 c.p.'', rileva ``una attività integrante il reato di cui all'art. 615-bis c.p.''. La Sez. V non è d'accordo. Esclude che ``l'ufficio del nucleo ispettorato del lavoro possa costituire un luogo di privata di dimora, poiché in esso si compiono abitualmente attività di rilievo pubblico'', e nota che, ``nella specie, il colloquio informativo con un lavoratore costituiva diretta esplicazione della funzione pubblicistica svolta proprio dall'imputato, il quale non aveva neppure la disponibilità esclusiva dell'ufficio, condividendolo con i suoi colleghi che, infatti, erano presenti in quell'occasione''. Nega che ``si sia trattato di una captazione illecita'', anche alla luce dell'orientamento secondo cui ``la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, o comunque sia ammesso ad assistervi, non è riconducibile, quantunque eseguita clandestinamente, alla nozione di intercettazione, poiché, invece, costituisce una forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l'autore può disporre legittimamente, anche a fini di prova nel processo, secondo la disposizione dell'art. 234 c.p.p., salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità rivestita dalla persona che vi partecipa, nel caso di specie non ricorrenti''. Ribadisce che ``è legittimamente acquisito ed utilizzato, ai fini dell'affermazione della responsabilità penale, un filmato effettuato con un telefonino, in quanto l'art. 234 c.p.p. consente l'acquisizione non solo di scritti ma anche di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo e, al riguardo, è del tutto irrilevante che le registrazioni siano effettuate in conformità alla disciplina della privacy, la quale non costituisce sbarramento all'esercizio dell'azione penale''. Ne desume che ``una tale registrazione non costituisce intercettazione `ambientale' soggetta alla disciplina degli artt. 266 e ss. c.p.p., avendo, piuttosto, la specifica finalità di precostituire una prova da far valere in giudizio''.

    B) Altra doglianza mossa dall'imputato concerne ``l'assenza del contenuto diffamatorio nelle parole incriminate, espressive solo di un giudizio critico, pur formulato con parole colorite, tuttavia di uso comune, con cui si tendeva a stigmatizzate il comportamento datoriale di strumentalizzazione del dipendente''. In proposito, la Sez. V, pur prendendo atto di ``una china culturale anche enfatizzata particolarmente dallo strumento televisivo'', ribatte che ``la prospettazione dell'imputato si risolve in una mera petizione di principio, non confortata da alcun elemento di fatto in ordine alla tesi del comportamento datoriale scorretto che avrebbe legittimato la propalazione critica del ricorrente''. Aggiunge che ``le parole incriminate sono state pronunciate nel corso dell'espletamento di un accertamento amministrativo, in un ambito istituzionale che rivelava posizioni non paritarie tra il propalante e il destinatario dell'esternazione, che si ricordi, era un lavoratore, dipendente dell'imprenditore in siffatto modo apostrofato e persona direttamente assoggettata all'accertamento ispettivo'', e che ``l'avere pronunciato le richiamate parole nell'esplicazione del ruolo istituzionale conferisce all'esternazione una non ignorabile connotazione spregiativa, non giustificata dalla situazione di fatto, e, pertanto, in quanto non dotate di continenza, esse rendono la condotta penalmente rilevante''.

    Un ispettore del lavoro fu condannato per truffa, in quanto ``con artifizi e raggiri consistiti nell'aver tenuto, in qualità di formatore esperto in materia di sicurezza, lezioni presso diversi enti, scuole ed aziende, sebbene fosse assente dal lavoro per malattia o risultasse altrimenti presente e dedito al lavoro (così determinando un accavallamento tra l'orario di lavoro e quello di lezione), in tal modo traeva in errore la propria amministrazione ottenendo la corresponsione dell'indennità di malattia ovvero la corresponsione dello stipendio per attività lavorativa non prestata, con danno per lo Stato ed ingiusto profitto per se stesso''. Nel confermare la condanna, la Sez. II rileva: ``L'art. 53 del D.Lgs. n. 165/2001 indica il divieto per il dipendente pubblico di svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza e il divieto, per enti pubblici economici e soggetti privati, di conferire incarichi a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza, autorizzazione che deve essere richiesta dai soggetti che intendono conferire l'incarico o dallo stesso dipendente autorizzato. Nel caso in esame, siffatta autorizzazione non risulta essere stata rilasciata od anche solo richiesta dai soggetti interessati. Nessuno avrebbe impedito all'imputato di svolgere (autorizzata) attività di docenza presso enti privati, ma il predetto avrebbe dovuto svolgere detta attività al di fuori dell'orario di lavoro anche per evitare la duplicazione del relativo compenso che l'imputato ha continuato a percepire in relazione alla sua principale attività lavorativa. Gli artifizi e raggiri ben possono essere costituiti non solo da un facere ma anche da una condotta dolosamente silente maliziosamente serbata tale da indurre in inganno la vittima della condotta truffaldina, ciò perché detto comportamento dell'agente in tal caso non può ritenersi meramente passivo, ma artificiosamente preordinato a perpetrare l'inganno e a non consentire alla persona offesa (nella specie l'ente pubblico) di adottare provvedimenti conseguenti quali ad esempio il taglio della retribuzione per il tempo dell'attività lavorativa non prestata. L'imputato non poteva non essere a conoscenza delle modalità con le quali veniva registrato l'orario di lavoro in caso di effettuazione di missioni o di servizi esterni e l'aver taciuto che negli orari indicati si sovrapponevano ore di lavoro retribuite con attività svolte e retribuite da terzi è situazione idonea ad integrare gli elementi oggettivo e soggettivo del reato di truffa. Con riguardo poi alle attività svolte in occasione nel periodo di malattia del soggetto, il lavoratore assente per malattia ben può assentarsi da casa (o da altro luogo di ricovero) al di fuori della forbice oraria indicata per le eventuali visite di controllo purché non tenga condotte idonee ad aggravare il suo stato di salute ed a ritardare il rientro al lavoro. Nel caso di specie, un conto è l'assentarsi da casa o dal luogo di ricovero per esigenze personali o familiari e ben altro è approfittare di uno stato di malattia tale da impedire lo svolgimento della prestazione lavorativa ed in relazione al quale il lavoratore percepisce la relativa indennità per svolgere nel contempo altra attività lavorativa retribuita e non autorizzata, così anche in questo determinando a fine di profitto una falsa rappresentazione della realtà. Se il dipendente (che svolge attività di concetto e che non richiedono particolari prestazioni fisiche) non può recarsi al posto di lavoro in quanto malato, non si vede come possa recarsi al contempo presso una scuola per effettuare prestazioni di insegnamento''.

    In entrambi i casi esaminati, il tribunale del riesame dispone a carico di persona ``indagata per i reati di falso ideologico continuato in atto pubblico di fede privilegiata, nella qualità di responsabile della sorveglianza, la misura cautelare della sospensione dall'esercizio del pubblico ufficio di concessionario di attività pubbliche per la durata di mesi dodici e, congiuntamente, per una pari durata, la misura del divieto temporaneo di esercitare attività professionali in relazione a qualunque attività a favore di soggetti collegati con concessionari di attività pubbliche e per qualunque attività comunque legata alle funzioni concernenti la sicurezza''. Nel rigettare i ricorsi, la Sez. V rileva: ``Secondo un processo logico non censurabile e completo, il tribunale ha sostenuto che, dati gli obblighi connessi alle verifiche così come ricostruiti, attestare l'esame degli impalcati dei viadotti e fare la descrizione dei difetti creava l'apparenza della completa verifica di essi, a fronte di un controllo parziale, limitato alla parte esterna, contrariamente a quanto previsto come necessario. L'indagato avrebbe dato conto, quale esecutore dei sopralluoghi e redattore dei rapporti di ispezione, nonché firmatario delle correlate relazioni trimestrali, di difetti o dell'assenza di difetti che non potevano essere verificati solo con un'ispezione esterna, ma che necessitavano di un esame condotto anche all'interno degli impalcati, così attestando falsamente, sia pure implicitamente, di avere svolto anche questi ultimi, tanto in violazione dell'obbligo di effettuare le verifiche anche all'interno o anche solo di segnalare che le relazioni ispettive riguardavano attività di controllo limitata alle parti esterne degli impalcati. Ai fini della integrazione del reato di falso cd. implicito, l'ambito attestativo di un atto pubblico non è circoscritto alla sua formulazione espressa, ma si estende anche alle attestazioni implicite, tutte le volte in cui una determinata attività del pubblico ufficiale, non menzionata nell'atto, costituisce indefettibile presupposto di fatto o condizione normativa dell'attestazione espressa. L'accertamento della falsità del contenuto dell'attestazione non riguarda solo la formulazione espressa dell'atto, ma anche i suoi presupposti necessari, cioè le cd. attestazioni implicite, senza che sia necessaria la menzione del compimento, da parte del pubblico ufficiale, dell'eventuale attività di accertamento che costituisce presupposto dell'attestazione''. (Circa il c.d. falso implicito v. Sez. Un., 24 settembre 2007; nonché, più di recente, Cass. 20 giugno 2018 n. 28594).

    Note a piè di pagina
    58
    Comma così modificato dall'art. 13, comma 1, lett. c), n. 1), D.L. 21 ottobre 2021, n. 146.
    Comma così modificato dall'art. 13, comma 1, lett. c), n. 1), D.L. 21 ottobre 2021, n. 146.
    59
    Comma inserito dall'art. 10, comma 1, lett. a), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Comma inserito dall'art. 10, comma 1, lett. a), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    60
    Alinea così modificato dall'art. 10, comma 1, lett. b), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    Alinea così modificato dall'art. 10, comma 1, lett. b), D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106.
    61
    Comma abrogato dall'art. 13, comma 1, lett. c), n. 2), D.L. 21 ottobre 2021, n. 146.
    Comma abrogato dall'art. 13, comma 1, lett. c), n. 2), D.L. 21 ottobre 2021, n. 146.
    62
    In attuazione di quanto disposto dal presente comma vedi il D.M. 21 agosto 2019, n. 127.
    In attuazione di quanto disposto dal presente comma vedi il D.M. 21 agosto 2019, n. 127.
    63
    Comma così sostituito dall'art. 13, comma 1, lett. c), n. 3), D.L. 21 ottobre 2021, n. 146.
    Comma così sostituito dall'art. 13, comma 1, lett. c), n. 3), D.L. 21 ottobre 2021, n. 146.
    64
    Comma così modificato dall'art. 13, comma 1, lett. c), n. 4), D.L. 21 ottobre 2021, n. 146.
    Comma così modificato dall'art. 13, comma 1, lett. c), n. 4), D.L. 21 ottobre 2021, n. 146.
    65
    Comma aggiunto dall'art. 13, comma 1, lett. c), n. 5), D.L. 21 ottobre 2021, n. 146.
    Comma aggiunto dall'art. 13, comma 1, lett. c), n. 5), D.L. 21 ottobre 2021, n. 146.
    Fine capitolo