Matteo L. Mattheudakis
Sommario: 1. L’art. 590-sexies c.p. quale tappa recente del susseguirsi di tentativi di razionalizzare la disciplina della responsabilità penale per colpa del sanitario. – 1.1. La stagione iniziale contrassegnata dall’indulgenza: una prima centralità del grado della colpa. – 1.2. La chiusura giurisprudenziale della fine del secolo scorso e il successivo inizio dell’inversione di tendenza. – 1.3. La previgente disciplina del d.l. “Balduzzi” del 2012: la ricomparsa del grado della colpa. – 2. La struttura del vigente art. 590-sexies c.p. e la sua declinazione nel diritto vivente. – 2.1. Gli elementi costitutivi (espliciti) della clausola di non punibilità. – 2.2. Il contributo della giurisprudenza nella definizione dell’area applicativa della disciplina: il recupero interpretativo del grado della colpa. – 3. Gli spunti de iure condendo ricavabili dall’esperienza pandemica: le intuizioni del d.l. n. 44 del 2021.
1. L’art. 590-sexies c.p. quale tappa recente del susseguirsi di tentativi di razionalizzare la disciplina della responsabilità penale per colpa del sanitario.
1.L’art. 590-sexies c.p. quale tappa recente del susseguirsi di tentativi di razionalizzare la disciplina della responsabilità penale per colpa del sanitario.La punibilità del sanitario nel quadro della “settorializzazione” della responsabilità penale colposa
L’attuale disciplina della punibilità del sanitario per colpa propone una delle più evidenti esemplificazioni della tendenza alla “settorializzazione” della responsabilità per i reati colposi causalmente orientati (ad esempio, Giunta; Veneziani). Tutti e tre i settori casistici (“lavorativo”, stradale e sanitario) in cui è tradizionalmente più frequente, almeno nel nostro Paese, la contestazione dell’omicidio colposo e delle lesioni personali colpose (a prescindere dalla loro denominazione formale) sono corredati da una serie di disposizioni che a vario titolo arricchiscono oppure, più radicalmente, derogano la disciplina matrice degli artt. 589 e 590 c.p.
Come considerato in più sedi di questa trattazione, il legislatore ha ritenuto di aumentare le pene (tramite circostanze aggravanti) nel caso in cui la morte o il ferimento di una persona maturino in un contesto connotato dalla violazione della normativa di sicurezza sul lavoro e, di recente, ha addirittura tipizzato delle fattispecie autonome per irrobustire la portata repressiva nei confronti del guidatore che, con condotte più o meno sconsiderate, nuoccia ad altri utenti della strada. In sostanza, l’ordinamento ritiene che, a parità di evento, il disvalore di condotta (M. Mantovani) sia in questi casi più significativo e giustifichi quindi un trattamento di speciale severità.
Anche gli eventi infausti accaduti in ambito sanitario, storicamente, sono stati attratti da forze “centrifughe” rispetto alla disciplina ordinaria. La differenza però rispetto ai due ambiti appena richiamati è radicale, perché la diversificazione spinge da tempo in direzione opposta, cioè quella di una maggiore indulgenza nei confronti di soggetti che svolgono una professione socialmente fondamentale e particolarmente complessa; tale non solo per la continua evoluzione delle conoscenze scientifiche di riferimento, ma per l’avere ad oggetto una “materia” assai fragile come il corpo umano, che non risponde ai trattamenti in maniera identica al variare del paziente in carne ed ossa, e molto spesso non consente, nemmeno in assenza del minimo errore, di impedire che decorsi fisiologici conducano alla morte o comunque al peggioramento delle condizioni di salute.
La disciplina codicistica vigente
Oggi, il punto di riferimento in tema di punibilità per colpa del medico e degli altri professionisti di area sanitaria – l’estensione soggettiva è infatti piuttosto ampia – è l’art. 590-sexies c.p., rubricato «Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario». La sua introduzione risale alla l. 8 marzo 2017, n. 24, nota come legge “Gelli-Bianco”, dai cognomi dei relatori di maggioranza nei due rami del Parlamento (tra i primissimi commenti, ad esempio, Caletti-Mattheudakis). Il comma 1 esordisce con una disposizione più che altro di contestualizzazione: «Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma». È il comma 2 quello dalla maggiore portata regolativa: «Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».
Si procederà in seguito a un’analisi dettagliata di tale articolata e complessa disciplina, che si pronuncia – per così dire – in termini negativi, cioè prevedendo, a determinate condizioni, non già una affermazione della responsabilità, ma, al contrario, la non punibilità del sanitario. Una sua adeguata messa a fuoco è possibile soltanto considerando le varie tappe che l’hanno preceduta (per un itinerario diacronico, ad esempio, Caletti; Carraro).
1.1. La stagione iniziale contrassegnata dall’indulgenza: una prima centralità del grado della colpa.
1.1.La stagione iniziale contrassegnata dall’indulgenza: una prima centralità del grado della colpa.Fino a poco dopo la metà del secolo scorso, la valutazione dell’errore del sanitario appariva particolarmente “benevola”, da parte tanto della dottrina quanto della giurisprudenza. Prevaleva ampiamente un atteggiamento dichiaratamente improntato a «larghezza di vedute e comprensione» (in giurisprudenza, ad esempio, Cass., 6 marzo 1967, n. 447; in dottrina, Pannain), fatto presto oggetto di critica in quanto percepito alquanto «lassista» (N. Mazzacuva) e forse non a torto, in quanto declinato in termini da alimentare l’impressione che, talvolta, si ammettesse un “condono” persino di gravi mancanze del professionista (in tal senso, nella giurisprudenza successiva, Cass., 5 aprile 2011, n. 16328).
Varie, ma riconducibili a una logica omogenea, le ragioni poste a giustificazione della menzionata tolleranza da parte della giurisprudenza: «sia perché la scienza medica non determina in ordine allo stesso male un unico criterio tassativo di cure, sia perché nell’arte medica l’errore di apprezzamento è sempre possibile»; tolleranza che incontrava – ma più in astratto che in concreto, rimanendo rare le pronunce di condanna – «un limite nella condotta del professionista incompatibile col minimo di cultura e di esperienza che deve legittimamente pretendersi da chi sia abilitato all’esercizio della professione medica» (così la già richiamata Cass., 6 marzo 1967, n. 447).
Il ruolo dell’art. 2236 c.c. in sede penale
In questo quadro, si inserisce la disciplina dell’art. 2236 c.c., riguardante la responsabilità civile del professionista: «Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave». Si tratta di una disposizione che il codice civile del 1942 ha formalizzato recependo orientamenti “benevoli” (della giurisprudenza civile) già allora consolidati nell’approccio alla responsabilità del professionista, in particolare del sanitario (sul punto, Massaro).
Significativa, anche per la sua lungimiranza e attualità, la ratio “ufficiale” della norma – ci si riferisce alle considerazioni della relazione ministeriale – ossia bilanciare l’esigenza di «non mortificare l’iniziativa del professionista con il timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista».
In parallelo, in sede penale, orientamenti ampiamente paragonabili a quelli maturati in sede civile si sono affermati per alcuni decenni, nonostante una disciplina della responsabilità colposa concepita in termini tali da non valorizzare apertamente questioni di grado della colpa ai fini dell’an della punibilità, non essendovi, all’epoca, una disciplina ad hoc sulla responsabilità penale del sanitario, potenzialmente in grado di derogare al combinato disposto degli artt. 43 e 133 del codice penale del 1930.
Pure per il giudice penale, l’art. 2236 c.c. ha rappresentato un indice normativo in grado, prima, di conferire “copertura legale” a una prassi consolidata e poi di porsi quale vero e proprio metro di giudizio della colpa punibile. Il recepimento in sede penale di una disciplina concepita per un altro ramo dell’ordinamento ha notoriamente poggiato su un argomento “razionalizzante”: non sarebbe accettabile che, in presenza di talune condizioni di verificazione di un evento dannoso – quelle dell’art. 2236 c.c., appunto – sia esclusa la responsabilità civile, mentre possa invece residuare quella penale (in tal senso, ad esempio, Manna). Sullo sfondo, evidentemente, una valorizzazione del diritto penale quale disciplina di extrema ratio, in questo senso sussidiaria rispetto a quella civilistica volta a regolare il risarcimento (quindi conseguenze intrinsecamente più lievi rispetto alla pena) per le medesime dinamiche dannose.
L’affiorare dell’imperizia quale requisito implicito e la sua consacrazione nella sentenza della Corte costituzionale del 1973
All’estensione dell’ambito di pertinenza della disposizione civilistica si sono comunque fissati dei limiti. Facendo proprie le considerazioni di una parte della dottrina civilistica, si è via via subordinata l’applicazione dell’art. 2236 c.c. in sede penale a una più puntuale aderenza al requisito della necessità di dare soluzione a problemi tecnici di speciale difficoltà e si è valorizzato un requisito implicito della disciplina: la sua applicazione alle sole ipotesi di imperizia, intesa evidentemente come qualcosa di non perfettamente coincidente con imprudenza e negligenza in un contesto tecnico-professionale. Ciò in quanto – questo il punto di vista della dottrina in menzione (in particolare, tra i penalisti, Crespi) – proprio a fronte di situazioni di particolare complessità, avrebbe senso tollerare un deficit di perizia, rispetto al quale il singolo sanitario potrebbe risultare inerme, mentre sarebbe molto meno razionale non pretendere il massimo della prudenza e soprattutto della diligenza.
La ricostruzione di cui si è appena dato conto ha trovato un’autorevole consacrazione anche in una sentenza della Corte costituzionale degli anni ’70 del secolo scorso (Corte cost., 22 novembre 1973, n. 166), che può forse considerarsi il momento più “alto” della storia del recepimento dell’art. 2236 c.c. in sede penale.
1.2. La chiusura giurisprudenziale della fine del secolo scorso e il successivo inizio dell’inversione di tendenza.
1.2.La chiusura giurisprudenziale della fine del secolo scorso e il successivo inizio dell’inversione di tendenza.Le posizioni della giurisprudenza immediatamente successiva rispetto alla sentenza della “Consulta” del 1973 appaiono perlopiù allineate a tale autorevole lettura, ma l’assetto “ratificato” dalla Corte costituzionale ha presto convissuto con un atteggiamento di maggiore intransigenza nei confronti dell’errore “medico”, al quale ha poi, di fatto, ceduto il passo.
All’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso apparivano già in via di consolidamento due orientamenti distinti, ma convergenti nel mantenere piuttosto ampia l’area della punibilità del sanitario.
Le flessioni sul piano dell’accertamento della causalità omissiva
Sul piano del nesso di causalità, in particolare nei giudizi relativi a contestazioni di natura omissiva, cioè per il mancato impedimento del risultato dannoso subito dal paziente, nella IV sezione penale della Cassazione si è diffusa la nota tesi della sufficienza (ai fini dell’imputazione causale) anche soltanto di poche possibilità di prevenire l’evento tramite la condotta cauta omessa (per una rassegna critica, in particolare, Stella). Si tratta di un orientamento che, pur non privo di ambizione di validità generale, si è sviluppato con particolare riferimento alla casistica di cui in queste pagine ci si sta occupando, oltre che nell’ambito delle malattie professionali.
È altrettanto noto come un’inversione di tendenza sia pervenuta con la sentenza “Franzese” del 2002 (Cass., Sez. Un., 10 luglio 2002, n. 30328), che, condivisibilmente, ha riaffermato una concezione del rapporto tra condotta omissiva ed evento decisamente più in linea con diversi principi costituzionali, in particolare quelli di legalità (impedendo la trasformazione di reati con evento dannoso in illeciti di pericolo) e responsabilità penale per fatto proprio, evitando cioè di lasciare a carico dell’imputato il dubbio, potenzialmente assai consistente, sulla circostanza che il risultato tipico possa essere attribuibile a fattori diversi dall’omissione contestata (si veda, ad esempio, Veneziani).
Il radicale rifiuto dell’art. 2236 c.c. in sede penale
Sostanzialmente in parallelo rispetto al menzionato allentamento delle garanzie nell’accertamento causale, il recepimento dell’art. 2236 c.c. in sede penale ha perso significativamente terreno. L’orientamento fatto proprio dalla Corte costituzionale ha trovato un ostacolo, dichiaratamente, nell’esigenza di salvaguardare (non già la coerenza dell’intero ordinamento, ma) l’unità e la coerenza del sistema penale, che mal sopporterebbe metri diversi nella valutazione della colpa (ad esempio, Cass., 18 febbraio 1983); quindi, «la parola d’ordine è: “la colpa è uguale per tutti”» (per questa testuale ricostruzione, si veda la già menzionata Cass., 5 aprile 2011, n. 16328).
Il recupero dell’art. 2236 c.c. in sede penale per effetto di una «regola di esperienza»
Se al cambio di millennio si è potuto constatare un sostanziale abbandono della tesi della “diretta” applicabilità dell’art. 2236 c.c., nel primo decennio del secolo in corso si è sviluppato un orientamento in grado di pervenire allo stesso risultato tramite un percorso argomentativo differente. Pur senza mettere in discussione le regole positivizzate della responsabilità per un reato colposo, per le quali il grado della colpa non è concepito quale fattore determinante ai fini dell’an della punibilità, alcune sentenze hanno comunque dato ingresso all’art. 2236 c.c. (come inteso dalla Corte costituzionale) nel giudizio penale quale «regola di esperienza» (con sfumature via via più nette, ad esempio, Cass., 23 marzo 1995, n. 5278; Cass., 21 giugno 2007, n. 39592; la già menzionata Cass., 5 aprile 2011, n. 16328). Intendendo l’art. 2236 c.c. come «la traduzione normativa di una regola logica ed esperienziale che sta nell’ordine stesso delle cose» (Cass., 22 novembre 2011, n. 4391), si è inteso sostanzialmente sostenere che una condotta valutabile in termini di colpa lieve per il diritto civile, se condizionata da fattori di speciale complessità, in sede penale non sarebbe rilevante per carenza della dimensione di colpevolezza in senso stretto del reato colposo (la c.d. misura soggettiva della colpa, su cui, in particolare, Castronuovo; con approccio differente, Perin): mancando la rimproverabilità del fatto, rimarrebbe al più il contrassegno formale della violazione cautelare, ma ci si troverebbe di fronte a una non-colpa.
1.3. La previgente disciplina del d.l. “Balduzzi” del 2012: la ricomparsa del grado della colpa.
1.3.La previgente disciplina del d.l. “Balduzzi” del 2012: la ricomparsa del grado della colpa.L’esigenza di arginare la medicina difensiva
All’inizio del decennio scorso, nonostante le menzionate riaperture giurisprudenziali nei confronti della disciplina di contenimento della responsabilità ex art. 2236 c.c., comunque accolta in sede penale soltanto in via indiretta, cioè quale regola di esperienza o criterio di razionalità del giudizio, si è dichiaratamente avvertita l’urgenza di arginare un fenomeno ormai da tempo ampiamente diffuso come quello della medicina difensiva (per tutti, Forti-Catino-D’Alessandro-Mazzucato-Varraso; Manna). Si tratta di un fenomeno notoriamente di duplice declinazione. Si suole infatti parlare di medicina difensiva “positiva” con riferimento alla disposizione di accertamenti o di trattamenti non strettamente necessari per il paziente (e persino potenzialmente dannosi), ma volti più che altro a mettere al riparo il sanitario da contestazioni di non aver fatto tutto il possibile in favore del paziente. Si parla di medicina difensiva “negativa” per intendere invece quella gamma di comportamenti iperprudenti dei sanitari i quali, a fronte di significativi rischi di insuccesso della prestazione opportuna per il paziente, si astengono dal realizzarla, così da non trovarsi tra i soggetti coinvolti in azioni legali civili e soprattutto penali.
La riforma “Balduzzi” del 2012: la prima valorizzazione esplicita del grado della colpa da parte del legislatore penale
È questo lo sfondo (per l’individuazione di ulteriori fattori, Basile) in cui si è inserita la riforma “Balduzzi” (dal cognome del Ministro della Salute allora in carica), realizzata dal d.l. 13 settembre 2012, n. 158 («disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute»), in particolare dal testo risultante dopo l’intervento della legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189.
L’oggi abrogato comma 1 dell’art. 3 del decreto prevedeva: «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve». Al fine di coordinare la responsabilità civile, si precisava: «In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo».
L’aspetto che merita di essere subito evidenziato è la valorizzazione esplicita del grado della colpa in una disciplina dedicata alla responsabilità penale del sanitario. La punibilità è stata finalmente associata, direttamente dal legislatore, a gradi consistenti di colpa, anche se ciò non è avvenuto a prescindere da ulteriori condizioni.
Il primo “matrimonio” tra grado della colpa e medicina basata sulle evidenze scientifiche
Analogamente a quanto si è già visto rispetto all’art. 2236 c.c., la cui storia evidenzia la costante preoccupazione di individuare dei fattori (ulteriori) di razionalità di un’esclusione della responsabilità per colpa lieve, nel 2012 si è ricercato un aggancio della limitazione della punibilità nella evidence-based medicine (essenzialmente traducibile come «medicina basata sull’evidenza scientifica», cioè fondata su affidabili prove di efficacia: per una delle prime e più documentate panoramiche, Di Landro; diffusamente anche Veneziani), a cui linee guida e buone pratiche sono senz’altro riconducibili.
L’estensione soggettiva non limitata ai medici
Sul fronte dei soggetti potenzialmente “beneficiari” della disciplina penale del d.l. “Balduzzi”, si nota il riferimento (sostanzialmente riproposto nell’attuale art. 590-sexies c.p.) non limitato al medico ma, più in generale, all’«esercente la professione sanitaria» – secondo un elenco ministeriale, si tratta di almeno una trentina di professioni nel complesso – peraltro senza chiudere le porte a priori nemmeno a reati colposi diversi da quelli più “scontati” di omicidio colposo e lesioni colpose.
Le principali critiche sul piano della legalità e della razionalità intrinseca
Al di là di una critica di scarsa precisione del precetto legale – ad esempio si è censurata la mancanza di una più chiara selezione delle fonti comportamentali rilevanti: quali linee guida considerare? Quando possono giudicarsi accreditate dalla comunità scientifica le stesse linee guida oppure le buone pratiche? Queste ultime in cosa consistono esattamente? – che ha suscitato anche una pronuncia meramente “interlocutoria” (di «manifesta inammissibilità», arricchita giusto da qualche spunto interpretativo) della Corte costituzionale (Corte cost., ord. 6 dicembre 2013, n. 295), alla norma penale del d.l. “Balduzzi” è stato addebitato di aver tipizzato un paradosso giuridico nel riferirsi a un soggetto di fatto descritto come «in culpa sine culpa» (in particolare, Piras). Si è dubitato che abbia realmente senso escludere la punibilità per colpa in casi in cui, in partenza, la colpa non vi potrebbe essere: il rispetto di «linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica» farebbe venir meno in radice – questa è la premessa da cui muove la critica in menzione – qualsiasi possibilità di immaginare una colpa, persino lieve.
L’individuazione dei possibili ambiti applicativi: «adempimenti imperfetti» e «adempimenti inopportuni»
Per quanto suggestiva, l’obiezione di matrice logica appena descritta è stata rapidamente superata, constatando come la disposizione penalistica del d.l. “Balduzzi”, senza forzarne in alcun modo il testo, fosse applicabile in almeno due diverse tipologie di casi, cioè a fronte tanto di «adempimenti imperfetti» quanto di «adempimenti inopportuni» delle fonti comportamentali mutuate dalla medicina basata sulle evidenze scientifiche (Caletti-Mattheudakis). Per adempimenti imperfetti devono intendersi le attuazioni imprecise delle linee guida o buone pratiche correttamente individuate. Di adempimenti inopportuni potrebbe invece parlarsi nelle ipotesi in cui il sanitario rispetti (erroneamente) le linee guida o le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica pur in presenza di particolarità della vicenda concreta tali da suggerire un comportamento diverso.
Del resto, la giurisprudenza di legittimità, fino a poco prima rispetto all’entrata in vigore della riforma del 2012 (in particolare, Cass., 11 luglio 2012, n. 35922), aveva gettato le premesse per avere chiaro che non possono ragionevolmente accreditarsi automatismi “esimenti” in relazione alle condotte di aderenza alle linee guida, così come – ed è il rovescio garantista della medaglia – non implica necessariamente la sussistenza di responsabilità l’inosservanza di una linea guida in astratto valida per la stessa patologia in rilievo nel caso concreto (diffusamente, Risicato).
In generale, è condivisibile che il sanitario debba assumersi la responsabilità di realizzare un raccordo critico tra il percorso terapeutico (generalmente) ideale offerto dalle linee guida e dalle buone pratiche e le esigenze dello specifico paziente. Quanto in particolare alle linee guida, si può facilmente notare come esse abbiano un contenuto tipico che si pone essenzialmente quale insieme di indicazioni di massima, a struttura elastica, spesso insufficienti ad abbracciare l’intera varietà e quindi la complessità del quadro clinico del paziente. Non di rado, sono le stesse linee guida a imporre al professionista un esplicito adeguamento al caso concreto, che può persino tradursi nel suggerimento di ricorrere a trattamenti del tutto alternativi, quindi a una loro occasionale disapplicazione.
In definitiva, la ratio dell’“esperimento” del d.l. “Balduzzi” pare quella di “premiare” il sanitario che si sia mostrato scientificamente preparato eleggendo come faro della propria prestazione strategie di trattamento generalmente accreditate dalla comunità scientifica. A tali condizioni, con la disciplina del 2012, l’ordinamento si è dichiarato disponibile a tollerare un errore lieve da cui pure fossero derivati eventi infausti come persino la morte del paziente (in giurisprudenza, l’apporto ermeneutico più importante è stato offerto dalla sentenza “Cantore”: Cass., 29 gennaio 2013, n. 16237).
Il fallimento dell’esperimento del d.l. “Balduzzi”, anche a causa del riaffiorare dell’imperizia in funzione di «cavallo di Troia»
Il progetto di arginare la medicina difensiva e restituire maggiore serenità nel quotidiano ai sanitari non ha però sortito significativi risultati sul piano applicativo (per una delle rare pronunce di assoluzione basate sull’art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158: Trib. Parma, 11 giugno 2020, n. 447), anche a causa del riaffiorare, quale elemento implicito della disciplina, dell’imperizia (così, ad esempio, la sentenza “Pagano”: Cass., 24 gennaio 2013, n. 11493, sulla base del presupposto per cui le linee guida «riguardano e contengono solo regole di perizia e non afferiscono ai profili di negligenza e di imprudenza»), concretamente svuotata di contenuto dalla prassi al punto da indurre efficacemente parte della dottrina a indicarla come «cavallo di Troia» (Di Giovine), in grado di boicottare gli intenti deflativi del legislatore. Ad esempio, di fronte a ipotesi classiche di “responsabilità medica” come gli errori diagnostici, la giurisprudenza ha spesso giudicato il sanitario come negligente e se, sulla base della medesima valutazione del quadro clinico, il paziente fosse stato dimesso anzitempo allora al professionista veniva mosso (anche) un addebito di imprudenza; in ogni caso non di imperizia, mettendo così fuori portata l’accesso al trattamento speciale concepito dal legislatore, che pure, a ben vedere, non menziona affatto una specifica tipologia di colpa alla quale accordare privilegio, al di là delle oggettive difficoltà di tracciare affidabili linee di confine tra le più tradizionali espressioni dell’illecito colposo (lo ha giusto riconosciuto, anche se praticamente allo scadere del periodo di vigenza del d.l. “Balduzzi”, la sentenza “Denegri”: Cass., 11 maggio 2016, n. 23283, per cui «la scienza penalistica non offre indicazioni di ordine tassativo, nel distinguere le diverse ipotesi di colpa generica, contenute nell’art. 43 c.p., comma 3»; per una delle tante conferme dottrinali, Piergallini).
2. La struttura del vigente art. 590-sexies c.p. e la sua declinazione nel diritto vivente.
2.La struttura del vigente art. 590-sexies c.p. e la sua declinazione nel diritto vivente.In occasione di una riforma “di sistema” del contesto sanitario, in cantiere già negli anni successivi all’entrata in vigore del d.l. Balduzzi, il legislatore ha pensato di rimettere mano anche alla disciplina della responsabilità penale, rivelatasi fino a quel momento non in grado di assicurare quell’equilibrio perseguito con l’intervento del 2012. È così che con la già menzionata l. “Gelli-Bianco” del 2017, prevalentemente incentrata sulla responsabilità civile (oltre che, in linea più generale, sulla «sicurezza delle cure», su cui, in particolare, Caputo), è stato concepito pure un nuovo assetto della punibilità per colpa, contestualmente disponendo apertamente l’abrogazione della normativa penale del d.l. “Balduzzi”.
In termini innovativi rispetto alla soluzione previgente, la nuova disciplina è stata collocata direttamente nel codice penale, allineandola, da questo punto di vista, a quella degli altri due principali ambiti casistici di responsabilità (delittuosa) colposa, ovvero quello lavorativo e quello stradale, per i quali, come già accennato, prevalgono però spinte repressive e non di contenimento dell’area della punibilità. Si tratta, in ogni caso, di una soluzione che, ex post, si può leggere in armonia con la di poco successiva riforma volta a concretizzare la c.d. riserva di codice (d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21).
Il discorso è ora supportato da tutte le necessarie premesse per poter passare a un’analisi di dettaglio dell’art. 590-sexies c.p., la cui portata applicativa non può essere messa a fuoco a prescindere dal contributo della giurisprudenza di legittimità, che è subito giunta in soccorso dell’interprete.
2.1. Gli elementi costitutivi (espliciti) della clausola di non punibilità.
2.1.Gli elementi costitutivi (espliciti) della clausola di non punibilità.Si è già avuto modo di individuare nel comma 2 dell’art. 590-sexies c.p. la disposizione più rilevante al fine di perimetrare esattamente l’attuale area della punibilità del sanitario per i delitti di omicidio colposo e lesioni personali colpose: «Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».
La tipizzazione del criterio dell’imperizia
Una delle più vistose differenze con l’opzione previgente è rappresentata dalla comparsa di un riferimento esplicito nel testo legale all’imperizia quale criterio per consentire l’operatività della clausola di limitazione della punibilità. Si è avuto modo di considerare come, pure in assenza della tipizzazione formale di un simile requisito, la giurisprudenza tendesse comunque a considerarlo implicito, peraltro fornendone una lettura a dir poco riduttiva, con l’effetto di complicare notevolmente l’accesso al regime indulgente di volta in volta in rilievo: prima quello ricavato dall’art. 2236 c.c. poi quello relativo al d.l. “Balduzzi”.
Sul punto, sembra esservi una via d’uscita. Almeno la dottrina potrebbe non sconfessare una propria diffusa posizione, la quale avrebbe qui l’effetto in bonam partem – ma la terminologia non deve ingannare: non è affatto un’operazione analogica – di non confinare l’operatività dell’art. 590-sexies, comma 2, c.p. entro spazi troppo angusti. Si tratterebbe semplicemente di riaffermare quanto già sostenuto con autorevolezza (per tutti, M. Gallo) e cioè che l’imperizia potrebbe ben concepirsi come la versione “tecnica”, “professionale” di negligenza e imprudenza (a loro volta distinte per lo più in via meramente convenzionale) e non un vero e proprio tertium genus.
L’approccio ermeneutico appena richiamato tenderebbe a sterilizzare la presunta selettività del riferimento all’imperizia che il tenore letterale della disposizione codicistica sembrerebbe suggerire, partendo evidentemente dal presupposto che in ambito sanitario si possano anche dare casi di colpa non qualificabili in termini di imperizia: lo indizierebbe, in particolare, il ricorso alla congiunzione condizionale «qualora», che anticipa l’ipotesi (e quindi non la indefettibile certezza) che «l’evento si sia verificato a causa di imperizia». Tuttavia, tali argomenti non paiono affatto decisivi per liquidare una interpretazione “estensiva” dell’imperizia come contra legem.
A favore della lettura che si sta proponendo, si potrebbe notare come il legislatore abbia fatto ricorso a un concetto già presente nell’ordinamento, ove se c’è un’interpretazione tassativizzante (cioè capace di una delimitazione concettuale controllabile) è proprio quella che ritiene di poter parlare di imperizia a fronte di qualsiasi violazione delle leges artis tipiche di un contesto tecnico-professionale, come quello sanitario. Ci si riferisce, in altre parole, a tutte quelle situazioni in cui la colpa del soggetto possa essere sensatamente (cioè con pertinenza) misurata in relazione al comportamento che avrebbero tenuto le specifiche figure di sanitario modello. Per quanto, per coincidenza, questa lettura sia la più “espansiva” tra quelle semanticamente possibili, a ben vedere, è l’unica tra quelle fino a oggi proposte che pare poggiare su un criterio sufficientemente chiaro: il contesto, appunto.
Per quanto permangano delle differenze di sensibilità, va comunque registrata con favore una tendenza sempre più marcata della giurisprudenza alla restituzione di linfa alla categoria dell’imperizia (per una rassegna recente, Badalamenti). Ad esempio, in sede di legittimità si è considerato: «In tema di colpa, la perizia è il connotato di attività che richiedono competenze tecnico-scientifiche o che presentano un grado di complessità più elevato della norma per le particolari situazioni del contesto, presupponendo quindi la necessità che il compito che il soggetto è chiamato ad assolvere richieda competenze che non appartengono al quivis de populo e che sono tipiche di specifiche professionalità. Ne deriva che, in linea di massima, l’agire dei professionisti, e quindi in primo luogo anche dei sanitari, si presta a essere valutato primariamente in termini di perizia/imperizia, dovendosi intendere quest’ultima, quindi, come violazione delle “regole tecniche” della scienza e della pratica (o leges artis)» (Cass., 11 febbraio 2020, n. 15258). Alcune opacità permangono dal momento che, nella stessa pronuncia, si aggiunge: «Quanto detto, ovviamente, non esclude che l’evento possa essere stato determinato da un errore originato da negligenza o da imprudenza, alla cui base vi è cioè la violazione di regole cautelari non “tecniche” bensì attuabili secondo la comune esperienza». Il rischio è che l’ostinazione ad individuare per forza regole cautelari non “tecniche” in un contesto così specifico induca nuovamente, di fatto, a svuotare di contenuto l’imperizia.
Il secondo “matrimonio” tra grado della colpa e medicina basata sulle evidenze scientifiche
Un altro aspetto centrale nell’ambito della riforma “Gelli-Bianco” è senz’altro la previsione di un sistema istituzionalizzato di vaglio qualitativo e riconoscimento formale delle linee guida che vengono poi privilegiate (anche) ai fini del giudizio di responsabilità del sanitario. Come visto, il comma 2 dell’art. 590-sexies c.p. chiarisce infatti che «la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge».
Uno dei diversi obiettivi alla base del concepimento di tale articolata procedura, dettagliatamente descritta nell’art. 5 della legge n. 24 del 2017, è quello di superare le incertezze che avevano riguardato la disciplina previgente del d.l. “Balduzzi”, la quale faceva genericamente riferimento alla necessità di un accreditamento da parte della comunità scientifica. Ora è richiesto che le linee guida siano «elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute», che deve essere aggiornato con cadenza biennale (comma 1). Si prevede inoltre che le linee guida e i relativi aggiornamenti siano integrati nel Sistema Nazionale per le Linee Guida (SNLG). Quindi, l’Istituto Superiore di Sanità pubblica nel proprio sito internet le linee guida e i relativi aggiornamenti indicati dal SNLG, «previa verifica della conformità della metodologia adottata a standard definiti e resi pubblici dallo stesso Istituto, nonché della rilevanza delle evidenze scientifiche dichiarate a supporto delle raccomandazioni» (comma 3).
Sembra da rimarcare che l’attuale sistema pubblicistico di accreditamento ed evidenza delle linee guida fonda un’aspettativa di rispetto delle stesse fonti comportamentali. Il comma 1 dell’art. 5 poc’anzi richiamato esordisce infatti affermando che i professionisti sanitari «si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3», ponendosi peraltro anche il problema della possibile loro non reperibilità: «In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali». Pure il comma 2 dell’art. 590-sexies c.p. si concentra sulle buone pratiche clinico-assistenziali, assegnandogli un analogo ruolo subordinato rispetto a quello delle linee guida: «la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali». In ciò si può notare una differenza rispetto all’approccio del d.l. “Balduzzi”, che metteva sullo stesso piano linee guida e buone pratiche.
Nel complesso, dovrebbe potersi cogliere la logica di una disciplina indulgente nei confronti di chi mostri sensibilità per tale percorso di “democratizzazione” del sapere scientifico nell’interesse collettivo e che, nonostante ciò, lungo la “retta via”, commetta qualche errore decisivo per la verificazione dell’evento tipico.
Quantomeno nei primi anni di vigenza della disciplina del 2017, si è tuttavia assistito a un assai lento e in ogni caso (fisiologicamente) parziale sviluppo del percorso di formazione e accreditamento delle linee guida (sulle formalità di tale iter, in particolare Cupelli): fino a febbraio 2020, le linee guida formalmente riconosciute erano soltanto tre. Tale criticità rappresenta evidentemente una minaccia all’ambizione di rendere davvero operativo l’art. 590-sexies, comma 2, c.p. Come ci si accinge a considerare, un approccio non asfittico alle buone pratiche potrebbe, almeno in una certa misura, risultare di ausilio.
Il possibile ruolo delle buone pratiche
Nonostante l’accento sia spesso posto sulle linee guida, indubbiamente collocate in una posizione di primo piano dalla riforma “Gelli-Bianco”, è però vero che la disciplina normativa fa anche riferimento, in via sussidiaria, alle buone pratiche clinico-assistenziali, rispetto alle quali l’art. 3 della legge “Gelli-Bianco” prevede che siano raccolte a fini di monitoraggio e poi divulgate dall’«Osservatorio Nazionale delle Buone Pratiche sulla sicurezza nella Sanità», istituito presso l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (AGENAS), senza però assegnare formalmente a tale monitoraggio alcun valore paragonabile a quello della procedura di accreditamento prevista per le linee guida.
Per quanto non se ne disponga una definizione recepita a livello normativo, quello di buone pratiche è un concetto indubbiamente di portata ampia, tale da ricomprendere – si ritiene – non solo prassi per nulla “codificate”, ma anche, ad esempio, protocolli e checklist e probabilmente non è distinguibile proficuamente sul piano ontologico da quello di linee guida, al punto che risulta legittimo chiedersi se si possano “far passare” per buone pratiche anche documenti espressamente nominati linee guida, ma che non abbiano ricevuto un formale accreditamento.
La praticabilità dell’operazione non solo non pare preclusa dal testo normativo, ma è accreditata nemmeno troppo implicitamente da autorevole dottrina medico-legale, che sembra appunto concepire queste fonti secondo un rapporto genere-specie: cioè le buone pratiche includerebbero le linee guida (Fiori-Marchetti).
Un’ulteriore conferma si ricava dal «database delle buone pratiche», che raccoglie il patrimonio esperienziale del precedente «Osservatorio Buone Pratiche» integrandolo con le più recenti attività di «monitoraggio» previste dall’art. 3 della legge n. 24 del 2017. In tale database, pur a fronte di interventi legislativi nel 2012 e nel 2017 capaci di far sospettare una netta diversità tra linee guida e buone pratiche, sono comunque stati raccolti non pochi documenti classificati proprio come linee guida.
Vi sono inoltre sentenze di Cassazione che non escludono esplicitamente la percorribilità della strada qui ipotizzata: esprimono alcune perplessità, ritenendo linee guida e buone pratiche differenti concettualmente, ma chiudono comunque con toni possibilisti (in particolare, Cass., 13 aprile 2018, n. 33405; Cass., 22 giugno 2018, n. 47748; Cass., 21 marzo 2019, n. 28102).
In definitiva, se il sanitario indagato ha rispettato una linea guida non accreditata, così come un altro documento diversamente classificato oppure ancora una prassi non “codificata”, non sembrano esserci ostacoli alla ricerca della non punibilità ex art. 590-sexies, comma 2, c.p. sotto il “cappello” delle buone pratiche.
La giurisprudenza di merito ha peraltro già dimostrato di percorrere la via qui tracciata in uno dei primissimi e rarissimi casi noti di effettiva applicazione dell’art. 590-sexies, comma 2, c.p., che merita dunque qualche cenno esplicito. Il Tribunale di Parma (Trib. Parma, 18 dicembre 2018, n. 1584) ha assolto un medico di pronto soccorso che non era pervenuto tempestivamente alla (complessa) diagnosi di un ictus ischemico determinante pesantissime e permanenti ripercussioni sulla salute della paziente. Il giudice ha seguito proprio la strada delle buone pratiche a fronte del tendenziale rispetto da parte del medico dei contenuti di un documento adottato localmente, il «Percorso trombolisi E.V.». Il medico aveva intuito che la donna «poteva essere stata colpita da un ictus e nel perseguire una possibile diagnosi differenziale individuò correttamente le linee guida/buone prassi da seguire, ma peccò nell’esecuzione di quanto esse prescrivevano». Nelle motivazioni, riguardo proprio al predetto «Percorso trombolisi E.V.», si è osservato che «dal punto di vista dogmatico i criteri di esclusione dettati in tale atto avevano un carattere così stringente da integrare forse un vero e proprio protocollo o addirittura una cosiddetta check list», in quanto «andavano verificati necessariamente e in modo sistematico, spuntando dalla lista quelli già controllati prima di procedere con il successivo e, se uno soltanto avesse prodotto un risultato di segno negativo, non era consentito proseguire alla fase seguente». Poche righe dopo, si legge che, nonostante non si tratti di un documento accreditato formalmente nei termini previsti dalla riforma “Gelli-Bianco”, «a parere dello scrivente esso integra comunque una codificazione di una buona pratica clinico assistenziale». Aggiunge poi lo stesso giudice, riferendosi all’art. 590-sexies c.p.: «il legislatore ha utilizzato nella disposizione ora citata una formula evocativa della sussidiarietà delle buone pratiche, che consente di annoverarvi le linee guida non accreditate nonché i protocolli e le check list». Ulteriormente, l’inquadramento della condotta concreta nell’area dell’imperizia (in fase esecutiva) e la sua qualificazione in termini di colpa lieve – il medico «intervenne in un contesto emergenziale»; «visitò [la paziente] con urgenza, dato che doveva occuparsi anche di altri ventisei malati»; «fronteggiò un quadro clinico piuttosto oscuro, per la contestuale presenza di sintomi confondenti»; «non aveva specializzazioni in neurologia» – hanno consentito, in definitiva, di ritenere integrata la clausola di esenzione da responsabilità.
Il privilegio per gli «adempimenti imperfetti»
Nella formulazione della disposizione codicistica in commento non passa certo inosservata la precisazione finale, con la quale si prende posizione sui limiti di efficacia dell’osservanza di fonti comportamentali basate sulle evidenze scientifiche. Quanto in particolare alle linee guida – ma non si vede perché lo stesso non debba valere riguardo alle buone pratiche clinico-assistenziali – il loro rispetto può oggi condurre all’esclusione della punibilità «sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».
La ratio di una simile puntualizzazione sembra risiedere nell’intento di non tollerare pigri appiattimenti del sanitario sulle indicazioni generalmente ritenute valide dalla comunità scientifica, riaffermandosi così la priorità sul piano deontico di un raccordo critico con le condizioni dello specifico paziente in carne ed ossa. Va quindi preso atto di come il legislatore abbia mantenuto fermo un giudizio di indulgenza nei confronti di quelli che qui sono stati indicati come «adempimenti imperfetti», mentre è mutata la prospettiva riguardo agli «adempimenti inopportuni». In tali ultimi casi (rispetto a cui parte della dottrina ha invece considerato non meno plausibile un giudizio di indulgenza, in particolare per l’affidamento che genera ogni linea guida che abbia raggiunto l’accreditamento statuale, anche laddove la stessa si riveli inadatta nel caso concreto: Vallini), come ci si accinge a considerare dando conto del contributo offerto dalla giurisprudenza nel mettere a fuoco l’ambito applicativo del comma 2 dell’art. 590-sexies c.p., la punibilità è possibile anche per colpa lieve.
2.2. Il contributo della giurisprudenza nella definizione dell’area applicativa della disciplina: il recupero interpretativo del grado della colpa.
2.2.Il contributo della giurisprudenza nella definizione dell’area applicativa della disciplina: il recupero interpretativo del grado della colpa.Le diverse letture delle prime sentenze di legittimità
Al primo vero appuntamento ermeneutico con l’art. 590-sexies c.p., la Corte di legittimità (sentenza “Tarabori-De Luca”: Cass., 20 aprile 2017, n. 28187, relativa alla posizione di uno psichiatra accusato di non aver trattato adeguatamente un paziente macchiatosi di un gravissimo gesto eteroaggressivo), pur soffermandosi in modo dotto su non poche questioni pertinenti, non è riuscita ad offrire indicazioni univoche ed esaustive per illuminare l’esatta area applicativa della clausola di esclusione della punibilità. Anzi, a ben vedere, hanno prevalso considerazioni critiche nei confronti del prodotto legislativo del 2017, facendo emergere «alti dubbi interpretativi», parlando di disciplina «di disarticolante contraddittorietà», dall’interpretazione letterale esposta a esiti di «lampante» e «drammatica incompatibilità logica».
Con un secondo contributo interpretativo, la Corte di legittimità (sentenza “Cavazza”: Cass., 19 ottobre 2017, n. 50078, relativa alla posizione di un sanitario accusato di lesioni colpose gravi per aver cagionato a una persona sottopostasi a un intervento routinario di lifting del sopracciglio una diminuzione della sensibilità della zona interessata) ha indirizzato all’interprete indicazioni senz’altro più immediatamente fruibili, ancorché espressive di una lettura troppo rigidamente letterale del dato legale. In particolare, è stata pienamente recepita la scelta del legislatore di privilegiare sostanzialmente gli «adempimenti imperfetti», a discapito degli «adempimenti inopportuni», precludendo cioè l’accesso al regime più indulgente a fronte di errori «nel momento della scelta della linea guida». Il dato oggettivo di un’assenza di riferimento al grado della colpa nell’art. 590-sexies c.p. è stato letto nei termini più favorevoli possibili per il sanitario, ossia in modo da consentire l’esclusione della punibilità persino in ipotesi di colpa grave, sollevando però perplessità sul piano del rispetto di istanze costituzionali come quelle di ragionevolezza e di tutela della salute ex art. 32 Cost.
L’intervento delle Sezioni unite della Cassazione
La Corte di legittimità ha allora tentato di superare le divergenze di sensibilità interne alla IV Sezione penale facendo subito entrare in scena le Sezioni unite (sentenza “Mariotti”: Cass., Sez. Un., 21 dicembre 2017, n. 8770, relativa alla posizione di un medico specialista in neurochirurgia, a cui si contestava l’integrazione del delitto di lesioni personali colpose, in particolare per l’omessa diagnosi di una sindrome della “cauda equina”). Con tale intervento, si è apportato un correttivo alla sentenza precedente in punto di grado della colpa, non apparendo costituzionalmente sostenibile l’esclusione della responsabilità penale anche in ipotesi di colpa di speciale consistenza. Il privilegio per la colpa lieve è così rientrato a far parte della disciplina della responsabilità penale del sanitario come requisito praeter legem (Roiati). Al di là di comprensibili scetticismi sul piano della legalità – posto che, rispetto all’esegesi più immediata, come visto, si tratta forse di rileggere il testo in malam partem – il risultato è equilibrato e tendenzialmente condivisibile sul piano politico-criminale, poiché riporta al centro della disciplina l’elemento chiave per il contenimento della punibilità.
Per le Sezioni unite, la sentenza “Tarabori-De Luca”, preoccupata di sviluppare un’interpretazione costituzionalmente conforme della nuova disciplina, non era riuscita adeguatamente a far luce sul suo ambito applicativo, proponendone un’«interpretazione abrogatrice, di fatto in collisione con il dato oggettivo della iniziativa legislativa e con la stessa intenzione innovatrice manifestata in sede parlamentare». Alla sentenza “Cavazza”, invece, viene dato atto di aver cercato di valorizzare il dato letterale, attribuendo però alla norma codicistica di cui si sta trattando «portata applicativa impropriamente lata», in particolare per aver ritenuto plausibile la non punibilità anche di ipotesi di colpa grave.
La Corte ha ritenuto possibile pervenire a un’interpretazione costituzionalmente conforme, condensata in una pluralità di «principi di diritto». Nel tracciare le linee dell’interpretazione della nuova disciplina codicistica, si è preferito rovesciare la prospettiva del quesito rivolto alle Sezioni unite, impostato (più logicamente) in modo da ottenere una risposta in grado di illuminare direttamente «l’ambito applicativo della previsione di “non punibilità” prevista dall’art. 590-sexies c.p.». La sentenza “Mariotti”, al contrario, ha preferito elencare le ipotesi in cui «l’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica»:
«a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza;
b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;
c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nell’individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto;
d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico».
Rovesciando la prospettiva, l’art. 590-sexies c.p. conterrebbe una causa di non punibilità applicabile in caso di errore qualificabile in termini di imperizia lieve nell’esecuzione di linee guida o buone pratiche correttamente scelte alla luce delle specificità del caso concreto.
Per la Corte, in sintesi, a fronte di un sanitario «preparato sulle leges artis e impeccabile nelle diagnosi anche differenziali», non dovrà punirsi «il residuo dell’atto medico che appaia connotato da errore colpevole per imperizia», quando «può dirsi che si rimanga nel perimetro del “rispetto delle linee guida”, quando cioè lo scostamento da esse è marginale e di minima entità». In questo modo, si perviene a «circoscrivere un ambito o, se si vuole, un grado della colpa che, per la sua limitata entità, si renda compatibile con la attestazione che il sanitario in tal modo colpevole è tributario della esenzione della pena per avere rispettato, nel complesso, le raccomandazioni derivanti da linee-guida adeguate al caso di specie».
Quella appena considerata è l’operazione chiave compiuta dalle Sezioni unite, a cui la successiva giurisprudenza di merito e di legittimità ha fin qui costantemente dichiarato di attenersi, ancorché pervenendo assai di rado alla sussunzione di fatti concreti nell’area applicativa dell’art. 590-sexies, comma 2, c.p.
Tra le pronunce più importanti dopo le Sezioni unite, si può segnalare, ad esempio, Cass., 29 aprile 2021, n. 18347, che ha contribuito a una messa a fuoco del grado della colpa (a livello monografico, Delsignore; Poli; tra gli altri contributi, fondamentale Padovani; inoltre, ad esempio, Caputo; Mattheudakis): «si può parlare di colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato, rispetto al parametro dato dal complesso delle raccomandazioni contenute nelle linee guida di riferimento, quando cioè il gesto tecnico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia ed alle condizioni del paziente; e quanto più la vicenda risulti problematica, oscura, equivoca o segnata dall’impellenza, tanto maggiore dovrà essere la propensione a considerare lieve l’addebito nei confronti del professionista che, pur essendosi uniformato ad una accreditata direttiva, non sia stato in grado di produrre un trattamento adeguato e abbia determinato, anzi, la negativa evoluzione della patologia».
I profili intertemporali e il ruolo residuale dell’art. 2236 c.c.
Resta da considerare che, richiamando l’art. 2, comma 4, c.p., la sentenza “Mariotti” si è occupata dei profili intertemporali implicati dalla lettura proposta, per cui la disciplina penale del 2017 appare ampiamente meno favorevole rispetto a quella del d.l. “Balduzzi”. Una sostanziale continuità è stata esplicitamente ravvisata rispetto alla lieve imperizia «nella sola fase attuativa», che rimane oggi non punibile.
L’evoluzione in senso “peggiorativo” del quadro normativo ha sollecitato l’ennesima rivalutazione delle potenzialità applicative dell’art. 2236 c.c., a cui la Corte ha guardato con l’intento di gettare luce su strade alternative che possano consentire un approccio all’esercizio delle professioni sanitarie più indulgente (evidentemente avvertito come opportuno) di quello piuttosto limitato e non poco “tortuoso” coniato nel 2017. È apparso netto il giudizio di favore espresso dalle Sezioni unite nei confronti dell’impiego indiretto in sede penale della norma sulla responsabilità civile del prestatore d’opera: «merita di essere valorizzato il condivisibile e più recente orientamento delle sezioni penali che hanno comunque riconosciuto all’art. 2236 la valenza di principio di razionalità e regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia».
3. Gli spunti de iure condendo ricavabili dall’esperienza pandemica: le intuizioni del d.l. n. 44 del 2021.
3.Gli spunti de iure condendo ricavabili dall’esperienza pandemica: le intuizioni del d.l. n. 44 del 2021.L’esperienza pandemica e la conferma dei limiti dell’art. 590-sexies c.p.
Come è noto, la diffusione del virus SARS-CoV-2, iniziata tra la fine del 2019 e il principio del 2020, ha fatto rapidamente evolvere la relativa malattia COVID-19 in una pandemia, che, per ciò che qui rileva, ha messo ulteriormente a nudo i limiti della disciplina concepita nel 2017.
In particolare nelle fasi iniziali della pandemia, non solo non erano ovviamente reperibili linee guida accreditate secondo l’articolato sistema della l. “Gelli-Bianco”, ma mancavano anche (altre) buone pratiche minimamente consolidate (Palazzo). Più che “consumatori” critici di una medicina basata sulle evidenze scientifiche, come previsto nel quadro della l. n. 24 del 2017, i professionisti del settore si sono trovati a fare gli “sperimentatori”, cioè a far loro stessi maturare le evidenze scientifiche, non di rado tramite impieghi off-label, cioè atipici (di certo non ancora formalmente autorizzati), di farmaci già esistenti.
Pure i sistemi sanitari più evoluti si sono trovati quindi a fare i conti con un’incertezza scientifica disarmante, che ha consentito la verificazione di un numero elevatissimo di decessi dentro e fuori dagli ospedali. Si è passati presto da una prima fase in cui i sanitari venivano considerati degli eroi dell’emergenza, meritevoli di un sincronico applauso pubblico in tutto il territorio nazionale, all’imporsi di ondate di angoscia collettiva, se non di indignazione, che hanno creato terreno fertile per denunce, riproponendo scenari di “conflittualità” analoghi a quelli che erano stati alla base degli interventi di riforma concepiti proprio per ridimensionarli nel 2012 e 2017.
Il c.d. scudo vaccinale
Il legislatore ha presto preso posizione di nuovo, a ben vedere con due diverse discipline in favore del sanitario. Dapprima, si è provveduto con il d.l. 1° aprile 2021, n. 44, il cui art. 3 («Responsabilità penale da somministrazione del vaccino anti Sars-CoV-2») ha introdotto un’ipotesi di esclusione della punibilità dei sanitari addetti alla vaccinazione per le fattispecie di omicidio colposo e lesioni personali colpose, a condizione che l’uso del vaccino risultasse «conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio e alle circolari pubblicate nel sito internet istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione».
La disciplina speciale della punibilità per colpa in epoca pandemica
L’analisi sembra però dover privilegiare il secondo intervento normativo, sempre formalmente incardinato nel d.l. 1° aprile 2021, n. 44, ma inserito successivamente dalla legge di conversione 28 maggio 2021, n. 76, in un nuovo art. 3-bis, volto a disciplinare, incentrandola sul grado della colpa, la «Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario durante lo stato di emergenza epidemiologica da Covid-19». Nel comma 1 di tale articolo, si legge: «Durante lo stato di emergenza epidemiologica da Covid-19, dichiarato con delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, e successive proroghe, i fatti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale, commessi nell’esercizio di una professione sanitaria e che trovano causa nella situazione di emergenza, sono punibili solo nei casi di colpa grave». Nel comma 2 dello stesso articolo, si trova un raro tentativo legislativo di orientare (senza pretese di esaustività) il giudice nel ponderare il grado della colpa (Cupelli): «Ai fini della valutazione del grado della colpa, il giudice tiene conto, tra i fattori che ne possono escludere la gravità, della limitatezza delle conoscenze scientifiche al momento del fatto sulle patologie da SARS-CoV-2 e sulle terapie appropriate, nonché della scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare, oltre che del minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato impiegato per far fronte all’emergenza».
Spunti de iure condendo
Mosso dalla preoccupazione di dover intervenire rapidamente e con efficacia, il legislatore emergenziale del 2021 ha individuato un criterio di giudizio decisamente semplificato rispetto a quelli delle discipline ordinarie del 2012 e del 2017. Per il futuro, tale semplificazione potrebbe ben essere generalizzata, “sopravvivendo” all’esperienza pandemica (ad esempio, Mattheudakis; Veneziani; per una sensibilità parzialmente diversa, Micheletti, per cui profili di gravità della colpa sarebbero quasi automaticamente valorizzati qualora si ricostruisse la regola preventiva ricorrendo al concetto di «consuetudine cautelare», in quanto «la tipicità fondata sugli usi cautelari è già intrinsecamente incentrata su un requisito di gravità»). Dovrebbe infatti abbandonarsi la preoccupazione di ancorare una limitazione della responsabilità penale in questo settore a ulteriori profili specifici, quali la fedeltà alla medicina basata sulle evidenze scientifiche oppure la tipologia di colpa (negligenza, imprudenza e imperizia). Gli effetti collaterali sono stati più volte segnalati nelle pagine precedenti: ad esempio, si è preso atto che la medicina basata sulle evidenze scientifiche necessita di tempistiche di maturazione dilatate e copre soltanto frammentariamente il complesso delle attività sanitarie; si è visto poi come l’aggancio all’imperizia, giurisprudenzialmente ricercato anche quando non normativamente imposto, abbia contribuito a sterilizzare le ambizioni deflattive coltivate dal legislatore.
Anche sul piano comunicativo e quindi preventivo, un messaggio più limpido, nel senso di punire soltanto per errori grossolani e non minimi, potrebbe essere recepito come di sufficiente chiarezza e, anche per questo, potrebbe contribuire a rasserenare lo svolgimento quotidiano di professioni di fondamentale interesse pubblico, facendo sì che «l’interesse terapeutico torni finalmente al centro del rapporto con il paziente e che si possa parlare, a tutti gli effetti, di alleanza terapeutica» (Canestrari).
In senso analogo, si è peraltro pronunciato il relativo gruppo di lavoro dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (Caputo; Carraro; Perin; Mattheudakis), che, in particolare in una seconda versione, ha avanzato la seguente proposta di riformulazione della regola codicistica sulla punibilità per colpa del sanitario: «Se i fatti di cui agli articoli 589, 590 e 593-bis sono commessi nell’esercizio delle professioni sanitarie, la responsabilità penale è esclusa salvo che la colpa sia grave». Sembra opportuno rilevare che la stessa proposta ha espressamente reso sensibile il giudizio sul grado della colpa a quegli eventuali profili di carente organizzazione del contesto operativo (ad esempio della struttura ospedaliera) capaci di incidere sull’errore del sanitario (ad esempio, Bartoli): indubbiamente una scelta di armonizzazione del grado della colpa a fattori di esigibilità del comportamento cauto ideale, quindi di colpevolezza in senso stretto.
Si può infine considerare come una semplificazione dei criteri di valutazione della punibilità del sanitario consentirebbe plausibilmente di ottenere risultati più tangibili anche sul piano della dimensione relazionale della colpa, che in questo settore – le discipline positive fin qui succedutesi sembrano decisamente averlo trascurato (Massaro; Mattheudakis) – pervade ordinariamente il giudizio di responsabilità: la tutela della salute delle persone passa sempre più attraverso procedure che prevedono l’intervento di una pluralità di professionisti del settore, ognuno portatore di competenze specifiche. Sia prima che in costanza dell’attuale stagione delle riforme, la declinazione delle istanze di personalità della responsabilità penale nei contesti plurisoggettivi (Risicato) è stata demandata al principio di affidamento, che, per quanto sia supportato da argomenti più che validi sul piano dogmatico-costituzionale (M. Mantovani), ha fatto registrare prestazioni assai modeste nella prassi, incontrandosi nei precedenti giurisprudenziali sue valorizzazioni perlopiù soltanto nominali. Basando invece la valutazione della responsabilità direttamente (ed esclusivamente) sul grado della colpa, le inosservanze altrui verrebbero verosimilmente computate a carico del sanitario soltanto a fronte di una netta riconoscibilità di tali errori e di una altrettanto netta esigibilità di un comportamento “correttivo”.
Note bibliografiche
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