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ELEMENTI DI DIRITTO PENALE

Sezione V

L’infanticidio

Malaika Bianchi

Sommario: 1. Cenni storici.2. Bene giuridico e ratio del più mite trattamento sanzionatorio.3. Soggetto attivo e soggetto passivo.4. Condotta.5. Elemento soggettivo.6. Concorso di persone nel reato.7. Circostanze.8. Rapporti con altri reati.

1. Cenni storici.

1.Cenni storici.

Il delitto di infanticidio è previsto dall’art. 578 del codice penale e punisce con la reclusione da quattro a dodici anni “la madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto”. La norma prevede, inoltre, che “A coloro che concorrono nel fatto di cui al primo comma si applica la reclusione non inferiore ad anni ventuno. Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi. Non si applicano le aggravanti stabilite dall’articolo 61 del codice penale”.

La disciplina dell’infanticidio è mutata nel corso del tempo.

Nel Codice Zanardelli costituiva una circostanza attenuante del reato di omicidio volontario ed era caratterizzato dal fatto che la condotta fosse stata posta in essere per causa d’onore (“per salvare l’onore proprio, o della moglie, o della madre, della discendente, della figlia adottiva o della sorella”). Nel 1930, con il Codice Rocco, venne inquadrato, anche con modifiche nella sua configurazione tipica, come una fattispecie autonoma fra i cd. “delitti per causa d’onore” nell’ambito dell’art. 578 c.p. (“Infanticidio per causa d’onore”) (Caraccioli): il più mite trattamento sanzionatorio rispetto al delitto di omicidio era pertanto determinato da quella che all’epoca era considerata una “comprensibile” decisione (l’uccisione del feto o del neonato) per riparare un’offesa all’onore posto in discussione da un concepimento illegittimo (Ambrosetti).

Con il passare degli anni, sempre più numerose erano le spinte verso la soppressione di previsioni normative che si ponevano ormai in contrasto con l’evoluzione sociale e culturale. Ebbene, con la Legge n. 441/1981 è stato abrogato l’infanticidio per causa d’onore ed è stata contestualmente introdotta la fattispecie attualmente vigente. Quest’ultima si distingue dalla versione precedente per tre ragioni principali: il soggetto attivo del reato è la “madre” e non più “chiunque” (si tratta quindi di un reato “proprio” e non “comune”); il fatto deve essere stato determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto; i concorrenti possono beneficiare di un trattamento sanzionatorio attenuato qualora abbiano agito al solo scopo di favorire la madre.

2. Bene giuridico e ratio del più mite trattamento sanzionatorio.

2.Bene giuridico e ratio del più mite trattamento sanzionatorio.

Bene giuridico

Il bene giuridico tutelato è la vita del feto o del neonato. L’interesse protetto è pertanto il medesimo previso per il reato di omicidio, ossia la vita.

Perché allora è prevista una pena più mite? La ratio del diverso trattamento sanzionatorio è rilevabile sul piano meramente soggettivo, ossia sulla minore rimproverabilità della madre che versa in “condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto”. Il fatto, dunque, come recita la giurisprudenza, “è meno ‘colpevole’ in considerazione delle condizioni di turbamento psichico ed emotivo connesse al parto e del contesto di particolare difficoltà in cui viene a collocarsi” (Cass., 7 ottobre 2014, n. 48298).

3. Soggetto attivo e soggetto passivo.

3.Soggetto attivo e soggetto passivo.

Reato proprio

Soggetto attivo del reato è la “madre”. Si tratta pertanto di un “reato proprio”.

Con il termine “madre” la dottrina ha sempre fatto riferimento alla “madre naturale” (Larizza). Una parte della letteratura, in considerazione delle nuove prospettive della biotecnica in tema di gestazione e fecondazione, ha voluto precisare che in questo contesto, in ossequio alla lettera e alla ratio dell’art. 578 c.p., per madre debba intendersi la “madre di parto” (F. Mantovani). Questa differenziazione non è di poco conto, perché da essa dipende la punibilità a titolo di omicidio e non infanticidio (per il quale è previsto un trattamento sanzionatorio più mite) della madre che non è stata la gestante, ossia che non ha partorito il proprio figlio (si pensi, per esempio, alla madre genetica che ha fatto ricorso alla maternità surrogata).

Concorrenti

Gli eventuali concorrenti rispondono a titolo di omicidio e quindi è ad essi applicabile la pena più severa prevista dall’art. 575 c.p., salvo il caso in cui abbiano agito al solo scopo di favorire la madre: in quest’ultimo caso la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi.

Soggetto passivo

Soggetto passivo del reato è il “neonato immediatamente dopo il parto” o il “feto durante il parto”. Il riferimento sia al neonato sia al feto ha condotto la letteratura e la giurisprudenza, non solo a distinguere i due momenti, ma anche ad individuare una differenziazione rispetto al reato di procurato aborto (v. Legge 22 maggio 1978, n. 194, art. 19).

Si segue sostanzialmente un ordine cronologico.

La condotta di procurato aborto, prevista e punita dall’art. 19 della Legge 22 maggio 1978, n. 194, si realizza in un momento precedente il distacco del feto dall’utero materno.

Si fa riferimento al feto a partire dal momento del suo distacco dall’utero materno al momento in cui acquista vita autonoma (Nicosia, Tassinari, Larizza); mentre si fa riferimento al neonato dopo il compimento del parto, ossia dopo che il prodotto della gestazione è completamente uscito dal ventre materno e inizia la sua attività respiratoria autonoma (Antolisei, Larizza). Si può pertanto distinguere il feticidio, cioè l’uccisione del feto durante il parto, dall’infanticidio, cioè l’uccisione del neonato immediatamente dopo il parto (Girani).

Requisito necessario è che si tratti di esseri vivi (si cagiona infatti la morte solo di un essere vivo); non è invece richiesta la “vitalità”, intesa come capacità di vivere a lungo (v., da ultimo, Cass., 30 gennaio 2019, n. 27539).

Occorre sempre tenere presente che l’uccisione del feto o del neonato integreranno il reato di infanticidio solo in presenza dell’elemento specializzante delle “condizioni di abbandono materiale e morale della madre in relazione al parto”. In assenza di questo elemento, il fatto potrà configurare il delitto di omicidio volontario.

4. Condotta.

4.Condotta.

Come abbiamo anticipato, la condotta può consistere nell’uccisione del feto durante il parto oppure del neonato immediatamente dopo il parto.

Trattandosi di un reato “a forma libera”, che può pertanto essere commesso attraverso molteplici modalità, può essere realizzato sia con una condotta attiva che omissiva. La forma omissiva assume una particolare rilevanza in questo contesto, dal momento che la madre riveste una posizione di garanzia nei confronti del figlio (si pensi, per fare alcuni esempi, alla madre che non nutre il figlio appena nato, oppure che lo lascia giacere al freddo senza indumenti o coperte).

Momento temporale

Il momento temporale in cui avviene il fatto è chiaramente indicato nella norma: “durante il parto” o “immediatamente dopo il parto”. Il primo momento non crea particolari problemi interpretativi, mentre il secondo ha dato adito a diverse letture in dottrina e giurisprudenza che hanno cercato di dare un significato all’avverbio “immediatamente” al fine di individuare il tempo entro il quale può operare la fattispecie in esame. Se alcune pronunce giurisprudenziali vi danno una interpretazione puramente oggettiva, ritenendo che venga meno il requisito della “immediatezza”, e che quindi non sia configurabile il reato di infanticidio ma piuttosto quello di omicidio, per il solo fatto che la morte sia stata cagionata due giorni dopo il parto (Cass., 17 luglio 1989, in Riv. it. med. leg., 1991, 268.), la dottrina è critica verso questa rigida lettura, e ritiene che ciò che occorre accertare è che la madre si trovasse ancora, al momento della condotta, nello stato di intenso turbamento psichico legato al parto, nello stato di emozione che segue il parto (Fiandaca – Musco; Antolisei). Similmente alcuni Autori valorizzano la connessione dell’elemento dell’“immediatezza” con quello delle “condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto”, cosicché l’“immediatezza” perdurerà fino a quando sussistano le condizioni di abbandono connesse al parto (Ambrosetti, F. Mantovani).

“Abbandono materiale e morale”

Elemento centrale, che sostanzialmente caratterizza il reato, è dunque rappresentato dal concetto di “abbandono materiale e morale”: devono infatti essere state tali condizioni di abbandono connesse al parto ad aver determinato la madre ad uccidere il figlio.

Nessun dubbio sul fatto che i due attributi dell’abbandono (“materiale” e “morale”) debbano essere cumulativi, dal momento che il legislatore ha inserito la congiunzione “e”.

Non è univoca invece l’interpretazione in giurisprudenza della locuzione “abbandono materiale e morale”, da più parti infatti criticata per la sua indeterminatezza, che rischia di conferire al giudice un’ampia discrezionalità (F. Mantovani). Secondo un orientamento restrittivo, tale locuzione deve essere intesa in senso oggettivo e assoluto, ossia si deve trattare di una madre abbandonata in balia di sé stessa e che si trova in uno stato di isolamento tale da non lasciare prevedere né l’intervento o l’aiuto di terzi, né un qualsiasi soccorso materiale o morale, non solo da parte della famiglia ma anche da parte di presidi sanitari e assistenziali (Cass., 26 maggio 1993, n. 7756; Cass., 18 novembre 1991). Questa lettura molto restrittiva è stata criticata in dottrina, poiché renderebbe la fattispecie applicabile solo in casi eccezionali e porterebbe, per esempio, a non riscontrare l’elemento dell’“abbandono” e quindi a punire per il più grave reato di omicidio, nel caso della minorenne che, dopo aver tenuto celata la gravidanza all’esterno della famiglia, uccide il neonato subito dopo il parto effettuato in casa, assistita dai famigliari (v. Cass., 10 febbraio 2000, n. 2906).

Un altro orientamento, che sembra accolto dalla giurisprudenza più recente, sposta l’asse interpretativo sul profilo soggettivo, ritenendo sufficiente, affinché si possa parlare di abbandono materiale e morale, che la madre versi al momento del parto in una condizione di solitudine esistenziale che le impedisca di ricorrere, anche se presenti, a strutture o presidi sanitari. In questo senso si è espressa recentemente la Corte di Cassazione: “In tema di infanticidio, la situazione di “abbandono materiale e morale”, pur rappresentando elemento del fatto tipico, non deve rivestire carattere di assolutezza, in quanto è sufficiente ad integrarla la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto. Di conseguenza, la fattispecie prevista dall’art. 578 c.p. è applicabile anche quando sia possibile, nel contesto territoriale ove avviene il parto, il ricorso da parte della madre all’aiuto di presidi sanitari o di altre strutture, ma la condizione di solitudine esistenziale in cui versa la donna le impedisce di cogliere tali opportunità, inducendola a partorire in uno stato di effettiva derelizione” (Cass., 3 maggio 2022, n. 24949).

Quest’ultimo orientamento, che interpreta appunto in chiave soggettiva lo stato di abbandono della madre, sembra cogliere maggiormente la ratio del reato in commento e il suo distinguo rispetto all’omicidio: la partoriente che uccide il feto o il neonato in condizioni di abbandono materiale e morale riceve un trattamento sanzionatorio più mite rispetto a quello previsto per l’omicidio volontario proprio perché tali condizioni, pur rappresentando un dato oggettivo, incidono sulla sua minor rimproverabilità e quindi agiscono sul grado della colpevolezza (F. Mantovani).

5. Elemento soggettivo.

5.Elemento soggettivo.

Dolo generico

Il reato è punibile a titolo di dolo generico. La madre, pertanto, deve volere la morte del proprio feto o neonato e deve rappresentarsi di trovarsi in uno stato di abbandono morale e materiale.

Il reato è configurabile anche a titolo di dolo eventuale: si pensi, per esempio, al caso in cui la madre abbandoni il neonato nel cassonetto dei rifiuti, ove è possibile, ma non certo, che venga soccorso e quindi sostanzialmente la donna accetta il rischio della sua morte (Canestrari).

Non è prevista l’ipotesi di infanticidio colposo, pertanto se la madre cagiona per colpa la morte del feto o del neonato, la donna potrà rispondere per omicidio colposo (Patalano).

6. Concorso di persone nel reato.

6.Concorso di persone nel reato.

A coloro che partecipano nella commissione del reato di infanticidio non si applica la disciplina generale prevista per il concorso di persone nel reato di cui all’art. 110 c.p. La norma prevede infatti per i concorrenti una pena alla reclusione non inferiore ad anni 21, ossia la stessa sanzione prevista per il delitto di omicidio volontario. Tuttavia, a discrezione del giudice, la pena può essere diminuita in modo significativo (diminuzione da un terzo a due terzi) qualora il concorrente abbia agito al solo scopo di favorire la madre e ciò a ragione di una valutazione di minore colpevolezza dei concorrenti che abbiano agito a questo fine (in senso critico, Pulitanò). Una parte della dottrina rileva l’incoerenza sostanziale di questa circostanza attenuante, dal momento che i soggetti che hanno “agito al solo scopo di favorire la madre” possono essere parenti o amici della partoriente, ossia proprio coloro che avrebbero potuto prestarle quel supporto materiale e morale che invece alla donna è mancato e che costituisce il presupposto del delitto in esame (Ambrosetti).

7. Circostanze.

7.Circostanze.

La norma prevede, all’ultimo comma, un ulteriore privilegio sanzionatorio, statuendo che al fatto di infanticidio non sono applicabili le circostanze aggravanti comuni di cui all’art. 61 c.p. Si tratta di una scelta legislativa criticata in dottrina dal momento che non è agevole rinvenire la ratio politico criminale di tale esclusione, che peraltro si estende anche ad eventuali concorrenti (Ambrosetti).

Risultano invece applicabili le circostanze attenuanti comuni, sebbene una parte della dottrina ritenga non compatibile il delitto di cui all’art. 578 c.p. con la circostanza attenuante comune dell’“avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale” (art. 62, n. 1, c.p.), in quanto generica rispetto alla condizione di abbandono materiale e morale prevista dal delitto e pertanto risulterebbe da quest’ultima assorbita sulla base della regola di cui all’art. 15 c.p. (Antolisei, Spina).

All’infanticidio, trattandosi di una figura autonoma di reato, non sono estese le circostanze aggravanti speciali previste per il delitto di omicidio (artt. 576 e 577 c.p.).

8. Rapporti con altri reati.

8.Rapporti con altri reati.

I delitti più vicini a quello di infanticidio sono l’omicidio, il procurato aborto e l’abbandono di persone minori o incapaci.

L’elemento caratterizzante che distingue il delitto in esame dall’omicidio si fonda sulle condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto in cui versa la madre. Pertanto, non è sufficiente che la morte del feto o del neonato venga cagionata durante il parto o immediatamente dopo il parto affinché sia configurabile il delitto di infanticidio, ma occorre accertare che il fatto sia stato determinato dalle condizioni di abbandono materiale in connessione al parto, e pertanto, in assenza di questo elemento specializzante, la madre dovrà rispondere del più grave reato di omicidio volontario.

La differenza rispetto al delitto di procurato aborto, previsto e punito dall’art. 19 della Legge 22 maggio 1978, n. 194, consiste principalmente nel momento in cui avviene l’uccisione del feto. Mentre nel delitto di procurato aborto la condotta si realizza in un momento precedente il distacco del feto dall’utero materno, nel delitto previsto dall’art. 578 c.p., l’uccisione deve avvenire dal momento del distacco del feto dall’utero materno, durante il parto, oppure del neonato immediatamente dopo il parto.

Con il delitto di abbandono di persone minori o incapaci (art. 591 c.p.) si punisce «chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a sé stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura» ed è previsto un aumento di pena se da tale condotta deriva la morte del soggetto passivo, secondo la struttura del reato aggravato dall’evento morte. La norma si presta dunque a disciplinare anche il caso dell’abbandono, da parte della madre, del neonato e della sua conseguente morte. L’individuazione del reato da applicare in questo caso (“abbandono di persone minori o incapaci” oppure “infanticidio”) dipende dall’elemento soggettivo. La differenza fra le due ipotesi criminose, infatti, risiede nell’imputazione soggettiva: mentre nel delitto di infanticidio l’evento morte è addebitabile alla madre a titolo di dolo (la madre vuole la morte del proprio feto o neonato), o quantomeno a titolo di dolo eventuale (la madre accetta il rischio di cagionarne la morte), nel delitto di abbandono di persone minori o incapaci, la morte del soggetto passivo non è preveduta e voluta dal colpevole ma è una conseguenza non voluta dell’abbandono. Si può fare un esempio di “abbandono di persone minori o incapaci” nel caso del neonato lasciato nel periodo estivo, ossia in una condizione climatica non rigida e avversa, in un luogo molto frequentato, e quindi in un contesto in cui può essere agevolmente trovato e soccorso (Masera, Patalano). Diverso è evidentemente il caso del neonato chiuso in un sacchetto di plastica e riposto nel cassonetto dei rifiuti. Si richiama a quest’ultimo proposito una pronuncia della giurisprudenza di merito che ha riconosciuto sussistente il delitto di infanticidio, nella forma tentata, anziché il delitto di abbandono di persone minori o incapaci, in un caso di abbandono di un neonato (in seguito tuttavia salvato) in un cassetto dei rifiuti da parte della madre (“Il fatto della madre minorenne che, al fine di sbarazzarsi del proprio neonato (successivamente ritrovato e salvato), subito dopo il parto lo pone in un involucro di plastica, chiuso con due nodi, non preoccupandosi minimamente di lasciargli la possibilità di respirare, e lo deposita in un cassonetto per la raccolta dei rifiuti, sito sulla strada, pur essendo consapevole che il neonato può morire perché schiacciato da altri rifiuti o comunque per la remota eventualità che un passante possa accorgersi tempestivamente del piccolo, integra gli estremi del tentativo di infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale, ex art. 56 e 578 c.p.”, T. min. Bari, 7 aprile 1988, in Foro it., 1988, II, 530).

Note bibliografiche

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