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    Questo volume non è incluso nella tua sottoscrizione. Il primo capitolo è comunque interamente consultabile.

    Informazioni sul volume

    Autore:

    Alberto Cadoppi, Paolo Veneziani

    Editore:

    CEDAM

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    ELEMENTI DI DIRITTO PENALE

    Sezione III

    L’omicidio preterintenzionale e la morte o le lesioni come conseguenza di altro delitto

    Mostra tutte le note

    Matteo L. Mattheudakis

    Sommario: 1. La fisionomia del modello di illecito preterintenzionale. – 1.1. Il delitto doloso di base. – 1.2. L’evento ulteriore quale conseguenza necessariamente non voluta del delitto doloso di base. – 1.3. L’alternativa tra responsabilità oggettiva e imputazione sostanzialmente colposa dell’evento più grave di quello voluto: il dibattito dottrinale. – 2. Gli orientamenti della giurisprudenza sull’art. 584 c.p.: la prevalenza di una responsabilità oggettiva sotto mentite spoglie nella casistica. – 3. La disciplina dell’art. 586 c.p. nel quadro della preterintenzione in senso ampio.

    1. La fisionomia del modello di illecito preterintenzionale.

    1.La fisionomia del modello di illecito preterintenzionale.

    L’omicidio preterintenzionale disciplinato dall’art. 584 c.p. è l’unica declinazione esplicita, nel senso di nominale, della preterintenzione nella parte speciale (non solo del codice penale, ma) dell’intero panorama penalistico italiano: «Chiunque, con atti diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli articoli 581 e 582, cagiona la morte di un uomo, è punito con la reclusione da dieci a diciotto anni».

    Il modello generale di illecito preterintenzionale

    Per quanto sia necessario fare rinvio a trattazioni di parte generale per una più dettagliata messa a fuoco del modello di illecito a cui ci si riferisce, pare comunque indispensabile, in questa sede, ricostruirne i tratti identitari, onde poter chiarire anche la scelta di affrontare congiuntamente la fattispecie di omicidio preterintenzionale ex art. 584 c.p. e quella di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto ex art. 586 c.p.

    Diversamente da altre figure che gravitano nell’orbita dell’imputazione colpevole, come ad esempio il dolo eventuale, la preterintenzione trova indubbiamente una esplicita legittimazione: è il legislatore a prevederla e a definirla già nella parte generale del codice penale, quale forma di responsabilità ipotizzabile esclusivamente per i delitti e non anche per le contravvenzioni, punibili soltanto a titolo di dolo o di colpa. Nel 2° alinea del comma 1 dell’art. 43 c.p. si legge che il delitto «è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente».

    Trattamento sanzionatorio

    Si è appena accennato che la preterintenzione attiene al generale “capitolo” dell’imputazione colpevole, ma si avrà modo di constatare che le ragioni ineludibili del principio costituzionale di colpevolezza dovrebbero trovare proprio qui un riconoscimento decisamente maggiore, considerate, in particolare, le serie implicazioni sul piano detentivo che quotidianamente derivano da condanne per omicidio preterintenzionale. Si tratta infatti di un reato punito con la reclusione da 10 a 18 anni e rispetto al quale assai di rado si riesce ad evitare l’ingresso in carcere (per alcune eccezionali applicazioni della sospensione condizionale della pena, ad esempio, G.I.P. Trib. Monza, 23 settembre 1999; Cass., 30 ottobre 2013, n. 12413).

    La struttura bipolare dell’illecito preterintenzionale

    Come si vedrà a breve, la giurisprudenza non perviene mai a un completo svuotamento della colpevolezza, ma la concentra sul primo dei due segmenti di cui la fattispecie preterintenzionale si compone. Pare allora opportuno mettere subito a fuoco proprio questa struttura bipolare che il legislatore ha profilato e che è evocata persino dalla terminologia impiegata: si dà un oggetto a cui si riferisce l’intenzione dell’agente e poi vi è un quid pluris, cioè «un evento dannoso o pericoloso più grave», che va «oltre l’intenzione», praeter intentionem.

    L’impostazione legislativa consente dunque di individuare un fatto doloso di base e un segmento logicamente ulteriore – tra i due segmenti può tracciarsi una convenzionale linea di confine più che altro su un piano logico e non necessariamente anche cronologico – che qualifica la fattispecie “complessa” arricchendola significativamente in termini di gravità. Per concretizzare il discorso, si può tornare a fare riferimento alla declinazione dell’art. 584 c.p., che è incentrata sulla verificazione dell’evento morte – un accadimento di gravità estrema – quale sviluppo di un fatto riconducibile alle fattispecie dolose di percosse (art. 581 c.p.) oppure di lesioni personali (art. 582 c.p.), che, effettivamente, esprimono un disvalore meno pregnante.

    1.1. Il delitto doloso di base.

    1.1.Il delitto doloso di base.

    La natura dolosa e illecita del fatto di base

    Alla base dell’illecito preterintenzionale vi è, come accennato, un fatto doloso, al quale è opportuno dedicare alcune considerazioni. La definizione di parte generale dell’art. 43 c.p. non sembra qualificarlo come un comportamento necessariamente illecito, ma occorre tenere presente che se si potesse prescindere da tale profilo di disvalore iniziale si offuscherebbe pressoché del tutto la ratio dell’istituto, che mira a profilare una responsabilità qualificata proprio dalla circostanza che l’evento finale è conseguenza di un fatto di per sé disapprovato dall’ordinamento. Se si volge lo sguardo alla soluzione prescelta per l’omicidio preterintenzionale, si può constatare che, effettivamente, il legislatore ha incentrato il primo segmento dell’illecito su comportamenti descritti tramite il riferimento a fattispecie esse stesse delittuose: come visto, si tratta dei reati di percosse (art. 581 c.p.) e lesioni personali (art. 582 c.p.), cioè reati comuni che valgono, in definitiva, a qualificare anche la figura di omicidio prevista dall’art. 584 c.p. quale reato comune, realizzabile da chiunque, come del resto anche il dettato codicistico suggerisce.

    L’espressione comparativa «evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente» potrebbe sembrare orientata nel senso di implicare la presenza di un doppio evento nella struttura della preterintenzione: uno al centro già del fatto di base voluto e l’altro a qualificare il segmento logico ulteriore in termini di maggiore gravità. Come spesso accade con riferimento alle disposizioni formulate nel 1930, l’esegesi deve tenere conto delle peculiarità del concetto penalistico di evento, che si presta a una lettura almeno duplice.

    Potrebbe sostenersi che il legislatore non abbia qui inteso riferirsi all’evento in senso naturalistico, ma all’evento in senso giuridico, cioè al piano dell’offensività. In questa prospettiva non sembra potersi escludere che il fatto doloso di base concreti un reato classificato di mera condotta sul piano naturalistico; conclusione che sembra peraltro conciliarsi con il riferimento testuale (anche questo interno all’art. 43, comma 1, 2° alinea, c.p.) all’«azione od omissione» da cui l’evento finale «deriva».

    Come è noto, la tendenza di dottrina e giurisprudenza contemporanee è quella di mettere a fuoco le definizioni di parte generale sui criteri di imputazione colpevole rapportandole essenzialmente all’evento in senso naturalistico, senza con ciò voler implicare uno sbarramento ai reati di mera condotta per ciò che riguarda il segmento di base dell’illecito preterintenzionale.

    Entrambe le prospettive appena richiamate sembrano potersi conciliare con la scelta dello stesso legislatore di strutturare l’art. 584 c.p. come illecito sorretto potenzialmente tanto da un reato di evento (quello di lesioni personali) quanto da un reato di mera condotta (quello di percosse).

    Il parallelismo con la disciplina del tentativo: la problematica sufficienza del dolo eventuale

    Si è discusso se sia indispensabile la piena integrazione dell’illecito doloso di base, se basti il ricorrere degli estremi del tentativo oppure ancora se ci si possa accontentare persino di qualcosa di meno. Il dibattito finora sviluppatosi su questo aspetto sembra risentire delle peculiarità della formulazione dell’art. 584 c.p., a cui è ancora una volta opportuno guardare, pur con la consapevolezza che il modello generale, in particolare su questi aspetti, potrebbe forse essere declinato anche diversamente.

    Autorevole dottrina ha posto l’accento sul fatto che nella descrizione dell’omicidio preterintenzionale, mentre la proiezione delittuosa degli atti è chiaramente menzionata, ancorché spoglia del carattere di univocità, manca un richiamo espresso del requisito dell’idoneità degli atti (Grosso; per recenti considerazioni critiche, volte a suggerire un recupero in via interpretativa della materialità e della concreta pericolosità degli atti, Seminara). La giurisprudenza richiede comunque che sussistano quantomeno gli estremi del tentativo, ma è poco coerente con questa affermazione nel momento in cui si pronuncia sulla fisionomia del coefficiente di colpevolezza del delitto di base. Da un lato, in termini generali, la stessa giurisprudenza continua a proporre l’orientamento che richiede un dolo più pieno rispetto a quello eventuale per il delitto tentato (Cass., 26 febbraio 2015, n. 34704 e Cass., 5 dicembre 2014, n. 14554), mentre nel contesto applicativo dell’art. 584 c.p. sembra invece consolidato l’orientamento per il quale «Il delitto di omicidio preterintenzionale ricorre, con riguardo all’elemento psicologico, anche quando gli atti diretti a commettere uno dei delitti previsti dagli artt. 581 e 582 c.p., dai quali sia derivata, come conseguenza non voluta, la morte, siano stati posti in essere con dolo eventuale» (ad esempio, Cass., 13 ottobre 2010, n. 40202; Cass., 6 dicembre 2022, n. 11670; in senso contrario, in dottrina, Plantamura).

    1.2. L’evento ulteriore quale conseguenza necessariamente non voluta del delitto doloso di base.

    1.2.L’evento ulteriore quale conseguenza necessariamente non voluta del delitto doloso di base.

    La questione più controversa nella trattazione dell’illecito preterintenzionale e della sua principale declinazione di parte speciale è indubbiamente quella relativa alla definizione del criterio di imputazione dell’evento più grave di quello voluto.

    La produzione necessariamente non dolosa dell’evento più grave (morte) di quello voluto

    Al riguardo, l’art. 584 c.p. è silente, ma si può comunque muovere da un punto fermo: l’evento finale dell’illecito preterintenzionale non può essere voluto (Canestrari). Se il dolo si estendesse a tale evento, il fatto ricalcherebbe piuttosto la descrizione del 1° alinea del comma 1 dell’art. 43 c.p., che definisce il delitto doloso. Così, nell’ambito dell’omicidio preterintenzionale, l’agente non dovrebbe esprimere nemmeno un dolo eventuale rispetto all’epilogo mortale derivante dalla propria condotta (per una tesi volta invece a ricostruire la preterintenzione proprio come forma di imputazione dell’evento sostanzialmente corrispondente a quello che si suole indicare come dolo eventuale, Caterini), altrimenti sussisterebbe (esclusivamente) il più grave reato dell’art. 575 c.p. Lo conferma la giurisprudenza, la quale sembra però allargare oltremodo l’ambito applicativo dell’omicidio doloso nella misura in cui nega, non senza una certa disinvoltura sul piano argomentativo, qualsiasi spazio alla colpa con previsione dell’evento nello spettro della versione preterintenzionale del delitto, in particolare affermando che «la volontà dell’agente è diretta a percuotere o a ferire la vittima, con esclusione assoluta di ogni previsione dell’evento morte» (Cass., 25 febbraio 2014, n. 5676).

    1.3. L’alternativa tra responsabilità oggettiva e imputazione sostanzialmente colposa dell’evento più grave di quello voluto: il dibattito dottrinale.

    1.3.L’alternativa tra responsabilità oggettiva e imputazione sostanzialmente colposa dell’evento più grave di quello voluto: il dibattito dottrinale.

    L’esclusione del dolo rispetto al segmento logico finale dell’illecito preterintenzionale lascia comunque aperto – anzi contribuisce soltanto in minima parte a darvi risposta – l’interrogativo sulla precisa identità del criterio di imputazione dell’evento più grave di quello voluto, che nell’economia dell’art. 584 c.p. corrisponde alla morte della persona percossa o lesa. Le principali alternative che si dividono il campo sono la tesi che ritiene di poter parlare di responsabilità oggettiva e quella per cui sarebbe necessario accertare un coefficiente sostanzialmente colposo.

    Entrambe le prospettive hanno trovato diverse declinazioni, soprattutto in dottrina, dove la frammentazione delle posizioni è particolarmente significativa (per una ricognizione recente, si veda anche Botto).

    La tesi dell’illecito preterintenzionale come misto di dolo e responsabilità oggettiva

    La lettura che può forse identificarsi come quella tradizionale è nel senso che la responsabilità oggettiva (per l’evento più grave di quello voluto) sia il criterio di imputazione deputato ad associarsi al dolo (per il fatto di base) nella definizione della fisionomia della figura criminosa in commento (ad esempio, Fiandaca-Musco). La ratio dell’incriminazione rinvierebbe così al ben noto principio di matrice canonistica del versari in re illicita: qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu. In sostanza, l’autore di un illecito volontario come quello di percosse oppure quello di lesioni personali si collocherebbe in un’area di aperto contrasto con l’ordinamento tale da fargli “meritare” (come se operasse una forza magnetica capace di attrarre automaticamente tutte le implicazioni negative dell’illecito di base) anche l’addebito di un più grave epilogo come quello mortale, non importa se sviluppatosi accidentalmente, per puro caso.

    Sul piano testuale, il limite di tale prospettiva è quello di sottovalutare la scomposizione interna all’art. 42 c.p., che menziona la responsabilità oggettiva come una forma di ascrizione del fatto ulteriore («altrimenti») non soltanto rispetto a quella dolosa e colposa, ma anche a quella preterintenzionale.

    Ponendo mente alla struttura del successivo art. 43 c.p. viene poi sollecitato un rilievo di carattere sistematico, nel senso che non sembra doversi trascurare la scelta di collocare la definizione del delitto preterintenzionale in posizione intermedia rispetto a quelle di delitto doloso e delitto colposo (Canestrari; M. Romano), come a sottolinearne una natura autonoma, al limite ibrida, ma in ogni caso non riconducibile al fenomeno residuale della responsabilità oggettiva.

    L’impellenza di una lettura costituzionalmente compatibile

    Inoltre e soprattutto, la prospettiva tradizionale non riesce a offrire una convincente soluzione de iure condito al problema di cui talvolta non manca comunque di dichiararsi consapevole, cioè il contrasto insanabile della responsabilità oggettiva col principio costituzionale di colpevolezza di cui all’art. 27, commi 1 e 3, Cost., così non valorizzando appieno le potenzialità dell’interpretazione conforme suggerita – rectius: imposta – dalla Corte costituzionale per le ipotesi in cui il testo non la precluda drasticamente. In questo senso è fondamentale l’apporto “metodologico” della sentenza n. 322 del 2007, con cui la “Consulta” ha appunto imposto all’interprete alle prese con una norma di sospetta illegittimità costituzionale di «verificare la praticabilità di una interpretazione secundum Constitutionem»: «il principio di colpevolezza – quale delineato dalle sentenze n. 364 e n. 1085 del 1988 di questa Corte – si pone non soltanto quale vincolo per il legislatore, nella conformazione degli istituti penalistici e delle singole norme incriminatici; ma anche come canone ermeneutico per il giudice, nella lettura e nell’applicazione delle disposizioni vigenti».

    In giurisprudenza, come si vedrà a breve nel dettaglio, si è spesso preteso invece di “contrabbandare” come qualcosa di diverso ciò che, in realtà, non è altro che una responsabilità oggettiva.

    Ampia parte della dottrina contemporanea, con l’intento di proporre soluzioni compatibili con il principio costituzionale di colpevolezza, a prescindere dal significato attribuibile in origine alla preterintenzione (e all’omicidio preterintenzionale in particolare), ne sviluppa oggi una lettura quale fattispecie connotata da un affiancamento al dolo di un criterio di imputazione (quantomeno sostanzialmente) colposo. Ciò che va subito evidenziato è che si tratta di un panorama particolarmente variegato, nel quale le istanze dell’art. 27 Cost. trovano una gamma di declinazioni assai ampia.

    La tesi dell’illecito preterintenzionale come misto di dolo e (normale) colpa generica

    Una componente della letteratura penalistica (in particolare Dolcini; Basile) sostiene la tesi per cui non vi sarebbero differenze davvero significative tra la colpa generica che si è abituati ad accertare in contesti intrinsecamente leciti e quella che occorre riscontrare in associazione a comportamenti dolosi che di per sé rendono già illecito il fatto. In tale prospettiva, si ravvisa la possibilità di edificare la regola cautelare finalizzata alla prevenzione dell’evento ulteriore più grave basandosi sul consueto agente modello, talvolta identificato con il parametro meno specifico della persona ragionevole.

    La tesi dell’illecito preterintenzionale come misto di dolo e colpa generica «oggettivata»

    Un’altra nota impostazione (Canestrari) condivide con quella appena richiamata la necessità di basare il giudizio di colpevolezza per la verificazione dell’evento ulteriore sulla violazione di regole di condotta a scopo preventivo, pur ritenendo che la fisionomia della colpa in attività illecite sia peculiare («colpa generica oggettivata»). Il parametro decisivo, stante l’impossibilità di rintracciare ipotetici agenti ideali in contesti di rischio ab origine vietato, dovrebbe identificarsi non nell’homo eiusdem professionis et condicionis, ma nell’«uomo mediamente avveduto». Questa tesi ritiene l’illecito penale preterintenzionale configurabile a condizione che nel delitto doloso di base sia riconoscibile (anche) la tipizzazione di una situazione di rischio in cui sia oggettivamente prevedibile l’esito ulteriore: il reato doloso deve quindi essere un illecito di pericolo astratto verso i beni giuridici protetti dalla complessiva fattispecie preterintenzionale.

    Le tesi dell’illecito preterintenzionale come misto di dolo e (mera) prevedibilità in concreto dell’evento più grave di quello voluto

    Lo scetticismo sulla possibilità di configurare vere e proprie regole cautelari in re illicita è invece ciò che accomuna altra parte della dottrina, che reputa più esatto riferirsi alla prevedibilità in concreto dell’evento svincolata da una cornice deontica. Questa prospettiva è solitamente supportata da chi intravede il rischio di un cortocircuito logico-giuridico nell’imporre a chi delinque un comportamento cauto: «non può ritenersi che, allo stesso tempo, l’ordinamento giuridico vieti una condotta e indichi (colpa specifica) o recepisca (colpa generica) le cautele – rectius: le modalità – per il suo svolgimento; poiché lo stesso concetto di condotta implica necessariamente sue proprie modalità, negarne la sua (lecita) esistenza giuridica non può che significare la irrilevanza giuridica di ogni concreta possibile modalità per la sua realizzazione» (Carmona; in senso critico, si vedano le recenti considerazioni di De Francesco). Il principio di colpevolezza sarebbe in ogni caso salvaguardato – si afferma – poiché la (mera) prevedibilità in concreto dell’evento riuscirebbe, nei contesti illeciti, a “surrogare” degnamente la colpa, riproponendone peraltro alcune importanti note strutturali: non c’è dubbio che la prevedibilità sia una delle colonne portanti dell’imputazione colposa, ancorché di per sé non sia ritenuta sufficiente, di regola, a fondare un rimprovero per colpa.

    La tesi dell’illecito preterintenzionale come forma di «responsabilità da rischio totalmente vietato»

    Tra gli orientamenti che ritengono che non si possa configurare una vera e propria culpa in re illicita, il più eccentrico rispetto allo sviluppo contemporaneo del dibattito sul principio di colpevolezza, se non altro sul piano terminologico, pare quello elaborato sul concetto di «responsabilità da rischio totalmente illecito» (Pagliaro). Tale forma di responsabilità, incentrata sulla possibilità di controllo finalistico del fatto, viene problematicamente definita anche «obiettiva» (o «senza dolo né colpa»), ma ciò nonostante dichiarata compatibile col principio di colpevolezza, poiché asseritamente differente anche dalle ipotesi di imputazione basata sul solo nesso di causalità (per una rassegna delle obiezioni, in particolare, Canestrari).

    Il concetto di comportamento (cauto) subordinatamente doveroso e le recenti valorizzazioni delle regole cautelari «proprie» nei contesti intrinsecamente illeciti

    In un recente studio monografico sulle diverse forme di «imputazione colpevole differenziata» (Mattheudakis), cioè di combinazione di dolo e colpa (in argomento, si veda, in particolare, anche Demuro), si è avuto modo di proporre una lettura della preterintenzione (sviluppata misurandosi ampiamente con la principale casistica delle figure criminose degli artt. 584 e 586 c.p.) tale da valorizzare alcune delle intuizioni delle tesi precedenti, proponendo però un punto di vista non perfettamente sovrapponibile a una in particolare di esse.

    La premessa che orienta lo sviluppo del discorso è che sia ben possibile e del tutto coerente per l’ordinamento tutelare i beni giuridici imponendo (anche) a chi delinque di contenere il più possibile il pregiudizio del proprio comportamento. È evidente che la norma penale che incrimina il fatto doloso di base abbia il significato di indicare chiaramente ai consociati l’astensione dal fatto stesso. Tuttavia, non è ragionevole pensare – sarebbe peraltro contraddetto dall’esistenza di molti istituti di creazione legislativa, come, ad esempio, le circostanze aggravanti – che l’ordinamento si disinteressi, sul piano logico-giuridico di tutto ciò che oltrepassi la soglia dell’illecito.

    Rispetto a condotte disapprovate come quelle che integrano un delitto doloso, si è tenuti a ripensare il concetto di rischio consentito, dovendosi riconoscere che in tali situazioni l’ordinamento non ha interesse a tollerare pericoli “accessori”. Il che, però, implica non già l’impossibilità di qualsiasi valutazione deontica subordinata (rispetto all’astensione) e funzionale a un giudizio di colpa, ma, piuttosto, che le regole cautelari concepibili in re illicita siano quelle che parte della dottrina, efficacemente, definisce «proprie» (Veneziani), cioè volte a garantire, almeno in una prospettiva ex ante, il “risultato pieno”, ossia non la semplice riduzione ma un tendenziale azzeramento del rischio di verificazione di eventi tipici (diversi da quelli voluti).

    L’eventuale imbarazzo nella definizione dell’impegno cautelare può e deve essere superato non cercando necessariamente di individuare una in particolare tra le possibilità realizzative di una condotta illecita. Del resto, anche rispetto alle condotte consentite dall’ordinamento è ben possibile che non ci sia un solo modo cauto di comportarsi, ma che le cautele siano fungibili, come è stato evidenziato da parte della dottrina (Cornacchia). Se si può anche convenire sul fatto che, spesso, non sia affatto semplice ricavare suggerimenti collaudati su “come fare” esattamente ad attuare una condotta criminosa, è però altrettanto vero che è ben possibile determinare, tramite una mappatura oggettiva dei rischi connessi a un determinato agire del quale siano note le possibili implicazioni, “cosa non fare” al fine di “limitare i danni”. Così, per esemplificare, se l’obiettivo criminoso del soggetto è percuotere o provocare non più che delle lesioni personali (quindi non la morte), ecco che è ipotizzabile la regola cautelare propria che (non suona esplicitamente nel senso di indirizzare l’agente a colpire, ad esempio, le dita, ma) impone di non colpire in testa, perché, come è ben noto, esercitando violenza al capo di una persona, il rischio di morte è tutt’altro che trascurabile.

    Le criticità dei principali modelli di agente nel definire la regola cautelare in re illicita

    Nell’individuazione “in negativo”, cioè per esclusione, di un comportamento (cauto) subordinatamente doveroso, la prevedibilità oggettiva si rivela un parametro più appropriato rispetto a talune figure modello di agente. Ad esempio, pare sopravvalutata la reale rappresentatività di quella casistica talvolta richiamata con l’ambizione di dimostrare la pertinenza anche in re illicita del parametro dell’homo eiusdem professionis et condicionis. Quando ci si riferisce alla realizzazione di un aborto illegale, che richiederebbe l’impiego delle stesse cautele esigibili dal medico che realizzi una lecita interruzione di gravidanza, oppure alla guida trasportando sostanze stupefacenti, che imporrebbe il ricorso alle stesse precauzioni in tema di circolazione stradale a cui si atterrebbe qualsiasi onesto cittadino (patentato) intenzionato a incarnare il guidatore modello (Basile), si finisce per focalizzare impropriamente l’attenzione su contesti non intrinsecamente criminosi ma soltanto occasionalmente viziati da profili di illiceità penale (Canestrari; Loreto; Putinati; si vedano inoltre Donini-Ramponi; Plantamura).

    Nemmeno i riferimenti alla «persona ragionevole» e all’«uomo mediamente avveduto», per quanto mossi dall’apprezzabile intento di “umanizzare” ampiamente già sul piano della tipicità l’imputazione dell’evento ulteriore, paiono pienamente al riparo da rilievi problematici. Il concetto di reasonable person, particolarmente diffuso nell’area di common law, dove è sostanzialmente inteso quale trasversale canone di razionalità dell’agire umano nell’intero ordinamento giuridico, presenta qualche limite di determinatezza, al punto da indurre autorevole dottrina penalistica statunitense a evocare l’immagine mitologica dell’Idra di Lerna, un velenoso mostro anfibio a più teste, di cui la persona ragionevole rischierebbe di assumere le sembianze (Vitiello). Il criterio della media avvedutezza, invece, potrebbe non conciliarsi al meglio con il drastico assottigliamento del rischio consentito negli ambiti intrinsecamente illeciti, che suggerisce piuttosto uno standard elevato di cautela, che si concretizza a partire dal possesso da parte dell’agente di adeguate conoscenze del contesto concreto, le quali potrebbero andare ben oltre il patrimonio informativo comune a qualsiasi consociato. Occorre infatti tenere presente che attività criminose come quelle aggressive o il traffico di stupefacenti (che è alla base di molte contestazioni dell’art. 586 c.p.), richiedono delle vere e proprie conoscenze scientifiche (di anatomia, fisiologia, chimica ecc.) – si deve naturalmente pensare a delle nozioni semplificate, in funzione della c.d. valutazione parallela nella sfera del laico; non si allude alla necessità di una laurea – affinché il rischio di verificazione di sviluppi dannosi di gravità eccedente rispetto al voluto sia adeguatamente governato. In questa prospettiva, lo scarto conoscitivo riscontrabile in un agente concreto completamente “improvvisato”, anziché rilevare ai fini di un’esclusione della c.d. misura soggettiva (di colpevolezza in senso stretto) del segmento colposo dell’illecito preterintenzionale potrebbe piuttosto fondare spesso una sorta di colpa per assunzione.

    L’importanza delle garanzie dell’imputazione colposa

    È in ogni caso da tenere fermo il riferimento alla cornice deontica della regola cautelare, che consente un’adeguata valorizzazione dei nessi tra violazione cautelare ed evento, in particolare del criterio della necessaria congruenza tra il rischio iniziale e l’evento finale, non a caso a lungo appannato nell’esperienza giurisprudenziale di quei Paesi d’oltralpe dove in sede applicativa la mera prevedibilità è stata spesso preferita alla colpa (in argomento, Canestrari; inoltre, Basile).

    Parlare convintamente di colpa invece che sostituire tale concetto complesso con alcune soltanto delle sue componenti consente anche di valorizzare meglio i profili di colpevolezza colposa. Al di là degli spazi effettivi che in re illicita questioni sulla c.d. misura soggettiva della colpa possono ritagliarsi, non vi sono ragioni per precluderne a priori un apprezzamento, che invece il criterio della mera prevedibilità rischia di estromettere dal giudizio.

    2. Gli orientamenti della giurisprudenza sull’art. 584 c.p.: la prevalenza di una responsabilità oggettiva sotto mentite spoglie nella casistica.

    2.Gli orientamenti della giurisprudenza sull’art. 584 c.p.: la prevalenza di una responsabilità oggettiva sotto mentite spoglie nella casistica.

    Consultando i repertori giurisprudenziali è sempre più raro riscontrare un’esplicita legittimazione della responsabilità oggettiva quale criterio di addebito dell’evento più grave di quello voluto. Verso la fine degli anni ’90 del secolo scorso è infatti iniziato il superamento della terminologia di quell’orientamento che fin lì si ripeteva nel senso che «va confermato che la corretta interpretazione dell’art. 584 c.p. impone di ritenere che per integrare in tutti i suoi estremi il delitto di omicidio preterintenzionale è sufficiente il rapporto di causalità tra la condotta di aggressione (atti diretti a percuotere o ledere) e l’evento morte non essendo necessaria la prevedibilità di quest’ultimo, e che quindi l’art. 584 c.p. prevede un caso di dolo misto a responsabilità oggettiva» (Cass., 2 ottobre 1996, n. 9197).

    La lettura finora più ricorrente nella giurisprudenza di legittimità

    A ben vedere, l’imbarazzo conseguente a un anacronistico accoglimento “alla luce del sole” della responsabilità oggettiva ha via via indotto la stessa giurisprudenza non tanto a mutare sostanzialmente il proprio orientamento tradizionale quanto a ripiegare su un equilibrismo verbale volto a edulcorarne le forme. L’evoluzione di questo percorso ha condotto all’affermazione del seguente refrain, che sembra rappresentare la posizione più ricorrente quantomeno nell’ultimo decennio in sede di legittimità: «L’elemento psicologico del delitto di omicidio preterintenzionale non è costituito da dolo e responsabilità oggettiva né da dolo misto a colpa, ma unicamente da dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità dell’evento più grave nell’intenzione di risultato» (tra le ultime, Cass., 24 maggio 2018, n. 28706).

    Al di là della contorta formulazione del principio di diritto, che di per sé non rende molto onore alla funzione nomofilattica che compete alla Corte di cassazione, è comunque riconoscibile una rievocazione delle risalenti tesi (in particolare Leone, in aperta polemica con de Marsico) del dolo misto a “colpa” in astratto (per violazione della legge penale), come conferma l’immediata precisazione che in alcuni precedenti si può leggere in aggiunta al passaggio pocanzi citato: «Pertanto, la valutazione relativa alla prevedibilità dell’evento da cui dipende l’esistenza del delitto de quo è nella stessa legge, essendo assolutamente probabile che da una azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa» (Cass., 18 ottobre 2012, n. 791; adesivamente, ad esempio, Cass., 21 settembre 2016, n. 44986).

    In dottrina, già da diverso tempo, si è chiarita l’estraneità di un simile criterio di imputazione rispetto al concetto di colpa conforme a Costituzione, che richiede un accertamento in concreto della prevedibilità dell’evento e non certo una sua affermazione presuntiva (Antolisei). Non c’è dubbio, infatti, che una simile forma di culpa in re ipsa si risolva in un «travestimento verbale della responsabilità oggettiva» (Canestrari; analogamente, Trapani), come, del resto, indizia anche la dichiarata concezione unitaria dell’«elemento psicologico» dell’illecito, riferito soltanto al suo segmento di base. È allora difficile negare che si finisca per accreditare un addebito dell’evento qualificante su base meramente causale, cioè oggettiva; conclusione che non viene meno neppure ricorrendo ai correttivi alla base della causalità umana oppure adeguata.

    Recenti aperture alla colpa quale criterio di imputazione dell’evento morte

    Fino a pochissimo tempo fa, occorreva risalire sino al 2006 per incontrare l’ultimo precedente noto della Corte di legittimità in cui si ricostruiva chiaramente l’imputazione preterintenzionale in termini costituzionalmente conformi: «L’elemento psicologico dell’omicidio preterintenzionale è costituito da dolo misto a colpa: dolo, rispetto alle percosse e alle lesioni effettivamente volute; colpa, rispetto all’evento morte in concreto realizzatosi, dovendosi quindi verificare, di volta in volta, la concreta prevedibilità ed evitabilità dell’evento maggiore ai fini dell’imputazione. Ciò in quanto deve necessariamente postularsi la colpa dell’agente almeno in relazione agli elementi più significativi della fattispecie, fra i quali il complessivo ultimo risultato vietato (la morte), se non si vuole incorrere nel divieto ex art. 27, commi 1 e 3, Cost., della responsabilità oggettiva cosiddetta pura o propria» (Cass., 22 settembre 2006, n. 37385).

    Da ultimo, la stessa Corte di legittimità (Cass., 27 settembre 2022, n. 46467) ha finalmente riconosciuto che la propria precedente e diffusa posizione, più sopra criticata, «non sgombra del tutto il campo dal rischio di reintrodurre, sotto mentite spoglie, una vera e propria responsabilità oggettiva, in quanto essa prescinde da ogni concetto di prevedibilità in concreto dell’evento morte, rinviando ad una prevedibilità in astratto, operata una volta per tutte dal legislatore». Con la medesima pronuncia si è quindi privilegiato un «inquadramento della cornice dell’elemento soggettivo dell’omicidio preterintenzionale nell’alveo del dolo accompagnato da colpa», lasciando così sperare in un nuovo percorso di riallineamento ai valori costituzionali dell’omicidio preterintenzionale.

    La casistica di riferimento

    Mettendo in relazione diretta la morte con i delitti di lesioni personali e percosse subiti dallo stesso individuo (per una recente rivalutazione, quantomeno di fatto, delle possibili discrasie tra soggetto percosso o leso e persona deceduta, con ampi riferimenti alla controversa figura dell’omicidio preterintenzionale aberrante, Cass., 11 dicembre 2018, n. 13192; Cass., 21 gennaio 2022, n. 15269, entrambe relative alla nota vicenda di piazza San Carlo di Torino del 2017, su cui Mattheudakis), la tipizzazione dell’omicidio preterintenzionale evoca perlopiù dinamiche violente. Risulta immediato pensare, ad esempio, a un’aggressione realizzata non tanto a mani nude ma con l’ausilio di un’arma capace (nonostante il fine non sia – non può esserlo – quello di uccidere) di infliggere ferite mortali, ad esempio un bastone o un coltello. Quindi, se Tizio, pur volendo “soltanto” “dare una lezione” a Caio, lo accoltella in un punto del corpo assai delicato per la sopravvivenza (colpisce l’addome penetrando il cuore) provocandone la morte, risponderà di omicidio preterintenzionale, a condizione che tale evento risulti concretamente prevedibile alla luce di tutte le circostanze della specifica vicenda.

    Va rilevato come, assai di frequente, il reato in esame venga applicato a fronte di gesti non estremamente violenti, consistenti in particolare in strattoni e spinte, rispetto a cui la prevedibilità della morte (solitamente per la caduta a terra battendo il capo) non appare in generale indiscutibile. Può trattarsi anche di comportamenti inquadrabili in altre fattispecie, come la rapina ex art. 628 c.p. (che infatti è tipizzata in modo da poter essere integrata da atti violenti sulla persona), ma se la morte avviene per effetto di condotte comunque di per sé riconducibili alle percosse o alle lesioni personali l’illecito in definitiva giudicato pertinente è quello dell’art. 584 e non quello di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto ex art. 586 c.p. (ad esempio, Cass., 12 novembre 2008, n. 44751; più di recente, Cass., 21 gennaio 2022, n. 15269).

    Sembra poi da precisare che l’omicidio preterintenzionale non incontra in assoluto una preclusione alla sua configurazione in ambiti non strettamente violenti. Guardando ai repertori di giurisprudenza, si trova infatti traccia di alcuni procedimenti (perlopiù dei decenni scorsi) incentrati sulla produzione dell’evento morte per effetto di somministrazione consensuale a terzi di sostanze stupefacenti tramite iniezione (ad esempio, Cass., 13 febbraio 2004, n. 13987).

    3. La disciplina dell’art. 586 c.p. nel quadro della preterintenzione in senso ampio.

    3.La disciplina dell’art. 586 c.p. nel quadro della preterintenzione in senso ampio.

    Il concetto di preterintenzione in senso ampio

    In precedenza si è opportunamente dato conto del fatto che è prevista una sola declinazione esplicita della preterintenzione nell’ambito della parte speciale. Se il delitto dell’art. 584 c.p. è l’unico a definirsi apertamente preterintenzionale, questo non preclude la possibilità di pervenire comunque all’individuazione di caratteristiche omogenee in altre fattispecie.

    Affinché si possa parlare di preterintenzione in senso ampio (cioè oltre il dato letterale) occorre indubbiamente che la fattispecie “complessa” si componga di un segmento basilare a imputazione dolosa e di un evento più grave necessariamente non voluto, rispetto al quale, come più volte considerato, la colpa è decisamente da preferire alla responsabilità oggettiva, così da evitare un contrasto insanabile con il principio costituzionale di colpevolezza. Sembra cogliere nel segno la già menzionata dottrina (Canestrari) che, oltre a ciò, richiede una saldatura pregnante tra i due poli dell’illecito, nel senso che il delitto doloso di base deve rappresentare un illecito di pericolo astratto nei confronti dei beni giuridici che vengono compromessi al momento della verificazione dell’evento qualificante. Sulla valorizzazione di questo legame, che – si badi bene – è aggiuntivo e non sostitutivo all’accertamento concreto della colpa, converge peraltro anche parte di quella dottrina che pure non crede nella possibilità di edificare vere e proprie regole cautelari in re illicita (ad esempio, Donini). Soltanto a questa condizione si può continuare a riconoscere il senso di un istituto distinto rispetto alle ipotesi di occasionale e più “anonimo” combinarsi di un illecito doloso e di uno colposo. Tale condizione sembra peraltro l’unica su cui fare leva per giustificare il trattamento sanzionatorio che assai di frequente il legislatore concepisce in termini più severi rispetto a quello che risulterebbe applicando la disciplina del concorso di reati.

    La struttura dell’art. 586 c.p. e il rinvio per la definizione della pena

    Un esplicito incremento sanzionatorio si riscontra in una delle fattispecie più spesso ricondotta all’ambito preterintenzionale, ossia quella dell’art. 586 c.p., rubricato «Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto»: «Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’articolo 83, ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentate».

    A sua volta, l’art. 83 c.p., in particolare nel comma 2, rinvia alla disciplina del concorso di reati e quindi ai relativi criteri di cumulo delle pene. Il più pertinente appare il cumulo giuridico, applicabile ordinariamente nei casi di concorso formale di reati (originato cioè da un’unica azione od omissione): ex art. 81, comma 1, c.p., si applica «la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo». Il rinvio alla disciplina del concorso di reati non deve però fuorviare: l’art. 586 c.p. dà comunque vita, in definitiva, a un unico delitto, con dignità autonoma e non, al di là delle apparenze, a una pluralità di reati effettivamente in concorso.

    A livello strutturale, posto che vi deve essere, alla base, un delitto – anche in questo caso sono escluse le contravvenzioni – doloso e, come sviluppo dello stesso, una più grave «conseguenza non voluta dal colpevole», emergono chiaramente i connotati tipici dell’illecito penale praeter intentionem ampiamente messi a fuoco in queste pagine.

    Come si può agevolmente notare, l’evento più grave di quello voluto può qui consistere anche nelle lesioni personali, che nell’ambito dell’omicidio preterintenzionale sono invece collocate necessariamente nel segmento logicamente iniziale, di base dell’illecito.

    Sul piano del soggettivo attivo e di quello passivo, la clausola aperta che richiama in maniera imprecisata il delitto doloso di base non consente una univoca qualificazione dell’illecito dell’art. 586 c.p. in termini di reato comune o reato proprio.

    L’affermazione della colpa rispetto all’evento più grave di quello voluto nella casistica relativa agli stupefacenti

    A differenza di quanto visto con riferimento all’omicidio preterintenzionale, la figura in questione tende già da diverso tempo a essere interpretata in senso costituzionalmente conforme. In un autorevole precedente di legittimità dedicato all’ambito applicativo privilegiato dell’art. 586 c.p., ossia quello di cessione di sostanze stupefacenti (delitto previsto dal d.p.r. 309/1990) seguito da morte (Militello), si è infatti affermato il seguente principio di diritto: «nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 c.p. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il nesso di causalità tra cessione e morte, non interrotto da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la morte sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che quindi sia accertata in capo allo stesso la presenza dell’elemento soggettivo della colpa in concreto, ancorata alla violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma penale che incrimina il reato base) e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assume la sostanza, valutate dal punto di vista di un razionale agente modello che si trovi nella concreta situazione dell’agente reale ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale» (Cass., Sez. un., 22 gennaio 2009, n. 22676).

    La casistica del suicidio della persona offesa del delitto doloso di base

    Particolarmente controversa è la casistica nella quale il delitto dell’art. 586 c.p. viene contestato in occasione della morte per suicidio della persona offesa di un reato doloso, come ad esempio l’estorsione. Nel delicato tentativo di declinare in tali ambiti il principio costituzionale della personalità della responsabilità penale, si tende ad affermare l’imputazione dell’evento mortale all’autore del fatto di base qualora l’epilogo suicida non sia il frutto di una libera scelta della vittima, ma appaia come uno sviluppo indotto dal fatto di base, prevedibile e privo di agevoli alternative, considerate tutte le circostanze del caso concreto (Cass., 4 aprile 2019, n. 38060; in tale caso, la Corte di legittimità ha ritenuto sussistente la prevedibilità in concreto del rischio dell’evento suicidiario in ragione della fragilità psichica della giovane vittima degli estorsori, dello stato di tossicodipendenza e della profonda prostrazione determinata dalle gravi e reiterate minacce, nonché del fatto che il suicidio si era verificato a distanza di poche ore dall’ultima telefonata estorsiva).

    Rilievi di costituzionalità sul trattamento sanzionatorio

    La dottrina che ritiene in ogni caso non giustificabile una pena anche minimamente più afflittiva di quella prevista per il concorso di reati (in particolare, Basile) solleva una questione di proporzione – riferibile a tutte le ipotesi di preterintenzione, anche in senso ampio – agganciata all’art. 27 Cost., questa volta non denunciando una violazione del nullum crimen sine culpa, quanto, piuttosto, della dimensione graduante del principio di colpevolezza, che imporrebbe il ricorso a pene commisurate (e non superiori rispetto) alla colpevolezza effettiva dell’agente nella realizzazione del fatto concreto. Se si considera in particolare il trattamento sanzionatorio dell’art. 584 c.p., si può convenire sull’opportunità di apportare una mitigazione, poiché il massimo edittale si avvicina troppo al minimo previsto per l’omicidio doloso. Resta però evidente che proporre di fare ricorso alla pena prevista per il concorso di reati, al di là delle problematicità legate all’individuazione della pena per una malattia la cui esatta entità è spesso oscurata dal sopraggiungere pressoché immediato dell’evento mortale (De Francesco), condurrebbe sostanzialmente a una eliminazione degli spazi di dignità autonoma dell’illecito preterintenzionale. Un’equilibrata riflessione politico-criminale non sembra poter ignorare che l’esito sarebbe assai probabilmente quello di una problematica dilatazione degli spazi applicativi dell’omicidio volontario per dolo eventuale.

    Note bibliografiche

    de Marsico A., Colpa per “inosservanza di leggi” e reato aberrante, in Ann. dir. e proc. pen., 1940, 237 ss.; Leone G., Il reato aberrante (art. 82 e 83 cod. pen.), Napoli, 1940; Antolisei F., La colpa per inosservanza di leggi e responsabilità obiettiva, in Giust. pen., 1948, II, 1 ss.; Grosso C.F., Rapporti tra condotta ed evento nell’art. 584 c.p., in Riv. it. dir. e proc. pen., 1962, 822 ss.; Militello V., La responsabilità penale dello spacciatore per la morte del tossicodipendente, Milano, 1984; Canestrari S., L’illecito penale preterintenzionale, Padova, 1989; Donini M., Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991; Canestrari S., Preterintenzione, in Digesto pen., IX, 1995, 694 ss.; Dolcini E., Responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza. Qualche indicazione per l’interprete in attesa di un nuovo codice penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 863 ss.; Veneziani P., Regole cautelari “proprie” ed “improprie” nella prospettiva delle fattispecie colpose causalmente orientate, Padova, 2003; Cornacchia L., Concorso di colpe e principio di responsabilità penale per fatto proprio, Torino, 2004; Romano M., Commentario sistematico del codice penale, I, 3a ed., Milano, 2004; Basile F., La colpa in attività illecita. Un’indagine di diritto comparato sul superamento della responsabilità oggettiva, Milano, 2005; Canestrari S., Preterintenzione, in Cassese S. (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, II, Milano, 2006, 4481 ss.; Trapani M., La divergenza tra il “voluto” e il “realizzato”, I, Torino, 2006 (ristampa inalterata dell’edizione del 1992, Milano, Giuffrè); Loreto A., Reati aggravati dall’evento e colpa nelle attività illecite. Un dibattito ancora aperto, tra incertezze dogmatiche e prospettive di riforma, in Indice pen., 2007, 419 ss.; Caterini M., Il reato eccessivo. La preterintenzione dal versari in re illicita al dolo eventuale, Napoli, 2008; Putinati S., Responsabilità dolosa e colposa per le circostanze aggravanti, Torino, 2008; Carmona A., La “colpa in concreto” nelle attività illecite secondo le Sezioni Unite. Riflessi sullo statuto della colpa penale, in Cass. pen., 2009, 4585 ss.; Vitiello M., Defining the Reasonable Person in the Criminal Law: Fighting the Lernaean Hydra, in Lewis & Clark Law Review, 2010, 1435 ss.; Donini M.-Ramponi L., Il principio di colpevolezza, in Insolera G.-Mazzacuva N.-Pavarini M.-Zanotti M. (a cura di), Introduzione al sistema penale, I, 4a ed., Torino, 2012, 283 ss.; Plantamura V., L’omicidio preterintenzionale. Pure come species del genus “omicidio improvviso”, Pisa, 2016; Fiandaca G.-Musco E., Diritto penale. Parte generale, 8a ed., Bologna, 2019; Demuro G.P., La combinazione dolo-colpa. Un modello generalizzabile a partire dalla preterintenzione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2020, 543 ss.; Mattheudakis M.L., L’imputazione colpevole differenziata. Interferenze tra dolo e colpa alla luce dei principi fondamentali in materia penale, Bologna, 2020; Pagliaro A., Principi di diritto penale, Parte generale, 9a ed. (riveduta e aggiornata da Militello G.-Parodi Giusino M.-Spena A.), Milano, 2020; De Francesco G., In tema di colpa. Un breve giro d’orizzonte, in Leg. pen., 3 febbraio 2021; De Francesco G., Lineamenti di una riforma delle fattispecie qualificate dall’offesa alla vita e all’incolumità personale, in La riforma dei reati dolosi, e preterintenzionali, contro la vita e l’integrità. Relazioni di accompagnamento alla proposta di articolato (“La riforma dei reati contro la persona”), in www.aipdp.it, 2021, 94 ss.; Botto M., L’omicidio preterintenzionale, in Cadoppi A.-Canestrari S.-Manna A.-Papa M. (diretto da), Diritto penale, II, Milano, 2022, 5127 ss.; Mattheudakis M.L., Ancora un’aberrazione applicativa dell’omicidio preterintenzionale, in Giur. it., 2022, 2226 ss.; Seminara S., I delitti contro la persona, in Bartoli R.-Pelissero M.-Seminara S., Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, 2a ed., Torino, 2022, 3 ss.; Canestrari S., I delitti di omicidio doloso e preterintenzionale, in Canestrari S.-Curi F.-Fondaroli D.-Manes V.-Mantovani M.-Nisco A.-Tordini Cagli S., Diritto penale. Percorsi di parte speciale, Torino, 2023, 3 ss.

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