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    Questo volume non è incluso nella tua sottoscrizione. Il primo capitolo è comunque interamente consultabile.

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    Autore:

    Alberto Cadoppi, Paolo Veneziani

    Editore:

    CEDAM

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    ELEMENTI DI DIRITTO PENALE

    Sezione II

    L’omicidio colposo

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    Massimiliano Lanzi

    Sommario: 1. Analisi della fattispecie di omicidio colposo. L’elemento oggettivo. – 2. L’elemento soggettivo dell’omicidio colposo. – 3. Ipotesi aggravate di omicidio colposo. La violazione di norme sulla sicurezza del luogo di lavoro e l’esercizio abusivo di una professione o di un’arte sanitaria. – 4. Omicidio colposo plurimo.

    1. Analisi della fattispecie di omicidio colposo. L’elemento oggettivo.

    1.Analisi della fattispecie di omicidio colposo. L’elemento oggettivo.

    La terza figura di omicidio, alternativa all’omicidio doloso e a quello preterintenzionale, è l’omicidio colposo, previsto e punito all’art. 589 c.p., il cui primo comma statuisce che «chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni».

    Sul piano dell’elemento oggettivo, si tratta di un reato comune, in quanto può essere commesso da «chiunque». Trattandosi tuttavia di un reato di evento, occorre considerare che, in caso di configurazione omissiva, l’agente deve rivestire una posizione di garanzia, idonea a fondare un obbligo giuridico impeditivo dell’evento secondo il criterio di equivalenza causale di cui all’art. 40, comma 2, c.p., per il quale «non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo».

    Definizioni di «vita» e «morte»

    La norma individua il soggetto passivo del reato in «una persona»; si tratta, all’evidenza, di una formulazione più corretta rispetto a quella utilizzata nella fattispecie di omicidio volontario ex art. 575 c.p., la quale fa invece riferimento all’uccisione di «un uomo». Ai fini della configurazione del reato in parola, ad ogni modo, rilevano tutte le questioni in tema di definizione giuridico-penale del concetto di «vita» e «morte», già passate in rassegna nel capitolo dedicato all’omicidio doloso, e al quale si fa quindi integrale riferimento. Tali concetti, infatti, individuano i limiti, rispettivamente, iniziale e finale di applicazione della fattispecie. Prima dell’inizio della «vita», una condotta colposa che cagioni la perdita di vitalità di un feto sarà inquadrabile, piuttosto, nella fattispecie di interruzione colposa di gravidanza – casistica questa affatto infrequente, specie in ambito di colpa medica. Al termine opposto dello spettro applicativo della fattispecie, perché si possa configurare un omicidio colposo occorre che sopraggiunga l’evento morte, normativamente descritto come morte cerebrale, e che la stessa sia riconducibile, sul piano causale, alla condotta colposa dell’agente.

    La fattispecie è quindi strutturata, sul piano oggettivo, su due profili fondamentali.

    Anzitutto occorre che si verifichi una condotta qualificabile come colposa, ai sensi della disposizione generale di definizione normativa della colpa di cui all’art. 43 c.p. La colpa consiste, in buona sostanza, nella violazione di una regola cautelare, ovvero di una regola volta a prevenire – secondo un giudizio di prevedibilità ed evitabilità, generato dall’esperienza – un certo evento lesivo, o comunque a ridurne le probabilità di verificazione. A seconda della diversa efficacia impeditiva dell’evento, la dottrina suole distinguere tra regole cautelari proprie, che comportano la certezza che un certo evento lesivo non si verificherà, e regole cautelari improprie, le quali si limitano a ridurne le probabilità di verificazione (Veneziani). La disposizione codicistica dell’art. 43 c.p. riconduce la colpa alla violazione di regole cautelari tanto scritte (inquadrabili in leggi, regolamenti, ordini o discipline – c.d. colpa specifica) quanto non scritte, consistenti in negligenza, imprudenza e imperizia – c.d. colpa generica. Queste ultime, in particolare, sono sostanzialmente ricostruite ex post dal giudice, il quale deve accertare se, all’epoca dei fatti e facendo riferimento quindi al bagaglio conoscitivo ed esperienziale in allora esistente, la condotta tenuta dall’agente fosse da considerarsi prudente, diligente e perita, secondo un parametro costituito dall’agente modello di riferimento, o se piuttosto lo stesso avrebbe dovuto agire diversamente, o addirittura astenersi dalla condotta tenuta. È bene ricordare, inoltre, che la presenza di particolareggiate normative cautelari in alcuni contesti – si pensi ad esempio alla circolazione stradale – non esclude che il giudice possa comunque riscontrare come una certa condotta, pur rispettosa di tutte le norme scritte del caso, fosse comunque, in virtù delle particolari e concrete circostanze del singolo caso, censurabile come imprudente, negligente o imperita (vd. ad esempio Cass., 19 giugno 2023, n. 26290).

    Causalità della colpa

    Per la configurazione dell’omicidio colposo, tuttavia, non è sufficiente l’individuazione di una condotta colposa da parte dell’agente, occorrendo altresì l’accertamento che tale comportamento – attivo o omissivo – sia stato causale alla verificazione dell’evento morte di una persona. In merito al nesso causale, lo stesso deve essere ricostruito secondo gli ordinari criteri della sussunzione sotto leggi scientifiche di riferimento. La causalità della colpa presuppone e richiede, in particolare, che l’evento verificatosi sia la concretizzazione del rischio sotteso alla regola cautelare violata. In altre parole, che si sia verificato proprio l’evento che quella specifica regola cautelare, violata dall’agente, mirava a scongiurare. E così, ad esempio, la regola che prescrive al tiratore sportivo di caricare l’arma solo una volta giunto alla piazzola di tiro è tesa ad evitare che colpi accidentali possano colpire altri avventori del poligono; se il tiratore Tizio viola tale disposizione, passeggiando per il poligono con un’arma carica, e dalla stessa parte accidentalmente un colpo che ferisce mortalmente l’ignaro Caio, la condotta di Tizio è qualificabile come omicidio colposo di Caio; in quanto si è verificato proprio l’evento che la regola cautelare, violata da Tizio, ambiva a scongiurare.

    Causalità omissiva

    Nella configurazione omissiva, naturalmente, il percorso di accertamento logico deve mirare ad accertare l’eventuale colpa insita nel non aver tenuto una certa condotta, e come tale omissione sia stata causa dell’evento morte di una persona. Occorre verificare, quindi, che una regola cautelare, scritta o non scritta, avrebbe imposto all’agente di attivarsi, e che proprio questa inattività sia stata causale alla verificazione dell’evento.

    Si tratta, com’è intuibile, di un accertamento per nulla semplice, specie in alcuni ambiti ad elevata inferenza, cioè nei quali si sommano plurime condotte tenute da molti soggetti diversi, anche per finestre temporali molto ampie.

    È necessario rilevare come, proprio in tema di causalità colposa – nella specie, omissiva – vi siano stati importanti approdi giurisprudenziali, di cui è opportuno dare conto. In particolare, nella famosa sentenza delle Sezioni Unite nel caso Franzese, del 2002, il Supremo Collegio ha chiarito come il rapporto di causalità tra condotta ed evento non possa essere ricostruito in termini di mera probabilità statistica, ma debba essere verificato piuttosto alla stregua di un alto livello di probabilità logica.

    2. L’elemento soggettivo dell’omicidio colposo.

    2.L’elemento soggettivo dell’omicidio colposo.

    L’omicidio colposo è punibile, naturalmente, a titolo di colpa, la quale ad un elemento positivo, corrispondente all’avvenuta violazione di una regola cautelare – sopra descritto – ne associa uno negativo, costituito dall’assenza di volontà dell’evento. Ciò significa che l’agente agisce sì violando una regola cautelare, ma senza tuttavia volere la morte di una persona come conseguenza della propria condotta. In caso contrario, naturalmente, si configurerebbe un omicidio doloso ex art. 575 c.p., e non già colposo.

    Colpa con previsione

    Ai fini della configurabilità della colpa, tuttavia, non osta, come noto, la circostanza che l’agente abbia purtuttavia previsto l’evento lesivo, poi concretamente verificatosi. Ai sensi dell’art. 43, comma 3, c.p., infatti, il reato è colposo, o contro l’intenzione, «quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente». L’avvenuta previsione dell’evento configura la ricorrenza della c.d. colpa cosciente, o colpa con previsione, e comporta l’applicazione di una circostanza aggravante, comune e ad effetto comune, di cui all’art. 61, n. 3, c.p.

    Distinzione tra colpa cosciente e dolo eventuale

    Ed è proprio sulla distinzione di tale criterio di imputazione soggettiva e la contigua, ma qualitativamente ben diversa, figura del dolo eventuale, o dolo indiretto, che si sono sviluppate le più interessanti disquisizioni dogmatiche in tema di omicidio colposo, nei suoi confini rispetto all’omicidio doloso. Sul punto si rinvia a quanto esposto nel capitolo dedicato, appunto, all’omicidio volontario. Giova qui ribadire, in estrema sintesi, come la più recente giurisprudenza abbia – a nostro avviso, correttamente – ristretto l’accertamento del dolo eventuale a quei soli casi in cui sia concretamente riscontrabile in capo all’agente un’accettazione del rischio del verificarsi di un certo evento lesivo, da riscontrarsi in quelle ipotesi in cui, in buona sostanza, laddove l’agente avesse avuto la certezza, e non solo il dubbio, che dalla propria condotta sarebbe derivata la morte di una persona, avrebbe comunque proceduto.

    Nel caso in cui invece l’agente, pur avendo preveduto la possibilità di un tale evento lesivo, abbia poi agito nella convinzione che questo evento non si sarebbe verificato, e non avrebbe agito altrimenti, si è nel perimetro della colpa, non già del dolo.

    Questa distinzione, seppur da un certo punto di vista sottile e di non facile accertamento, è idonea a mutare radicalmente la portata di una contestazione criminale, già solo in punto di conseguenze sanzionatorie, considerando come l’omicidio volontario sia punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno, mentre l’omicidio colposo con la reclusione nel massimo di cinque anni. Per non parlare, poi, della ben diversa portata sul piano del significato sociale di una e dell’altra ipotesi. L’omicidio colposo, infatti, corrisponde pur sempre ad un “incidente”, che suscita nell’opinione pubblica delle emozioni ben diverse rispetto a quelle destinate ad un “assassino” in senso stretto, che ha agito con volontà di cagionare la morte di un altro essere umano.

    3. Ipotesi aggravate di omicidio colposo. La violazione di norme sulla sicurezza del luogo di lavoro e l’esercizio abusivo di una professione o di un’arte sanitaria.

    3.Ipotesi aggravate di omicidio colposo. La violazione di norme sulla sicurezza del luogo di lavoro e l’esercizio abusivo di una professione o di un’arte sanitaria.

    L’omicidio colposo, nell’impostazione originaria del codice penale, era senz’altro ipotesi di ben minore portata applicativa rispetto all’omicidio doloso; così come del resto, in linea generale, i reati colposi costituivano quasi un’eccezione rispetto al tradizionale e preminente interesse del diritto penale per gli illeciti dolosi, i quali costituivano la grandissima parte delle ipotesi criminose, sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo.

    L’affermazione dello stato sociale di diritto e lo sviluppo e la massificazione delle attività produttive ha comportato un ribaltamento di tale assetto originario. L’uomo svolge ormai una enorme quantità di attività rischiose, ciascuna delle quali è dotata di un proprio capillare e articolato statuto cautelare di riferimento, la cui inosservanza è fonte di responsabilità (colposa) per colui che la svolge, nel caso in cui ne conseguano degli esiti lesivi. Tali fatti hanno raggiunto una magnitudo di grande portata, vuoi per le accresciute capacità lesive dei grandi processi produttivi, vuoi per l’aumentata attenzione sociale e mediatica per incidenti ormai considerati intollerabili, specie quando si verificano in certi contesti.

    C.d. colpa per assunzione

    In giurisprudenza, a tale riguardo, ha trovato ampio spazio la categoria della c.d. colpa per assunzione, per cui nello svolgimento di attività pericolose consentite, deve essere maggiore la diligenza e la perizia richieste dall’agente, per cui la persona che la svolga senza avervi le competenze necessarie versa, appunto, in colpa rispetto ad eventuali eventi lesivi che ne derivino; per essersi assunta, in buona sostanza, un compito che andava oltre le proprie capacità.

    Ipotesi aggravate di omicidio colposo

    Alcuni ambiti di maggiore interesse sociale in tema di illeciti colposi hanno quindi meritato negli anni un trattamento speciale e differenziato rispetto a quello ordinario, collocato nel comma secondo dell’art. 589 c.p., il quale prevedeva pene aggravate per l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla sicurezza sul luogo di lavoro (fenomeno delle c.d. morti bianche), ovvero con violazione delle norme relative alla circolazione stradale. Questa seconda casistica è ora assorbita in una nuova e distinta fattispecie, introdotta nel 2016: l’omicidio stradale di cui all’art. 589-bis c.p., destinato proprio a fornire una risposta penale più robusta al fenomeno della c.d. criminalità stradale.

    Omicidio colposo per violazione delle cautele sul luogo di lavoro

    Resta quindi nel perimetro del secondo comma dell’art. 589 c.p. l’omicidio colposo commesso «con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro»; fattispecie per la quale la norma commina la pena della reclusione da due a sette anni. Occorre considerare, ad ogni modo, che la disposizione in parola, anche alla luce della consolidata interpretazione giurisprudenziale, costituisce una circostanza aggravante dell’omicidio colposo “base” di cui al primo comma, e come tale è sottoposta al giudizio di bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti del reato, rispetto alle quali potrà anche essere considerata equivalente o soccombente.

    Sebbene anche l’omicidio colposo aggravato di cui al secondo comma resti, formalmente, un reato comune (in quanto può essere commesso da «chiunque»), la responsabilità colposa in tema di infortuni sul lavoro non può che riguardare quei soli soggetti sui quali, alla luce delle normative giuslavoristiche, gravino specifichi obblighi cautelari nei confronti della salute dei lavoratori. Si tratta quindi, piuttosto, di una fattispecie a soggettività ristretta, per cui solo costoro, cui la legge riconosce una qualificata posizione di garanzia, possono essere chiamati a risponderne.

    Il datore di lavoro

    Il soggetto responsabile per antonomasia nel settore della sicurezza sul luogo di lavoro è il datore di lavoro (vd. art. 2 d.lgs. n. 626/1994); questi coinciderà, di regola, con l’amministratore o con il rappresentante legale della società alla quale è intestato, formalmente, il rapporto di lavoro. Ma non necessariamente: occorre verificare, infatti, l’effettività dei poteri di gestione economica e la concreta ingerenza nell’attività organizzatoria dell’impresa. Nelle strutture societarie complesse è ammesso che il datore di lavoro conferisca delega ad altro soggetto per l’assunzione di obblighi di sicurezza sul luogo di lavoro, la quale è valida a condizione che – oltre ad una serie di requisiti formali – siano individuati soggetti adatti e dotati di adeguata capacità di spesa e autonomia decisionale, secondo quanto disposto dagli artt. 16 ss. del d.lgs. n. 81/2008; e al netto di una serie di obblighi che, ai sensi della medesima legge, non risultano delegabili.

    Il preposto

    A questi si affianca, poi, il preposto, ovvero una figura titolare di obblighi propri di apprestamento di misure di sicurezza, così come di sorveglianza e di segnalazione di situazioni di pericolo ovvero di mancato rispetto delle prescrizioni in tema di sicurezza. La giurisprudenza, in merito a tale fattispecie, è particolarmente copiosa – segno della drammatica attualità del verificarsi di incidenti, spesso mortali, sul luogo di lavoro. E così, sono destinatari di obblighi antinfortunistici tutti i soggetti che partecipano alla “rete” della sicurezza del lavoro, dal committente dei lavori al direttore dei lavori, dal coordinatore per la sicurezza ai progettisti. Ciascuno in relazione agli specifici oneri cautelari attribuiti dalla normativa di settore. Interessante notare come la giurisprudenza tenda ad espandere progressivamente il novero dei soggetti garanti della sicurezza sul luogo di lavoro, attribuendovi quindi profili di responsabilità nel caso in cui si verifichino incidenti con esiti lesivi o mortali. È il caso, da ultimo, del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (vd. Cass., 25 settembre 2023, n. 38914, la quale per la prima volta estende una responsabilità anche a tale categoria).

    Imprudenza del lavoratore

    In linea di massima, la giurisprudenza tende poi ad escludere alcuna rilevanza al verificarsi di imprudenza e imprevidenza degli stessi lavoratori, in quanto la formazione al rispetto delle cautele antinfortunistiche ricade tra gli obblighi del datore di lavoro, il quale è tenuto, al contrario, ad impedire che si radichino, tra i lavoratori, prassi operative in violazione delle regole cautelari o comunque pericolose, avendo a tale riguardo dei precisi obblighi di sorveglianza dei lavoratori medesimi. Occorre considerare del resto come le disposizioni antinfortunistiche perseguano il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da propria colpa.

    E così, si faccia l’esempio – prendendo spunto da un drammatico e recente fatto di cronaca – di un gruppo di operai che effettui la manutenzione di un tratto di linea ferroviaria. Le norme cautelari prescrivono che gli interventi di lavoro sulla massicciata avvengano di notte, dopo il termine del servizio ferroviario, ovvero previa interruzione della circolazione. Ciò, evidentemente, per prevenire il rischio che i lavoratori siano investiti da treni in movimento. Una squadra di lavoro, tuttavia, dietro indicazione del preposto e nella piena consapevolezza degli operai medesimi, inizia l’intervento prima del termine servizio e senza avere ottenuto il via libera dal coordinatore del movimento ferroviario; purtroppo sopraggiunge un treno ad alta velocità, travolgendo con esiti mortali alcuni di questi lavoratori. È possibile che gli operai stessi fossero ben adesivi all’idea di iniziare subito le lavorazioni, così da terminare prima l’intervento e non rientrare a casa a notte fonda. In astratto, tuttavia – e al netto di ogni ulteriore accertamento che dovrà essere effettuato su tale drammatico accadimento – tale circostanza non esclude la responsabilità del preposto – che potrebbe anzi rispondere per colpa cosciente, avendo previsto il rischio al quale andavano incontro gli operai nell’esecuzione delle sue indicazioni – né di eventuali ulteriori soggetti che, a livelli più alti, abbiano avallato tale prassi operativa, o non abbiano comunque fatto abbastanza per impedirla e scongiurarla.

    Morte per malattia professionale

    Di grande rilevanza è lo sviluppo giurisprudenziale in tema di nesso causale tra le condizioni lavorative e la morte per malattia professionale del lavoratore; casistica riscontrabile quando il lavoratore non muore immediatamente in conseguenza di un incidente sul luogo di lavoro, quanto piuttosto a distanza di tempo, in ragione di una malattia insorta a causa, ad esempio, dell’esposizione prolungata ad agenti patogeni cancerogeni. Di drammatica attualità si presenta, su tutte, la casistica relativa alle morti per mesotelioma pleurico, sviluppato in seguito alla prolungata esposizione all’amianto.

    L’uso di tale sostanza è stato vietato in modo assoluto dalla l. n. 257/1992; e tuttavia, la giurisprudenza ha accertato, ad esito di molti e articolati processi celebrati negli ultimi decenni, che la pericolosità della sostanza era nota ben prima di tale data – e del resto, proprio per questo fu quindi vietata! – accertando dunque la responsabilità di quei datori di lavoro che, pur avendo rispettato le norme di sicurezza vigenti all’epoca dell’esecuzione dell’attività lavorativa, non abbiano adottato le ulteriori misure preventive, necessarie per ridurre il rischio concreto e prevedibile di contrazione della malattia. In tale ambito restano in ogni caso in buona parte irrisolti, occorre aggiungere, i rilevanti problemi in punto di accertamento del nesso causale tra l’esposizione all’amianto e l’insorgenza di mesotelioma pleurico, in ragione anche della notoriamente lunga latenza di tale patologia.

    Ulteriore, e più grave, ipotesi aggravata dell’omicidio colposo, prevista al terzo comma dell’art. 589 c.p., si verifica qualora il fatto sia commesso «nell’esercizio abusivo di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato o di un’arte sanitaria». La pena, in tal caso, è della reclusione da tre a dieci anni.

    4. Omicidio colposo plurimo.

    4.Omicidio colposo plurimo.

    La fattispecie in esame presenta, da ultimo, una disposizione che deroga alla ordinaria disciplina del concorso di reati, e che riguarda le ipotesi di c.d. omicidio colposo plurimo. E infatti, ai sensi dell’art. 589, comma 4, c.p., «nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone o di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo»; con il limite normativo, tuttavia, per cui «la pena non può superare i quindici anni».

    Note bibliografiche

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